Paolo Landi
Avvicinarsi all’immensità di un tema come il Bene e il Male in letteratura rende subito chiaro a Walter Siti che poteva farlo solo affidandosi alla sua curiosità o alle sue incazzature, o al suo scoraggiamento. Avendo dedicato proprio alla letteratura la sua vita, prima studiandola alla Scuola Normale, poi insegnandola all’Università, poi pubblicando romanzi, non poteva scrivere questo avvincente saggio (Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli 2021) altro che componendo un mosaico con la tecnica dell’accostamento di fiction, saggi, programmi tv, incursioni nel linguaggio dei social, su testi che lo hanno di volta in volta incuriosito, innervosito, demoralizzato. Ma la pazienza e la lucidità con cui demolisce alcuni libri spesso primi in classifica, per poterci rivelare le loro “virtù” all’incontrario e trasformando quindi la forza del cestino in una formidabile occasione di conoscenza, è quella del grande critico: mentre evita i trabocchetti della superiorità morale, si interroga sul cambiamento delle modalità di lettura e di giudizio di scritti che, in nessun caso, dovrebbero mai essere cestinati, né mutilati “ma soltanto spiegati”.
L’incipit folgorante di questo libro è “l’onesta parafrasi di una delle poesie più mature del maggior poeta lirico italiano di tutti i tempi” che, riportata così, senza virgolette e senza spoiler, provoca uno choc a noi lettori, in via di assuefazione al politically correct del #metoo. Tutta la letteratura del passato gronda di presupposti non condivisibili, dice Siti, chiarendo in una nota che le lodi riservate dalla stampa italiana al Canto di Calliope di Nathalie Haynes (Sonzogno, 2021), equivocano su un romanzo “che non ha nemmeno un briciolo della luce, della meraviglia e della brutalità degli originali antichi” ma che entusiasma Serena Dandini sul settimanale femminile Io Donna perché, scrive la Dandini, “include finalmente in una contro-storia della guerra di Troia, il punto di vista delle donne, rimasto finora totalmente in ombra”. Più neri, donne, disabili, migranti da includere nei canoni letterari attuali per evitare che la letteratura abbia un “harmful impact” sui lettori?
Sembra che il mainstream letterario e comunicativo di oggi sia indirizzato a evitare che i lettori possano essere turbati da idee malsane come il fascismo, il maschilismo, il razzismo “o anche semplicemente suggerendo che certe strutture oppressive possano apparire normali, o che l’odio possa essere interessante come l’amore”. In questo libro complesso ma che si divora come un romanzo e ha la chiarezza dei manuali americani “for dummies” che spiegano cose a volte ovvie ma nascoste alla nostra pigrizia mentale, c’è spazio per i “sistemi segnici (fumetto, podcast, audio, graphic novel, film, serie televisive, blog) che cercano di bucare la coltre indifferente di rumore informativo”, per essere più facilmente trasmissibili nell’ambiente digitale: come devono essere i testi efficaci e adatti ad arrivare a tutti e, di contro, come sono diventati i “tutti” a cui questi testi devono arrivare? L’arte – dice Siti – ha un evidente bisogno di restyling se l’epoca in cui viviamo preferisce la velocità alla qualità, la trasversalità alla linearità, la mobilità di superficie alla profondità e se la maggioranza sembra preferire giudicare direttamente invece di farsi spiegare le cose dagli esperti. E la domanda che si poneva anche Jean Paul Sartre “per chi si scrive?”, tra le tante risposte diverse, ne trova oggi un’altra: non si scrive per chi è alla ricerca della verità ma per diffondere la voce della (propria) verità tra il maggior numero di persone possibile, per “arrivare” tendenzialmente a tutti: agli amici per rincuorarli, agli avversari per convincerli, ai nemici per confonderli e schernirli. Un’idea di letteratura che fornisce prodotti brevi e di forte impatto, sui modelli della comunicazione e della pubblicità collegata (anche se Siti preferisce farlo dire a Alessandro Baricco) alla deriva populista che negli ultimi anni ha agganciato la politica americana, ungherese, polacca e italiana.
Ed ecco che l'”engagement” (da leggere alla francese) sartriano, che doveva “riparare e risanare” perché solo con l’impegno (anche in letteratura) si potrà salvare se stessi e quindi il mondo, rischia di somigliare – dice Siti aprendo uno squarcio rivelatore – alla stessa parola letta in inglese: l’engagement rate che è, in termini di marketing, il quoziente che calcola l’efficacia di una fan page (like + commenti + condivisioni diviso il totale dei followers in un dato giorno)”. In questa idea di letteratura che deve “salvare molte vite” (Valérie Perrin) “riparare il mondo” (Alexandre Gefen, sull’onda di “We can repair the world” di Barack Obama), che Maria Popova sul blog statunitense Brainpickings definisce come necessaria per “economizzare tempo, renderci più gentili, guarire dalla solitudine, prepararci a superare i fallimenti” prevale un sentimento di facilità che fa dire a Roberto Saviano (la cui retorica Siti smonta con partecipata nitidezza): “di una poesia spesso basta un verso solo” (“Come mi batte forte il tuo cuore” della Szymborska). Due pagine dopo Siti spiega a un nativo digitale, che per caso si imbatte nel primo verso della “Sera del dì di festa” e non accontentandosi della sensiblerie decide di dedicarsi a una ricerca trasversale su Google, perché un verso solo non basta mai. Se si ferma a un verso solo “gli sfuggirà che le poesie possono dire quel che l’autore non sa di voler dire, e Google lo avrà derubato della fiducia nell’inconscio”. Su tutto il vecchiume da mettere in soffitta (l’intero, la struttura, la durata, la coerenza interna) cui – verrebbe da commentare – anche il populismo tende, attraverso una politica fatta di slogan e di semplificazioni (“abbiamo abolito la povertà”) prevale il frammento, la complessità messa in discussione, un’aura del tempo che si riflette pesantemente non solo sulla letteratura.
In televisione, per esempio, aumenta il numero di chi preferisce lo zapping al guardare una trasmissione intera e si moltiplicano quindi i programmi fatti montando spezzoni da altre trasmissioni. Eppure, sostiene Siti, il mondo digitale prevede una profondità, basta maneggiare uno smartphone dove a una estrema semplicità d’uso corrisponde una pazzesca complessità sottostante; la superficie è facile ma il motore è implicato in un groviglio di calcoli e macchine non visibile, incomprensibile alla maggior parte di noi. Questa complessità che gli ingegneri della Silicon Valley hanno inventato e che quindi conoscono bene e mantengono “in efficienza” ha risvolti economico-sociali soprattutto quando le conversazioni, la brevità, gli slogan, i frammenti, agganciano un lettorato che si forma sui social e che tende quindi a restare affascinato “da forme di leaderismo populista, che tende a saltare la mediazione dei ragionamenti” (eccola la citazione da The game di Alessandro Baricco). Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti, si sente di dire Siti a Saviano che “ha sempre fretta di raccontare, come se il mondo vivesse in una perpetua emergenza”, “ma la tensione pedagogica” dello scrittore napoletano è così “comprensibile e poetica” che Siti chiude la sua lunga analisi dei testi di Roberto vergognandosi un po’ delle sue osservazioni “inutilmente puntigliose” a proposito del suo ultimo Gridalo (2020) la cui forza può essere capita “solo da un giovane, uno che abbia un lungo futuro da riempire di progetti”.
“La letteratura si fonda sull’ambiguità, sull’ambivalenza … e sulla suggestione irrazionale” dice Siti. Com’è possibile depotenziarla come fanno Gianrico Carofiglio e Michela Murgia, Carofiglio addirittura volendo “trasformare in energia positiva” e “rendere più brevi e meno dannosi possibile” gli inevitabili e ingovernabili conflitti politici; la Murgia prendendosela con gli eroi dei miti e delle favole (“su cui abbiamo sognato tutti e tutte”). In una nota Siti rileva che anche la lingua, quando la letteratura è volta al bene, “diventa cauta”: per la grammatica, ma non per quella della Murgia, sarebbe stato sufficiente “su cui tutti abbiamo sognato”, ma le ragazze si sarebbero sentite tagliate fuori. Giorgio Manganelli raccontava che una volta una giornalista gli telefonò per chiedergli un’opinione sul “romanzo rosa”, lui si schermì gentilmente, come tentava sempre di fare quando gli telefonavano per chiedergli un’opinione su qualunque cosa: “Balbettai, vigliacco quale sono, che mi sembrava un tema troppo complesso…Credevo di non aver risposto: ma a suo tempo mi accadde di leggere la mia non risposta, trasformata in risposta di un tale che non voleva rispondere; e la non risposta veniva riferita con disapprovazione evidente per la mia pochezza morale”.
Quando la letteratura si assume il compito gravoso di “dire la verità” e “coltivare l’empatia” (Carofiglio) ecco che l’auspicabile lasciarsi parlare dalla lingua, l’attenzione fluttuante del testo lascia il posto al controllo spasmodico del politicamente corretto, dell’interpretazione “più irenica e ottimistica possibile perfino dei nomi eccellenti citati come universi di riferimento”.
Quando scrivendo si vuole fare del bene, non si guarda in faccia nessuno e Carofiglio piega Bobbio e Eco, la scuola anglosassone dell’empirismo logico e quella psicologica di Palo Alto alle tesi che gli fa comodo dimostrare, dove i conflitti sembrano problemi di linguaggio e paradossi logici, da riportare tutti nell’alveo della ragionevolezza e l’odio e il rancore (“che sarebbero una cosa seria” dice Siti) risultano “avviliti”, spenti a forza di messaggi esortativi. “Il buon scrittore non dice più di quanto pensi” sostiene un altro Walter (Benjamin), ma nell’idea di letteratura che-fa-del-bene lo scrittore-farmacista si prescrive uno stile che punta verso l’alto, ricco di citazioni, con metafore sorprendenti ma non sconcertanti, “intimamente doloroso ma scanzonato e brillante, sottilmente anarchico e individualista, polemico ma imbevuto della polvere d’oro della Poesia”.
La letteratura confortevole (quella di Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin o quella di Alessandro D’Avenia o di Roberto Vecchioni) sforna romanzi a 5 stelle, “forniti di tutto”, dai quali si esce sodisfatti ma con una “malinconica spinta verso l’amore universale” perché, come dice D’Avenia, “il dolore è come un termometro: misura l’amore”.
Interessante che in questa analisi delle “narrazioni” (parola che ovviamente Siti non usa mai) inserisca anche la tv, con i suoi talk show politici, dove i caratteri stilistici più marcati e ricorrenti rinviano a convenzioni sempre uguali, perché “l’appeal per lo spettatore è soprattutto quel ‘piacere dell’uguale’ che tanto affascina i bambini al tempo delle fiabe”. E l’artificio retorico volge spesso al bene quello che di solito è percepito come negativo (“se razzista vuol dire amare il mio Paese, allora sì, sono razzista”). Ma la parte più spiazzante è quella dedicata a Barbara D’Urso, grande motore di irrealtà, pifferaia magica che illude quel “nuovo tipo di umanità” che solo lei riesce a creare (“professioni mai udite prima: gli opinionisti, i corteggiatori, gli isolani, i gieffini, i sediati. Uomini e donne che si sono segnalati in qualche reality, o sono apparsi come ‘gente comune’ in qualche programma scandalistico, o lateralmente in qualche gossip su vip e para-vip o sono semplicemente figli/fratelli/sorelle/mariti/mogli di qualcuno già noto”) che la loro sia vita vera e che le questioni risibili di cui discutono siano reali perché “tutti i giornali ne parlano”. Lei li accoglie, li promuove, li porta alle soglie del pianto e poi li consola, manipolandoli senza ritegno. Dice Siti: “Se il Mefistofele di Goethe era ‘una parte di quella forza che eternamente vuole il male e opera eternamente per il bene’, la D’Urso sembra essere il suo opposto speculare: una parte di quella forza che vuole incessantemente il bene e opera costantemente per il male”.
Il programma “Non è la D’Urso” poggia sugli stessi meccanismi della pornografia, con l’esibizione dei sentimenti più intimi, con la ripetizione delle scene-madri, nello stesso modo in cui il porno usa il “ralenti” nei momenti salienti, la tecnica del ritardo e del coitus interruptus per storie senza capo né coda, e avendo come obiettivo la “scarica emozionale” che è lo svelamento tramite televoto dei sentimenti del pubblico. Ma poiché il fine della trasmissione è il bene, di sesso si parla dopo una certa ora e se “Salvini e la Meloni col loro Dio, Patria e Famiglia vanno in onda prima delle dieci e mezzo”, “le trasgressioni libertarie e il diluvio di tette-culi (col contorno solo apparentemente antagonista di moralizzatori in servizio permanente effettivo) almeno due ore dopo. La contraddizione si risolve con l’orologio”.
Tra paradossi logici (“Vi ordino di essere spontanei!”), stanze delle emozioni, telecamere sempre accese da dimenticare per essere più veri, ma da tenere ben presenti quando si parla, per sorvegliare il linguaggio (“Alba Parietti …lo dice con chiarezza: ‘Noi che andiamo in televisione siamo degli esempi'”) i talk della D’Urso, di Alfonso Signorini, il Grande Fratello e il Grande Fratello Vip mettono in scena la generalizzazione di ogni esperienza individuale, perché quello che è opportuno dire socialmente prevale sempre su quello che gli individui pensano e soffrono della realtà, che dovrebbe – dice Siti – “essere il fondamento di ogni racconto”. Non c’è quindi da stupirsi se molti scrittori hanno cominciato a scrivere come se fossero autori televisivi o pedagoghi in pectore, ossessionati dal problema del messaggio da far passare.
Ma c’è un modo per la letteratura di sostenere cause etiche e/o politiche senza avvilire le sue potenzialità conoscitive? La letteratura può essere un’arma di lotta? Si potrà evitare che la scrittura “engagée” rischi di diventare una “specializzazione merceologica”? Siti riesce a fare tre esempi positivi, ma due volte è costretto a ricorrere ai “classici” Bertolt Brecht e Dante mentre l’unico contemporaneo è il Carrère di Vite che non sono la mia, un libro pieno di valori positivi dedicato alla solidarietà di fronte al dolore ma dove “l’assoluta onestà intellettuale ed emotiva” si sposa alla “naturale incapacità di aderire agli stereotipi”. Nel proliferare di parole che caratterizza questa nostra epoca, tra podcast e Clubhouse (“perfino su Instagram ormai si trovano più discorsi che foto”) Siti prende atto che sta finendo anche la critica come la intenderebbe lui, fatta di competenza e quindi élitaria. E viene da chiedersi quanto avrà sofferto a leggere tutti quei brutti romanzi dall’inizio alla fine, per poterceli svelare nelle loro fuorvianti contraddizioni, e se non avrebbe per caso preferito rileggere Leopardi invece di sciropparsi una trasmissione intera (quasi quattro ore) della D’Urso (quella del 20 ottobre 2019, ci avverte puntigliosamente), per trarne questa “demonologia” così chirurgica e élitaria.
L’ultimo capitolo è la perfetta espressione dell’understatement critico di Walter Siti che, brechtianamente e in modo appassionato, si rivolge ai lettori: in un soprassalto di coscienza della stessa “pochezza morale” rivendicata da Manganelli, rendendosi conto di quanto spietatamente abbia messo a nudo la carità pelosa degli scrittori che vogliono il bene di chi legge, prega noi lettori “almeno di credere che non si tratta di sentenze”, cercando di convincerci che quest’altro suo splendido libro sia nient’altro che “una piccola rivendicazione corporativa, quasi una vertenza sindacale”, come scusandosi per quel senso di non-appartenenza che lo induce “a una neutra e quasi compiaciuta contemplazione del disastro”, per aver avuto il privilegio di essere stato preservato “da una calda partecipazione alle emozioni comuni”, per essersi riparato tra romanzi, drammi e poesia senza illudersi “che fossero il mondo” e avvertendoci infine che “il cattivismo che mi sono spalmato in faccia non può essere scambiato per intelligenza”. Dice, finalmente sbottonandosi, che la letteratura può essere utile solo quando fa male, ma lui non si sente né in grado né in vena di lanciare grida d’allarme: “ma discuterne un poco, magari sì” (“Credo di essere contrario al cannibalismo – diceva Manganelli – Ma prima vorrei pensarci”). È giunto infatti il momento di smettere di comportarci con la letteratura “come molti maschi si sono sempre comportati con le donne: esaltandole, pur di non prenderle sul serio”.