Appunti Angela

Si siede esitante. Poggia il corpo esile sullo schienale della sedia e sospira. Ha la faccia molto sofferente.
“Sono piena di dolori, mi fa male dappertutto, mi scusi…”.

Annuisco col capo, partecipe con lo sguardo.

“Sto venendo dall’ospedale, sono dovuta andare di corsa a farmi fare un’iniezione, non ce la facevo più dal male”.
Continua a raccontarmi tutte le sue tribolazioni fisiche recenti, cominciate due anni fa con un tumore al seno e continuate con la terapia del dolore che sta facendo a Pavia.

Io non ho aperto bocca dall’inizio e sono passati quaranta minuti. Le dico”Il nostro tempo di oggi sta finendo. Cosa vuol farne di tutto questo che mi ha detto oggi?”.

“Non posso permettermi di fare anche questa terapia, non posso economicamente, anche se a Pavia mi hanno consigliato ripetutamente di farla. Se dovessi aver bisogno posso richiamarla un’altra volta?”.

“Certo!”, rispondo. Mi paga la seduta e se ne va.

Angela mi conosceva attraverso il marito, docente in una scuola dove avevo lavorato come psicologo anni prima.
Durante la telefonata si era accertata del costo e della durata delle sedute.

Altro appuntamento

Mi richiama dopo circa tre settimane per fissare un appuntamento. Al giorno convenuto non viene, né si fa sentire.

Altro appuntamento

Richiama dopo alcuni giorni dall’appuntamento mancato, scusandosi di non essersi potuta far sentire e mi chiede di fissarle un altro appuntamento ancora, cosa che faccio.

Questa volta arriva, accompagnata da un’altra persona che rimane ad attenderla in sala d’attesa.

“Mi sono dovuta far accompagnare, non ce la facevo nemmeno a guidare”. Mi racconta le cose che le sono successe in queste settimane in cui non ci siamo visti. Il tono è lamentoso e stridulo.

Questa volta non mi lascia lo spazio nemmeno per una domanda. La fermo ormai alla fine della seduta “Mi rendo conto di quanto è addolorata, perciò le rifaccio la domanda che le ho fatto la prima volta. Cosa vuole farne di queste cose?”.

“Non mi posso permettere anche questa terapia, adesso conosce la mia situazione, posso venire solo quando sono allo stremo”.
Mi paga la seduta e se ne va.

Mi rimane un senso di frustrazione, di non essere riuscito nemmeno a dirle le mie modalità di lavoro.

Altro appuntamento

Dopo tre giorni mi richiama e mi chiede un altro appuntamento.
Anche stavolta arriva accompagnata. Appena seduta le dico che stavolta ho bisogno di precisarle come sono solito organizzare il lavoro. Le dico le mie condizioni, compresa la possibilità di chiedere di volta in volta un appuntamento, come pagare le sedute saltate, le vacanze, ecc.

Dice che le va bene tutto, però il pagamento sceglie di farlo dopo ogni seduta, perché preferisce non lasciare debiti in giro.
Poi si accascia sulla sedia, lamentando tutti i mali di cui soffre. Accenna appena alla persona che la accompagna, definendolo un amico intimo.

Altro appuntamento

Salta due appuntamenti che aveva concordato. Arriva al successivo quasi a metà seduta. Stavolta è venuta da sola. Racconta del momento particolarmente difficile che attraversa, con un elenco interminabile di visite specialistiche che le portano via tutto il tempo.
Alla fine mi paga la seduta. Guardo perplesso i soldi sul tavolo e le dico “Lei ricorda gli accordi che avevamo fatto sulle sedute saltate?”

Ha un sussulto, diventa rossa “Sì, mi ricordo, però io non sono potuta venire. E mi sono anche impegnata con mia madre”.

La guardo in silenzio. Riapre il portafoglio e mi da i soldi delle due sedute saltate.

Altro appuntamento

Dopo dieci giorni concorda un nuovo appuntamento, che però salta. Il giorno dopo trovo un messaggio in segreteria dove si scusa di non essere potuta venire.

Altro appuntamento

Richiama due giorni dopo e fissa ancora un appuntamento per la settimana successiva. Non viene, ne telefona.

Altro appuntamento

Dopo un paio di settimane si fa viva nuovamente, e le fisso l’appuntamento dopo dieci giorni, perché la settimana successiva ero fuori Milano. Questa volta arriva all’appuntamento, sempre accompagnata dall’amico.
Spiega che ha mancato gli altri due incontri perché non si sentiva di uscire di casa, e anche oggi ha dovuto farsi accompagnare.
Il resto della seduta porta il suo sentirsi sola e incompresa da tutti, perfino dall’amico che si è completamente messo a sua disposizione.

A fine seduta tira fuori il portafoglio. “Quanto le devo?”
“Il costo delle sedute è invariato”, le rispondo.

Con un accenno di sorriso mi paga tre sedute. “Forse farei meglio a essere più regolare. Possiamo vederci ogni settimana? Possiamo cominciare?”
“Possiamo cominciare?” Le rimando con uno sguardo interrogativo.
“Sì, lo so, sono io che non ero molto convinta. Quando possiamo cominciare a vederci con regolarità?”.

Apro l’agenda e troviamo un giorno e un orario per incontrarci.

Si alza. “Posso dirle una cosa? Lei mi sembra una pietra che non parla, ma è tutt’altro che muta, è come quella dietro di lei”.

“Caspita! Come devo prendere questa dichiarazione? Mi ricorda qualcuno…”.

“Per me è un complimento”.

Molto tempo mi ha confessato che questa dichiarazione era qualcosa che le richiamava un verso di Humberto Ak’bul, poeta guetemalcheco, pastore.

Il verso autentico di Ak’bul dice:
“Non è che le pietre sono mute
semplicemente stanno zitte”.

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