L’indipendenza della Sardegna


 Franciscu Sedda

PER UN NUOVO BENESSERE

C’è una storiella che si racconta associandola ai sardi e che può servire ad entrare in modo drastico in quell’ingarbugliato discorso che riguarda contemporaneamente la libertà, la coscienza e il benessere. Fa più o meno così.
“Un giorno Dio (ma potrebbe essere anche il genio della lampada o qualsiasi altra entità dotata di poteri magici e favolosi, non ha molta importanza) chiama un sardo e gli dice: – Esprimi un desiderio e io lo realizzerò, e di ciò che sceglierai ne darò il doppio al tuo vicino di casa. Il sardo rimane perplesso ma dopo qualche istante si illumina e dice: – Cavami un occhio!”.
È una storia banale e terribile al tempo stesso, e la sua essenza è così generale che probabilmente molti popoli oppressi e subalterni, in forme diverse, l’hanno raccontata o ancora la raccontano a se stessi. La cosa più terribile, tuttavia, è che molti sardi in fondo ci si riconoscono. Dietro il sorriso dolce-amaro che la storiella suscita, emerge e risuona nella testa di molti l’altro stereotipo famoso e duro a morire: quel “pocos, locos y male unidos” scaraventatoci addosso da qualche re spagnolo ormai dimenticato dalla coscienza popolare ma le cui parole vengono sadicamente e automaticamente ripetute. Che i sardi si riconoscano e stancamente ripetano questi motivi non deve suonare assurdo. In fondo è un buon modo per autocommiserarsi e per sollevarsi da ogni responsabilità (per fare le due cose insieme o separatamente): invocare la disunità come il nostro male intimo, come un dato di fondo dei sardi, è come trasformare una malattia transitoria in uno stato di costante normalità. È un modo per avere la scusa di dire a se stessi che in fondo poco resta da fare e che a nulla vale provare a cambiare le cose. “Così siamo fatti…”. Meglio rassegnarsi dunque e imparare a convivere con questa normalità: certo rimane la possibilità di lamentarsi di tanto in tanto, di inveire contro la sorte o il destino, ma in fondo, una volta che ci si abitua,

questo stato (questo Stato!) potrebbe non essere nemmeno così spiacevole. Le classi dirigenti sarde, più o meno sapientemente, hanno sguazzato in questo cinismo: hanno nascosto dietro l’appello all’“atavica disunità” dei sardi la loro volontà di tenere i sardi divisi, di non dargli motivi veri e profondi per unirsi. Hanno usato e causato la disunità per difendere il loro piccolo orto, il loro piccolo spazio di privilegio assistito, per soddisfare la loro brama di gestione delle briciole di potere e prestigio garantite dalla generale logica di sottomissione e asservimento allo Stato italiano. Del resto molti di loro nemmeno credevano o credono che esista un’idea guida, un’idea-forza, un senso, capace di unire i sardi lungo un cammino comune: anche se molti di loro intuiscono (e temono) quale potrebbe essere… Ma se si trattasse solo di cinismo d’élite o di collettivo sadomasochismo la nostra storiella potrebbe presto sparire dalla memoria dei sardi. Il problema è che la disunità che porta i sardi ad essere deboli politicamente ed economicamente, incapaci di lavorare insieme per il proprio benessere individuale e collettivo, ha delle strane radici, recenti e tuttavia potenti. Il sentimento di rassegnazione più pesante infatti non è stato inculcato dall’esterno ma principalmente da dei sardi stessi: ancor meglio, è stato inculcato dai così detti “Padri della Sardegna”, i fondatori dell’Autonomia, “i più sardi fra i sardi”, che hanno lasciato come eredità ai figli una serie di splendidi doni: la coscienza di essere una nazione fallita (bella coscienza si dirà!), la coscienza che uno dei nostri mali è l’ostinazione a volerci sentire nazione, la coscienza di essere un’isola troppo piccola per vivere sovrana e indipendente in mezzo al Mediterraneo, la coscienza della necessità di un dominatore esterno per poter compensare la nostra mancanza di intelligenza e capacità di iniziativa, e infine, la coscienza della necessità dell’aiuto dello Stato italiano per poter sopravvivere economicamente, per poter entrare in Europa, per poter stare nel mondo. Ecco il presupposto da cui nasce l’Autonomia sarda e su cui si basa la mitologia dominante in Sardegna. Ad un osservatore esterno la cosa suona al limite dell’incomprensibile, a partire dal fatto che questa generale visione anti-indipendentista si raccoglie sotto un generico discorso che si può definire “sardista” e che oggi è patrimonio base di tutte le forze unioniste, siano esse di destra, di centro o di sinistra. Può sembrare una storia stramba ed invece è tragica. Basta fare un piccolo gioco con l’immaginazione. Pensate ad esempio ai padri della Nazione catalana, Lluís Companys e Francesc Macià: pensateli nel momento più duro e decisivo, davanti ad una folla che attende da loro una parola, un gesto, un segno che li indirizzi, che dia l’esempio e la guida. Immaginateli venir fuori dal loro balcone a Barcellona e invece di proclamare la Repubblica Catalana – e per questo giocarsi le loro esistenze – dire: “Smettiamola con questa ostinazione, ammettiamolo! Siamo una nazione fallita!”. Immaginate il trauma, la lacerazione, la scissione intima e collettiva. Immaginate l’involuzione, il ripiegamento, i complessi, l’immobilizzazione. E una volta finito il travaglio, lungo anni, immaginate quel popolo

camuffato, felice di aver dimenticato ma intimamente rassegnato e rancoroso: invidioso del proprio vicino ma servile con il padrone, svogliato per il proprio destino ma pronto a morire per qualcun altro, insoddisfatto con se stesso ma incapace di spiegarselo. Orgoglioso e integrato. Ecco, in Sardegna, in quegli stessi momenti – e cronologicamente siamo quasi in contemporanea con i fatti d’Irlanda e della Catalogna – nel momento in cui la storia era aperta, in cui si poteva lasciare un segno, un esempio, coloro che la storia o il caso hanno messo sul piedistallo, coloro che hanno goduto della fiducia di masse sfiduciate nello Stato e nell’Italia, hanno scelto di parlare e agire contro la Nazione sarda, contro l‘indipendenza della Sardegna. Hanno parlato dell’immoralità e dell’impossibilità di quelle idee di libertà, lasciando nella massa dei sardi il sentimento di una lacerante umiliazione, come quella che cova dentro chi deve ammettere di aver sbagliato pur sapendo di aver fatto la cosa giusta. Era difficile fare altrimenti? Era impossibile fare altre scelte? Il contesto era quello che era? Bisognerebbe chiederlo a Lluís Companys che per la libertà della Catalogna, per aver avuto il coraggio di proclamarla Repubblica, in quegli anni, veniva fucilato dall’esercito spagnolo di Franco. Bisognerebbe chiederlo a James Connolly, Patrick Pearse e gli altri indipendentisti irlandesi, padri dell’Irlanda libera e prospera di oggi, fucilati dalle truppe britanniche per aver dichiarato la Repubblica d’Irlanda e aver provato a sollevare il loro popolo per quella idea di libertà. Era forse più facile, per loro? O è semplicemente che gli indipendentisti catalani e irlandesi volevano essere padri del loro popolo mentre i fondatori del sardismo volevano essere figli di un’altra terra, di un’altra nazione, di un altro popolo?
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Castrare le proprie possibilità, rinunciare a qualcosa di buono una volta che lo si è assaggiato, a un progetto esaltante quando è già avviato, e doversi convincere che in fondo è giusto così. Rassegnarsi a cedere la libertà di determinare le proprie azioni, dare a qualcun altro il potere di scegliere per noi, di dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato. Dire agli altri – ma in fondo in fondo dirlo soprattutto a se stessi –: “Senza il vostro aiuto noi non possiamo farcela, noi siamo sfigati e incapaci…voi ci dovete aiutare!”, significa dire a questo altro che egli ha il potere di vita. Significa confermargli che ha anche, su di noi, potere di morte. Significa che noi non siamo più nelle nostre mani. Che noi ci siamo rassegnati a credere che non sono le nostre mani che possono fare. Sembrerà così strano e insensato dire a questo punto che il problema della libertà politica, della sovranità, e quello dell’agire economico, del benessere, sono un unico e solo problema e che hanno un’unica e sola soluzione?
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Se siamo arrivati a ridere, tutto sommato con gusto, della nostra cinica disunità è perché ci siamo attorcigliati su noi stessi, e ci stiamo strozzando. Incapaci di fare i conti con noi stessi e la nostra storia ci ritroviamo con sempre meno ossigeno: e se l’ossigeno non arriva alla testa si rischia di delirare, di ridere il riso dell‘allucinazione e della follia. Incapaci di fare una scelta radicale non riusciamo a sciogliere un nodo che ormai va tagliato. Del resto se non fossimo così annebbiati ci accorgeremmo in quale guaio ci ha gettato chiedere aiuto economico allo Stato, affidargli ogni nostra speranza di rinascita, anche semplicemente economica. Siamo nel pieno di un circolo vizioso. Lo Stato infatti da un lato prende soldi che non rende (dovrebbe rendere “per contratto” i 7/10 delle tasse pagate in Sardegna ma è talmente indebitato che da almeno sedici anni si trattiene tutto) e che basterebbero alla gestione economica della Sardegna: è una verità che solo fino a qualche anno fa veniva considerata una bestemmia indipendentista e oggi è diventata una sacrosanta verità benedetta, dati ufficiali alla mano, dallo stesso potere autonomista. Una verità che però molti sardi mentalmente intrappolati ancora non sanno o stentano a credere (così come non sanno che la Sardegna ha già oggi dei parametri economici superiori a diverse nazioni indipendenti dell’Europa e del Mediterraneo…il problema tutt‘al più è “a chi va questa ricchezza?!”…). Ora, c’è da scommetterci, anche davanti a questa nuova consapevolezza molti risponderanno chiudendo il cerchio e dicendo che dall’altro lato lo Stato rende i soldi e tiene in piedi l’economia sarda attraverso i servizi e i posti di lavoro che crea. E la perversità sta nel fatto che questa seconda verità è vera. Lo Stato prende soldi (che non rende) dalla Sardegna e con i soldi non resi direttamente ai sardi l’Italia foraggia un’economia assistita e assistenzialista, fatta di clientele, piccoli privilegi, ricatti materiali e psicologici. Con i soldi dei sardi lo Stato garantisce la sua rete di potere e di sottomissione, garantisce l’anestetizzazione del corpo sociale che si crede al contempo incapace, aiutato e mantenuto. Ci fa danno due volte! E noi non ce ne accorgiamo, anzi… I sardi intrappolati nelle pastoie autonomiste si sentono così perfino in dovere di ringraziare lo Stato per aver reso loro i loro stessi soldi sotto forma di un’economia per la gran parte stagnante e svilente, fatta di imprese nate solo per fallire, di truffe a spese della comunità, di sussidi per dismettere attività produttive e diventare consumatori-parassiti, un’economia fatta di false promesse e piccoli accozzi, di cassa-integrazione e di precariato, di emigrazione e assistenzialismo. Un campionario di allettanti offerte di “sviluppo” e “benessere”. I soldi dei sardi vengono utilizzati per uccidere l’economia sarda, vale a dire qualsiasi spinta propulsiva che nasca dalle potenzialità del territorio, dalle intelligenze pronte a cogliere le innovazioni in giro per il globo e adattarle al nostro contesto o capaci di tradurre la

tradizione in forme moderne, economicamente redditizie e socialmente trainanti. È come stordirsi con il proprio vino, ma pagandolo. E in più ringraziando il barista per non si sa bene quale servizio o benevolenza. I soldi sardi riversati in Sardegna servono per soffocare le iniziative più libere, per calmierare le situazioni più tese, per blandire la disperazione o l’ingordigia con future promesse, per dividere il corpo sociale fra chi ha avuto il suo turno di misero privilegio (i suoi stessi soldi!) stando dalla parte giusta e chi invece ne è stato escluso avendo scelto la parte italiana momentaneamente perdente. Per quanto ancora accetteremo che ciò che è nostro per diritto ci venga offerto come se fosse un favore di cui dobbiamo ringraziare? Per quanto ancora scambieremo il ricatto con la convenienza?
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Tuttavia qualche mente acuta fa notare che da quando la Sardegna è sotto l’Italia le cose sono molto migliorate: un tempo vivevamo in case di pietra e lavoravamo nei campi o dietro le greggi, mentre oggi siamo pienamente entrati nel mondo civile fatto di comfort e tecnologia. Non si accorgono i fini analisti che la “civilizzazione” è arrivata in molte parti del mondo, anche (persino!) dove il civilissimo Stato italiano non ha messo mano (o non è passato neanche da lontano). Ovviamente queste menti illuminate non si accorgono che non basta semplicemente avere più tecnologia per stare meglio, e nemmeno si fermano un attimo a pensare a spese di quante vite, e su quali terreni concimati a guerre e miseria, sia cresciuta la ricchezza della parte del globo in cui anche noi ci troviamo. Del resto i difensori dello status quo, quelli che credono che il presente – per il solo fatto che c’è – è cosa buona, giusta ed eterna, non cambierebbero idea nemmeno davanti all’evidenza più palese: se non credo non vedo. Per fortuna molte donne e uomini sardi, sempre di più e sempre più spesso, iniziano a riflettere liberamente su ciò che gli avviene attorno. Il che apre spazi di presa di coscienza che un giorno potranno diventare luoghi di impegno per la liberazione della Sardegna e per l’abbattimento delle ingiustizie che alcuni uomini sono capaci di perpetrare su altri uomini. Il primo dato macrosociale che non dovrebbe sfuggire a nessuno – come ci ricorda spesso Frantziscu Sanna, uno degli ideatori di iRS ed esperto dei processi socio-economici globali – è che all’inizio di questo millennio tecnologico, pieno di progresso e civilizzazione la Sardegna, per la prima volta in secoli, ha visto la sua popolazione diminuire. È un segno reale, causa dell’emigrazione sempre più forte e costante, ma è anche una metafora della morte compiacente e silenziosa a cui si rischia di andare incontro lasciando che giovani e anziani, donne e uomini, con le loro intelligenze e competenze vadano via.

È anche la metafora di un’altra aberrante morte ammantata di necessità economica e di necessità di Stato, di un vile baratto di se stessi e della propria dignità, dietro il paravento di una ricchezza che o è finta o è malata e insanguinata: la già sconfinata e crescente militarizzazione del territorio, la “servitù militare” – una dicitura che è splendido riassunto di una condizione inaccettabile –, le incessanti sperimentazioni di armi e guerre. La terra ferita e irrimediabilmente compromessa, i corpi impercettibilmente ma inguaribilmente divorati. È una spoliazione intima che riguarda l’espropriazione della nostra salute così come quella del nostro territorio. È uno scavarci sotto e dentro per svuotarci e poi riempirci a piacimento: come le montagne di rifiuti infilate nel terreno o la incessante militarizzazione della società e delle coscienze. E pensare che il termine “Sardigna” già dal 1300 in italiano indicava la Sardegna e il luogo fuori porta dove si buttano gli scarti infetti…aprire un qualunque dizionario per credere…è proprio vero: “chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo”. Presi al laccio dalla disperata ricerca di un lavoro o dalla mancanza di fiducia in noi stessi, siamo laboratorio di nuove forme di sottile schiavismo e di utilizzo di intere generazioni come moderna carne da macello. Incoscienza, rassegnazione, cinismo, disperazione. O forse desiderio (inganno) di facile arricchimento. In questa Sardegna pare che si viva a stento, quel tanto che basta per morire. Ma la verità è che non tutti ci rassegniamo: molte donne e uomini di Sardegna sono ben vivi e lottano. Noi lottiamo per esistere. La verità è che sempre meno sardi sono disposti ad assistere compiacenti alla spogliazione di materie prime che crea benessere altrove e che qui genera pochi ruspisti o fa la fortuna delle industrie dello Stato italiano e delle multinazionali che con compiacenza vengono fatte accomodare in Sardegna. Certo la battaglia è dura e complessa. Sabbie silicee, pietre, saline, stagni, coste e persino il vento e l’acqua, ma soprattutto, l’intelligenza, il saper-fare, che va via. La logica della sottomissione e del profitto selvaggio spoglia i sardi delle loro risorse migliori, della possibilità di lavorare loro le proprie ricchezze (o eventualmente di lasciarle intatte). Leva la possibilità di decidere, in generale: ad esempio di scegliere di definire certe risorse come “beni comuni”, di tutti, non sottoponibili alle leggi del mercato o del profitto privato ma patrimonio della collettività che le amministra e gestisce per il benessere comune. La spoliazione delle risorse, i soldi clientelari, il lavoro senza coscienza e senza prospettiva distruggono qualsiasi brandello di reale apparato produttivo per la Sardegna e trasforma i sardi in docili consumatori. È forse un caso che una terra che si reputa “povera” sia in cima alle classifiche per la produzione pro-capite di rifiuti? Qualcosa non torna: o la propria autopercezione o il ruolo che stiamo giocando e che ci spetta nella società globale. Come bambini ingenui ci crediamo furbi e pragmatici. Ci siamo convinti che rinunciando a porre il tema della nostra diversità nazionale abbiamo guadagnato in scaltrezza, in capacità di puntare tutto sulla difesa dei nostri interessi economici. E intanto non ci rendiamo conto che

siamo produttori di energia – con tutti gli impatti ambientali del caso – e nel mentre la paghiamo più degli italiani. Che siamo sommersi di pale eoliche e che della ricchezza che queste pale producono a noi resta solo un misero 2%. Quale popolo che ha il senso della convenienza regala ad altri il 98% della propria ricchezza? Quale altro popolo, se non un popolo senza classe dirigente e con una coscienza culturale implosa, è capace di confondere così brutalmente la rapina delle risorse con l’idea di essere mantenuti? È evidente che una volta perso contatto con noi stessi, una volta modellata la nostra coscienza sul sentimento di un fallimento storico, di una catastrofe umana e culturale che ci ha impedito finora di affermare la nostra diversità nazionale, viviamo in uno stato di allucinazione, in cui lo spreco di energie, parole e intelligenze si fa grottesco. In cui si inventano soluzioni assurde e mastodontiche per problemi piccoli e le grandi questioni vengono evitate o reputate piccole noie passeggere, astoriche e utopiche. Ci si indigna per i panini senza il nome sardo ma non si riesce a concepire che la Sardegna sia una Nazione a tutto tondo. Ci si mette il velluto per sardizzarsi e sul velluto si fanno camminare gli interessi del peggior affarismo italiano. Si distrugge il tessuto produttivo e qualsiasi mercato interno – il primo passo per un’economia sana – e poi, presi dalla solita moda provinciale, si dice che bisogna andare a “conquistare il mercato cinese”, perché così i politici sardi hanno sentito dire dai loro superiori italiani. Il tutto mentre qui, a casa nostra, si lascia che la pastorizia venga distrutta e le imprese agricole strozzate; mentre qui, in Sardegna, il latte non vale nulla, le aziende agricole vengono messe all’asta, pescare è diventato impossibile; mentre l’86% dei prodotti che consumiamo ogni giorno viene prodotto fuori della Sardegna. E noi dovremmo credere a chi ci dice di andare a conquistare la Cina? Senza senso del pudore e della misura, senza buon senso e senza senno. E senza distinzione di parte politica: il discorso circola sulla bocca di amministratori locali e provinciali di destra come di sinistra. Prima di andare a conquistare i mercati di terre straniere noi abbiamo un’altra terra da conquistare, ed è la nostra, è la Sardegna! A distruggere il tessuto produttivo e il mercato interno, non bastasse l’insipienza degli amministratori, ci pensa il sistema del credito, ormai controllato da mani esterne (non che prima fosse una panacea) che invece di aiutare e incentivare progetti seri riesce solo a sfornare persone “protestate”: il numero in Sardegna è talmente alto (e per somme individuali talmente basse) da configurare i contorni di una gigantesca trappola fatta per immobilizzare il corpo sociale. La vicenda della messa all’asta della maggior parte delle aziende agricole sarde, stritolate dalla connivenza fra classe politica e bancaria – un misto di insipienza, ignoranza, spregiudicatezza, ingordigia – dopo aver pagato interessi su interessi è l’esempio più eclatante.

Date queste condizioni di fondo inutile appellarsi alla nuova monocultura, quella del “turismo”. Come si può acchiappare qualcosa che cade senza una rete? Come si possono sfruttare le opportunità che questo settore può aprire se non si produce più nulla, se non si hanno i soldi per investire, se nel mentre si è emigrati, in guerra o alle prese con qualche strana malattia (e fortuna che di nostro, per corredo genetico, siamo abbastanza longevi e resistenti)? Ma la cosa più assurda e che chiude il cerchio del rapporto fra benessere e coscienza è che in un mondo in cui ciascuno offre qualità immateriali, offre cultura, offre sapienza, offre la diversità di un luogo pieno di una vita e di un modo di vivere unico e distinto da qualunque altro, noi non solo non conosciamo e non raccontiamo la nostra storia ma non siamo nemmeno proprietari del nostro patrimonio culturale. Migliaia di nuraghi, tombe dei giganti, domus de janas, pozzi sacri, dolmen, menhir, chiese e castelli medievali, qualsiasi oggetto che ritroviamo – foss’anche una minuscola freccia di ossidiana – tutto ciò che è custodito (o nascosto) nei musei, è nostro – perché così storicamente è! – e al contempo non lo è: è proprietà dello Stato che è libero di farne (o di non farne) ciò che vuole. L‘assurda vicenda dei Giganti di Monti Prama è lì a ricordarci quale livello di masochismo abbiamo raggiunto: abbiamo un‘opera di valore universale, un’opera fondamentale per la nostra identificazione, un’opera che attirerebbe attenzione e persone da tutto il mondo e dopo aver rinunciato all‘idea di farla passare per straniera (vecchio vizio dell‘intellettualità sarda…ciò che è buono viene sempre da fuori) l‘abbiamo nascosta per trent‘anni dentro degli scantinati. Un’assurdità che sembra quasi una presa in giro, un affronto, una sfida fatta per vedere fino a che punto siamo capaci di sopportare, fino a che punto accettiamo di venir castrati. Non c’è dubbio: la ribellione del popolo sardo, la sua volontà di esistere e di vivere libero, non potrà che passare dalla riappropriazione della sua cultura: la sua storia, la sua lingua, il suo patrimonio materiale e di sapere. I segni di questa lotta determinata e nonviolenta già si scorgono e molti sardi sono pronti a conquistare una cultura per il loro futuro. Perché ricordiamolo, la cultura, come la libertà, non è qualcosa di dato, ma va conquistata giorno per giorno.
***
Il messaggio che noi lanciamo al mondo, il messaggio che arriva dall’indipendentismo sardo, da quello praticato da iRS – indipendentzia-Repubrica de Sardigna, è che il nuovo benessere che si va a creare, e che noi indipendentisti dobbiamo saper creare per noi stessi e per gli altri, è fatto di una produzione di ricchezza, di beni, che non sacrifica l’essere. Il ben-essere è una qualità globale della vita, che passa attraverso le maglie della società, dei corpi, della coscienza, della capacità degli individui di saper convivere in modo solidale e

collaborativo con se stessi e con gli altri, vicini o lontani. Il ben-essere che iRS ha in mente è qualcosa che ha a che fare con la stessa umanità dell’uomo, con la sua capacità di creare un’economia dolce al servizio di una felicità possibile, per tutti. “Un’economia dolce, una felicità semplice”, così ripete appassionato, ogni volta, Gavino Sale. La questione è che un popolo che nasconde se stesso e le sue migliori potenzialità non può minimamente ambire a questo stato: certo può accumulare soldi, ricchezze, beni (cosa che peraltro raramente capita a chi è asservito) ma difficilmente può vivere in pace con se stesso e con gli altri popoli. Men che meno questo popolo può pensare di irrompere con i suoi colori per rendere più vivida e intensa la luce che emana dalle culture della terra; non può porre come suo sogno e progetto la possibilità di dare al mondo qualcosa di suo, un modo di vivere diverso, profondo, appassionato, saggio. E invece noi vogliamo fare proprio questo. Vogliamo sfidare il mondo, vogliamo sfidare noi stessi, l’indipendentismo e i sardi in generale a pensare in grande, a parlare con voce propria, a produrre qualcosa che non si è ancora visto. Dovrà essere un’esaltazione dell’uomo e dell’umanità, una piegatura nuova dello spazio e del tempo, l’esplosione di idee e pratiche ancora impensate. Bisogna camminare su strade non battute e scegliere con coraggio quelle più difficili se si vuole produrre qualcosa di nuovo. Le nazioni più piccole oggi si vedono addossata una grossa responsabilità: da più parti vengono indicate come le uniche che possono conciliare democraticità, solidarietà, accoglienza dell’altro, capacità di scelte elastiche, rapide e vincenti in ambito economico. Ma questa responsabilità non potrà essere raccolta se dal di dentro non maturerà un generale processo di innalzamento della qualità di noi stessi, un generale processo di crescita democratica. Qualità delle persone, qualità delle scelte, qualità delle azioni, qualità della politica, qualità della vita: questo è il processo di autodeterminazione, un processo che abbattendo ingiustizie e barriere porta all’indipendenza nazionale, alla possibilità di fare le proprie scelte. Un processo che porta a poter scegliere di sperimentare un nuovo modo di vivere e di arricchire il mondo.
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Un giorno degli uomini chiamano un sardo (una donna o un uomo) e gli dicono: – Esprimi un desiderio e cercheremo di realizzarlo, e di ciò che sceglierai cercheremo di darne il doppio al tuo vicino di casa. Il sardo rimane perplesso ma dopo qualche istante si illumina e, unendosi a loro nel cammino, dice: – Voglio l’indipendenza della mia terra, la felicità della mia gente.

Franciscu Sedda
I sardi di fronte all’Europa

INDICE
I INTRODUZIONE
‐ I sardi di fronte all’Europa 7

II CINQUE PASSI VELOCI, PRIMA DELL’INIZIO
‐ Primo passo: il mondo e l’autodeterminazione
‐ Secondo passo: l’Europa, gli Stati, la democrazia
‐ Terzo passo: fra noi e l’Europa 15
‐ Quarto passo: giocare la partita delle interdipendenze
‐ Quinto passo: un doppio repubblicanesimo
III INIZIO
‐ Che cos’è la Sardegna?

INTRODUZIONE
I sardi di fronte all’Europa
Ci sono eventi contingenti, come le prossime elezioni europee, che
suscitano l’occasione di una riflessione su temi strutturali, portanti. Ci
sono eventi che si ripetono, come la trentennale impossibilità
(strutturale e legalizzata) per i sardi di eleggere propri rappresentanti
nel parlamento europeo, che impongono a una collettività di far sentire
la propria voce. Ci sono ingiustizie protratte nel tempo che ci devono
scuotere, che ci devono far agire, se abbiamo ancora un briciolo di
dignità.
Eccoci allora, attraverso l’Europa, messi davanti a noi stessi. Alle
nostre contraddizioni, alle nostre paure, alle nostre possibilità.
Ma ripartiamo da lontano, ripartiamo dal rapporto Sardegna/Europa
e da come questo si configura dentro il tempo e il mondo globale. Tema
profondo e decisivo. Rapporto complesso che coinvolge al contempo
aspetti culturali ed istituzionali, filosofici e giuridici, amministrativi e
socioeconomici.
La posta in gioco è alta: prima di arrivare a porre la questione della
nostra forza morale ‐ la questione del rapporto dei sardi con se stessi ‐
bisognerà cogliere la dinamica in atto nel rapporto fra Sardegna e
processi sociali globali o transnazionali, bisognerà definire il ruolo che
la Sardegna vuole avere nello spazio europeo (e non solo, come
vedremo), bisognerà prospettare il rapporto fra la futura Repubblica di
Sardegna e l’Unione Europea.
Si tratta di un percorso che dovrebbe essere molto più lungo ma che
articolerò in cinque passaggi, in cinque passi, nel tentativo di fornire
una prima cornice e un primo abbozzo di quel quadro che potrebbe
avere come titolo, I sardi di fronte all’Europa.

CINQUE PASSI VELOCI, PRIMA DELL’INIZIO

Primo passo: il mondo e l’autodeterminazione
Ci è stato detto per almeno sessanta anni che l’indipendenza è
astorica, che il desiderio e la richiesta dell’indipendenza nazionale è
anacronistica.
Eppure gli ultimi sessanta anni sono precisamente quelli in cui su
questo pianeta – non su Marte, Giove o in qualche lontana galassia – il
diritto all’autodeterminazione dei popoli è emerso e si è affermato
all’interno del diritto internazionale, come suo principio basilare e
costituente. Si è affermato fra contraddizioni e limitazioni, fra slanci
ideali e cinismi politici, è vero, ma lo ha fatto, si è affermato: la
comunità umana lo ha affermato a se stessa come un valore fondante.
Si è affermato per di più mentre si affermava e tuttora si afferma,
quantomeno a parole, un altro basilare principio, il principio
democratico, quello per cui dovrebbe essere l’autonoma volontà delle
persone espressa attraverso la partecipazione, la mobilitazione, il voto
a determinare le forme di governo e auto‐organizzazione delle
collettività. Insomma, fra l’autodeterminazione nazionale sulla base di
diritti storici, culturali, sociali, e il principio democratico che sancisce
la sovranità delle persone a decidere sulle proprie forme di governo, ce
n’è in avanzo per dire che autodeterminarsi, decidere di essere
indipendenti, è tutto tranne che qualcosa di astorico o anacronistico.
La cosa è tanto più vera se consideriamo che il secolo appena
passato è stato il secolo della proliferazione di Stati indipendenti e che,
sebbene a ondate o a singhiozzo, questo processo è andato
aumentando e tuttora continua. Per chi non lo ricordasse il secolo che
viviamo si è aperto con l’agognata indipendenza di Timor Est ed è poi
continuato con una serie di indipendenze sempre più vicine, se non
interne, allo spazio europeo. Il caso del Montenegro è in tal senso
eclatante: un’indipendenza avallata dall’Unione Europea e ottenuta
attraverso il ricorso a un referendum per l’autodeterminazione.
Basterebbe questo per ricordare quanto l’Europa giochi in modo
ambiguo una partita decisiva. Per se stessa – per la sua democrazia
interna – e per il mondo – ovvero come garante della risoluzione
democratica e pacifica di processi di affermazione nazionale. Pur non
prevedendo nella sua attuale e travagliata Carta costituzionale un
riferimento esplicito all’autodeterminazione, e pur non favorendo la
sua applicazione all’interno dello spazio dell’Unione Europea,
nondimeno l’UE si è pronunciata o attivata per favorire o legittimare
alcuni processi indipendentisti (Timor, Cecenia, Montenegro). È in
questa spazio scisso, dove si incrociano una storia e una pratica di
autodeterminazione disomogenea e tuttavia reale, che si situa la
richiesta d’indipendenza dei sardi e di molte altre nazioni storiche che
sono parte dell’Europa.

Secondo passo: l’Europa, gli Stati, la democrazia

Ci è stato lungamente ripetuto, soprattutto nei ruggenti anni
novanta e in particolar modo dai finti cosmopoliti, dai “cittadini del
mondo” della domenica, dai sostenitori di tutte le cause di libertà dei
popoli purché molto lontane da casa propria, che “l’indipendenza è
inutile perché ormai siamo in Europa”.
Così mentre l’arroganza di destra per lo più se ne fregava
dell’indipendentismo e al massimo lo trattava alla stregua di un
fenomeno delinquente, l’ipocrisia di sinistra si nascondeva dietro
l’Europa per negare quanto era ed è evidente. Per negare agli altri
quanto era valido per sé. Vale a dire il puro e semplice fatto che in
Europa si esiste, si è riconosciuti e si agisce se si è uno Stato
indipendente; che, piaccia o non piaccia, oggigiorno e probabilmente
ancora per lungo tempo, l’Unione Europea è e sarà una unione di Stati.
Gli Stati nazionali sono ancora il primo attore, sebbene non l’unico,
dello spazio politico europeo. E per quanto possano cedere quote di
sovranità verso l’alto e verso il basso – cosa che peraltro hanno fatto in
modo molto più limitato di quanto ci si aspettasse – è proprio il loro
esistere come Stati che gli consente di contrattare e negoziare quale e
quanta sovranità cedere.
Non solo, proprio mentre cedeva porzioni di sovranità, e proprio
perché cedeva porzioni di sovranità in materie molto specifiche, lo
Stato ha riguadagnato un ruolo a livello culturale: mentre scaricava,
più o meno legittimamente, sull’Europa il fardello delle scelte
impopolari su agricoltura, commercio, fiscalità, ambiente,
infrastrutture ‐ favorito anche dalla percezione popolare dell’UE come
una istituzione di burocrati, tecnocrati, lobbisti e politici di basso
livello – al contempo lo Stato si riprendeva il ruolo di gestore
dell’ambito culturale, di promotore di politiche dell’identità. Mai si era
vista in Italia, come negli ultimi anni, una tale insistenza sui simboli, i
riti, le retoriche dell’identità nazionale, prontamente sostenute da tutte
le forze politiche.
Anche per questo, probabilmente, la lagna dell’indipendenza inutile
“perché ormai siamo in Europa” è andata ben oltre il centro, la destra o
la sinistra fino ad apparire, quantomeno in Sardegna, una retorica
trasversale, pronta a coprire al contempo le rinnovate e rinforzate
identificazioni nazionali italiane (ma ben poco europee) e le altrettanto
rinnovate paure profonde del corpo sociale. La paura
dell’indipendentismo in quanto portatore di violenza e povertà –
quante volte è stato tristemente ripetuto, senza temere di scadere in
un larvato razzismo, che bisognava prendere “il treno dell’Europa” per
non “sprofondare in Africa”? ‐ ad esempio. Ma anche la paura
dell’indipendentismo in quanto processo che mette alla prova la reale
democraticità di chi “democratico” si dice per diritto divino, chi
democratico si dice fino al momento in cui la richiesta di indipendenza
di un popolo non lo mette nell’imbarazzante posizione di chi d’istinto
nega agli altri ciò che ha e vanta per sé. Non c’è dubbio dunque: il
processo indipendentista è un grande momento di messa alla prova
della democrazia, della democrazia in sé e della democraticità degli
attori che sono coinvolti in esso, che sono coinvolti da e in questo
processo di autodeterminazione e riarticolazione del corpo sociale e
politico. É evidente infatti che in un processo di autodeterminazione è
messa in gioco al contempo a) la democraticità della collettività che si
rende indipendente; b) la democraticità di quella collettività che fino a
quel momento aveva chiuso gli occhi sulla diversità, sui diritti, sugli
interessi di quella comunità diversa che dimorava entro i suoi confini;
c) la democraticità di quella collettività – che è l’Europa – che dovrebbe
farsi garante del rispetto della dignità e della libertà individuale e
collettiva, della soluzione negoziata e pacifica di quelle situazioni in cui
tale dignità e libertà è, in modo più o meno evidente ed eclatante,
negata o non pienamente affermata e compiuta.
L’indipendenza è un delicato momento di messa alla prova
dell’umanità dell’uomo.

Terzo passo: fra noi e l’Europa

Torniamo al presente e valutiamo una serie di elementi. Primo, è
evidente che l’UE è ancora oggi un insieme di Stati che ben poco spazio
lascia a chi Stato non è. Secondo, nonostante la retorica della “crisi
dello Stato‐nazione” il miglior modo per esistere ed essere riconosciuti
come attore politico nella geopolitica globale è essere uno Stato
indipendente. Terzo, non si vede quali siano i motivi per negare a una
collettività storica che in forma volontaria e nonviolenta si vuole
autodeterminare la possibilità di divenire una nazione‐Repubblica, in
particolar modo se ciò vuol dire dar vita ad uno spazio sociale in cui si
esercita il processo democratico attraverso la creazione di una
specifica ed originale sfera pubblica che valorizza la pluralità interna,
rispetta le prerogative delle sue minoranze, garantisce i diritti di ogni
singola persona. Se tutto ciò vale e non contrasta con la partecipazione
alla costruzione di uno spazio sovranazionale e transnazionale quale
l’Europa è e deve essere – e infatti guarda caso per l’Italia, la Francia, la
Germania, la Spagna non pare contrastare… – perché noi sardi
dovremmo essere soddisfatti di essere in Europa come ruota di scorta
o zavorra dell’Italia?
Non si capisce davvero per quale strano motivo, date tutte le
condizioni precedenti, noi, noi che se vogliamo possiamo autodefinirci
nazione ‐ così come fanno l’Italia, la Francia…e Malta ‐ dovremmo
essere soddisfatti di questo ruolo marginale, periferico, subalterno.
Non si vede, addirittura, perché dopo trent’anni dovremmo ancora far
finta che lo Stato italiano sia il miglior garante del nostro rapporto con
l’Europa quando da trent’anni, grazie allo Stato Italiano e alla Regione
Autonoma, noi non siamo e non possiamo essere in Europa.
Che tutto ciò abbia a che fare con responsabilità che sono anche dei
sardi, e che dobbiamo assumerci in pieno, non toglie assolutamente
nulla all’assurdità della nostra situazione. Ci siamo raccontati che la
rinuncia all’indipendenza era – fra le altre tante strane cose – una
garanzia alla nostra partecipazione in Europa e poi di fatto noi, da
questa Europa, siamo tagliati fuori.
In questa nostra situazione l’Europa sembra come il coniuge che va a
trovare il marito recluso in carcere, che gli può parlare solo in presenza
della guardia carceraria. E questo forse sarebbe già un quadro
allettante.
Ciò che ci troviamo a vivere è invece la pura e semplice frustrazione.
Una frustrazione che aumenta quanto più i nostri governanti di sinistra
e destra, Soru prima e Cappellacci dopo, non si mettono remore a
parlare di “nazione sarda” o di “autodeterminazione del popolo sardo”.
Ma se questo è vero, come possono accettare che questa nazione,
questo popolo, siano poi beffardamente esclusi dallo spazio europeo?
Come fanno a ignorare costantemente il problema? Come fanno a
convivere con i rimorsi per non aver fatto nulla per scorporare
quantomeno il collegio Sicilia‐Sardegna o per non aver sfruttato
nemmeno la legge sulle minoranze linguistiche? Con quale senso
dell’indecenza vengono a chiedere ancora una volta di votare per i
candidati italiani di centrodestra e di centrosinistra che ovviamente
non ci rappresenteranno? Chi credono di prendere ancora in giro? O
stanno forse prendendo in giro se stessi, giocando il ruolo di chi
volontariamente si incarcera e poi se ne compiace?
Un saggio persiano pare abbia detto: “Nulla è più frustrante per
l’uomo che sapere molto e potere nulla”. Ammesso (ma non concesso)
che questi nostri dirigenti sappiano di essere nazione, vale a dire
ammesso (ma non concesso) che quando dicono “nazione sarda”
credano davvero di identificarsi in una nazione a tutto tondo come
l’Italia o la Francia, come possono poi accettare che il rapporto fra
Sardegna ed Europa sia soffocato, castrato, azzerato dalla presenza
invadente dello Stato italiano?
Sembra tutto così insensato che viene da pensare che la domanda da
porre e la risposta da cercare siano assolutamente altre. Forse, per
riprendere la responsabilità su noi stessi, su noi sardi di fronte
all’Europa, la domanda che dobbiamo davvero porci è: possono i sardi
ancora accettare che il loro rapporto con il mondo sia delegato a una
tale classe dirigente, che mentre parla di nazione sarda ed Europa ci
consegna mani e piedi allo Stato italiano?
Ecco cosa si interpone fra noi e l’Europa. La nostra incapacità di
esprimere una classe dirigente che sia davvero nostra, che sia davvero
nazionale, che sia davvero all’altezza delle sfide globali che i sardi e la
Sardegna devono affrontare.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di essere cittadini attivi,
attenti, partecipi: la nostra incapacità di farci opinione pubblica che sa
ciò che accade in Sardegna, in Europa, nel Mondo e così facendo
controlla il potere, incide sulle scelte. Si fa essa stessa potere attivo e
trasformativo.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di pensarci già dentro
l’Europa e il Mediterraneo, l’incapacità di pensarci parte costitutiva e
costituente di questi spazi che già noi abitiamo, perché da sempre ne
siamo parte.
Fra noi e l’Europa c’è la nostra incapacità di immaginare la normalità
della nostra indipendenza: chi pensiamo che si stupirebbe vedendoci
entrare in Europa come repubblica indipendente? O qualcuno di noi
crede ancora, seriamente, che gli altri europei, vedendo la Repubblica
sarda far parte dell’UE, esclamerebbero: “Ormai in Europa accettiamo
cani e porci!”?
Ciò che si interpone fra noi e l’Europa – o forse semplicemente fra
noi e noi stessi – è il nostro orgoglio risentito che nasconde in realtà,
dentro di sé, la sfiducia in noi stessi, l’ignoranza della nostra storia di
nazione, il pessimismo nei confronti del futuro, il fatalismo rispetto al
presente.
Ciò che si interpone fra noi e l’Europa è il nostro non voler credere,
sperare e agire per cambiare, per essere migliori, per divenire liberi.
Per questo dobbiamo ambire a una nuova coscienza nazionale e
costruire un nuovo indipendentismo. Ponendo la nostra coscienza
nazionale come compito e la nostra indipendenza ‐ nonviolenta e non
nazionalista ‐ come banco di prova noi ritroveremo l’Europa, il
Mediterraneo, il Mondo. Ma soprattutto ritroveremo la Sardegna,
l’unità, l’entusiasmo.

Quarto passo: giocare la partita delle interdipendenze

Il mondo sta diventando una rete di interdipendenze. E l’Unione
Europea, pur nelle sue imperfezioni, è probabilmente il più compiuto e
ambizioso tentativo di regolare questa trama di interdipendenze.
Almeno all’interno di una porzione di mondo.
Possiamo provare a immaginarci l’UE come un campo di calcio, o
ancor meglio, uno stadio all’interno del quale si incontrano e fanno la
loro partita una serie di giocatori, che pur con ruoli e interessi
parzialmente diversi accettano di giocare allo stesso gioco, nello stesso
luogo, secondo regole condivise ed elaborate insieme. La metafora ha
certo le sue lacune: potrebbe suonare negativa per l’euro‐ottimista che
non condividerà il tono eccessivamente agonistico o troppo positiva
per l’euro‐scettico che ritiene l’Europa ancora priva di reali regole
condivise o la considera fatta di regole decise dagli interessi di pochi.
Tant’è. Il punto, in questa metafora, è un altro. E cioè, dove siamo noi
sardi? In campo? In panchina? In tribuna? O addirittura fuori dallo
stadio, nella desolazione di un parcheggio privo di vita?
Certo, un sardo che si sente italiano, che si riconosce nel sistema
politico e partitico italiano potrebbe anche sentirsi in campo. Sarebbe
del tutto legittimo. Certo poi non dovrebbe lamentarsi come sardo di
non vedere la “sua” politica occuparsi in Europa della Sardegna, dei
suoi diritti e dei suoi interessi. Il punto è ovviamente un altro: dov’è un
sardo che si sente sardo? dove siamo noi sardi intesi come collettività
storica che prende sempre più coscienza di avere suoi diritti e un suo
ruolo nel mondo? Beh, se ci va bene, se non siamo desolatamente nel
parcheggio, siamo al massimo nell’ultimo anello della tribuna, tanto
lontano dal campo che è quasi impossibile dire che cosa vi avvenga.
Sembriamo come quei tifosi ingenui che gridano “goal!” quando la palla
è finita sull’esterno della rete e poi, quando il gioco riprende normale,
passano il tempo a chiedersi: “Ma l’ha annulato?!”. Insomma, siamo
talmente distanti che le trasformazioni del mondo, e la capacità di
incidere su di esse, ci sfuggono, si fanno confuse, ci fanno apparire
ingenui, smarriti, sempre fuori posto e fuori tempo.
E tuttavia, tutto questo potrebbe andare anche bene. Potrebbe
andare bene finché non si pretenda dalla propria vita (politica) niente
di più che delegare ad altri scelte decisive sulla nostra esistenza fisica,
materiale, morale. Cosa che peraltro, a pensarci un attimo, suona
insensata. Insensata in generale (“perché dovremmo continuamente
delegare?”) e tanto più ora, ora che il mondo e l’Europa stessa si
avviano a definire lo spazio di diritti sempre più ampi, sempre più
vasti, sempre più inerenti la vita di ogni singola collettività, di ogni
singola persona. Dai diritti politici fino alle decisioni in materia
economica, dai diritti di terza e quarta generazione sull’ambiente, la
salute, il consumo, il corpo ‐ fino a definire una vera e propria
“costituzionalizzazione della persona”, come l’ha chiamata Stefano
Rodotà ‐: “perchè dovremmo delegare tutto ciò?”. Vogliamo davvero
escluderci da processi così importanti e decisivi? Preferiamo dunque
una vita politica passiva piuttosto che una vita activa? Ci vogliamo
veramente accontentare di stare in tribuna? Io credo proprio di no,
assolutamente e decisamente no. Noi sardi non vogliamo più stare né
in tribuna né in panchina. Noi vogliamo giocare la nostra partita, fare il
nostro gioco. Vogliamo finalmente, e in tutti i sensi, metterci in gioco.
Per farlo abbiamo bisogno della nostra sovranità, abbiamo bisogno
di ricominciare ad acquisire quote di sovranità sempre più ampie,
perché “è la sovranità che ci dà il diritto e il potere di negoziare le
interdipendenze” (Jean‐Marie Tjibaou).
Noi vogliamo l’indipendenza per poter entrare davvero nel gioco
delle interdipendenze.
Un paese piccolo come il nostro ha bisogno di essere indipendente
per poter essere davvero in Europa.

Quinto passo: un doppio repubblicanesimo

Jürgen Habermas, uno dei maggiori filosofi contemporanei, è forse
colui che più si è spinto nel proporre un superamento del nazionalismo
dei singoli Stati europei e nel reclamare la necessità di una vera e
propria Costituzione politica per l’Europa.
Quello che Habermas propone è un “patriottismo costituzionale”,
ovvero una sorta di repubblicanesimo europeo, in cui la partecipazione
ad un processo costituente e la condivisione di uno spazio pubblico di
confronto, dibattito ed elaborazione di quella stessa costituzione (“il
contesto intersoggettivamente condiviso di una intesa possibile”) crei
una nuova cittadinanza democratica europea. E tuttavia, nel suo
famoso saggio Una costituzione per l’Europa?, così lui stesso
concludeva: “L’identità europea non può comunque significare
nient’altro che una unità nella pluralità delle nazioni”.
Questa argomentazione che a prima vista potrebbe apparire
contraddittoria non suona invece affatto tale per chi come noi porta
avanti l’idea di un indipendentismo non nazionalista, ovvero la
necessità di una Repubblica sarda che faccia dell’apertura alla
diversità, alla pluralità, al nuovo il suo tratto costituente.
Il repubblicanesimo europeo e il repubblicanesimo indipendentista,
in altri termini, si sostengono e rafforzano a vicenda. Insieme il
repubblicanesimo europeo e quello indipendentista configurano un
incastro complesso: un doppio repubblicanesimo virtuoso, saturo di
potenzialità da scoprire e sperimentare.
Il repubblicanesimo europeo infatti dovrebbe configurarsi come
quello spazio aperto alla pluralità culturale, fra le quali quella espressa
dalle diverse nazioni europee, che trova una sintesi sempre imperfetta
e in divenire in un patto costituzionale collettivamente elaborato. Il
repubblicanesimo indipendentista a sua volta dovrebbe essere uno
spazio capace di affermare la sua originalità mentre si apre alla
pluralità interna e si lascia coinvolgere contemporaneamente in un
processo transnazionale – europeo, ma noi sardi preferiremmo fosse
euromediterraneo e ovviamente globale – di traduzione ed
elaborazione di valori condivisi.
Mentre il repubblicanesimo europeo ha bisogno della pluralità delle
storie nazionali e di tutta la diversità culturale che lo abita per non
diventare un corpo senza cuore e senz’anima, così il repubblicanesimo
indipendentista ha bisogno dell’Europa e del Mediterraneo, ha bisogno
dell’alterità, per non sclerotizzarsi chiudendosi in se stesso, per non
confondere la sua quota di universalità – di cui siamo depositari e che
dobbiamo donare agli altri – con tutta l’universalità possibile – che gli
altri posseggono e che noi dobbiamo saper ascoltare e fare nostra.
L’Europa ha bisogno che l’universalità dei suo diritti nasca dal
confronto fra la sua pluralità interna; l’indipendenza nazionale ha
bisogno di essere nutrita dalla tensione repubblicana al confronto con
l’esterno, al giudizio dell’altro, alla definizione di uno spazio di
cittadinanza democratica che sia contemporaneamente sardo e più che
sardo. O meglio ancora, che sia “sardo” proprio in quanto è anche al
contempo pienamente europeo, mediterraneo, globale.
Abbiamo bisogno di nazioni non nazionaliste così come abbiamo
bisogno di una Europa unita dalla e nella pluralità delle sue nazioni.

INIZIO

Che cos’è la Sardegna?
Nel 1935 Paul Hazard concludeva il suo libro sulla crisi della
coscienza europea chiedendosi, “Che cos’è l’Europa?”
e la sua bellissima risposta fu: “Un pensiero che mai si accontenta”.
Questo vorremmo che fosse anche la Sardegna: una nazione che non
si accontenta.
Una nazione che non si accontenta di essere corpo inerte, immobile,
soffocato, castrato, marginalizzato, azzerato, reso passivo e
impossibilitato a partecipare all’Europa, al Mediterraneo, al Mondo.
Una nazione che non si accontenta di luoghi comuni anacronistici, di
frasi fatte, di giustificazioni ingiustificabili, di consolazioni sconsolate.
Una nazione che non si accontenta di una classe dirigente succube e
di un popolo disattento, di un orgoglio sterile e di una integrazione
suicida.
Ma soprattutto una nazione che non si accontenta di sé, che non si
culla sugli allori, che non si rispecchia né in una razzistica
autodenigrazione né in un narcisismo infruttuoso.
Una nazione che invece si critica positivamente, per migliorarsi. Una
nazione che incessantemente, insaziabilmente, si ripensa da capo. Una
nazione che ogni giorno si reinventa per ritrovare se stessa.
Una nazione insomma che non si accontenta dell’autonomia ma
nemmeno si abbandona e rassegna al nazionalismo: una nazione che
dice di no alle assurde rinunce dell’autonomismo così come alle tristi
semplificazioni del nazionalismo.
Questa è la Sardegna. Questa è e deve essere la nostra Sardegna: una
nazione che si identifica in un indipendentismo aperto, in una
Repubblica sarda, europea e mediterranea tutta da costruire.

Marianu IV d’Arbarèe

Mariano IV d’Arborea era un uomo acculturato, capace stratega militare
e fine legislatore. Le cronache medievali ci raccontano della sua predisposizione
per le lingue (parlava correntemente sardo, latino, catalano, italiano) e dei
suoi cospicui contatti epistolari con numerose personalità dell’epoca.
Alla sua corte di Oristano giungevano infatti eruditi ed artisti dall’Europa intera.
Venne eletto Giudice dalla Corona de Logu nel 1345 e nel volgere di pochi anni
condusse l’esercito arborense alla liberazione dai catalano aragonesi
della quasi totalità della Sardegna. Nel corso di quegli anni la “Naciò Sardesca”
scrisse una delle pagine più importanti della storia dei sardi.
Ma Mariano non si occupò solamente di riconquistare le regioni occupate dall’esercito
nemico. Grazie al suo “Codice Agrario”, una carta di diritti e franchigie fatta in
seguito propria dalla figlia Lianora, Mariano pose le basi per una politica di
sfruttamento della terra che si dimostrò fondamentale per la ripresa economica
del Giudicato.

Nel 1375, all’apice della parabola giudicale, il Papa giunse alla decisione di
concedere al Giudice la corona del Regno di Sardegna ma la pestilenza bloccò il
sogno di una repùbrica libera e sovrana e Mariano morì a Oristano quello stesso anno.


Lianora d’Arbarèe (Eleonora d’Arborea)

Lianora nasce intorno al 1340 da Mariano IV, Giudice di Arborea, e dalla nobile catalana
Timbora di Roccabertì. Quando nel 1383 il fratello Ugone III di Arborea, che aveva ereditato
il Giudicato dal padre, muore assassinato, Lianora si autoproclama Judikissa secondo l’antico
diritto sardo, quale una donna può succedere al padre o al fratello.
Le fonti storiche, pur nella loro scarsità, ci tramandano Lianora come donna di notevole
personalità e sensibilità.
Colloca da subito la sua politica in continuità con quella del padre abbandonando invece
quella più autoritaria del fratello Ugone.
Si distingue per la coraggiosa difesa della
sovranità dei sardi contro l’invasione catalana e per la grande opera legislativa iniziata da Mariano.
Promulga infatti la Carta de Logu: una vera e propria Costituzione ante litteram per garantire
“su beni de sa Repubblica Sardisca”.

Ciò che colpisce maggiormente gli storici attuali è la particolare tutela che Lianora riservò
alla figura della donna nel codice legislativo.
Anche in virtù di questo la storiografia moderna considera Lianora d’Arbarèe figura eminente
e originale nel contesto dell’Europa medievale.
Intorno al 1376 Lianora sposa Brancaleone Doria III, del ramo sardo del casato di origine
genovese e diretti discendenti dei Giudici di Torres.
Il matrimonio era l’atto finale del disegno di alleanza tra gli Arborea e i Doria, possessori
di vasti territori nel nord, in chiave antiaragonese.
Subito dopo le nozze vissero a Castelsardo, dove nacquero i figli, futuri Giudici, Federico I e
Mariano V.
Muore, probabilmente a causa della peste, nel 1404 dopo aver unificato sotto la
bandiera dell’albero deradica.

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