La morte di un figlio

La morte di un figlio: una sofferenza che scava l’anima

 

 Valentina Orgiu

 

Sopravvivere, questo è quello che si cerca di fare quando muore un figlio. Anzi, il primo desiderio è morire con lui perché il dolore è talmente forte, talmente improvviso, talmente assurdo da sentirsi smarriti, svuotati, annientati. Il buco nero nel quale si è precipitati diventa sempre più profondo, la sofferenza scava nell’animo e là rimane. Per sempre.

Non c’è pace, ma solo tormento… un vuoto immenso anche quando si tenta di dare un senso a qualcosa che, invece, un senso non ce l’ha più. Chi trova conforto nella fede, chi negli amici, chi nei figli rimasti. Ma, indiscutibilmente, resta la tragedia più grande che possa capitare ad un genitore. E solo una madre e un padre comprendono realmente cosa significhi la perdita di un figlio.

 L’ELABORAZIONE DEL LUTTO. Per gli specialisti il ‘lutto fisiologico‘ si ricollega a una particolare condizione emotiva che non supera i 12 mesi. Il ‘lutto traumatico‘ si verifica, invece, in caso di perdita improvvisa, ma se le reazioni e i comportamenti assumono connotazioni psicopatologiche si parla di ‘lutto complicato’. E tutto diventa più difficile. «La perdita di un figlio è qualcosa di inaccettabile per natura, comunque arrivi», afferma la psichiatra Laura Portas. «Se l’elaborazione è un processo complesso che riguarda ogni situazione di perdita di un caro, lo è tanto più tristemente quando a fronteggiare la perdita si trova un genitore con il proprio figlio».

LE REAZIONI. Ciascuno reagisce in modo diverso perché non ci sono regole, limiti o schemi che valgano. Ci si lascia vagare senza mai approdare, senza un orientamento o un manuale che dica e insegni come fare. Ci si sente dei superstiti. Vulnerabili e disperati. La rabbia prevale: verso i congiunti, verso Dio, verso la vita stessa che prima ha dato e poi ha tolto. «È la rabbia dell’impotenza, dell’abbandono, del distacco senza motivo. È un sentimento che accompagna buona parte dell’elaborazione del lutto perché, gli essere umani, non sono predisposti a viver bene l’abbandono affettivo tanto più quando questo abbandono è definitivo e ti mette nelle condizioni di non poter più salvare niente, come la morte», spiega la psicoterapeuta.

Lucia e Luca «Ero come in trance, non parlavo, non sentivo, non pensavo. Il buio totale», racconta Lucia, madre di Luca, un bellissimo ragazzo alto due metri, morto a 30 anni per una malattia fulminante. Da quel giorno di luglio sono passati tredici anni, ma il tempo ha solo lievemente attenuato il colpo.
«Lui è vivo, sempre. Io lo vedo e lo sento, come quella notte di tanti anni fa quando mi è apparso pieno di luce, sorridente accanto alla Madonna del Divino Amore. Quando la sofferenza si fa insopportabile, mi aggrappo con tutta me stessa ai ricordi e parlo con Luca. Parlo con lui, anche ad alta voce».
Nell’enorme giardino della sua casa che sovrasta il mare, e dove da tre anni trova spazio anche un bed and breakfast a cui ha voluto dare il nome del figlio, Lucia e il marito, insieme alla sorella maggiore di Luca, hanno voluto far costruire una cappella. In quel luogo in ciottoli e cotto, così silenzioso e intimo, lei ha trascorso giorni, mesi e anni chiedendosi «perché». «La fede, la preghiera mi aiutano, certo…ma non c’è pace al mio cuore di mamma. Si sopravvive, ma non ci si rassegna. Mai».

LA COPPIA SPROFONDA. I giorni passano e l’assenza diventa presenza, costante e incessante. Si fluttua in un’altra dimensione, come se si vivesse in un mondo a parte, come se ciò che è successo potesse di colpo non esser mai accaduto. Madri e padri sono diversi anche nel dolore, quasi divisi dalla morte.
«Spesso nelle famiglie colpite dal lutto – spiega la psicoterapeuta – c’è l’incapacità di parlarne o superarlo assieme. Un coniuge non parla, non vuole più le foto, non va in cimitero, e affronta il dolore con la chiusura. Questo percorso esistenziale si rileva soprattutto nella figura paterna perché gli uomini presentano, in genere, meno strumenti emotivi per fronteggiare la sofferenza rispetto alla donna, non perché ne abbiano una colpa ma semplicemente per natura. Tutto ciò genera attriti e incomprensioni rispetto alla madre che, invece, vorrebbe parlarne, ricordare, tener vivo il ricordo del figlio, affrontare il dolore in maniera diretta mentre l’uomo tende ad evitarlo, a sfuggirlo».

SINDROME DEL SOPRAVVISSUTO. Per gli specialisti un motore ‘salvifico’ molto forte è la presenza di altri figli che potrebbe aiutare i genitori a superare il trauma diversamente da quelle situazioni in cui la morte si è portata via l’unico figlio. Ma, spesso, si sottovaluta a livello psicologico l’effetto della perdita in rapporto ai figli che restano, creandogli un problema dagli effetti più o meno prevedibili. «Il figlio che resta diventa trasparente per il genitore in termini di bisogni, di necessità di suo stesso dolore per la perdita del fratello perché la madre e il padre sono troppo presi dalla loro sofferenza, tanto da essere fisiologicamente incapaci di farsi carico anche dei membri della famiglia: il figlio diventa strumento salvifico per i genitori, ma non per sé stesso».

Michela con le sue bambine Michela, 37 anni, ha tre figlie: Patrizia di cinque anni, Gaia morta nel ventre al termine della gravidanza (proprio il giorno in cui sarebbe dovuta nascere) e Anna Chiara di 21 mesi. Da due anni, otto mesi e due settimane la sua vita è profondamente cambiata.
Come si può affrontare un tale dolore? «Non lo si affronta, ci si lascia sopraffare, ci si lascia stritolare e, infine, lo si accetta come parte di una vita molto dura». La sua forza è stata Patrizia, la primogenita. «Ma mia figlia aveva solo 2 anni e mezzo. Non poteva caricarsi di un peso così pregnante e stavo compiendo un grosso errore nel caricarla di tutta questa responsabilità. Lei cercava di rendermi felice, ma questo non è giusto. Le madri non possono gravare sui figli. Sono i figli che devono potersi poggiare sui genitori. Il contrario può avvenire solo in tarda età. E allora ho lavorato su me stessa, ho cercato un valido sostegno psicologico e, insieme, abbiamo trovato un rinnovato modo per far vivere Gaia attraverso i miei occhi e il mio cuore».

ESTERNARE IL DOLORE PER AFFRONTARLO. Imparare a sopravvivere è arduo, ma possibile. Bisogna ritrovare un senso, far spazio alla sofferenza e trovargli un posto nell’esistenza. Ed esternare il dolore è fondamentale. Poter parlare della morte di un figlio aiuta a dar un ‘significato’ alla sua prematura scomparsa. «Penso che tutti i genitori che vivono questo dramma – conclude la dr.ssa Portas – abbiano la necessità di chiedere sostegno, in particolare per ritrovare anche quei sentimenti di affetto e amore che dopo il lutto vengono come ‘congelati’. È anche legittimo continuare a cercare di generare altri figli, ma occorre evitare che diventino semplicemente il sostituto di chi non c’è più».

Simone aveva 29 anni quando un incidente sul lavoro l’ha strappato alla vita, alla famiglia, agli affetti. «Sono stata risucchiata dal dolore, un baratro», racconta Gavina, mamma anche di Antonio, di appena un anno più grande del fratello. «La mia vita non era più niente, come se fossi caduta in un pozzo e ogni giorno che passava vi sprofondavo sempre più. Vivevo questa realtà nella sofferenza più totale, non avevo ne’ interessi ne’ stimoli. Non volevo lasciarlo andare via».
Gavina con Simona e Raffaella E poi il ‘miracolo’. Due anni dopo la scomparsa di Simone, Gavina, a 54 anni, si accorge di essere incinta: una gravidanza gemellare, un evento straordinario. Oggi Simona e Raffaella hanno cinque anni, due bellissime bimbette bionde che frequentano l’ultimo anno della scuola materna. «Sono due ‘angeli’ del Signore, un regalo che mi ha fatto Simone perché lui adorava i bambini», racconta. Le gemelline l’hanno aiutata a ritrovare il sorriso, a capire che la vita va avanti. «Quando andiamo in cimitero e le vedo giocare sulla tomba del ‘fratellone’, quando gli sistemano i fiori e baciano gli angioletti di marmo, penso che tutto, inevitabilmente, ha un senso».

LA LUCE. Così è per Luca, Gaia e Simone, e per tutti gli altri figli che tante mamme hanno dovuto salutare troppo presto. Hanno riempito i loro cuori di amore e, anche se per poco tempo, hanno vissuto intensamente la loro esistenza in simbiosi con le loro madri. «Loro sono come le farfalle», dice Michela. «Hanno una vita breve, ma colorano e rallegrano l’universo. Nulla ne potrà cancellare il loro ricordo…perchè l’amore non ha bisogno di gesti esterni per potersi diffondere».

SE LA VITA NON È UN FILM. Nel 2001 Nanni Moretti commosse l’Italia con il film “La stanza del figlio”. Una storia ‘drammaticamente’ reale dove il protagonista, uno psicoanalista, e la sua famiglia affrontano il dolore per la scomparsa improvvisa del figlio sedicenne in un incidente in mare. Padre, madre e sorella si smarriranno fra la perdita, l’angoscia, il ritrovarsi e il continuare a vivere, inesorabilmente. In quella ‘stanza’ dove non si vuole più entrare si mescolano sofferenza, solitudine, rabbia, distacco.

Tutto è sospeso tra il ‘prima’ e il ‘dopo’, senza più riferimenti certi, senza sicurezze se non la consapevolezza che, il dolore, non glielo toglierà nessuno. E’ una ferita aperta e tale resterà per tutta la vita. 

 

 

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