Amore che si nutre dell’idea di eternità contro l’amore che si consuma nella continua necessità di rinnovare il desiderio con un nuovo oggetto. Massimo Recalcati porta una serrata critica al paradigma del moderno desiderio che alimenta la logica capitalistica e propone un volto dell’amore come àncora
L’ amore è una trappola, un inganno, una illusione destinata a sciogliersi come la neve al sole, l’effetto di un sonno della ragione, di una impostura, di un trucco neuroendocrino. Ogni amore conosce la sua agonia prima o poi rivelando la sua natura di artificio.
Il tempo ne corrode la passione decretandone la fine, declassandolo a una amministrazione di beni e di servizi.
Dopo i primi sconvolgimenti estatici provocati dall’influsso della dopamina su certe zone del cervello, ogni legame amoroso si appiattisce in una routine senza desiderio; il tempo ammazza inevitabilmente l’entusiasmo che circonda l’emozione del primo incontro.
Senza la stimolazione del Nuovo ogni innamoramento finisce nelle sabbie mobili di una intimità alienante priva di erotismo. (…)
Nella vita contemporanea il desiderio erotico appare rigidamente alternativo al legame familiare.
L’esistenza di questo legame lo fa dileguare, lo appassisce perché si costruisce proprio sull’interdizione di quel desiderio.
Non c’è scampo.
O il desiderio o la famiglia, sembra recitare il ritornello dell’iperedonismo contemporaneo.
E la psicoanalisi? Non ha contribuito essa stessa a fare emergere questa verità?
Non è proprio la sua dottrina ad avere mostrato come la scissione tra amore e desiderio sessuale accompagni la vita umana sin dalle sue prime relazioni affettive?
Non è a questa scissione che si riferisce Freud quando teorizza la più comune degradazione della vita amorosa?
Il corpo della madre come luogo dei primi intensi vissuti amorosi del bambino viene interdetto al desiderio.
Questa inconciliabilità tra amore e desiderio sessuale conduce gli uomini a trasformare le loro compagne in madri e a ricercare la passione erotica in donne esterne alla famiglia fantasmizzando-le come donne del sesso senza amore.
E la disgiunzione classica tra la donna amata, madre dei propri figli e compagna di una vita, e la donna-puttana con la quale si può vivere con intensità ogni genere di passione erotica.
È la disgiunzione freudiana tra la corrente amorosa della tenerezza e quella del desiderio sessuale. (…)
È un dato di fatto: le coppie si separano, i matrimoni falliscono, la durata dei legami si abbrevia.
In particolare la nascita di un bambino coincide spesso con una crisi del legame da ambo i lati; l’uomo fatica a ritrovare nella donna, divenuta madre, la donna che lo aveva fatto innamorare; la donna identificando l’uomo come padre della sua famiglia resta sessualmente insoddisfatta e ricerca in un altro l’oggetto capace di rianimare il suo desiderio erotico.
La pratica psicoanalitica può offrire infiniti ritratti di questa tendenza.
Ma il suo fondamento si trova in quella menzogna che nel nostro tempo sancisce l’equivalenza tra il Nuovo e la felicità.
Questa menzogna ci costringe a vivere alla ricerca affannosa del Nuovo con il presupposto (falso) che nel Nuovo si troverebbe la piena realizzazione di se stessi.
La ridicolizzazione del pathos amoroso verso l’assoluto, della promessa degli amanti che sia “per sempre”, non scaturisce solo dal disincanto cinico, ma anche e soprattutto dall’imperativo sociale del Nuovo e della sua miscela esplosiva con una versione riduttivamente macchinica dell’uomo (…).
Il punto è che nel nostro tempo la difficoltà a unire il godimento sessuale all’amore, che, come abbiamo visto, per Freud definiva la nevrosi più comune della vita amorosa, è diventata l’emblema di una verità che pare inconfutabile: il desiderio è destinato a morire se non rinnova costantemente il suo oggetto, se non cambia partner, se si richiude per troppo tempo nella camera angusta dello stesso legame.
Il proliferare dei divorzi e delle separazioni ratificherebbe senza possibilità di appello questa verità.
Essa è fuori discussione: un legame coniugale, o anche solo di convivenza, protratto nel tempo è destinato, come minimo, ad assopire, quando non la cancella totalmente, la spinta erotica del desiderio.
Il cinismo materialistico dell’iperedonismo contemporaneo sembra trovare appoggio nelle ricerche più avanzate della scienza: l’innamoramento è un doping destinato a smarrire nel giro di qualche mese (dai tre ai diciotto dicono) il suo effetto.
Nell’incontro amoroso le zone cerebrali finalizzate al giudizio e all’analisi critica vengono annebbiate da un incremento di dopamina, cioè da quell’ormone che attiva le nostre spinte più irrazionali ed euforiche.
Ma questo annebbiamento ha il tempo contato e deve evolvere in uno stato di calma monogamica (promosso dall’attivazione dei recettori dell’ossitocina) o riaccendersi febbrilmente attraverso un nuovo incontro.
Di fronte a questa demolizione cinica e scientista dell’amore, le opzioni residue sarebbero due: accettare la corruzione inevitabile del legame e cambiare partner ogni tot per rianimare la propria vita passionale (cambiamento che può anche seguire una vita parallela rispetto a quella della coppia, come nel caso degli amanti), oppure rassegnarsi a una vita senza desiderio, al tran tran del teatrino familiare garantendosi la sicurezza affettiva e monogamica come contropartita dell’accettazione dell’essiccamento mortifero del desiderio.
Ma davvero sono solo queste le vie che possiamo percorrere? (…)
Il nostro tempo è sostenuto da due menzogne fondamentali sulla natura dell’uomo.
La prima è quella che lo vuole indipendente, libero, autonomo, privo di debiti simbolici con l’Altro da cui proviene.
Questa menzogna è la menzogna narcisistica che anima il culto individualistico della propria immagine e che fonda, a sua volta, il fantasma della libertà e dell’autogenerazione, l’ideale del farsi un nome da sé senza passare dall’Altro.
La seconda menzogna è quella che esalta il Nuovo come principio che orienta la vita del desiderio.
Essa sostiene che il bene, la salvezza, la soddisfazione risiedano in ciò che non si possiede ancora; nel nuovo oggetto, nel nuovo partner, nella nuova sensazione.
Ne deriva una versione solo nichilistica del desiderio, impegnato a rincorrere affannosamente ciò che, in realtà, è destinato a mancare sempre.
Queste due grandi menzogne del nostro tempo si intrecciano rafforzandosi l’una nell’altra.
Farsi un nome da sé senza passare dall’Altro – misconoscendo il debito simbolico che ci vincola a esso – anima una versione solo perversa della libertà come poter fare tutto ciò che si vuole.
La corsa impazzita del desiderio da un oggetto all’altro sembra così assumere la natura di una vera e propria allucinazione collettiva: il desiderio è calamitato verso il nuovo oggetto, la nuova sensazione, il nuovo incontro, il nuovo amore.
Il bene non è mai in quello che si ha, ma viene sempre rinviato in quello che ancora non si possiede.
Ed è proprio qui che la macchina del discorso del capitalista trova il principio del suo funzionamento: non colmare i bisogni ma trasfigurarli in pseudodesideri impossibili da soddisfare e che, proprio per questa impossibilità, appaiono perennemente calamitati dalla sirena del Nuovo Oggetto.
È la versione ipermoderna della macchina capitalista che comporta l’assenza di cura per quello che si ha e la spinta compulsiva a raggiungere quello che ci manca riducendo la mancanza a un vuoto che anela in modo acefalo al suo riempimento in realtà sempre differito.
La piena soddisfazione viene rinviata in un altrove che si rivela irraggiungibile.
La noia arriva allora sempre più rapidamente a parassitare i rapporti alimentando la spinta insoddisfatta verso quello che non si ha.
Questo schema interviene ovviamente anche nei legami amorosi con effetti devastanti e, paradossalmente, illusionistici. (…)
L’esigenza che sia “per sempre”, che accompagna ogni vero amore, resiste alla tendenza nichilistica del nostro tempo.
Essa afferma in modo inattuale che il legame d’amore non è affatto destinato a dissolversi nel tempo, ma che in esso fa la sua apparizione la sospensione del tempo come figura irruente dell’eterno.
L’amore che dura resiste alla spinta corrosiva del godimento fine a se stesso e rifiuta l’illusione che la felicità sia nel Nuovo, in ciò che ancora non si possiede.
Per questo amore è il Nuovo che anziché attaccare il legame si trasforma in legame.
Esso non vive la gioia di un attimo, ma esige ostinatamente la sua infinita ripetizione perché è solo nella ripetizione che si può manifestare il vero volto, il solo credibile, del Nuovo. (…)
Per questa ragione gli amanti vivono un mondo che non è più quello di prima, quello dell’Uno da solo, perché è mondo vissuto in modo inedito attraverso il Due, è, dunque, una nuova apertura del mondo, un mondo visto non più dalla prospettiva dell’Uno da solo, ma in quella del Due.
E solo questa nuova prospettiva che consente di vivere il Nuovo nello Stesso.
Come accade ogni volta con il vento di primavera che, ogni anno alla fine di ogni inverno, entra a Milano scoprendo la catena azzurra delle Alpi.
Ogni volta, ogni anno, lo Stesso vento e ogni volta, ogni anno, un vento nuovo.
E la stessa sorpresa che accompagna i Due nel vedere sbucare i funghi nei boschi o osservare le portulache sul terrazzo della casa al mare resistere alla forza del vento che batte.
Ogni volta lo Stesso e ogni volta assolutamente Nuovo.
Non è questo, nell’amore che dura, nell’amore che resiste alla sirena vacua del Nuovo, lo Stesso incanto che accompagna la vita insieme anche nella più modesta ordinarietà? Non è lei che amo sempre come Altra nell’essere se stessa?
Non è lo stesso giorno un giorno Nuovo alla luce dell’amore?
Non è quello che ho che, grazie all’amore, diventa ogni volta Nuovo?
Non è l’amore che rivela la ripetizione delle cose quotidiane come poesia pura, come forza dell’immagine che non passa, dell’immagine sospesa e fuori dal tempo?
E per questa ragione che quando Lacan ha dedicato uno dei suoi Seminari più intensi e originali al tema dell’amore ha deciso di titolarlo Encore (Ancora): ancora, ancora, encore…
“Ancora” è, in effetti, la forma basica che assume la domanda d’amore in quanto tale. Ancora, ancora, ancora lo Stesso, ancora come oggi, ancora come adesso, ancora una volta, ancora…
Volere ancora lo Stesso che non basta mai, che si vuole bere ancora perché disseta e, al tempo stesso, alimenta una nuova sete che non si esaurisce, ma che cresce proprio mentre si prova a esaurire senza però mai poterla esaurire davvero.
E solo nel dono dell’amore che c’è incremento di sé, potenziamento ed espansione della vita che sa vivere l’esposizione assoluta al desiderio dell’Altro.
È una delle tesi decisive di Sant’Agostino: l’ amore non è cupiditas, non è consumo avido dell’Altro, ma è dono di sé che accresce innanzitutto chi lo compie.
Non è questa, in fondo, la sostanza stramba di cui è fatto l’amore?
Sostanza che più si dona, più si cede, più viene consumata, più si arricchisce, più aumenta, più si accresce.
È per questa ragione che il giovane Hegel ha voluto scolpire nelle parole che la Giulietta di Shakespeare rivolge al suo Romeo tutto il mistero e la potenza dell’amore: “Più io ti do, più io ho”.