Patologie mentali e neuroatipicità ai tempi del Covid-19, o delle nuove forze che emergono dalla crisi.
Non so davvero che senso abbia aggiungere parole al profluvio di pagine scritte che ci sommerge in queste ore. D’altronde, poche volte ho trovato che scrivere fosse difficile come in questo momento. Che dire? Serve a qualcosa? O è solo una dissonanza narcisistica, l’ennesima, che va ad aggiungersi allo s-concerto generale? C’è tantissimo rumore informazionale qui dentro. La dimensione virtuale non è mai stata così petulante. Ovunque risuonano numeri, moniti, complotti, preghiere, opinioni, delazioni, preoccupazioni…
Tutto riecheggia e rimbomba, precipitando sul fondo del silenzio abissale che si è imposto fuori, nella dimensione reale.
Ammesso che sia un bisogno egotico a vincere sul sentimento etico, che imporrebbe il bel tacer che non fu mai scritto, è vero pure che io ho sempre concepito la mia pratica artistica in due sensi: da un lato come necessità espressiva e terapeutica individuale, dall’altro come stimolo al cambiamento sociale. L’arte, per me, è e sarà sempre una forma di attivismo. Poi, mi piace anche l’arte che si esprime per sé, senza alcun fine o intento etico, sociale, politico. Sono io che non so, non posso né voglio produrre quel genere d’opera. E quindi? Che voglio dire con questa lunga premessa? Quando arriva il punto?
Eccolo: nonostante la consapevolezza del momento di confusione e incertezza cui non sarebbe bene aggiungere altro caos, ci sono delle cose che ho bisogno di dire perché non mi pare siano state ribadite a sufficienza. Come sempre, scrivo quel che vorrei leggere e non trovo scritto altrove; qualcosa che forse potrebbe essere d’aiuto a qualcuno, foss’anche a me soltanto.
Ci sono aspetti inizialmente sottovalutati di questo prolungato confinamento che cominciano a rivelarsi in tutta la loro tragicità.
L’abitudine a considerare le patologie psichiche come problemi di serie C, se va bene, quando non problemi immaginari, finti, frutto di isteria, ha impedito a molte persone di intravedere i contorni di un esteso dramma sociale pronto a esplodere. Dramma aggravato da misure polizesche senza alcuna validità scientifica, prese all’unico scopo di scaricare le responsabilità istituzionali sui comportamenti individuali. Il tutto al fine di scatenare una caccia all’untore, una mania di controllo e delazione che distraesse dalle colpe e dall’inettitudine dei governi locali e di quello nazionale. Prendetevela con il vicino che va a passeggiare da solo, insomma, e non pensate al fatto che in quasi tutte le regioni non si fanno tamponi neanche al personale ospedaliero, né a chi telefona denunciando sintomi lievi, figuriamoci se si va a caccia degli asintomatici come, invece, raccomanda all’unisono la comunità scientifica. No: voi intanto distraetevi pensando a chi va a correre, noi teniamo aperte fabbriche e attività affatto essenziali perché altrimenti Confindustria fa i capricci, ché ci sono industriali che stanno guadagnando come non mai e non sono disposti a perdere neanche un centesimo dei loro incassi per il bene comune, per una verità di ordine superiore. Del resto, per questa gente non esiste bene più importante all’arricchimento personale. Tutto ciò che sanno leggere nella parola Libertà, è la possibilità di sfruttamento di persone, situazioni e risorse a fini individualistici, l’idea di responsabilità sociale non è contemplata.
La stessa OMS raccomanda l’attività fisica all’aperto per evitare che lo stress e la depressione compromettano le difese immunitarie, rendendoci piú esposti al contagio, ma nessuno ascolta. Perché se smettessimo di colpevolizzare i nostri dirimpettai, potremmo accorgerci della ridicola impreparazione della nostra classe politica e dell’avidità patologica di tanti magnati.
Questa cecità ai reali vettori di contagio non ha solo conseguenze sul piano della diffusione del virus. Ora cominciano ad arrivare i primi dati sui contraccolpi psicologici: si registra un aumento diffuso dei TSO, delle esplosioni di violenza domestica, delle crisi di astinenza da droghe o abitudini ossessive, nonché l’aggravarsi e il moltiplicarsi dei casi di insonnia e depressione. Mi pare che fosse tutto così drammaticamente prevedibile, ovvio, persino, che proprio non mi spiego come facessero a sentirsi saggi e furbi quelli imbevuti del sarcasmo in stile “sai che fatica dover stare sul divano a guardare la TV”.
In questi giorni ci siamo dovuti sorbire le lezioncine di quelli che proprio non riuscivano a immaginare cosa ci fosse di cosí complesso e pericoloso nello stare a casa, e che per rinforzare la loro risibile tesi intessevano stucchevoli paragoni con la guerra dei nonni di cui, evidentemente, non sapevano né sanno nulla. Ora: premesso che le metafore belliche mi paiono pericolose in un simile frangente e andrebbero evitate (giacché evocano fronti opposti, nazionalismi e competizione, che sono l’esatto opposto di quel che serve per fronteggiare una pandemia) se proprio non si può fare a meno di ricorrere all’abusata retorica dei “viziati che non siete altro, pensate a chi ha vissuto sotto le bombe”, va ricordato pure che i danni fisici e materiali della Grande Guerra, ad esempio, furono pareggiati dai danni psichici.
La Grande Guerra prosciugò il senno dei combattenti non solo per l’atrocità degli scontri, ma anche perché fu una logorante guerra di posizione, di trincea, in cui si trascorrevano intere settimane immobili e nascosti dentro opprimenti rifugi; costretti a condividere piccoli spazi, circondati da un esterno minaccioso da cui filtravano solo paranoia e terrore. Le patologie psichiche che emersero in quell’occasione furono cosí tante e diffuse che, in seguito, nacque un nuovo settore di studi detto, appunto, “psicopatologia di guerra”.
Si cominciò a parlare di sindrome da stress post-traumatico (inizialmente chiamata “shellshock”) e si scoprí che non erano solo le bombe o gli eventi brutali a provocarla.
Ai miei occhi appare evidente che anche il confinamento forzato, cadenzato da continui quanto inutili aggiornamenti sugli aspetti piú o orrorifici dell’esperienza che stiamo vivendo, il tutto unito all’impossibilità di sapere quando finirà e se davvero, alla fine, andrà tutto bene, possa essere fonte di stress traumatico.
Ripeto: personalmente ritengo fuori luogo i paralleli tra guerra e reclusione forzata e, anzi, mi paiono pericolosi. Le parole creano le cose. Pensare in termini bellici alimenta sentimenti e atteggiamenti controproducenti, agevolando azioni che si muovono sulla scorta di quelle narrazioni. Ma se proprio si vuole farli, ci si assicuri almeno di non selezionare capziosamente gli elementi favorevoli alla propria tesi, dimenticando gli altri.
In ogni caso, c’è un altro aspetto di tutta questa situazione; una questione ampiamente trascurata che mi pare emergere con una certa frequenza e che, forse, merita una riflessione.
Intanto, occorre ricordare che una cosa sono le patologie psichiche, altra è la neurodiversità che produce personalità atipiche e divergenti cui spesso si accompagna un sistema nervoso che funziona in modo inconsueto.
Tante persone che, come la sottoscritta, ad esempio, hanno un’antica abitudine alla convivenza con pensieri oscuri, che sono use alla vita in compagnia della Morte, come avessero un’eco al seguito che surrurra loro all’orecchio l’eterno memento mori, persone che non si lasciano facilmente distrarre dai fuochi d’artificio dei (piccoli) successi o dalla routine quotidiana, mancando di riflettere sulla propria finitezza, stanno reagendo con maggiore compostezza e solidità di altre, solitamente piú solari, positive, brillanti.
Quello che intendo dire è che forse, paradossalmente, oltre che pensare a chi soffre di problemi psichici conclamati, più o meno gravi, occorre preoccuparsi anche di chi ha sempre navigato affrontando le onde in superficie, ridendo o soffrendo delle cose della vita, ma senza mai immergersi fino in fondo, senza mai andare a rimestare nell’angoscia della condizioneumana. Credo infatti si annidino nel ventre di queste persone le insospettabili bombe psicologiche pronte a esplodere.
Sono 39 anni che mi pongo domande sul senso della vita e della morte, che rifletto e ricerco, creo e distruggo, spero e dispero per la condizione umana. La questione della morte è il cuore della mia indagine filosofica e psicologica, l’oggetto prediletto dalla mia curiosità. Per quelle come me, certi pensieri non sono nuovi e, anzi, il fatto che tante persone si ritrovino a fronteggiarli, ora, ci fa sentire meno strambe e potenzialmente assai utili.
Chi non è abituato a fronteggiare costantemente l’idea della propria e dell’altrui mortalità, non possiede gli strumenti per affrontare l’ansia e il panico che derivano dallo gettare lo sguardo nell’abisso senza riuscire più a distorglielo. Sono strumenti che si affinano e si affilano nella perdita, nel dolore e nella paura ma che possono essere trasmessi.
Ed ecco quello che volevo dire: forse, per fronteggiare il dramma psico-sociale che sta per esplodere davanti ai nostri occhi, è necessario invertire o, meglio, dare alle fiamme lo stereotipo di fragilità/forza a cui tanti sono abituati. Mai come in questi momenti, non è forte chi non fronteggia mai la propria angoscia, sciogliendo la tensione con un motto sarcastico, tracannando una vodka e suggerendo a tutti di farsi una risata. Non è forte chi svia un confronto non evitabile che richiede un sacco di tempo e di pensiero perché sia compreso e superato. Non è fragile chi duella ogni giorno con i propri mostri e con la consapevolezza della fine, senza nascondersi nulla della propria condizione di vivente, senza distrarre lo sguardo dalla paura ma sapendo conservare la voglia di vivere e creare. Anzi, una persone siffatta è – per definizione- antifragile.
Le persone che si è soliti considerare deboli o, almeno, incapaci di leggerezza, pesanti e inutilmente complesse sono, in realtà, impegnate in un’educazione stoica, che prevede la capacità di convivere con la chiara e innascondibile idea della propria mortalità, nonché con l’accettazione dell’idea di poter agire in un campo limitato di possibilità: si lavora esclusivamente su ciò che è alla portata, non curandosi eccessivamente di ciò che sfugge al proprio, diretto controllo.
Questo momento storico mi pare mettere in evidenza un’ovvietà, ma di quelle nascoste in piena vista: l’idea di forza e debolezza sono contestuali. Non esiste alcun individuo che sia costituzionalmente in grado di fronteggiare qualsivoglia difficoltà. Persone che si credeva fossero male attrezzate per la sopravvivenza “in questo mondo” rivelano capacità di resistenza ben al di là del basico e affatto risolutivo tenere duro e sono, anzi, fonte di conforto e punto di riferimento per chi si è riscoperto assai piú disorientato e spaurito di loro di fronte a questa crisi.
Si tratta di un profondo ribaltamento del punto di vista, del senso comune e, sebbene provochi un certo spavento, io credo sia enormemente positivo.
Insomma: la questione che ho cercato di illustrare, qui, è duplice. E non l’ho fatto dall’alto di competenze psichiatriche o psicoanalitiche, che non ho, ma dal basso dell’esperienza vissuta, di studio e ricerche personali.
Se da un lato siamo abituati a sottovalutare la serietà di certi problemi psichici, come la depressione, le dipendenze, il disturbo da stress post-traumatico (specie se provocato non da un singolo e spettacolare evento, ma dal logorante protrarsi di situazioni nuove e difficili), dall’altro siamo anche abituati a considerare come “invalidità psichiche” tratti della personalità, particolari formae mentis, neuro-aticipicità che sono problematiche solo finché i contesti sociali le considerano e le trattano come tali quando, invece, potrebbero essere delle risorse.
Per come la vedo io, i cervelli che operano e analizzano le cose in maniera inconsueta sono frutto di un preciso disegno evolutivo che tende sempre a prediligere la varietà, in modo da assicurare alla specie la possibilità di sopravvivere alle piú imprevedibili difficoltà, fronteggiando ogni sfida.
Ecco perché credo che, mai come in questo momento, forse dovremmo guardare con maggiore attenzione e curiosità alle reazioni, alle riflessioni e alle soluzioni di chi possiede assetti psicologici e neurologici atipici, pur mantenendo intatta la propria lucidità. Lucidità che magari non somiglia a quella dei più ma che non è per questo meno solida e affidabile.
Perche sì, ansia, panico e depressione sono problemi diffusi, penosi, pericolosi e sottovalutati, ma altrettanto grave è la sottovalutazione delle persone che non rispondono alla comune immagine di forza che si accompagna al decisionismo, al leaderismo, a un’idea di carisma che prevede l’abitudine a non fare alcun compromesso, a prendere decisioni drastiche e rapide senza manifestare dubbi o chiedere pareri. Questo è il modello di follia che fino a oggi abbiamo creduto essere l’apice della sanità mentale e della desiderabilità, quello che renderebbe una persona capace di decidere per molti. Penso, invece, che questo sia il peggiore dei modelli possibili e che, mai come oggi, abbiamo bisogno di tutt’altro genere di folli al potere.
Da buone stoiche, però, cominciamo col fare ciò che è alla nostra portata. E se, ora come ora, non ci è dato cambiare repentinamente il sistema socio-economico-politico globale o gli individui alla guida di comuni, regioni, nazioni, multinazionali, proviamo a cambiare i nostri punti di riferimento. Chiamiamo l’amica, la sorella pazza, non solo per chiederle come sta ma anche per valutare se non abbia qualche strumento per aiutarci ad affrontare i pensieri che ci affollano la testa, per restare calmi nonostante il terrore che ci scuote.
Tra le cose buone che potrebbero venire fuori da quest’inedita, straniante e dolorosa situazione c’è anche la comprensione dell’inestimabile valore d’ogni essere umano, specie di quelli che abbiamo sempre creduto essere fatti male, condannati a essere dannosi per sé e inservibili per gli altri. È arrivato il momento di mandare in pensione un altro stereotipo.
Le situazioni nuove impongono soluzioni insolite e ragionamenti atipici.
Andiamo alla ricerca di nuovi folli, magari meno affamati, rapaci, competitivi, egocentrici e più simbiotici, collaborativi, ecosistemici, generosi. Magari sono loro le salvatrici e i salvatori di cui (non) abbiamo bisogno ora, quelli che hanno da insegnarci qualcosa di fondamentale per la futura r-esistenza collettiva.
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Autrice, attrice, educatrice. Ho lavorato come docente, sceneggiatrice, drammaturga, documentarista, giornalista. Al momento, lavoro al mio primo romanzo.