La mutazione dello Psicologo

 

 

Tanto stimo lo scienziato Darwin, tanto disistimo i suoi epigoni.

Non solo: avendolo letto in originale, stimo Darwin non per la sua teoria dell’evoluzionismo, ossia quella cha va per la maggiore essendo di moda nei tempi attuali, teoria che sono portato a ritenere alquanto strampalata, quanto piuttosto per la sua geniale intuizione della discontinuità dei fenomeni.

In un ambiente scientifico dell’epoca, tutto focalizzato su processi continui, la constatazione empirica che potessero esistere fenomeni mutazionali suonò come un fulmine a ciel sereno.

La mutazione mette in campo un qualcosa di totalmente nuovo e differente da ciò che si poteva constatare nel passato.

L’essere derivato da una mutazione avrà certamente le proprie radici in un qualcosa di pregresso, ma ne differisce sostanzialmente.

I modelli descrittivi del pregresso cessano la loro funzione: il nuovo può essere descritto, compreso e previsto solo in termini differenti da quelli utilizzati nel passato.

É irrilevante che il nuovo soppianti o meno il vecchio: il cuore del problema é che esiste, che c’é. Poi, spesso, il nuovo soppianta il vecchio, ma non é cosa poi così certa.

Non vi dico la portata di codesta rivoluzione del pensiero: basti solo pensare alla difficoltà matematica di rappresentare e trattare funzioni discontinue.

Lo squallore degli epigoni è legato al fatto che non hanno focalizzato la loro attenzione sulla discontinuità, quanto piuttosto sulle conseguenze della medesima, specialmente quelle storiche.

In questo contesto l’evoluzione é stata assunta essere costantemente un fatto migliorativo del sistema, ed il termine “evoluzione” risultava così essere rivestito di un’indebita veste ottimistica. Ma ciò non è detto: una mutazione potrebbe anche portare ad un qualcosa che certamente potrebbe affermarsi nell’agone del divenire, ma non per questo essere più gradevole del passato. Una dittatura che si instauri con una rivoluzione é certamente una severa discontinuità, ma non è detto che non si sia caduti dalla padella nella brace.

Un nuovo essere potrebbe affermarsi e soppiantare il pregresso solo perché più feroce nel difendere la propria integrità.

L’ottimismo trasla così dall’avventa evoluzione in sé al trovarsi piuttosto nel momento giusto dalla parte giusta.

Ed usualmente ciò è quanto comunemente si ritiene.

In realtà questa visione trae origine dal fatto che, più o meno inconsciamente, gli epigoni si ritenevano il frutto terminale di una evoluzione giunta a compimento: proprio nel momento in cui postulavano il divenire si consideravano il frutto finale, cristallizzato, di detta evoluzione: la perfezione non ulteriormente perfettibile né variabile in quanto intrinsecamente perfetta.

Errore colossale.

Due esempi, che come tali dovrebbero essere recepiti.

Lenin dichiarò il comunismo “eterno” ed Hitler postulò il Reich “millenario”.

Nei fatti durarono settanta anni il primo e solo una quindicina il secondo.

Nella stessa trappola mentale sono cadute le generazioni attuali, che avevano considerato sé stesse e la società che avevano costruito il frutto terminale di un’evoluzione ottimistica.

Per esempio, ma solo per esempio, il welfare era stato assunto a paradigma di una società “evoluta” estremamente giusta, appetibile, giustamente perfetta, indiscutibile.

Una inalienabile “conquista sociale“, discrimine tra le società civili, culturalmente avanzate, e quelle ancora barbare.

Per esempio, e solo per esempio, a soldoni, non l’enclave occidentale si sarebbe dovuto adeguare a quella orientale, ma viceversa.

La tigre derivata per mutazione dalla pecora avrebbe dovuto ritornare ad essere pecora: un discorso davvero “stravagante“, termine da leggeri nel senso medievale della parola.

Vista da questo punto di vista, la nuova grande depressione in cui il mondo sta precipitando altro non é che il frutto di una mutazione del sistema.

La Weltanschauung occidentale é divenuta obsoleta, indifendibile, impresentabile: destinata solo ad essere travolta dalla realtà.

Come già aveva preconizzato Spengler, l’occidente si avvia al tramonto: lui e tutti i ghiribizzi che si era messo nella testa.

* * * * *

Di seguito riportiamo, sempre a mo’ di esempio, il caso del welfare e degli psicologi in particolare.

Mentre la figura professionale e la indubbia necessità dello psichiatra sembrerebbe essere di difficile contestazione, data anche l’alta diffusione di tali patologie, quello dello psicologo é decisamente più sfumata.

Il discrimine risiede nel fatto che mentre lo psichiatra diagnostica e cura farmacologicamente delle patologie anche molto diffuse, ossia svolge un ben definito ruolo produttivo e socialmente utile, lo psicologo non può, né dovrebbe, prestare trattamenti terapeutici, appannaggio di chi ha fatto studi medici.

A questa indefinitezza operazionale consegue che «lo psicologo rimane una professione con un fascino ancora irresistibile»: per gli psicologi, si intende.

Per gli altri é un lusso con cui potersi vezzeggiare nel periodo delle vacche grasse, da mollare in quello delle vacche magre, che di per sé stesse insegnano sapientemente cosa di debba pensare e fare.

Magari anche a lerfoni.

Così in Italia abbiamo quasi centomila psicologi, ossia uno ogni 740 abitanti, uno ogni 400 persone attive nel mondo del lavoro.

Quasi tutte donne.

Si sa che lavorare alla produzione era ed é tuttora considerato blasé.

Ed infatti «la prima e più importante trasformazione che investe il mercato della psicologia è il rarefarsi della prospettiva di lavorare nel welfare pubblico.

In passato era il primo approdo di un laureato-tipo, oggi per le politiche di contenimento della spesa pubblica e di spending review lo è sempre meno.»: in parole povere questa professione inutile ha trovato degna collocazione in un apparato altrettanto inutile, ossia quello pubblico.

E dove, se no?

Ci si pensi bene.

Chi governa l’apparato pubblico governa la gente anche tramite i suoi fedeli scudieri.

E chi meglio di uno psicologo può orientare le menti incerte?

Ma quando viene la grande depressione tutto ciò che é inutile e non più a lungo sostenibile viene eliminato, volenti o nolenti.

Adesso il problema più prosaico ma attualmente concreto.

Per quale strano motivo il Contribuente dovrebbe continuare a mantenere tali figure e professionalità?

Chi ha atteso gli studi di psicologia lo ha fatto di sua libera iniziativa e scelta: cosa c’entra la collettività perché debba farsene carico?

Dicono di essere indispensabili?

Benissimo.

Lo dimostrino nei  fatti.

Se questa asserzione si dimostrasse vera, la gente continuerà a consultarli privatamente a costo di togliersi il pane di bocca.

 

Resisterà la professione di psicologo alla spending review?

Lo psicologo rimane una professione con un fascino ancora irresistibile.

Lo provano i numeri: nel 2016 gli psicologi toccheranno quota 100 mila e comunque già siamo attorno a 90 mila, in Italia c’è all’incirca uno psicologo ogni 740 abitanti.

Anche le facoltà universitarie conservano lo stesso appeal con 50 mila iscritti.

La tendenza della professione è verso la femminilizzazione spinta, sono donne 8 psicologi su 10. Eppure nonostante il successo di critica e le adesioni gli psicologi sono costretti a reinventarsi in corsa, i vecchi ancoraggi non ci sono più e la parola che ricorre è “discontinuità”.

La prima e più importante trasformazione che investe il mercato della psicologia è il rarefarsi della prospettiva di lavorare nel welfare pubblico.

In passato era il primo approdo di un laureato-tipo, oggi per le politiche di contenimento della spesa pubblica e di spending review lo è sempre meno.

E’ difficile far conto su nuovi posti di lavoro nelle strutture ospedaliere e territoriali di salute mentale.

Secondo un’ampia indagine, che l’Ordine degli psicologi ha effettuato nei mesi scorsi, per un giovane psicologo passano in media due anni e mezzo tra la laurea e l’ingresso nel mercato del lavoro con la qualifica che gli viene dal titolo universitario.

“Il mercato è sostanzialmente fermo – sintetizza Giuseppe Luigi Palma, presidente dell’Ordine – La torta si è ristretta e sono di conseguenza diminuiti reddito e ore di lavoro”.

Il tempo di lavoro medio di un professionista è sceso di 5 ore la settimana, anche la retribuzione generale che si situa attorno ai 1.300 euro mensili risulta in calo rispetto a qualche anno fa (2008).

Secondo il professor Claudio Bosio, preside di psicologia alla Cattolica di Milano, la parola psicologo è di fatto un contenitore di percorsi professionali assai differenti tra loro.

Nei servizi pubblici lavora ancora un quarto degli psicologi, per lo più sono professionisti che lavorano all’interno di ente pubblico, nella grande maggioranza dei casi con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

L’età media di questo gruppo è attorno ai 46 anni, si occupano in prevalenza di salute e alla richiesta di autodefinirsi il 37% risponde “siamo degli psicoterapeuti”, ma una quota significativa, il 22%, più prosaicamente sostiene di essere “un operatore dei servizi socio-sanitari”.

Il secondo gruppo è quello degli psicoterapeuti, gli strizzacervelli per dirla con un termine comune. Anche loro rappresentano poco più di un quarto del totale.

Sono tutti liberi professionisti e svolgono l’attività in uno studio.   

L’età media è 45 anni e godono di un elevato riconoscimento sociale.

Il loro mercato di riferimento non è in crisi nera, tiene pur con qualche sofferenza.

Il terzo gruppo è quello degli psicologi-educatori, quantitativamente vale come i primi due.

L’età media è più bassa, sono inquadrati con svariate forme contrattuale e uno su due è un atipico.

La maggioranza lavora in ambito pubblico ma in questo segmento è forte la presenza di cooperative.

Accanto ai raggruppamenti maggiori esiste anche la piccola tribù (8%) degli psicologi che lavorano nelle organizzazioni.

Sono alle dipendenze di un’azienda e si occupano in prevalenza di lavoro e risorse umane ma anche di marketing e ricerche sui consumi.

L’ultimo gruppo è quello che la ricerca definisce lo psicologo flessibile con partita Iva (18%), parte da competenze di tipo cliniche e si muove verso materie.

La discontinuità per certi versi ha già iniziato a praticarla, è un pesce-pilota.

Libero professionista, si occupa di sostegno psicologico in svariati settori come la salute, la scuola, la formazione professionale e persino l’area giuridica.

Dalla mappa dei profili professionali emerge già chiaramente che lo sviluppo della professione potrà venire dal mercato e non certo dallo Stato accentuando una tendenza ad aprire studi privati che dal 2008 ad oggi ha già fatto segnare un +15%.

Ma attenzione, avverte Bosio, la crisi del welfare tradizionale non può lasciare un vuoto.

La professione può riconvertirsi, “persino diventare più liquida ma dobbiamo chiederci cosa vogliamo fare della salute pubblica”.

Giuseppe Sandro Mela.

 

 

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