Trincea e follia nella prima guerra mondiale

 

 

 

 

“La trincea divenne una nuova comunità, separata dal resto del paese, dove si viveva tra ansie, sofferenze mescolate a momenti di serenità, che potevano essere date dal canto di un uccello, dallo sguardo dato a paesaggi che in assenza della guerra, sarebbero apparsi stupendamente coinvolgenti, dalla scrittura e dalla lettura….” ( F. Tarozzi – Parole e immagini della grande guerra).

 

“Ero sfinito, ma non riuscivo a prendere sonno. Il professore di greco venne a trovarmi. Egli era depresso. Anche il suo battaglione aveva attaccato, più a sinistra, ed era stato distrutto, come il nostro. Egli mi parlava con gli occhi chiusi.

-Io ho paura di diventare pazzo, mi disse. Io divento pazzo. Un giorno o l’altro io mi uccido. Bisogna uccidersi.

Io non seppi dirgli niente. Anch’io sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l’acqua agitata in una bottiglia. “

( Emilio Lussu – Un anno sull’altipiano).

 

 

E’ esistita la follia tra i soldati al fronte?  Difficile dubitarne.

Quel tipo di follia fu certamente il risultato che i soldati in combattimento manifestarono di fronte alla sempre crescente complessità della guerra.

Soldati affamati e male equipaggiati, terrorizzati dalla vita miserabile in trincea, soggetti a ordini spesso contradditori dei loro superiori.

Ribellarsi apertamente significava finire davanti al plotone di esecuzione e allora il rifiuto di quella vita finiva per manifestarsi attraverso la malattia mentale.

Ma il numero di quelli che riuscivano a farsi ricoverare in qualche manicomio è stato esiguo. La stragrande maggioranza continuò a essere ritenuta idonea alla guerra.

Deve anche essere sottolineato che agli psichiatri militari dell’epoca sfuggivano la stragrande maggioranza dei sintomi che venivano loro mostrati.

Anche per loro era la prima volta che avevano a che fare con una guerra di trincea.

 

Eppure, ancora oggi, quando ci si impegna a definire la follia la penna esita, la scrittura si fa incerta.

Tutto quello che appariva chiaro si vaporizza in una indistinta serie di definizioni poco logiche, per niente sistematiche.

Si coglie più la parte emozionale del fenomeno, come se per definire folle qualcuno fosse indispensabile vivere i sentimenti, le paure, le varie ragioni del cuore che l’altro ci sta raccontando o mostrando col suo comportamento, magari con voce tronca e fiacca, oppure con atteggiamenti plateali..

Quindi la follia è nominare qualcosa che non si può descrivere nella sua oggettività, se non facendo ricorso alle categorie psichiatriche del modello bio medico o neuro scientifico tanto adottato dalla moderna industria farmaceutica mondiale.

Ma è quest’ultima la follia di cui parliamo? Non dobbiamo dimenticarci che nel mondo circa metà della popolazione non ha accesso a nessuna medicina di base, e quindi ancor meno a quella specialistica. Nel resto della popolazione, soprattutto nei paesi ricchi, la percentuale di chi ha una possibilità di cura di base si alza attorno all’80% delle persone.  Di queste, solo una percentuale minima è classificata con le categoria diagnostiche del DSM 6, che è già diventata la bibbia della medicina specialistica, dal momento che sono diventati patologici gran parte dei comportamenti umani.

Per ogni fatto umano c’è un’etichetta e non si salva più nessuno. Anche essere tristi eccessivamente per un lutto è patologico e ci pensa lo specialista con la pillola adatta a ripristinare il corretto funzionamento cerebrale della persona sofferente.

Nella classificazione neuro bio medica contano molto le manifestazioni esterne dei comportamenti.

Ma anche queste, a ben guardare, sono descritte da un osservatore, il quale utilizza una collocazione esterna ad un processo che non lo coinvolge se non come osservatore.

Se l’osservatore ha paura delle manifestazioni folli dell’altro, ne darà presumibilmente una descrizione negativa, come qualcosa da evitare, qualcosa di incomprensibilmente brutto.

Viceversa, chi guarda la manifestazione folle dell’altro come qualcosa che deve avere un significato umano, per quanto misterioso possa essere, è che quindi può riguardarci tutti, vivrà il fenomeno con una partecipazione emotiva che lo incuriosisce ad ascoltare con interesse, oltre l’apparente incomprensibilità.

Uno dei più grandi fenomenologi del passato, Ludwing Biswanger, che per primo ha dato una visione sistematica della follia, ha dato parole al dolore vero che la follia si trascina dietro.

Altri, studiosi, Franco Basaglia in primis in Italia, hanno operativamente dimostrato che la follia umana, rinchiusa per secoli nei manicomi da una psichiatria al servizio della paura del diverso e del deviante rispetto ai codici del tempo, è una sofferenza individuale che il resto del corpo sociale può scaraventare nella patologia più intrattabile, oppure accogliere positivamente, recuperando il senso di quella sofferenza, il diverso.

Nel tempo attuale si possono declinare, con il modello neuro bio medico, almeno due possibili sindromi.

La prima è la depressione, caratterizzata dalla massiccia presenza della tristezza e della malinconia;

La seconda è l’angoscia che può attanagliare le persone affette da sofferenza psichica.

Non sono però definizioni che si prestano a nessun tipo di assoluti.

Anche l’angoscia può avere dei contenuti “normali”, nel senso di essere presente in persone che non hanno manifestazioni patologiche.

Ma, superato un certo confine, possono apparire manifestazioni psicotiche, deliri e allucinazioni.

Quasi tutto quello che sappiamo oggi è cominciato con scritti che nascono nell’800 e nel 900, prima i Germania e poi in Svizzera.  Studiosi come Edmond Husserl o Karl Jasper hanno aperto alla comprensibilità una serie di manifestazioni umane che prima di loro erano incomprensibili.

Attualmente, ad esclusione dell’etnopsichiatria che cerca di dialogare con altre discipline e di non ridurre gli esseri umani alla cultura soltanto occidentale, i testi di psichiatria sono tesi a ridurre il problema della follia con il metodo delle neuroscienze, con l’illusione che ponendo questo modello biomedico come paradigma dominante, magari con l’aggiunta di qualche elemento psicologico.

A leggere oggi i testi di Jasper si rimane ancora affascinati dalle riflessioni cliniche che sono capaci di generare, almeno per quegli studiosi che si preoccupano di cogliere l’esperienza soggettiva dei pazienti e leggere la loro esperienza esistenziale al di là delle maschere che i comportamenti presentano.

La cura della follia attualmente è protesa alla “normalizzazione” del paziente allucinato e delirante, senza rendersi conto, invece, che il dolore espresso attraverso i vari sintomi emersi non solo va rispettato, ma ascoltato anche per ore, per giorni, senza preoccuparsi del tempo che passa.

Più il paziente parla e si sente ascoltato con partecipazione e rispetto, più l’angoscia psicotica da cui è attanagliato trova un canale di condivisione e di intelligibilità con l’altro.

Lo psichiatra Eugenio Borgna è uno che riporta molte vignette cliniche dei suoi pazienti folli per tentare di coglierne gli stati d’animo.

“E’ come una sfera di fuoco con una pelle sottile che può esplodere da un momento all’altro. Sono andato troppo in profondità ed ho toccato la parte incandescente, il vulcano che ha tentato di riportarmi nella fantasia, devo stare attento, mi basta poco per stare nella fantasia, non sono più capace di muovermi nelle cose quotidiane”.

Oppure, un estratto del diario di una paziente psicotica, peraltro molto dotata dal punto di vista creativo, Sylvia Plath.

“D’ora in poi parlerò ogni notte con me stessa, con la luna, passeggerò come ho fatto stasera, gelosa della mia solitudine nell’argenteo brivido della fredda luna che splende facendo brillare una miriade di scintille su cumuli di neve appena caduti. Da sola, guardo gli alberi scuri beatamente neutrali, molto più facile che affrontare gli altri parlare con la luna che dover sembrare felice, invulnerabile, brava.

Senza la maschera cammino con la luna, con la forza neutrale e impersonale che non ascolta ma che si limita ad accettare la mia esistenza”.

 

Come sostiene giustamente Benedetto Saraceno, a proposito della povertà epistemologica della psichiatria, è urgente tornare alla tempesta culturale e politica degli anni 60 e 70 del secolo scorso perché si è spento il grande dibattito sull’esistenza/mito/inesistenza della malattia mentale e sulla funzione normalizzatrice/terapeutica/repressiva della psichiatria.

Tutto quello che oggi non rientra nel modello biomedico è finito come metaforico.

 

 

 

Paolo Serra

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