L’amore malato

                                                         

Confesso subito che sono molto contento quest’anno che non siamo così tanti come è stato l’anno scorso, e mi riferisco al precedente convegno che abbiamo tenuto al liceo Piga.

Normalmente gli organizzatori si lamentano perché le sale non si riempiono di pubblico, mentre io sono più contento di avere sale semipiene perché così le persone si sentono più autorizzate a intervenire, a porre domande e a fare le loro riflessioni.

Ci si può parlare, perché le sale troppo piene non consentono più di tanto una discussione libera e serena.

Qui le persone si possono più agevolmente far sentire e far vedere, anche perché i temi che tratto non si prestano facilmente a un pubblico troppo numeroso.

Non sono temi e problemi da stadio calcistico.

Si tratta di temi abbastanza specialistici,  e anche se riguardano tutti voi, non è che ci sia bisogno di una particolare condizione sociale o psichica delle persone, si tratta di andare ad approfondire alcune vicende umane e troverete tante cose che vi riguardano.

Molte persone spesso vogliono semplicemente sentirsi dire delle cose che possano incuriosirle e noi non credo che oggi faremo questo.

Ascolteranno cose che normalmente non si dicono.

Perché quest’anno abbiamo voluto portare questo tema dell’amore malato? 

Forse perché è un tema abbastanza facile da definire è molto più difficile da praticare? 

Intanto partiamo da un assunto: noi ci siamo perché esiste l’amore. 

Non parleremo dell’amore in termini generali, ma di quella che è l’esperienza clinica dell’amore. 

Io faccio il mestiere dello psicanalista e mi occupo di quella parte dell’amore che porta più che altro sofferenza nella vita delle persone.

Nel mio studio entrano persone che sono vittime di questo tipo di amore, di un amore non evolutivo. 

Perciò l’ho chiamato malato.

Soprattutto mi preme presentare questa cosa in termini clinici, affinché nessuno si metta in mente che siamo qui per colpevolizzare i nostri antenati, genitori , nonni,  oppure addirittura noi stessi di  queste cose.

Anche se siamo tutti responsabili della nostra vita e di tutti fenomeni che ci accadono, non è un problema solo personale.

Siamo tutti immersi in un corpo sociale, con i suoi valori e i suoi miti, e noi diventiamo parte di questo corpo sociale con tutte le nostre qualità, le nostre abilità e quant’altro ci contraddistingue come esseri unici e irripetibili.

La nostra personalità è fondata e plasmata da questo corpo sociale che ci ha fatto crescere.

Anche se il nostro mondo è fatto di tante caratteristiche che non funzionano, ma che fondano il nostro modo di essere, noi dobbiamo diventare consapevoli di tutto quello che in questo funzionamento non ci consente di vivere bene.

Diventare consapevoli anche della nostra parte inconscia.

Anche se non lo pensiamo in modo conscio, ci doniamo al mondo col nostro modo di essere.

Affronto questa parte qua però non in termini molto contemporanei.

Io fondo, il mio mestiere si svolge in termini molto relazionali, più che altro, quindi non ho nessuna particolare passione per tutta quella parte, chiamiamola così Neuroscientifica, che oggi va per la maggiore.

Le Neuroscienze sono oggi praticamente l’imperativo per tutta quella area di intervento su cui esiste molto anche la parte su cui è ancorata la farmacologia, su cui si proiettano, oppure sono indirizzate,  quasi tutte le persone che hanno dei problemi mentali.

Il neurologo, lo psichiatra, i farmaci variamente denominati, a seconda della sintomatologia che viene riscontrata e classificata nei vari manuali DSM.

Le neuroscienze sono state sicuramente una grande conquista per lo sviluppo della parte farmaceutica, perché queste ultime sono in grado di placare molti sintomi mentali.

Il problema delle neuroscienze e anche della farmacologia qual è, almeno per quanto riguarda il sottoscritto: che placano i sintomi ma non risolvono nessun problema.

Tutte le cause per cui si è formato quel problema rimane strutturalmente integro.

Aiutare le persone a stare in questa condizione , più o meno degli zombie che camminano, senza essere nemmeno consapevoli di quello che sono.

Non è una condizione che io giudico accettabile. ecco perché io non mi occupo di questa pseudoterapia, almeno dei termini con cui viene messa oggi, come se fosse  in condizione di essere  la panacea dei mali del mondo.

Il mio interesse invece è quello di dare alla persona totalmente la sua responsabilità del suo essere al mondo, quindi di come vivere, di cosa gli interessa, di dare un senso positivo alla sua esistenza,  di fargli scegliere responsabilmente il cammino che dovrà fare per affermare la sua persona.

Si tratta di attivare la vita dentro le persone, perché dentro sono spente, non di dargli dei farmaci per tenerli in quella condizione di non consapevolezza.

Io cerco di fare esattamente il lavoro opposto al farmaco: se sei spento vitalmente cerco di accendere il tuo desiderio, se invece sei già troppo acceso cerco di metterti in condizioni di usare la tua ragione per capire quello che stai facendo.

Ma non ho nessun interesse a tenere le persone in quella condizione di dipendenza.

Il mio lavoro è quello di mettere in dubbio proprio il tuo modo di essere, di fare e di pensare, perché ci stai male nella tua persona.

Non dimentico mai che questa è la condizione per cui tu sei venuto da me.

Se sei venuto da me non è certo per essere consolato rispetto alla tua condizione, ci sono altre figure per fare questo, per esempio gli amici, che ti danno una pacca sulle spalle e ti dicono “dai, tanto ce la puoi fare!”.

Anche il tuo medico di famiglia ti può aiutare con i vari farmaci che ti aiutano a sopravvivere fisicamente.

Ma io non faccio niente di queste cose.

Proprio niente,  se una persona viene da me dicendomi “Io ho solo bisogno di non soffrire”, io gli rispondo “Guardi che ha sbagliato persona, perché se viene da me sicuramente soffrirà ancora, forse anche di più di quello che sta soffrendo adesso, ma non soffrirà più da solo, e con la garanzia che quella sofferenza di cui soffre senza sapere il perché,  finalmente la capirà.

E comprendendo la quella sofferenza guardi che la può anche eliminare!

Non è obbligatorio soffrire.

Questa è la nostra condizione umana, generalmente parlando.

Quindi non mi occupo di neuroscienze, niente farmaci.

E invece do tutta la mia disponibilità ad esserci, ad accompagnarlo verso una vita consapevole.

Prima di parlare del sottoscritto, perché anch’io sono un prodotto dell’essere nato qui, dell’aver vissuto qui i primi 13 anni della mia vita e quindi di aver sofferto tutte le cose che i primi 13 anni della vita di ognuno fa scoprire. Poi, se sono qui a raccontarlo, vuol dire che tutto sommato è andata bene, non è che mi lamento più di tanto, e lo stesso potranno testimoniare anche le 2 correlatrici qui presenti.

Reputo importante la testimonianza diretta perché negli accadimenti umani, più che delle astrazioni teoriche, che pure vanno fatte, e io stesso ne parlerò, almeno dei capisaldi che ancorano il mio mestiere come professionista della salute mentale, è importante vedere che cosa uno ne ha fatto di quelle cose di cui ha sofferto.

Allora, che cosa succede nella la natura umana  per cui noi soffriamo?

La natura umana non è una qualità, non è una cosa  che noi abbiamo, ma è una contraddizione inerente al fatto stesso di essere in questo mondo.

Noi siamo quindi una contraddizione, proprio in termini letterari.

Non siamo animali, perché la nostra parte animale è largamente ridotta rispetto alle altre specie animali, perché la parte istintuale residua che abbiamo ancora è una percentuale infima delle nostre caratteristiche biologiche.

Per diventare umani abbiamo bisogno di qualcuno che si occupi di noi per lunghi anni, che ci consenta l’uso del linguaggio, fondato quasi tutto sulla parola, della capacità di manipolare gli oggetti per poter governare il nostro mondo e la nostra capacità di vivere con le abilità che acquisiamo. 

E queste sono tutte cose che acquisiamo da subito a scapito della nostra residua componente animale , perché gli animali non hanno nessun problema di ragionare sulle loro istintualità. 

Loro cacciano perché hanno fame, dormono perché hanno sonno, bevono perché hanno sete, si accoppiano perché hanno l’istinto di riproduzione della loro specie.

Tutta la loro sessualità è esclusivamente riproduttiva, cosa che è largamente tramontata del genere umano.

Tutta la nostra parte è culturalmente determinata.

In Sardegna abbiamo un certo tipo di cultura ma se fossimo nati in un’isola del Borneo avremo un altro tipo di cultura è questo è soltanto il risultato dell’influenza culturale di ogni popolazione del mondo.

Tutte le persone intelligenti si formano all’interno della loro cultura di appartenenza e quindi si capisce immediatamente che non esiste una cultura migliore di altre, che non esiste una cultura peggiore di altre.

Esistono semplicemente culture differenti.

Se qualcuna delle culture viene presentata come migliore di un’altra ciò è determinato essenzialmente dal grado di potere, molte volte di tipo militare oppure economico, quando non di tutte e due, che una cultura predominante ha su un’altra.

Noi facciamo parte, come tutti qua dentro sappiamo, di una cultura che pomposamente viene chiamata del primo mondo, quella che ha le leve economiche di potere di governo e di scambio ra le popolazioni meno sviluppate economicamente.

L’Italia, ad esempio, è tra le prime 7-8 potenze economiche mondiali, cioè di quelle potenze che hanno la capacità di spartirsi le risorse altrui partendo da una condizione di potere economico.

Ma non è che chi è all’interno dei singoli paesi tutte le parti di quel territorio sono uguali.

Qui in Sardegna, per esempio, siamo ridotti a una sotto colonia di altre parti di questo paese, di altre regioni, dati economici alla mano.

Questo è il modo con cui funzionano i rapporti di forza nel mondo moderno contemporaneo.

Una volta non era proprio esattamente così, le cose non funzionavano in questo modo perché il grado di interconnessione dei vari popoli era più ridotta e i rapporti di potere erano più circoscritti, anche se l’uso della forza ha predominato sopra tutte le popolazioni.

Quindi, noi diventiamo umani attraverso le cure affettive, l’acquisizione della parola e la capacità che acquisiamo durante il nostro processo di maturazione.

Un’altra caratteristica che ci contraddistingue rispetto al mondo animale è la consapevolezza dell’essere finiti.

Noi sappiamo che moriremo, e anche se non lo vogliamo sapere, moriremo lo stesso.

Nessuno è esente, per fortuna dico io, da questo limite temporale.

Però solo gli umani hanno questa consapevolezza, il mondo animale no.

Forse qualche animale, quando sente l’odore del sangue oppure ti sente circondato da persone o da altri animali ostili, avverte che sta per succedere qualcosa di molto pericoloso per lui, ma non ha una consapevolezza specifica che sta arrivando la sua fine.

La stragrande maggioranza di noi non sa che cosa succederà dopo la morte, e questa autocoscienza ci rende anche consapevoli di quanto siamo piccoli e soli.

Ci possono essere attorno noi 50 oppure 100 persone, ma sono 50  oppure 100 esseri con una loro testa e una loro cultura, un loro vissuto, una loro consapevolezza di essere qui.

Se potessimo entrare contemporaneamente nella testa di queste persone ci renderemo conto di come ognuno di noi vive interiormente in modo differente lo stare qui.

Avremmo tante differenze soggettive quante sono le persone coinvolte.

Quand’è quindi che nasce questa incapacità di stare bene nel mondo? 

Quando non siamo più capaci di ricomporre in una modalità evolutiva il nostro stare al mondo.

Quand’è che nasce questa nostra incapacità di amare pienamente?

Quando non riusciamo più a ricomporre in una unità emotiva quello che siamo.

Essendoci sempre questa contraddizione, la vita tende sempre ad affermarsi, soprattutto all’inizio.

I nascituri, se sono accuditi con amore alla loro nascita hanno bisogno di poco; un sorriso, una carezza, una poppata che riempie il loro stomaco di latte caldo.

E hanno bisogno di amore, hanno bisogno di sentirlo quell’amore di chi si occupa di loro.

Senza quell’amore, noi potremmo dare loro qualsiasi cosa pensiamo di possa aiutare a vivere, ma loro si lascerebbero morire.

C’è stata una tragica ricerca durante gli anni della seconda guerra mondiale, in Inghilterra, quando si erano avuti tantissimi morti a causa dei bombardamenti e delle tante tragedie in cui anche la popolazione civile era stata coinvolta e molti neonati erano stati accolti in orfanotrofi avendo avuto purtroppo i loro genitori uccisi dalla guerra.

Le poche infermiere che si occupavano di questi neonati non riuscivano a dare loro tutta l’attenzione che pure sarebbe stata importante.

L’attenzione è quell’amore che pure bisogna dargli.

Riuscivano a dargli da mangiare e a dargli quel minimo di igiene che era importante per tenerli puliti, eppure lentamente questi bambini si lasciavano andare e si spegnevano sempre di più.

La prima drammatica consapevolezza che abbiamo raggiunto in quell’orfanotrofio è che senza un’amorevole attenzione gli esseri umani non ce la possono fare, neanche a sopravvivere.

E questa consapevolezza di aver bisogno di questo dato strutturale per fortuna la stiamo raggiungendo, sia pure con fatica in questa era, più favorevole alla riflessione di cosa ha bisogno la vita per affermarsi.

Per fortuna non sempre abbiamo bisogno di raggiungere queste tragedie per capire qualche cosa, anche se nel nostro mondo vicino viviamo ancora delle autentiche stragi di intere popolazioni, minori compresi.

In queste situazioni le prime vittime sono sempre i più piccoli, anche se noi facciamo finta che queste cose, tutto sommato, non ci riguardano. 

Naturalmente saranno le generazioni successive a pagare il conto più salato.

Vi dicevo all’inizio che nella clinica terapeutica che facciamo , almeno quella che pratico io, questa malattia ha fondamentalmente tre tendenze, anche se le articolazioni dentro queste tendenze possono essere molto varie.

Mi preme presentare questa cosa in termini clinici, affinché nessuno si metta in mente che siamo qui per colpevolizzare i genitori, i nonni, il nostro stesso ambiente affettivo più largo.

Siamo tutti responsabili della nostra vita e di tutti fenomeni che vi accadono, ma non è un problema solo personale.

Siamo tutti immersi in un corpo sociale, con i suoi valori e i suoi miti e noi diventiamo parte di questo corpo sociale con tutte le nostre qualità, le nostre abilità e quant’altro ci contraddistingue come esseri unici e irripetibili.

La nostra personalità è fondata è plasmata da questo corpo sociale che ci ha fatto crescere.

Anche se il nostro mondo è fatto di tante caratteristiche che non funzionano, ma che fondano il nostro modo di essere, noi dobbiamo diventare consapevoli di tutto quello che in questo funzionamento non ci consente di vivere bene.

Diventare consapevoli che anche in maniera inconscia, anche se non lo pensiamo in modo conscio, ci doniamo al mondo col nostro modo di essere.

Affronto questa parte qua non esclusivamente in termini contemporanei.

Io fondo il mio mestiere in termini molto relazionali, più che altro, quindi non ho nessuna particolare passione per tutta quella parte della ricerca contemporanea, chiamiamola così, che oggi va per la maggiore e che possiamo chiamare neuroscientifica.

Le neuroscienze sono oggi praticamente l’imperativo per tutta quella area di intervento su cui insiste molto la farmacologia, su cui si proiettano tutte le persone che hanno dei problemi mentali. Neurologo, psichiatri, farmaci vari, a seconda della sintomatologia che viene riscontrata.

Le neuroscienze sono state sicuramente una grande conquista, molto decisiva, per la parte farmaceutica, perché sono in grado di raggiungere tutti i sintomi.

Anche di inventarne di nuovi. Gli ultimi manuali del DSM hanno una serie di morbilità più che triplicate rispetto al primo che fu prodotto.

Il problema conoscitivo delle neuroscienze, e anche della farmacologia che ne attualizza i rimedi, è che placano tutti i sintomi ma non risolvono nessun problema.

Tutte le cause per cui si è formato quel problema rimangono strutturalmente integri.

Aiutare le persone a stare in questa condizione di malattia psichica, con comportamenti che assomigliano a degli zombie che camminano, senza essere nemmeno consapevoli di quello che sono, non è una condizione che io giudico accettabile.

Ecco perché io non mi occupo di farmaci e di questa cosa contemporanea, almeno dei termini con cui viene messa oggi, quasi fosse in condizione di essere la panacea dei mali del mondo.

Il mio interesse clinico, invece, è quello di ridare ad ogni persona singola totalmente la sua responsabilità del suo essere al mondo, quindi di come vivere , cosa gli interessa, di dare un senso positivo alla sua esistenza, di fargli scegliere responsabilmente il cammino che dovrà fare per affermare la sua persona.

Si tratta spesso di attivare la vita dentro le persone, perché dentro sono spente , non di dargli dei farmaci per tenerli in quella condizione.

Cerco di fare il lavoro opposto: se sei spento cerco di accenderti alla vita, se sei troppo acceso cerco cerco di metterti in condizioni di usare la tua ragione per capire quello che stai facendo.

Ma non ho nessun interesse a tenere le persone in quella condizione psicologicamente disperante.

Il mio lavoro è quello di mettere in dubbio proprio il tuo modo di essere, di fare e di pensare, che tra l’altro è la condizione per cui tu sei venuto da me.

Se sei venuto da me non è certo per essere consolato rispetto alla tua condizione, ci sono altre figure per fare questo, per esempio gli amici, che ti danno una pacca sulle spalle e ti dicono “dai, tanto ce la puoi fare!”.

Anche il tuo medico di famiglia ti può aiutare con le pasticche che ti aiutano a sopravvivere, ma io non faccio niente di queste cose.

E se una persona viene da me dicendomi: ”Io ho solo bisogno di non soffrire”, io gli rispondo: “Guardi che ha sbagliato persona, perché se viene da me è possibile che per una fase ancora soffrirà anche di più di quello che sta soffrendo adesso, ma con la garanzia che quella sofferenza di cui soffre senza sapere il perché finalmente la capirà”.

“E comprendendola quella sofferenza guardi che la può anche eliminare”.

Non è obbligatorio soffrire.

Faccio parte di quelli che pensano addirittura che siamo nati per essere felici!

Questa è la nostra condizione umana, generalmente parlando.

Prima di parlare del sottoscritto, perché anch’io sono un prodotto dell’essere nato qui, dell’aver vissuto qui i primi 13 anni della mia vita e quindi di aver vissuto tutte le cose che primi 13 anni della vita di ognuno fa scoprire.

Poi, se sono qui a raccontarlo, vuol dire che tutto sommato è andata bene, non è che mi devo lamentare più di tanto, come potranno testimoniare anche le esperienze delle due correlatrici qui presenti.

Reputo importante la testimonianza diretta perché più che delle astrazioni teoriche, che pure vanno fatte, e io stesso ne parlerò, almeno dei capisaldi che ancorano il mio mestiere, come professionista è importante vedere che cosa uno ne ha fatto di quelle cose di cui ha sofferto.

Allora, che cosa c’è nella natura umana che ci fa soffrire?

Ci sono decine di patologie che ognuno può sperimentare, ma io cerco di ridurre i vari sintoni in tre distinte tendenze, che si possono sostanzialmente definire in questo modo qua:

  1. La tendenza più feroce è quella necrofila.

 La tendenza necrofilia significa avere sostanzialmente un amore più verso la morte che verso la vita. Se fosse una tendenza verso la vita si chiamerebbe biofilia, essendo una tendenza verso la morte si chiama necrofilia.

  •  La seconda grave tendenza è il narcisismo.

La patologia è quello di rimanere sostanzialmente narcisisti allo stato embrionale, come quando si nasce, dove tutto è ridotto a un io totalizzante, è un io che comprende anche il seno della mia mamma, è un io primitivo dove non riesco a distinguere ciò che sono io e ciò che è fuori di me.

Solo dopo parecchi mesi riesco a distinguere ciò che sono i confini del mio corpo e ciò che appartiene ad altri, che sono con me, riesco a distaccarmi e a capire che quel seno dove io trovo il latte nutriente appartiene alla mia mamma, appartiene a un’altra persona.

All’inizio il mondo è un’unità indistinta, e questa caratteristica, se non ha un evoluzione porta, di fatto, a un mancato amore per la vita, a un mancato amore per la vita degli altri. Quindi non c’è mai un amore vero per gli altri.

  • La terza grave tendenza è quella incestuosa.

Questa tendenza di rimanere attaccati in modo malato alla figura primarie, a quella materna soprattutto.

E’ una tendenza dell’essere umano dove non c’è nessuna evoluzione, nessuna indipendenza, nessun grado di libertà.

Ne abbiamo visto recentemente anche nel nostro paese di situazioni simili, adesso non è il caso di fare nomi e cognomi di questi protagonisti in negativo della loro vita, ma dobbiamo diventare consapevoli in questi problemi che sono presenti anche nelle nostra comunità.

Queste tre tendenze, necrofilia, narcisismo e tendenze incestuosa non pensate che siano tendenze di persone malate.

No, no, no! Sono presenti in tutti noi.

Nessuno di noi è esente da queste cose.

E quando dicevo che il lavoro da fare è prendere queste cose  e darle una direzione evolutiva e non regressiva.

Sta noi, all’ambiente che ci circonda, favorire una tendenza verso una direzione evolutiva oppure lasciarsi andare in una regressione infinita.

Da questo punto di vista, la cultura in cui siamo immersi ci deve dare la forza più grande.

Noi non siamo in grado inizialmente di governare queste tendenze.

C’è la cultura in cui noi siamo inseriti che aiuta a favorire la tendenza verso l’evoluzione e l’indipendenza, a rinunciare alle tendenze incestuose e imparare a stare con gli altri, a desiderare l’incontro con loro, ad amarli.

Se invece la cultura in cui siamo inseriti ci dice no, andiamo in una direzione.  

“Guarda, il mondo di fuori e cattivo, ascolta quello che ti dice la mamma e il papà, non dare retta agli altri, il mondo è pericoloso, non ti devi fidare in nulla con loro”.

Allora la direzione è esattamente opposta a quella della vita.

Quindi il mondo sociale e affettivo in cui siamo tutti inseriti è il primo responsabile delle condizioni con cui noi riusciamo a interagire nell’ambiente.

Non sono i singoli inizialmente che decidono, i singoli sono il risultato secondario.

Ci vuole una grande forza verso la vita e l’autonomia perché il singolo abbia la capacità anche di sfidare i comandamenti affettivi che riceve dalla famiglia.

La madre e il padre, ma soprattutto la madre nei primi anni della vita di un piccolo sono il faro nella vita dei piccoli.

Il bambino e la bambina capisce cosa sarebbe giusto fare.

(io qui uso soprattutto il termine maschile perché sono un uomo, se fossi una donna probabilmente parlerei più facilmente di bambine, ma questo dato riguarda integralmente maschi e femmine  questo dato non riguarda un genere specifico).

I bambini sono più vivi e intelligenti dei grandi; noi grandi pensiamo di essere più intelligenti di loro, ma no, non è così!

Loro capiscono molto prima di noi che cosa è giusto o che cosa non lo è, perché hanno questa innocenza.

Ma non hanno la capacità di imporlo, di sfidare i comandi affettivi che arrivano loro, non hanno l’autonomia sufficiente per sfidare le loro figure affettive primarie. 

Molte volte i piccoli si perdono e si disperdono.

Io, per esempio, nella mia esperienza personale, sono riuscito a dire basta all’età di 13 anni.

Ma come ho potuto dire basta?

Scappando, letteralmente.

Scappando da quella ambiente affettivo da cui pure dipendevo, anche perché era l’unica cosa che conoscevo, ma quello che era giusto o sbagliato lo capivo, e avevo messo quello che mi succedeva dal lato “è sbagliato”, quello che mi succedeva era ingiusto, e così che ho detto basta.

I bambini come me lo sanno presto, ma spesso non hanno ancora le capacità di potersi opporre più di tanto, da poter scappare.

Spero che oggi la situazione non sia così disastrosa come allora, da dover per forza scappare ai propri affetti primari.

Sì è ancora così precoci alla vita materiale che si farà molta fatica a sopravvivere. Ma spesso purtroppo so che è ancora così.

Ho preso solo appunti, non leggo nessuna relazione preordinata, anche perché mi piacerebbe che queste testimonianze avessero un dibattito con voi.

Ho usato termini che normalmente si trovano nella letteratura, e anche questa è una scelta.

Ho una concezione di questo mestiere non come un atto tecnico, ma come dare un senso alla vita.

E dare un senso alla vita, voi lo sapete come me, significa usare molti strumenti: la storia, la religione, l’antropologia, la sociologia e tanti altri campi disciplinari.

Se vogliamo davvero capire tutta la complessità del mondo in cui viviamo.

Noi viviamo in un certo tipo di mondo che crediamo evoluto, qualcuno di noi potrebbe chiedere legittimamente “evoluto in che cosa?”, visto che l’umanesimo, che pure ha avuto una sua ampia diffusione, basta pensare fino a pochi secoli fa.

Ma allora l’umanesimo aveva una sua tendenza ad affermarsi, sia pure in presenza di società molto povere.

Ma alla povertà materiale corrispondeva una grande spiritualità popolare, penso al medioevo, per esempio, che viene sempre descritto come un secolo buio.

Ma non certo dal punto di vista spirituale, visto che aveva dentro di sé una ricerca spirituale altissima da parte di tutta la popolazione, nobili compresi, spesso.

Una ricerca continua e spesso ossessiva, la chiesa favoriva oppure sfavoriva questa tendenza, anche a seconda degli interessi che voleva portare avanti.

Se siamo in Italia in un modo, se siamo fuori dall’Italia in un altro,

Ma spesso la ricerca spirituale oggi è molto diversa da allora.

Personalmente ne vedo molto poca nel nostro corpo sociale, e anche nel nostro comportamento sociale.

Vedo oggi quasi una contrapposizione tra la spiritualità di una chiesa è quella di un’altra chiesa, Quasi che fossimo ancora alla diatriba che la mia religione è migliore della tua, oppure alla sfida di chi dimostra di essere più capace di fare più proseliti, quando invece il bisogno umano di credere veramente, di aver fede, è un bisogno vitale ed epocale.

Come per i bambini.

Se i bambini non credessero che l’amore esiste, e quindi non hanno diritto di riceverlo.

È proprio la mancanza di quella fede che gli fa dubitare del senso della vita, perché la vita senza la fede non serve a niente.

Solo che noi per fede intendiamo solo l’appartenenza a una certa chiesa , ma aver fede vuol dire credere che dentro e fuori di noi ci siano le forze sufficienti per farci andare avanti nell’esistenza , per dare un senso al nostro esistere.

Se non abbiamo quello, il vivere è una cosa brutalmente solo materiale, a cui siamo a malapena disponibili ad adattarci.

Ma non è che andando a soddisfare esclusivamente i bisogni materiali che noi evolviamo.

La soddisfazione del nostro desiderio sessuale, del nostro desiderio di avere la pancia piena non vuol dire aver risolto il nostro problema della vita.

Le basi materiali sono solo quelle che ci servono per poter andare avanti col nostro corpo, non col nostro spirito.

Appena noi abbiamo soddisfatto i bisogni materiali cominciamo a sviluppare altri tipi di esigenze, quelle esigenze, appunto, di dare un valore alto alla nostra persona.

Cominciamo da uno di questi caratteri di cui ho accennato prima. 

Cominciamo dalla necrofilia.

Che cosa vuol dire?

Cosa vuol dire amare la morte invece della vita?

Non è detto che sia un carattere continuo e stabile in tutte cose che facciamo, ma ci sono persone, faccio, per esempio, il nome di Hitler.

Hitler era un uomo che amava la morte, perché qualsiasi cosa lui costruiva oppure conquistava, doveva poi distruggerla, assolutamente. E  cos’ ha distrutto anche il suo popolo.

Porto un altro esempio di necrofilia.

Il primo vi ha parlato di questo termine è stato Unamuno,

Forse qualcuno di voi ne ha già sentito parlare, Unamuno è uno filosofo spagnolo di qualche secolo fa, e lui ha usato questo termine quando un generale dell’esercito spagnolo, che si chiamava Millàn Astray, entrato in una sala del parlamento spagnolo dove si stava discutendo, ha gridato ” viva la morte”.

A quel punto Unamuno si è alzato ed ha usato queste parole: ” Ho sentito or ora un necrofilo e insensato gridare “Viva la morte”, e io che ho passato la vita a forgiare paradossi che hanno suscitato l’ira e l’incomprensione degli altri devo dirvi, da esperto autorevole, che questo paradosso grido è inaccettabile e repellente.

Il generale Millàn Astray è un menomato, sia detto senza alcuna considerazione irriverente.

E’ un invalido di guerra, come lo era Cervantes.

Sfortunatamente ci sono troppi invalidi in Spagna in questo momento, anzi ce ne sarebbero anche di più se Dio non ci desse una mano a contenere la tragedia.

Mi duole pensare che il generale Millàn Astray possa adottare il modello della psicologia di massa.

Un mutilato della grandezza spirituale come Cervantes non era solito cercare la distruzione attorno al se”.

A questo punto Millàn Astray si alzò e gridò: ” abbasso l’intelligenza, viva la morte”.

Ci fu notevole clamore e sostegno attorno a queste grida da parte dei falangisti( siamo nella guerra civile spagnola).

Unamuno intervenne e riprese:” Questo è il tempio  dell’intelletto ed io sono il suo alto sacerdote. Siete voi che profanate il suo sacro recinto. Voi vincerete perché avete più forza bruta di quanto sarebbe necessario. Ma non convincerete, perché per convincere occorre persuadere, per persuadere avete bisogno di ciò che vi manca, la ragione. Ritengo superfluo chiedervi di pensare alla Spagna”.

Ecco, io credo che i narcisisti non si amano , ma si odiano profondamente. Ma pur di non cambiare assolutamente niente di se stessi non ascoltano assolutamente qualsiasi tipo di interazione reale con l’altro, avendone anzi un timore assoluto di ogni possibile obiezione alle loro considerazioni.

Io ricordo una considerazione di Vittorio Sgarbi, ad esempio, in cui lui si lamentava che qualcuno gli ricordasse i suoi doveri patenti.

Lui obbiettava che non aveva nessuna ragione di considerarsi un padre, dal momento che quei figli gli aveva voluti la madre di turno.

Lui era esente da quella responsabilità di averli desiderati.

Questo è un esempio dell’estrema bassezza in cui un personaggio narcisista può precipitare.

Ci sono questi gradi di follia, che noi poi facciamo finta che siano normali.

Io considero il narcisismo come un’estrema regressione di una qualsiasi possibilità e capacità di amare l’altro.

Loro non possono amare nessuno, possono far finta di amare qualcuno o qualcosa, ma sostanzialmente non sono in grado, sono il contrario di qualsiasi cosa possa dare vita.

E se c’è vita, loro non c’entrano.

Si ritengono totalmente irresponsabili di questa cosa qui.

Vi  avevo accennato di una terza cosa che ha molte caratteristiche di mancato sviluppo, e parlo dell’impossibilità di diventare indipendenti, di rimanere legati ai legami incestuosi.

La persona incestuosa che si prende cura di loro ha tendenze quasi cannibaliche, anche necrofile. Mi riferisco non solo alle madri, ma tutte le figure affettive che, occupandosi dei bambini, li fa stagnare in quella condizione opprimente, non gli consente di evolvere.

Ci sono figli e figlie che anche a 30, 40 anni, se non hanno la madre o il padre sempre vicino a loro non sono in grado di prendere nessuna decisione della loro vita, e se ne prendono qualcuna che potrebbe anche immaginariamente essere contraria da parte del genitore, vanno in una crisi esistenziale.

Non riescono neanche a concepire che loro possono diventare diversi dai loro genitori.

Loro sono il proseguimento di quel cordone ombelicale che gli ha nutriti dentro il ventre materno. Anche se quel cordone ombelicale è stato fatto poi a pezzi tanti anni fa.

Questa fissazione è anche quello che poi fa sviluppare tanti altri sintomi simili; la fissazione della razza, la fissazione del gruppo, la fissazione della religione e così via.

E così si da via al fenomeno del tifo:” la mia squadra è migliore della tua, perché è la mia squadra” , “Io sono bianco e tu no, e quindi sono migliore io”. 

Il razzismo umano, tutto sommato, è il risultato di queste regressioni, di questa mancate evoluzione di sé.

Vi dicevo all’inizio che c’entra molto l’ambiente in queste formazioni d’identità.

Voglio adesso accennare alla mia formazione personale.

Io vengo da una famiglia materialmente molto povera, poverissima.

I miei genitori erano due orfani che si erano messi insieme venendo da un lavoro che allora era di servitù in famiglie benestanti, lavori di tipo para schiavistico.

Erano ragazzini e ragazzine che venivano prese e messe in una famiglia padronale, che normalmente aveva terreni e possedimenti da lavorare, case che bisognava pulire, panni da lavare e quant’altro serviva in quelle dimore.

Doveva essere un mondo molto triste e difficile.

Io sono l’ultimo di 4 figli, sono nato a 8 anni di distanza dalla prima figlia, e non ricordo nella mia prima infanzia niente di quello di cui vi ho accennato all’inizio, quello di vedere un sorriso, di avere una carezza, di avere un attenzione da parte di chi si occupava di me.

Magari ci avevano anche provato e l’avevano data all’inizio ai primi figli, ma visti i risultati che si sono avuti anche nei loro confronti temo che neanche a loro sia capitato granché di buono.

Non mi ricordo questa parte affettiva.

Io poi, essendo l’ultimo, ero quello meno soggetto ad essere tranquillo.

Come temperamento sicuramente non mi si poteva mettere lì e chiedermi distarmene buono, anzi, facevo esattamente il contrario.

E col tempo questa mia vivacità temperamentale credo che si sia così accentuata che ancora oggi si vede anche fisicamente come io sia poco propenso all’immobilità perfino corporea, mentre vi parlo come vedete mi muovo con le mani  e con tutto il mio corpo.

Il mio modo di esistere è quello di essere il più pieno possibile, non mi accontento di esistere in una parte sola, anche il mio corpo ha bisogno di manifestarsi, anche le mie parole tendono in quella direzione.

Ma evidentemente in quei tempi il mio modo di essere contrastava abbastanza con le necessità di quella famiglia.

Ho ricevuto una tale quantità di botte con quella che in quei tempi si chiamava “la zironia”, che il mio corpo ha avuto per molto tempo una serie di lividi ben marcati.

Quella forma di educazione non credo che fosse però un’esclusiva della mia famiglia, una volta i grandi ti davano una disposizione o un ordine e se tu non lo eseguivi poi si passava alla punizione.

Non c’erano molte discussioni, sicuramente.

Mio padre era un uomo estremamente violento nelle sue manifestazioni comportamentali, anche mia madre cercava di punirmi fisicamente quando diventava esasperata dalle mie tante malefatte, ma lei non ci riusciva molto con me.

Io le prendevo i polsi e lei non poteva più fare niente anche perché io ero un ragazzino abbastanza dotato dal punto di vista fisico, avevo una forza discreta già a10 anni discreta naturalmente per un bambino.

Ma queste cose in me hanno solo rafforzato la ribellione.

“Se tu mi colpisci io poi te la faccio pagare”, con quel te la faccio pagare da bambini, cioè dell’illusione di avere una capacità migliore della grandi.

In maniera più o meno ingenua, ma questo fa sentire che c’è un nucleo nei piccoli che non si arrende a un modo ingiusto di essere trattati.

Io adesso non vi so dire quanto me lo ero meritato, oppure no, sicuramente ne avevo meritate tante, ma quella modalità al di formazione alla vita credo che sia stata vissuta da me come la peggiore possibile.

Appena sono stato minimamente in grado di andarmene l’ho fatto.

Neanche oggi sono molto in grado di dirvi perché a 13 anni ho detto ho detto basta e me ne sono andato.

È vero, avevo già visto mio fratello che da piccolo era stato mandato in campagna a pascolare le pecore  ed  ancora era lì , non so con quale piacere di starci.

Certo io ero terrorizzato da questa figura paterna che non concedeva niente, né un paio di pantaloni né un paio di scarpe decenti.

Per molti anni sono andato scalzo perché le scarpe che adoperavo diventavano troppo piccole e mi stringevano le dita dei piedi. Ancora oggi ho alcune dita dei piedi, i mignoli in particolare, totalmente deformati da queste scarpe strette, adoperate per tre anni dopo che erano state costruite.

Col tempo mi sono anche abbastanza spiegato il mio carattere così difficile.

Oggi verrei tranquillamente classificato come uno dei tanti bulli che la scuola ospita.

Tante ne prendevo ma tante poi ne davo, non si salvava nessuno soprattutto i più grandi.

La mia rivalsa era sempre nei confronti dei grandi prepotenti, per cui assumevo paradossalmente il ruolo di difensore di quelli che non erano in grado di contrastare i prepotenti.

Le davo io al loro posto.

Più erano grandi e più la sfida era dovuta.

Era un bullo, come quelli di oggi, bambini terrorizzati che cercano di superare i loro traumi picchiando gli altri.

Anche se oggi se la prendono soprattutto con chi non si difende.

Poi basta che ne trovi uno che gli dice: “ guarda che a me non mi fai paura”, che il bullo gira i tacchi e ci pensa bene prima di misurarsi con quello che gli resiste.

Una cosa che mi ha molto condizionato in quegli anni era il campanaro della mia parrocchia; avevo scoperto che era più interessato a toccare il mio sedere che a insegnarmi a tirare le funi delle varie campane.

Io di questa cosa ero rimasto molto turbato, molto turbato.

Quella è stata la prima volta in cui ho sentito mia madre tutelarmi, aiutarmi.

“Non andarci più, mi raccomando, non andarci più”.

 Come se avessi intuito che quelle forme di attenzione nei miei confronti di persone chiaramente malate mi facesse male.

Ma il bambino di 8-9 anni che ero non poteva che accentuare quella carica di ribellione che sentivo dentro.

Dobbiamo diventare consapevoli che spesso basta una cosa sola, che sentiamo essere fatta intenzionalmente nei nostri confronti, perché quella cosa ci segni tutta la vita.

Un trauma infantile se lo si lascia lì non può che continuare tutta la vita ad agire e a funzionare dentro di noi, anche fino alla tarda età, anche fino alla morte.

Prima riusciamo a prenderlo in mano e prima riusciamo a superare gli impedimenti che esso ci ha arrecato.

Più non lo trattiamo più quello continuerà a funzionare, anche inconsapevolmente, dentro di noi, condizionandoci in maniera pesante le nostre esperienze, anche mature.

Il nostro cuore e il nostro corpo registrano tutto quello che ci capita, e noi abbiamo anche bisogno di condividerlo con qualcuno che ci aiuti a decifrarlo.

Personalmente tutta questa questione della sessualità mi ha condizionato non poco in tutto il proseguo del mio sviluppo, fino ai 23-24 anni ero di una timidezza assurda e assoluta.

Già affrontare e guardare negli occhi una ragazza non era proprio la cosa che mi riusciva più facile da fare.

Avere una qualche apertura con loro era fonte di grandi perplessità.

A causa di quel trauma infantile?

Sicuramente, questo l’ho capito molto dopo, durante tutto il mio percorso terapeutico.

Mi ha segnato profondamente anche i rapporti interpersonali che ho sviluppato in futuro.

Certo, sono sopravvissuto, prima un anno a Cagliari, poi a Milano e soprattutto mi ha aiutato l’incontro con la realtà politico-sociale di quegli anni, con lo studio di alcune persone particolari , Gramsci prima di tutti.

Poi impegno, soprattutto sindacale, che avevo sviluppato dopo il lavoro che svolgevo.

Ho incontrato dei veri maestri di vita in quegli anni, persone che non stavano lì a chiacchierare troppo attraverso le loro convinzioni, ma ti facevano vedere nei fatti il loro modo di operare nel mondo. Non c’è scuola migliore nel vedere l’altro che compie un’azione coerente con il proprio pensiero.

Questo è stata la formazione migliore di quel periodo di vita.

Per poter essere felici noi dobbiamo sempre ricordarci che siamo inseriti come esseri in permanente contraddizione tra quello che pensiamo e quello che facciamo,  che noi dobbiamo tentare di avvicinare il più possibile il nostro pensiero alla nostra azione, non rinunciando alla coerenza morale che sentiamo interiormente.

“Penso quello e faccio quello” è una condizione che ci rende felici con noi stessi, perché sentiamo di essere un’unità inscindibile col resto del creato.

La mia vita è proseguita per oltre un decennio con questo impegno politico sindacale che ha segnato profondamente il mio modo di intendere la vita.

Ma a 31 anni ho scelto anche di mettere fine a quella scelta iniziale, e questa nuova scelta mi ha salvato, non penso che mi abbia danneggiato successivamente, ho fatto una scelta etica rispetto a me stesso.

Se avessi continuato in quel mondo avrei sicuramente avuto dei benefici di tipo materiale, di riconoscimento sociale, di carriera.

Ma ho scelto di affermare la mia verità, quella che avevo vissuto profondamente in quel mondo assolutamente malato e falso che era la politica in Sicilia.

Ho scelto di ricominciare da capo, sono tornato a fare il fabbro per mantenermi materialmente, a studiare nel resto del tempo, mi sono diplomato poi laureato, e poi ho iniziato una nuova carriera professionale, anche se lo sento più un mestiere che una professione.

Non rimpiango nemmeno le scelte che ho fatto dopo l’impegno politico.

Ho capito che non sono adatto a svolgere attività politica, non ho nessuna capacità particolare di fare compromessi, anzi!

Per fare il politico bisogna essere capaci anche di fare compromessi e io evidentemente non sono un bravo politico.

Io rivendico la mia verità, e la rivendico anche per l’altro, non intendo la mia come esclusiva. Vedremo poi se queste due verità, o anche più di due hanno dei punti in comune per poter essere perseguite stando insieme, ma non intendo fare compromessi tra le due verità.

Sono disponibilissimo a riconoscere la verità ad ognuno e sono anche sicuro che ognuno ha diritto di perseguire la propria verità, ma questo riconoscimento non significa che la tua verità è migliore della mia e quindi ha diritto di affermarsi nei miei confronti, vedremo se riusciremo a far combaciare in maniera felice le due verità.

Qualcuno mi contesta che così io non avrò mai nessun tipo di potere.

Non sono d’accordo neanche con questo tipo di considerazione, perché l’unico potere che io rivendico è il potere di me stesso, non un potere sugli altri, non ho nessun bisogno di esercitare un potere sulle altre persone, non sono minimamente interessato a questo genere di potere, che pure oggi va per la maggiore.

Quando sono riuscito a conquistare il potere di me stesso, delle mie capacità del comportarmi in un modo coerente con quello che sento giusto, ho acquisito il massimo del potere possibile, cosa che esclude che io abbia il potere su qualsiasi altra persona.

Quello dell’ avere potere sugli altri è un qualcosa su cui la stragrande maggioranza del mondo si arrampica per dare un senso alla propria esistenza.

Magari gli altri ci dicono anche di sì, magari per convenienza, oppure perché sono immersi in quella malattia iniziale di sudditanza e di incapacità di indipendenza.

Ma l’unica verità sana è quella di riconoscerci la nostra, riconoscere la verità degli altri, rispettarle, e non necessariamente adeguarsi alla verità altrui.

Sono due verità.

Se poi l’altro mi testimonia una verità che mi conquista, io quella verità la faccio mia, non la tolgo a lui, la condivido, la faccio mia.

Ma è sua inizialmente quella verità.

Il confronto a questo dovrebbe servire, non a rimanere ognuno nelle proprie convinzioni originarie in maniera pretestuosa.

Se non c’è questa autenticità, se non c’è questo potere di noi stessi non è vero che esiste un confronto reale, esiste una messinscena in cui oggi il mondo ci mette costantemente davanti.

E questa cosa è stata duramente messa in discussione anche nella mia famiglia di origine.

Avevo 35-36 anni, ero impegnato nel lavoro e nello studio a Milano, è il naturale epilogo di quella che era la premessa iniziale si è compiuta pienamente.

La violenza che aveva caratterizzato i miei anni infantili si è materializzata brutalmente con l’omicidio di mia madre, avvenuto nella maniera più feroce possibile, perché un giorno mio padre ha preso un martello e le ha spaccato il cranio.

Lei è morta subito, lui è morto dopo 5 anni trascorsi in un manicomio psichiatrico giudiziario.

Io studiavo psicologia a Padova, psicologia del lavoro in particolare, perché ero sempre vissuto nel mondo del lavoro e credevo che quel campo fosse più vicino alle mie reali possibilità di intervento anche come psicologo.

Mancavo dalla Sardegna da più di vent’anni, ogni tanto facevo un salto di qualche giorno a trovare i miei familiari, ma non conoscevo nulla delle dinamiche che proseguivano anche sotterraneamente fra tutti i protagonisti rimasti lì.

Comunque, tutto il malessere che questo epilogo ha determinato anche in me mi ha fatto spostare il mio interesse dal mondo del lavoro al mondo intrapsichico, e così è iniziata la mia formazione alla psicoterapia, verso la parte clinica di questo mestiere, e per lunghi anni quindi mi sono immerso nel tentativo di capire come oltrepassare i tanti traumi che ho vissuto.

Paradossalmente, è stato importante per me occuparmi di mio padre dopo il suo internamento, perché in quei cinque anni che ha trascorso il manicomio mi sono occupato di lui quasi in esclusiva, nel senso che gli altri miei fratelli e sorelle non intendevano avere con lui nessun tipo di rapporto, e io invece ho scelto di seguirlo e di aiutarlo a non sentirsi abbandonato.

Inizialmente era stato internato a Napoli, che era più in carcere che un manicomio, poi sono riuscito a trasferire a farlo trasferire a Castiglione delle Stiviere, che era indubbiamente più un manicomio che un carcere.

Mio padre era sicuramente un uomo molto robusto, anche fisicamente, perché a Napoli in particolare ha preso tante di quelle botte dai propri compagni di sventura, credo che abbia pagato 2000 volte le cose che ha commesso quando era un uomo ancora libero.

Lo picchiavano per tutto, per portargli via pochi spiccioli ma anche qualche sigaretta che gli lasciavo quando andavo a trovarlo.

E quando lo andavo a trovare lo trovavo sempre con il volto pieno di sangue raggrumato, non si lavava nemmeno nel carcere, neanche il personale gli dava una mano per avere almeno un minimo di pulizia, di decoro.

Questa scelta non è stata indolore neanche rispetto al resto della mia famiglia perché per loro avrei dovuto assolutamente mollare quest’uomo e non occuparmene più, era diventato per loro una specie di reietto

E io invece non ero assolutamente d’accordo con questo tipo di impostazione.

Intanto era un essere umano, e come tutti gli esseri umani abbiamo diritto che qualcuno ci aiuti quando siamo in difficoltà.

Abbiamo diritto ad avere qualcuno che ci aiuti a vivere.

Poi sicuramente quella parte di violenza diffusa diventa anche intergenerazionale.

Io non so come erano i miei nonni, non ne ho conosciuto neanche uno, ma so che quella violenza c’era prima dei miei genitori  ed era così diffusa che è proseguita anche con altre morti e dolori in altri miei familiari, a testimonianza che quando non diventiamo capaci di elaborare i traumi questi rimangono diffusi anche nelle generazioni che verranno dopo di noi.

La mancanza di conoscenza assoluta su tutte le mie generazioni precedenti mi ha reso anche incapace di collegarmi con la storia e la preistoria dei miei antenati.

E anche questo è molto grave perché se noi non siamo in grado di essere immersi nella storia familiare e sociale che ci ha preceduto non riusciamo a capirci, non riusciamo a conoscerci.

Noi siamo una storia, siamo figli di una storia e non possiamo farne a meno in maniera innocua. Noi nasciamo figli, lasciamo figli e non dobbiamo appropriarsi di ruoli o condizioni che non sono i nostri, dobbiamo rifiutare la responsabilità che molte volte i grandi ci vogliono affidare, anche della loro vita.

Noi dobbiamo diventare grandi da figli, non essere grandi come figli.

Noi da figli abbiamo semplicemente la responsabilità di crescere per quello che sentiamo giusto dentro di noi, di curare la nostra parte vitale.

Se ci danno altro da fare è un compito che non ci spetta, ci spetta solo fare la nostra parte.

E se oggi sono qui a parlarne, devo anche dire che tutto sommato mi è andata bene.

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