La paura e il setting

E’ una seduta di un gruppo formativo. Naturalmente i nomi che appaiono negli scambi sono inventati.

Leggenda:
C = Conduttore gruppo
P = Presentatore caso
M…….M7= Membri del gruppo

P: io l’avevo chiamata quella volta che … avevo fatto una cosa che non dovevo fare,
però l’ho chiamata per sapere se sarebbe venuta o no alla seduta e lei ha avuto un atteggiamento molto strano, mi aveva riconosciuto e aveva risposto al telefono dicendo: “Dottoressa Rossi chi?”;
non si ricordava chi fossi, per cui ho dovuto fare una panoramica generale prima di ricondurla a capire con chi stesse parlando; e lì le avevo parlato di questa cosa, di quest’episodio, parte il discorso della mia telefonata che non avrei dovuto fare, e comunque era venuto fuori che effettivamente io un po’ c’ero rimasta male per questa sua reazione e mi ero anche un po’ arrabbiata perché comunque mi aveva alquanto sorpreso, però avrei sperato che quella cosa si esaurisse lì e invece questa cosa si è ripetuta.

È successo che non è venuta (lei viene il venerdì mattina) un venerdì mattina, non ha avvisato,
ma ha chiamato poi nel pomeriggio in studio poi non mi ha trovato, ha provato contattarmi,
mi ha chiamato con il mio nome mi ha detto: ” Mi sono dimenticata di venire questa mattina, mi scusi”.
Ho detto: ” Va bene, ne parliamo venerdì, quando poi ci vediamo”.
Poi è venuta, e ho cercato di parlare di questa cosa, di approfondire un po’ il motivo della sua dimenticanza e lei ha sminuito moltissimo, ha detto che c’è stato un imprevisto e che s’era dimenticata di venire e s’era dimenticata di avvisare, e ha chiuso immediatamente il discorso cominciando a parlare d’altro.

Io lì non sono riuscita a tenere il discorso su quella cosa lì.
Poi la cosa si ripete: non viene, non si ripresenta di nuovo l’altro venerdì mattina e io ero in studio,
stavo girando da una stanza all’altra quando ho sentito squillare il telefono.
Quando sono andata a prendere la telefonata hanno messo giù e sono riuscita vedere l’ultimo numero sul display.
Ed ero convinta fosse lei che avvisasse che non veniva, perché mi sembrava che fosse il suo numero.
L’ho chiamata ed è stato alquanto scioccante: innanzi tutto mi ha risposto con una voce veramente diversa, di una persona che non è cosciente di sé.

Io mi sono presentata e lei mi ha detto: “Dottoressa Rossi chi? Ma chi parla? Ma cosa vuole?
E io che non sapevo molto bene come fare a spiegarle la situazione, continuavo a ripeterle che avevamo un appuntamento.

Lei: “Ma chi è? Che cosa vuole da me?”, al che le avrò fatto qualche domanda: le ho detto che viene da me il venerdì mattina, le ho nominato il paese e allora lì si è ripresa, è tornata improvvisamente in sé e
mi ha detto: “Ah sì, mi sono completamente dimenticata, mi fissa l’appuntamento per venerdì prossimo?”
e la telefonata si è interrotta lì.

Quando di lì a cinque giorni ricevo una sua telefonata e mi dice di ricordarle l’ora dell’appuntamento
perché ha un vago ricordo di una nostra telefonata, ma non ha la più pallida idea di che cosa mi abbia detto.
Io le ricordo l’ora dell’appuntamento, che è sempre venerdì, il problema è che siccome io sono anche al consultorio per il tirocinio e non riesco ad avere sempre lo stesso orario, per cui generalmente è piuttosto stabile perché per due venerdì la vedo alle 10 del mattino e per venerdì la vedo alla una meno un quarto, però, per sicurezza ogni volta le scrivo sul biglietto l’orario, per cui le ho ricordato l’orario ed è venuta.

Quando poi l’ho vista al martedì, ovviamente, lei ha fatto finta di nulla e io ho affrontato il discorso della telefonata.
Le ho chiesto come mai mi aveva risposto in quel modo, perché mi era sembrato una conversazione strana, mi è sembrato che lei fosse un po’ confusa, e lei mi ha detto che aveva bevuto molto, che non era cosciente perché aveva bevuto, ma non perché era abituata a bere, perché si trovava nel bar con una sua amica e c’erano dei ragazzi.
Questa signora si chiama Chiara, a 35 anni, con una bambina di tre anni e gestisce una tabaccheria che è di sua proprietà.
Però ha l’abitudine al mattino di andare a trovare le sue amiche, che anche loro gestiscono negozi.
Insomma, era nel bar con la sua amica, c’erano dei ragazzi che anche lei conosceva e l’hanno fatta bere.
Per cui non dovevo chiamata.
Io che cerco di approfondire un po’ su questo discorso, e lei che svia.
L’ultima volta risuccede questa cosa, non si presenta il venerdì l’altro, e io non chiamo.
Ho detto: “Aspetto”. E questa volta però non si fa viva neanche durante tutta la settimana successiva.
Così io giovedì pomeriggio l’ho chiamata perché volevo sapere com’eravamo messi; cioè se veniva o non veniva, soprattutto l’orario era comunque ancora diverso e la chiamata.
E c’è stata ancora la stessa cosa: “Dottoressa Rossi chi? Ma lei chi è?”.
La stessa identica cosa.
Questa volta mi sembrava cosciente, lucida, io non lo so, non avevo più molte parole,
e lei mi ha detto che si era dimenticata.
Le ho detto anche: “Guardi, ha saltato anche la seduta precedente”. “Eh, mi sono dimenticata.
Guardi, però domani non vengo perché so già che mi dimenticherei, per cui vengo il venerdì dopo.
Questa più o meno è la descrizione.

C: Com’è arrivata a lei la paziente? Con quale domanda?

P: Viene privatamente. La mia domanda è questa: io non so innanzi tutto come interpretare questa cosa,
che significato dare questi due comportamenti. Mi sembra alquanto strano.
E poi non so come affrontare questa cosa con lei perché lei sminuisce tantissimo, è come se fosse una cosa molto normale per lei. Non si ricorda.
Diventa molto aggressiva con me molte volte durante un colloquio per cui mi rendo conto che anch’io dopo
un po’ cedo perché lei ha un atteggiamento aggressivo nei miei confronti, è palpabile, lo sento.
Anche al telefono è stato aggressiva perché mi ha detto: “Io mi sono dimenticata, a me succede così,
io sono andata in vacanza, io ha staccato la spina, io non mi ricordo!”

C: Lei che contratto di lavoro ha fatto con questa paziente qua?

P: Noi ci vediamo una volta alla settimana, il venerdì mattina.
L’orario più o meno è stabile comunque glielo scrivono su un biglietto di volta in volta per problemi perché lei più solo il venerdì mattina, perché gestendo quest’attività era il suo unico spazio visto che sta in negozio un’altra persona, quando lei non c’è.

M5: E le sedute come le paga?

P: Anche lì è stato un altro grosso problema: abbiamo stabilito comunque alla fine del mese.
Solo che alla fine per due mesi e mezzo non mi ha pagato perché ogni volta concordavamo:
cioè diceva: “La prossima volta è la volta del pagamento?”. Le dico “sì, è la fine del mese, sono le quattro sedute, c’è il pagamento”. Si presentava al colloquio successivo e mi diceva: “Le devo poi qualche cosa?”
Questo l’ha fatto per tre volte di fila.

M2: e tu che cosa rispondevi?

P: E io le dicevo: “Sì, si ricorda avevamo concordato che oggi era il giorno del pagamento.”
“Io mi sono dimenticata”. Così per tre volte di seguito. Finché io, non mi aspettavo neanche che mi pagasse, quando mi ha pagato perché ad un certo punto, quando io scrivevo l’orario della volta successiva ha preso il portafoglio e mi ha detto: “La devo pagare”. Lì non avevo ancora detto nulla sul pagamento.
Per tre volte di fila mi hai chiesto se doveva darmi qualche cosa perché lei non si ricordava che cosa avessimo stabilito.
Per cui alla fine il pagamento di un mese l’ho ricevuto alla fine del mese dopo, dunque mesi di pagamento insieme.

M3: E tu in quel mese di ritardo come ha ripreso a questo tema del mancato pagamento delle sedute?
Sei riuscita a mettere quel tema lì nei vostri incontri?

P: Perché di fronte alla mia domanda: “Non si ricorda che l’altra volta abbiamo concordato,
l’avevamo ricordato insieme”. “Bene, glieli porto la prossima volta”.
E poi era sempre a fine seduta, e questa cosa non veniva fuori; poi quando ritornava non le ho mai chiesto ad inizio seduta: si è ricordata il pagamento? Arrivano sempre a fine seduta queste cose ovviamente.
E, di fatto, non è mai stato sviscerato: io ho una mia difficoltà a tirare fuori quest’argomento, lei mi chiude lì.

C: Dottoressa Rossi, vediamo meglio questa sua difficoltà a farsi pagare.

P: Era già venuto fuori una volta questo discorso: che penso di non meritarmi soldi che guadagno.
In questo caso qui non credo proprio che sia così. È una mia difficoltà parlare con lei, quando vedo che lei si adira. Quando vedo che lei si pone in modo diverso.
Diciamo che è più un problema gestire l’aggressività nei miei confronti che io sento.
Più che con lei il discorso è il pagamento in sé.
Perché il fatto che per quattro volte di fila mi dica: ” dottoressa Rossi chi?”, questa cosa qua sento
il bisogno di parlarne con lei, però non so come, anche perché nel momento in cui ci provo per lei è così normale, è stata una semplice dimenticanza. E adesso la dovrò vedere.
Questo suo atteggiamento mi sembra un po’ strano: da un lato mi preoccupo pure che non ci sia qualche cosa di psichiatrico, non so, mi sembra tanto strano, non posso dire che era una suo atteggiamento… mi sembra alquanto strano.
Non riesco a capire fino a che punto queste sue dimenticanze sono dovute magari a qualche cosa d’organico, …

C: Se fossero organiche lei cosa farebbe?

P: Andrebbe anche indirizzata da uno psichiatra, penso, questa signora.

C: Lei ha uno strumento formidabile per riuscire a stare un po’ più in pace con se stessa rispetto a questa paziente ed è proprio il setting di lavoro. Se lei ha stabilito un contratto terapeutico con questa persona, che prevede che il pagamento avvenga una volta al mese e alla scadenza di quel mese questa persona non le dà i soldi, quello che avviene nel mancato rispetto dell’accordo è uno strumento di lavoro. A costo di rimanere tutte le sedute con un , “chissà come mai non ha portato i soldi?” perché se avviene, può essere per la ragione più misteriosa del mondo, sia per lei sia per quella persona, non si sa perché non viene pagata; forse si è dimenticata, forse si è ricordata, ma non glieli ha voluti portare… comunque lei non lo sa, e non è questo il problema:
il problema non è immaginare perché lo fa, il problema è poterci lavorare con la paziente, su quel qualcosa di misterioso che avviene tra di voi.
Un punto è riuscire a porre fra di voi una cosa che fa parte dei vostri accordi nella formazione del setting di lavoro.
E a quel punto, se fa parte dei vostri accordi, il fatto che lei non paghi a fine mese diventa un motivo da indagare:
“come mai non mi paga?” E non mi accontento del ripetuto: “Non mi sono ricordata”. Cosa vuol dire non ricordarsi sistematicamente di qualcosa di concordato?
Visto che questo non mi sono ricordata succede regolarmente ogni mese. Cosa vuol dire questa cosa qua?
Il lavoro da proporre è riuscire a dare un senso a una cosa misteriosa che avviene nel vostro incontro e che, per misteriosa che possa sembrare, dovrebbe avere una ragione per la paziente.
Nel fare un contratto terapeutico ci dovrebbe essere, per esempio, anche il fatto non che lei venga o non venga.
Se non viene che cosa è previsto?

Presentatrice- Se non avvisa per tempo, paga la seduta.

C: Cosa vuol dire se non avvisa per tempo, per lei?

P: Si deve venire all’una, almeno che mi avvisi la mattina, per esempio. Però che neanche avvisi!
Quando non è venuta io sono rimasta lì ad aspettarla

C: Aspettare il paziente durante l’ora dell’appuntamento è giusto. E’ la premessa che pone che è un poco nebulosa.

P: Io ho ragionato tanto sulla mia telefonata quel giovedì pomeriggio.
Sapevo che non avrei dovuto farla. Ma se non l’avessi fatta, per questa persona tra un po’ io non esisto.

M3: Questa è la Tua immaginazione. Da quello che ci stai dicendo appari molto importante per questa paziente.

P: Si sarebbe fatta viva o non si sarebbe fatta viva io non lo so.
Se avessi lasciato perdere anche per questa volta, non so per quanto tempo avrebbe continuato a saltare incontri,e poi mi sentivo anch’io in difetto perché dovendo tutte le volte dire: “No, venerdì prossimo prima, venerdì prossimo dopo”. A parte quella storia del pagamento, che è successa quella volta lì,
però a me sinceramente quello che più mi preoccupa, quello che più mi prende, quello che più non so gestire e questo suo atteggiamento di non conoscermi, perché non mi sembra una cosa normale e sento il bisogno di affrontarla con lei, ma non so come fare perché per lei è niente.

M1: “Intanto sappiamo che risponde così perché sei tu che le telefoni. E perché deve telefonare?
Una volta che il nostro accordo prevede che ci vediamo ogni venerdì, se tu non mi avvisi potremo anche
discutere su questa cosa qua: “Mi avvisi almeno la mattina”, facciamo finta che vada bene: ogni volta che
lei non mi avvisa la seduta è pagata. E tu perché ti agiti a telefonare? La paziente può fare di noi
quello che vuole.

P: Quella volta che non è venuta e io non l’ho chiamata, mi ha rimproverato per non averla chiamata.

C: Meglio che la rimproveri per non averla chiamata.
Perché così si può vedere che fantasia c’è dietro il mio chiamarla al telefono: cosa faccio, una terapia telefonica?
Un punto del setting è se riusciamo a fare un accordo chiaro con i pazienti. E’ questa chiarezza che poi ci aiuta a poterne interrogare gli scarti rispetto agli accordi.
Può darsi che ci sia necessità di ridefinire col tempo in maniera puntuale il setting di lavoro.
Ci vediamo due venerdì dalle ore X alle ore Y, gli ultimi due invece dalle ore Y alle ore Z. Oppure qualsiasi altro accordo che trovi il terapeuta disponibile a farlo, senza che debba essere un sacrificio quell’accordo, perché alla lunga bisogna anche sapere che i sacrifici possono essere pesanti da sopportare.
Veniamo al mancato incontro: se non viene il terapeuta c’è, la seduta c’è, è facoltà della paziente non venire.
Io sono qui, se vuoi venire sono qua, se non vuoi venire non venire.
Il punto è sempre poter interrogare quando ricapiterà quella mancanza. Come mai?
Ma se noi abbiamo stabilito di vederci dalle nove alle nove e 45, non c’entra niente che io telefoni alle 11
per sapere come mai non è venuta, non ha proprio nessun senso.
Paradossalmente così inverte i rapporti che noi abbiamo strutturalmente: invece di essere il paziente che viene da noi perché ha un desiderio, così facciamo vedere che siamo noi che abbiamo bisogno del paziente. Ma non dovrebbe mai essere così, assolutamente!
Assolutamente! Ma neanche ridotti alla fame dovremmo fare una cosa così , perché il paziente si accorge subito che siamo noi che dipendiamo da lui, esattamente quello che non deve mai succedere!
Noi siamo al servizio della ricerca di senso della vita del paziente, non siamo alle dipendenze di tutti i loro capricci.
Non è così! Non deve minimamente arrivare la nostra necessità di lavorare in questa maniera qua.

P: Sì, io sono d’accordissimo

C: Dico questa cosa anche con una esperienza personale: ho avuto una paziente che per un anno mi ha messo in croce.
Veniva mediamente una volta ogni due mesi. Arrivava nell’ultimo quarto d’ora, si sedeva lì, dopo un quarto d’ora se ne andava.
Quindi in quel quarto d’ora dovevo recuperare i quattrini dei mesi precedenti e interrogarla sul come mai non si faceva viva. Naturalmente veniva sempre senza soldi.
Al quarto mese le ho scritto una lettera dicendole che se non mi faceva un bonifico immediato non avevo intenzione di perdere il mio tempo in questa maniera qua.
Si è rifatta viva al telefono per dirmi di tenerle il posto, lei mi avrebbe pagato con un bonifico ma per favore di tenerle il posto. Una volta che lei mi ha chiesto di tenerle il posto le ho tenuto il posto. Ha fatto il bonifico e poi non si è fatta viva per altri quattro mesi. Proprio non si è fatta letteralmente viva.
Altra lettera, in cui le ho detto: “Cosa ci dovevo fare di quattro mesi di mia presenza e di sua assenza?”.
Lei mi ha detto: “Sì, ha ragione, ma tenga ancora il posto”. Mi ha pagati i quattro mesi, insomma per un anno è andata avanti così.
Io mi sono fatto vivo con due lettere con questa persona. Ho scelto di non telefonare perché non credo nei chiarimenti per telefono. E’ importante che paghi le sedute, deve sapere che il suo agire non solo ha un senso, ma anche un costo. Al termine dell’anno è tornata e lì abbiamo fatto i conti di cosa voleva dire per lei il non venire, il tenere la seduta così, il farmi rimanere i tre quarti d’ora inchiodato in quella sedia a vuoto, ma ha scelto lei il tempo.
E io credo che abbiano ragione i pazienti: sono loro che scelgono il loro tempo.
Nel momento in cui noi sappiamo di poter avere chiaro qual è la nostra parte, che è quella di aspettare tranquilli anche se non vengono, leggeremo un libro, faremo un’altra cosa, non ci dobbiamo agitare, la seduta è pagata.

P: Io ci ho pensato però. Non era un discorso di andare a prenderla, di tenermela, cioè di andarla a
cercare come dei pezzenti per lavorare, perché ci ho pensato tanto.
Innanzitutto ammetto che ci fosse la paura di come andare a ripescarla perché ero certa che si era dimenticata.
Per cui mi sono detta: “Caspita, ma come la ripesco!”
Avrei penso dovuto mandare anche una lettera perché comunque, fra le altre cose, è indietro una ancora di un mese di pagamento. Però, a parte quello, credo di essere stata veramente spinta dalla mia curiosità di capire questa cosa qua: queste sue dimenticanze, questo suo… ero spinto da questa cosa qui.
Cioè sapevo che è non era compito mio, che non dovevo chiamare, è stato più forte di me.
Come quando quella volta che l’ho sentita così strana ci sono rimasta veramente di sasso. E mi ha colpito questa cosa qui.
E quindi la curiosità di andare a capire perché questa ancora in due settimane non si ricordava di venire.

C: Ma è sicura che non si ricordi? Lei qui ha detto un passaggio della paziente del tipo: domani non vengo perché non me ne ricorderei, però vengo venerdì prossimo! Alla faccia della dimenticanza: non ti ricordi per domani e di ricordi per la settimana prossima? A lei non sembra una contraddizione ?

P: Infatti ho teso un tranello e sono rimasta ancora più giocata di prima.

A2. Posso dire una cosa? Lei prima stavano mangiando eravamo solo io lei mi ha raccontato.
Vi assicuro che me l’ha raccontato in maniera diversa. Ma proprio in maniera diversa.
Come l’ha raccontato adesso ha tutto senso quello che stiamo dicendo.
Perché segue un discorso razionale.
Come fin dall’inizio, la prima volta che le è successo questo: “Dottoressa Rossi chi?”.
Quando l’ha raccontato oggi… non cerchiamo un discorso relazionale, c’è qualcosa di… dire proprio: cos’ha questa persona? Mentre adesso non l’ha raccontato in quella maniera lì.
È io dico questa cosa qua perché quando me l’ha raccontato non era questa cosa qui mentre invece adesso la vedo tutta in altra maniera…

P: Un po’ mi fa molto specie quando viene e mi dice: “Ah, non vedevo l’ora!
A me piace tanto venire qui da lei!”

C: Mi rendo conto che quando si inizia a lavorare ci si arrangia. Ed è normale che sia così. Non andiamo sulla stratosfera. Il problema quando iniziammo a lavorare è di iniziare a lavorare con degli strumenti che ci aiutino.
Perciò per poter lavorare è necessario che questo strumento preziosissimo che è il setting venga adoperato da subito. Da subito. Senza sconti, nemmeno per noi. Se noi ci vogliamo salvare in questo mestiere che è dannato per sé dobbiamo adoperare gli strumenti per quelli che sono.
È già dannato questo mestiere perché facciamo un lavoro cert6amente difficile. Dobbiamo almeno garantirci di poterlo fare senza ogni volta doverci spaccare la testa. Il setting ha almeno quattro cose dentro: c’è il nostro ruolo, luogo, orari, pagamenti.
Su queste cose è fondato strutturalmente il nostro mestiere. Magari ci vogliono anni per riuscire ad applicarli bene, ma se noi li adoperiamo da subito , abbiamo le condizioni generali per farlo questo mestiere. Magari uno lo fa semplicemente perché lo suggeriscono i suoi maestri, non ci crede ancora, ma, io dico, ogni volta che si trascura uno di queste quattro cose che fanno parte del nostro budget iniziale, andiamo a rane, ci perdiamo perché il paziente ci trascina nella propria patologia.
Perché i pazienti, nella loro patologia, ci portano a spasso dappertutto. E noi non abbiamo più strumenti per riuscire a tenere bene la nostra posizione. Non perché noi siamo scemi, ma perché non avendo adoperato di strumenti, i pazienti, nella follia che viene con noi, ci ricattano, ci sbattono di qua di là, stavolta vengo, stavolta non vengo, stavolta ti pago, stavolta non ti pago, chi sei tu, che cosa vuoi da me. Questa è la follia con cui noi abbiamo a che fare.
Ecco perché è indispensabile che noi ci creiamo quel setting in cui noi, almeno noi, che qualche follia ce l’abbiamo anche noi, ma abbiamo almeno il pilone a cui ci possiamo aggrappare. Ce ne stiamo tranquilli.
Ogni volta che l’altro che sta con noi manca a uno di quegli accordi, quello per noi è il problema.
Perché qualsiasi stato di malessere viene testimoniato nella relazione. Qualsiasi. Compreso non pagare.
Compreso arrivare mezz’ora dopo. Compreso non venire. Insomma, tutte le cose.
Noi siamo lì messi perché rappresentiamo chi sa che cosa.
A quella mia paziente di cui vi ho parlato prima, la mia persona di terapeuta le faceva passare tutte le peripezie che lei aveva vissuto con suo padre. Tutte le sue vicissitudini affettive con lui me le doveva far pagare.
Il nostro ruolo è anche quello e quindi ci adattiamo a viverle per quello che significano. Sempre per riportare l’esempio della mia paziente, quando questa ha capito che era una strada che non portava da nessuna parte, che non era a me terapeuta che doveva far pagare qualcosa, io non ero suo padre, che semplicemente così riviveva il tempo che non era stata in grado di vivere allora, quando ha capito ha detto basta a questa modalità, ma fino a quando ci sono, i pazienti possono fanno tutto quello che vogliono e che gli passa in testa, il problema è che non dobbiamo essere danneggiati noi da questo furore.

P: Adesso sento il bisogno di ridefinire il setting con lei, sento il bisogno di riprendere in mano un po’ la situazione e di rimettere un poco questi paletti. Quando la paziente mi ha rimproverato per non averla chiamata, cioè lei si aspetta che quando lei si dimentica ci sono io che faccio “drin”.
E dopo ci casco. È invece questa cosa qui deve arrivarle molto chiara: cioè se lei si dimentica si dimentica, e io non devo essere lì a ricordarle però, pur sapendo queste cose di testa, poi non riesco a farle.
Perché anche quando io ho chiamato sapevo che stavo facendo l’ennesima scemenza però l’ho fatta. e ci ho ben pensato!
Ma proprio bene, mi sono messa lì, ci ho ragionato e ho detto: “ma no!” E poi, l’ho fatto.

C: Dottoressa Rossi, sistemata la parte pratica, sarebbe bello entrare in questo suo pezzo più soggettivo.
Lei dice: ” io sapevo di fare una sciocchezza, però l’ho fatta”

P: Io non so perché devo fare queste cose. Quella cosa lì mi aveva fortemente colpito, mi aveva preoccupato, non lo so, mi aveva comunque attratto in qualche modo per cui sono andata a cercarmelo: “Dottoressa Rossi chi?”. È molto probabile, però…
Quando pensavo questa cosa c’era una parte di me che aveva la consapevolezza che era una
cosa sbagliata da fare, cioè che non avrei dovuto farlo. Poi avevo questa curiosità, questa cosa di capire come mai questa si fosse dimenticata per l’ennesima volta. E poi c’era una parte di me che era insicura su qualche cosa… pensavo di essere cascata un po’ in quello che lei mi aveva detto: cioè che si aspettava la mia telefonata nel momento in cui si dimenticava.
Poi ho avuto anche il pensiero: come faccio poi a ripescarla se si dimenticava di pagarmi? Alla fine era molto indecisa. Non sapevo se fare una cosa né l’altra. Proprio perché ero convinta della non correttezza da un lato e dall’altro invece un po’ mi coccolavo e mi giustificavano di questa cosa e non sapevo come affrontare questa situazione. Non sapevo come fare. Queste sono proprio le cose che vedevo in quel momento lì.

C: Chi le ricorda questa paziente?

P: Chi mi ricorda? Sinceramente nessuno.

(Risata del gruppo)

P:A volte faccio un po’ fatica a ricordare, perché lei è venuta per un rapporto molto conflittuale con la madre.
Cioè lei si è seduta, al primo colloquio e mi ha detto: “il problema è che io odio mia madre”.
Poi però sono emersi aspetti comunque nel suo carattere che…è emersa una parte di lei molto aggressiva nei confronti degli altri, un amore per la trasgressione che lei ha, per la seduzione, dopo un paio di mesi che veniva mi ha raccontato che era un periodo piuttosto brutto: per una relazione extraconiugale se n’è andata di casa, poi è ritornata con il marito, però le cose con il marito non sono proprio tutte rose e fiori. mi ha detto di aver sofferto di depressione post-partum e di aver tentato un suicidio quando la bambina era molto piccola perché non la voleva allattare… questo è durato per i primi mesi di vita di sua figlia; poi le hanno dato i farmaci, le hanno fatto smettere di allattare, il suo medico le ha prescritto degli antidepressivi e magicamente la situazione è rientrata e lei aveva un rapporto fantastico con sua figlia. Però, in una delle ultime sedute, mi aveva detto che aveva degli sbalzi di umore repentini, che aveva re iniziato a sentirsi depressa e stava riprendendo ancora gli antidepressivi.

M: E rispetto alla domanda? Cosa di questo racconto che ci hai appena fatto richiama a qualcosa di tuo?

P: A me aveva colpito molto quando mi aveva raccontato della sua depressione post-partum,
che aveva questo rifiuto fortissimo nei confronti di questa bambina. Mi ha anche scioccato perché, sempre nella stessa seduta, mi aveva detto che ha il terrore al solo pensiero di avere un altro figlio, ma non tanto per avere un altro figlio perché lo vorrebbe già svezzato, ma ha il terrore di dover fare la gravidanza, l’allattamento, ma che preferirebbe al 100% adottare un figlio. Questa cosa mi aveva molto colpito, però non sento qualcosa di mio…

M4: Nulla della tua storia…

P: No, nulla.

C: Proviamo a fare un giro per vedere se i collegi ci aiutano con il loro sentire, con il loro pensare.
Che cosa provate attorno a questo racconto?

(silenzio di alcuni minuti)

C: A nessuno suscita niente? Pretendo una risposta. Ho posto una domanda.

A3: Io volevo chiederti, forse l’hai anche detto, anche la prima volta, perché io forse la prima,
seconda, la terza volta non ci sarei neanche arrivata, quando tu l’hai chiamata e lei ti ha detto: “dottoressa Rossi chi?” Tu, quando hai sentito questo, eri arrabbiata? Eri delusa ? Ti sei sentita in dovere di spiegare….?

C: Io ho chiesto cosa provate voi.

P:Sì, ci sono rimasta, mi sono anche un po’ arrabbiata. Però poi veramente non c’era rabbia.
Per il fatto che non riconoscesse il mio ruolo. Però ti dico, la rabbia rispetto al resto… non è rabbia quello che mi suscita.
Io sono rimasta senza parole. Anche quando non mi ha pagato, non ero tanto arrabbiata sinceramente. All’inizio forse sì perché mi sentivo presa in giro, però questa modalità che si ripete… all’inizio pensavo che potesse essere una cosa fatta apposta. Non lo vivo come un attacco nei miei confronti, per quello non sento rabbia: perché mi dovrei arrabbiare? Perché lo potrei sentire come una mancanza di rispetto, come un attacco a me. Invece non lo sento così.
Non lo sento così. Poi mi ha talmente colpito questa cosa qui, quando mi ha addirittura
parlato con due toni di voce completamente diversi e sono rimasta lì, vi giuro, ma con due timbri completamente diversi, come se stessi parlando con due persone. Non era lei alterata, era un’altra persona. Io ho fatto fatica a riconoscerla.
Ho dovuto chiederle: è la signora…

(risate nel gruppo)

A4: Di fronte a qualsiasi cosa che si dice, tu rimani ferma. L’unica cosa che mi ha colpito è quando hai detto: “mi immobilizza quando lei si arrabbia”.

P: Sì, lei diventa aggressiva, non è che si arrabbia.

A4: Però ti blocca.

A5: Quando hai suscitato la rabbia più forte dall’altra parte è che lei ha detto: ok, siamo tranquilli perché altrimenti, se io rispondo sullo stesso tono, chissà cosa scateno. quindi lei, secondo me, ha paura di questa cosa qui.

A6: Poi chiede sempre i soldi e la paziente non glieli dà, quando non li chiede lei la paziente la paga.
Cioè è la paziente proprio che dirige il gioco.

P: Non è vero che chiedo sempre i soldi. È capitata una volta, quella volta che non ho detto niente,
io ho preso la cartellina e me li ha dati. Non glieli ho mai chiesti. Quando è stato lo scadere, io ho preso la cartellina e lei mi ha detto: “Le devo qualcosa?”

A6. È non li aveva. E la volta che non glieli hai chiesti lei te li ha dati.

A7: C’è un parallelismo tra l’aggressività della paziente che tu descrivi e un tuo comportamento che io sento un po’ aggressivo: quello di telefonare e di voler entrare a forza nella sua vita privata. Un po’ io la vedo un’aggressività da parte tua. Prima ancora…

P: vuoi dire che la mia incazzatura la manifesto telefonandole?

A7: Sì.

P: potrebbe essere una traccia. Però, giuro, quelle telefonate li mi lasciano… spiazzata!… Lo giuro, quando ho messo giù giovedì ho detto: “non lo farò mai più. Comunque rimango lì come un pesce lesso.
Però, questa aggressività che sento da lei, non mi fa arrabbiare quando fa queste cose qua. Però forse non è neanche tanto vero: perché poi passo la giornata a dirmi: “ma guarda quella stronza che non è venuta per l’ennesima volta, mi pianta lì, fa finta di niente, poi: dottoressa Rossi chi, insomma mi
sembrano troppe.

C: E che cosa ci fa lei con tutta questa rabbia dentro?

P: Non ci faccio niente, la chiamo però… quando ce l’ho davanti, adesso venerdì prossimo ce l’avrò davanti,…

C: Può servire invece metterla qui la sua rabbia?

P: Probabilmente me la suscita, però io non le rispondo.

C: Va benissimo, il problema non è rispondere arrabbiati ad una paziente. È cosa ci fa con l’incazzatura che ha dentro. Perché o riesce a dispiegarla, a scioglierla, o altrimenti la fa agire in quella relazione, non riesce a risponderle con tranquillità pur avendo mille ragioni da porre. Finché è così incazzata, non può neanche porle bene il problema.

P: Però io adesso sento la necessità di porre la questione in seduta.

C: Certo! Benissimo! È importante però porre un tema così importante in una maniera chiara e non da incazzati. Non c’è nulla da incazzarsi. Mentre si sente che dentro è arrabbiata.

P: È lì il bello, è lì che non capisco perché invece nella mia vita privata, con i miei genitori,
con i miei amici, non me la tengo dentro l’aggressività.

C: Vuol dire che riesce ad esprimerla?

P: Sì, sempre. Non mando giù. Se succede qualche cosa che mi tocca, che mi turba, che mi ferisce;
mio padre, mia madre, mio fratello… io tirò fuori sempre il tutto. È per quello che non riesco a capire: sembra che io sia stata abituata così, che abbia sempre paura che gli altri mi aggrediscono. Invece io sono una che aggredisce anche. Però lì dentro non so di che cosa ho paura. È per quello che rimando tutto ad una mia insicurezza sul piano… lì dentro, in quella stanza lì. Ho paura di rispondere ad una persona che magari poi mi metterebbe a Ko lì dentro.
Perché muore non è assolutamente così.

C: Che tipo di kappaò immagina di poter avere lì dentro?

P: Nel senso che questa persona mi potrebbe rispondere in maniera aggressiva e io poi soccomberei,
non so bene perché. E poi non riuscirei a comportarmi come invece dovrei comportarmi, rimandando le mie sensazioni, rimandando le mie cose. È come se io lì dentro tenessi tutto calmo. Tutto sotto controllo.
Come se placassi questa cosa. Perché le volte che ho provato a dirle qualche cosa e a domandare qualcosa
e poi vedermelo rimandare contro così, il più delle volte non sono riuscita poi a sostenere questa cosa.
È penso che derivi molto dalla mia insicurezza lì dentro, so quello che è il mio ruolo, so quanto sono capace di fare quel lavoro li. Penso che sia tutto lì. Io fuori non sono così: se una persona mi dice una cosa aggressiva che mi fa… non faccio finta di niente. Posso lasciar correre una cosa se non è poi così importante, pensò un po’ come tutti, ma non sto lì a farmi calpestare o a farmi dare addosso sacco di cose inerme e invece lì lo faccio.

C: Credo che l’ aggressività bisognerà riprenderla in mano. A questo termine viene dato normalmente una versione con una valutazione assolutamente e totalmente negativa. Personalmente non ci credo. Addirittura c’è una fase essenziale della vita, come quella di difendersi da attacchi nemici, che possediamo come caratteristiche specifiche. Però qui lei dice di provare molta paura. E’ una paura che sente anche con noi, adesso?

P: No, qui dentro mi sento sempre molto tranquilla. Perché quello che avviene in questo contesto, non so come, non lo vivo come un qualcosa di aggressivo, ma come qualcosa che viene fatto perché mi è utile, perché mi serve.

M3: Se quella persona la incrociassi fuori dallo studio, cosa faresti di diverso?

P: Cioè, se mi fosse capitato fuori…

M3: Sì, invece che nella stanza di analisi, non è una tua paziente, ti capita fuori una persona così, che fai delle cose che fa lei, come rispondi?

P: Se non è una mia paziente minimo avrei detto che comunque mi sembrava curioso che non si ricordasse mai di me, il mio nome, avrei interrogato, le avrei chiesto, avrei espresso magari un disappunto. È difficile così, su due piedi … probabilmente mi sarei sentita molto più libera.
Innanzi tutto anche solo chiedere il perché. È invece io non sono neanche libera di chiederle il perché.

A7. È proprio lì, è proprio nella stanza che vorresti chiederle il perché, ma non ti senti libera di farlo. E fuori sì.

M1: Che tipo di perché t’immagini di ricevere?

P: Da lei, in questo caso,… è così, perché, non penso ci sarebbero spiegazioni, che mi convincano,
o che mi soddisfino, non so neanche se c’è… Mi sembra una cosa, le ripeto, così strana, che fare finta di niente, di sicuro non posso continuare a fare finta di niente. Sono stufa di fare finta di niente.

M8: Non lo so, non so che cosa sta succedendo. Da una parte sembra che le stiamo segnando il percorso e va bene. Dall’altra sembra che lei non voglia venire, forse… e poi non lo so.

M9: Io vorrei spostare dall’aggressività ad un’altra domanda: che effetto di far essere ignorata?
Non considerata proprio?

P:Io sono in difficoltà a rispondere a queste cose.

M8: Se fosse così, in casa, con il tuo ragazzo, che cosa succederebbe?

P: Se lo chiami per dirgli che hai con lui un appuntamento, ti dice: “Rossi chi?”

M8: Come mai hai paura di portare la Rossi, quella che entra in relazione (sembra che fuori entri in relazione), non la riesci a portare in quello che è il lavoro. È come se tu quella Rossi lì la disconoscessi. E non la porti lì.

M10: Che idea hai del fare il tuo lavoro? Cioè, che cosa pensi che uno debba fare?

P: È lì il problema. L’altra volta mi sono detta: che cosa ti serve farti arrabbiare? La so questa cosa qua. Ma non ce la faccio. Da un lato meno male che lo so. Dall’altro è ancora peggio. Almeno non lo sapessi. Invece è tutto così.

M11: In realtà c’è automatismo, ma quello che bisognerebbe cercare è perché scatta l’automatismo.
È proprio quell’automatismo che c’è e che lei non riesce a prendere la distanza per vedere come va.

M12: A meno che effettivamente non ci sei. Perché se lei effettivamente ci fosse, se non viene fuori lì, vuol dire che ci sei-non ci sei.

M2: Ma no, ha detto che ci pensa per ore. È qualcosa il fatto che lei non si consente. Prima ho tentato di capire se c’era qualche cosa della sua storia che lo impediva. Lei non ha traccia.

P: Io sono convinta che tutto questo sviare, di non domandare, deriva dalla paura.

C: La paura che noi abbiamo, nasconde una cosa ancora più sotto. Forse che con la nostra rabbia si sconquassa l’universo? Noi non è che abbiamo paura a caso.

P: Visto che la mia aggressività riesco a tirarla fuori e so che non la temo, la so gestire, perché devo avere paura di questo finimondo, quando so benissimo che con la mia aggressività ci faccio i conti? La so anche dosare.

C: Non confondiamo l’aggressività con la rabbia; l’aggressività può essere anche molto sana, per difendersi può anche essere necessario essere molto aggressivi per non farsi schiacciare.
La rabbia è qualcosa di molto più pesante; è qualcosa che abbiamo dentro perché abbiamo talmente vissuto da impotenti delle storie, che ci siamo caricati di una tensione interna che non siamo riusciti a tirar fuori in maniera ordinata. Si ha paura di far esplodere tutto. Noi, le nostre relazioni e quant’altro. E molte volte, per non sentire questa cosa ci carichiamo di paura. Meglio sentirci impauriti. Gli animali, siccome esprimono tutto subito istintivamente, non si caricano di tutte queste cose. Noi invece siamo esseri umani. Siamo razionali, pensanti, in fondo questa sua paziente è anche abbastanza brava: tutta la rabbia che probabilmente ha la usa per svilirla. Pare che ci riesca anche bene.
Non dico che sia giusto che il paziente faccia così, ma è quasi inevitabile e non possiamo pretendere che non lo facciano. Il problema è che quando lo fanno dovrebbero trovarci noi preparati affinché queste cose non ci martirizzino e non ci facciano scoppiare noi.

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