La conoscenza di sé -Discussione tra colleghi

Domenico Marcolini pone la domanda sul senso “politico” che può avere l’essere andati a Spetses per discutere della conoscenza di sé dal punto di vista filosofico.
Alla sua prima risposta, che condivido nella sostanza, non ho nulla da aggiungere.
Alla seconda domanda, ben più gravida di conseguenze per il nostro mestiere, cerco di esprimere, sia pure con la sintesi che richiede un intervento di questo tipo, quella che mi ritrovo essere il filo conduttore della mia personale ricerca.
Per me, il Ruolo Terapeutico, per come struttura e affronta i suoi momenti formativi, è una comunità di persone che fanno il mestiere di terapeuti (non solo quindi di psicoanalisti).
Certo, come persona affronto lì solo un pezzo della mie tante identità, nella comunità Ruolo esprimo parti di me che non esprimo in altre comunità di cui pure faccio parte (per es:con mio figlio e i miei famigliari non faccio il terapeuta), così come credo facciamo tutti.
Ma non trascuro il fatto che ogni identità che posso essere è dentro la mia persona.
La questione che pongo quindi è: chi siamo e che senso diamo a quello che facciamo quando svolgiamo il nostro mestiere?
C’è qualcuno, dopo Spetses 2007, che aborre sentir dire che noi siamo anche esseri spirituali?
Possiamo concordare che la vita umana ha un senso e un respiro pieno e che non può essere ridotto in nessun modo a singole discipline o credenze?
Psicoanalisi e filosofia sono discipline, le religioni sono credenze.
Può essere che questo senso sia più grande di ogni singola disciplina o credenza?
Ogni credenza tende ad escluderne altre, ma ogni esclusione è già una mancanza nel cammino della comprensione della nostra totalità umana.
Mi iscrivo al partito immaginario di quelli che sono sicuri che al mondo siamo tutti credenti.
Non conosco nessuno che non abbia una qualche forma di credenza, compreso quelli che sono perfettamente sicuri di non credere in nulla.
Non credere in nulla è anch’essa una credenza. Si può parlare e discutere anche con chi ha una credenza così?
Assolutamente si, non meno che con chi si dichiara religioso e sostiene che c’è Dio, e al quale da il nome che la propria cultura gli ha trasmesso.
Domenico scrive: ” C’è forse, nell’introdurre un campo di ricerca come quello proposto a Spetses,
una dichiarazione, più o meno esplicita di insufficienza rispetto alla verità con la v minuscola che può offrirci la psicoanalisi nel bisogno di una Verità con la V maiuscola, quali quelle che possono indicarci discipline quali la filosofia, la ricerca spirituale o la religione?”
Faccio mie, e quindi non ripeto, le considerazioni che Erba cita a proposito di Terzani.
Mi pare di poter dire anche che ogni credenza è una verità con la v minuscola.
Finché siamo vivi credo che continueremo a cercare la V maiuscola perché siamo in permanente trasformazione e cambiamento. Dove cercarla? Credo vada bene tutto, perché si parta da noi stessi.
Finché viviamo credo ci dobbiamo accontentare di viaggiare con la v minuscola.
Domenico mi pare che dica essergli sufficiente accettare e riconoscere l’inconscio che la metapsicologia freudiana pone a fondamento della cura di sé.
“Svelare il sintomo come tentativo di salute. Non basta e avanza?”
Se a Domenico basta è comprensibile che non abbia bisogno di altre discipline o credenze per la cura di sé. Altre cose possono essere pure perdite di tempo.
Ma se non fosse così per altri? Se altri non fossero per niente convinti che la psicoanalisi fosse sufficiente? Io sono tra quegli altri.
Il paziente di Roberta Giampietri ce lo ricorda. C’è qualcosa di irriducibile al già noto, alla nostra mente, qualcosa che nel nostro prenderci cura di noi pone una ricerca che trascende anche la mente, anche quella esentata da qualsiasi psicopatologia (se pure esiste una mente simile).
Ignorarlo non ci aiuta a far meglio il nostro mestiere, anzi, ci può mettere anche in difficoltà nella relazione col paziente.
Com’è possibile saturare la ricerca di qualcuno quando dovremmo badare solo alla nostra ricerca?
Possiamo praticare una filosofia al servizio della libertà nostra e dell’altro?
La nostra concezione della vita opera, consciamente e anche inconsciamente, perfino in che cosa prestare attenzione nella relazione col paziente. Potrebbe essere in un altro modo?
La concezione scientifica della psicoanalisi che sottolinea Domenico la trovo totalmente antistorica.
Come Popper ha abbondantemente dimostrato, la psicoanalisi non centra niente con la scienza, visto che adotta metodi e tecniche non misurabili. Perché continuare a inscriverla in un registro come quello scientifico che addirittura la impoverisce?
Mi pare che, nelle sue varie formulazioni, la psicoanalisi abbia sviluppato metodiche e tecniche che vanno ben al di là della scienza, a dimostrazione che con la scienza non c’entra niente.
Al Ruolo ogni tanto si discute proprio di “senso” delle vicende della vita. In uno di questi sono rimasto coinvolto da una collega nel dire qualcosa attorno al “senso” della morte. Trascrivo ora quello che ho scritto a lei, poiché non ho ritenuto allora di entrare nel carteggio che era iniziato, non ne avevo il tempo ne materiale ne mentale.
Adesso penso possa essere di qualche utilità nelle riflessioni che pone Domenico.

“Cara …, grazie di avermi coinvolto. Ho riletto più volte la tua bozza di contributo al dibattito che hanno iniziato …, bravissimi, e che proseguono con la mail di venerdì.
La tua riflessione è certamente utile. Io non mi preoccuperei se il dialogo va su e giù, il tema lo consente e quasi lo impone, visto che parliamo di qualcosa che è nella nostra testa ma non nella nostra esperienza totale. Parliamo della morte da vivi, quindi nessuno l’ha sperimentata personalmente. Se fossi in te quindi la manderei come contributo, e poi vediamo che riflessioni suscita.
Se mi chiedi cosa ne penso io di quello che stiamo discutendo, non mi ritrovo in molte affermazioni che anche tu sostieni.
Detto con la massima semplicità che sono capace di esprimere ora, credo che l’analisi di Benasayag sia corretta se riferita in termini sociologici nella cultura occidentale, ma sbagliata se riferita alle persone in carne e ossa.
Di questa crisi le persone in carne ed ossa anche nella nostra cultura ne fanno cose diverse. Non se ne stanno tutte resistenti alla depressione e silenziose, qualcuna cerca, e magari trova, pure un sentiero o un viottolo su cui incamminarsi, qualcuno utilizza piccole strade già costruite da altri e qualcun altro viaggia addirittura in autostrada.
Personalmente sono per i sentieri, mi sono più congegnali.
Sulla laicità che è espressa da … non mi ritrovo. Mi ritengo una persona religiosa e laica, come ritengo lo siano tutte le altre persone, comprese quelle che non si sentono nessun credo in loro stesse. Per me laica è una persona che non appartiene allo stato ecclesiastico.
Anche nella chiesa cattolica laico è contrapposto a chierico, per sottolinearne l’estraneità alla gerarchia ecclesiastica.
Una cosa è dichiararsi laici, un’altra è dichiararsi atei.
Molta confusione regna anche sulla religione. Una cosa è dichiararsi religiosi, un’altra è dichiararsi confessionali, cioè appartenenti ad una confessione religiosa definita.
Per esempio, io sono sicuramente cristiano perché sono impregnato di cristianesimo fin dalle origini della mia vita, poi sono nato in una terra intrisa ancora d’animismo e naturalismo, poi ho scoperto Dio nella meditazione di stampo induista.
Non sono buddista, non mi convincono alcuni sue questioni, però concordo col buddismo che le cose esistono solo perché sono relazioni. Sono le relazioni che costituiscono le cose.
Potrei andare avanti, ma quello che voglio dirti è che il mio essere laico mi consente di non sentirmi superiore ne inferiore a un’altra posizione.
Se l’altra posizione la trovo migliore della mia non faccio fatica ad appropriarmene.
La prossima volta continuo a vivere (anche la ricerca) da una posizione più avanzata.
L’orgoglio è una brutta gatta da pelare (detto da un orgoglioso mediterraneo, pensa tu!) se, invece di rivendicare la propria dignità, sostiene che la propria è l’unica verità.
Questa dell’unicità così posta da te, … è per me incomprensibile. Negli esseri umani il fare “da soli” è un’illusione onnipotente, perché soli non siamo mai stati ne mai lo saremo.
Almeno le nostre relazioni interne ci abitano dentro. Molto ci fanno crescere e molto ci fanno anche ammalare, cosa che ben sappiamo nel nostro mestiere.
Per finire, spero che la tua personale fatica si attenui se ti rendi conto che il tuo bisogno di essere riconosciuta non deve aspettare la verità ultima ma parte dalle tue verità parziali.
Perché le verità parziali (vero e giusto) non possono essere un riflesso della verità ultima? La ricerca non finisce mai, vale per te che cerchi e vale per me che cerco oltre quello che ho finora trovato.
Io so di non aver trovato niente se non incontro anche te che cerchi, perché ho in comune con te la mia umanità ed io ho bisogno di condividerla con te non meno di quanto tu hai bisogno di condividere la tua.
Questa è la mia religiosità. Non è superiore a nulla. Solamente è.
Con la speranza di esserti stato d’aiuto, ti mando un caro abbraccio, Paolo.”

Chiudo raccontando un episodio di vita che è stata per me la più alta lezione di filosofia .
Tanti anni fa ero in cammino in un sentiero dell’Appennino Ligure, credo nella zona del monte Saccarello. Mi attendai per la notte vicino a un vecchio capraio che controllava il suo gregge al pascolo seduto sopra un tronco caduto.
C’era ancora molta luce ed avevo voglia di parlargli, era la prima persona che incontravo dopo giorni che non avevo incontrato nessuno. Parlava un misto di dialetto ligure e di lingua italiana, era andato a scuola solo in prima elementare e non sapeva leggere e scrivere.
Dopo un poco di tempo passato a parlare del più e del meno, cominciai a chiedergli qualcosa di più personale e mi raccontò un poco della sua vita.
Mi raccontò della sua vita ormai solitaria, aveva perso prestissimo la moglie e si era cresciuto i due figli da solo, poiché non aveva più nemmeno i suoi genitori che potevano aiutarlo. Una vita di stenti anche fisici, perché gli mancava anche un braccio che aveva perso durante un bombardamento.
Verso i venti anni i due figli gli erano morti, uno per un incidente e un altro per malattia. Mi parlava di tutta questa sua vita con tono tranquillo, per niente rassegnato. Quando gli chiesi come mai era così tranquillo con tutto quello che gli era capitato mi rispose che la vita era anche così, a lui era capitato così e l’accettava. Ringraziava di essere vissuto e di vivere anche se non era andata al massimo. Ricordo che allora pensai quanto era sfortunato.
Quando mi viene in mente oggi quello che mi disse allora mi viene ancora da commuovermi al suo messaggio. Nessun libro mi ha mai trasmesso niente di più profondo.

Allo stato, non sono in grado di dire di più, né meglio di così.

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