Questo lavoro nasce da una relazione presentata ad un convegno. Mostra la mia concezione della terapia, non solo dal punto di vista clinico, ma per gli agganci teorici su cui fondo il mio operare clinico.
I nomi riportati sono di pura fantasia, così come l’età e la professione del paziente, volutamente alterati per non rendere riconoscibili il paziente stesso.
La cura di sé come premessa per la cura dell’altro.
Maria è in piedi davanti alla finestra quando vengo a prenderla nella sala d’attesa. Al mio “buonasera” non risponde, mi lancia un’occhiata furente, fa due balzi in avanti e infila la stanza d’analisi. La seguo, sperando che riesca a tradurre in parole quell’occhiata furente.
Guarda un paio di volte l’orologio che ha al polso e lo confronta col mio posto sul tavolo.
Storce la bocca.
“Ho visto un’occhiata che mi ha attraversato da parte a parte nella sala d’aspetto. Adesso vedo una smorfia sul suo viso. Forse vuol dirmi qualcosa?”.
Mi ascolta con gli occhi abbassati, non risponde, mi lancia un’occhiata di soppiatto e si accomoda nervosamente nella sedia. Ho la sensazione che se fosse seduta su una poltrona si avvolgerebbe su se stessa e mi ignorerebbe per il resto dei suoi giorni.
Forse è meglio se glielo dico, penso, se le trasmetto questa mia fantasia.
Magari l’aiuto ad esprimersi in modo più dialogante. Poi penso che però rischio anche di essere intrusivo. Le ho già detto quello che ho avvertito dopo i primi momenti del nostro incontro.
Cosa è meglio fare? Rimango così, sospeso con questa domanda.
Maria è sempre con gli occhi chini, le braccia incrociate e il corpo appena appoggiato sullo schienale della sedia.
Passano i minuti. La mia domanda “cosa è meglio fare” si tramuta poco a poco in “cosa è meglio dire”. Mi rispondo che è meglio non dire niente, avendo già detto qualcosa che attende una risposta.
Ma è giusto non dire niente nella stanza d’analisi?
Si può non parlare in una terapia fondata sulla parola?
Così pian piano si affaccia in me un “come dirlo”. Maria è sempre persa nei suoi pensieri, il suo corpo si è rilassato sullo schienale della sedia e i suoi occhi guardano un punto imprecisato della sua voluminosa gonna. Un dito scorre disegnando un cerchio immaginario e imprecisato. E’ un cerchio piccolo, copre lo spazio di un dito e tenta di allargarsi in alcuni cerchi più ampi. Ma poi il cerchio torna a restringersi in un punto definito e il dito si ferma, sospeso, nel punto immaginario.
Ho la sensazione che trattenga il respiro, che voglia rimarcare con quel dito sospeso e il respiro trattenuto una sospensione del tempo. Sento che quel dito indica qualcosa tra noi, qualcosa d’importante che sta avvenendo e di cui sono consapevole di dover attendere che mi si presenti una dicibilità. Ho anche la sensazione che quel dito rappresenta una parola sospesa e abortita.
Decido di rimandarle questa sensazione. Diventa rossa, si muove in modo scomposto, come se fosse punte da uno spillo.
Ma non dice nulla, guarda il suo orologio, guarda il mio, i 45 minuti stanno terminando e si alza.
Mi alzo anch’io. Mi guarda con il viso arrossato e mi dice “buonasera”, con un tono di voce caldo e fremente.
Per lunghissimo tempo quel “buonasera”, detto con quella tonalità, è rimasto una traccia dell’importanza che avevano per lei quei 45 minuti, silenziosi solo nelle parole verbali.
E solo dopo tanto tempo è riuscita a dirmi che per mesi tra il mio orologio e il suo c’era stato uno scarto di 4 minuti, e ogni volta che tardavo quei 4 minuti nell’andarla a prendere nella sala d’attesa per lei questo era un momento di disperazione assoluta.
Io penso che nella nostra professione di terapeuti ci capitino molte storie simili, che ci mettono a contatto con le parti più difficili da trattare in una relazione.
Da Maria mi arrivava contemporaneamente l’accettazione e il rifiuto, il desiderio di esserci e la paura che le succedesse qualcosa di orribile.
La sua storia autorizzava certo fantasie attorno a quelle paure, ma ero anche ben consapevole che il mio ruolo con lei era quello di accoglierle, di non rifiutarle, di valorizzare al massimo proprio la possibile capacità di tradurle in un linguaggio dialogante tra di noi.
Con chi, se non con noi, il paziente può portare queste parti di sé così doloranti?
Come mi sentivo quando ero investito dal torrente emotivo che mi arrivava?
Da un lato ero tranquillo. Sapevo che il ruolo che avevo con lei mi autorizzava a credere che quello che avveniva era una cosa buona. Maria aveva perso il padre all’età di 5 anni, e la presenza e convivenza con la madre da allora è stata presentata essenzialmente come distruttiva. Gli unici ricordi buoni erano quelli col padre, con il quale ricordava molti momenti di pace.
Molto tempo dopo Maria ha cominciato a verbalizzare i suoi stati emotivi che ha vissuto con me. Erano continui tentativi di riprodurre quei momenti di pace vissuti col proprio padre.
Dall’altro, i dubbi che portavo in supervisione erano molto legati a questo mio attendere, al timore che il mio essere semplicemente lì con lei senza fare ne dire niente potesse nascondere un mio vissuto di compromissione di questo rapporto, un senso di morto anche mio, oltre che suo.
Mi è di solito arrivato un incoraggiamento a stare lì con lei, a continuare a credere che finchè lei veniva in seduta questa relazione aveva un senso, misteriosa finchè si vuole, ma l’aveva.
Mi ha messo in condizioni di lavorare tranquillo in quel modo soprattutto il setting.
Il tempo della seduta, predefinito e accolto, è servito per consentire a me di lavorare con quello che avevo concordato e a Maria di fare i conti con le sue paure di essere trascurata e abbandonata.
L’importanza del ruolo che si ricopre con i pazienti non sarà mai sufficientemente valorizzato.
Il terapeuta, qualsiasi operatore delle relazioni d’aiuto, è investito, grazie alla domanda del paziente, di un ruolo di autorità.
Qualsiasi cosa il terapeuta dica o faccia è vissuto dal paziente come vero.
Sempre, anche quando il terapeuta sbaglia, lo sbaglio è vissuto come drammatico.
Il primo dovere del terapeuta dovrebbe essere proprio quello di occupare, al meglio del suo carattere, quel ruolo di cura che ha scelto di svolgere.
Credo che, quasi tutti noi che svolgiamo questo mestiere, veniamo da esperienze affettive infantili in cui la soggettiva sofferenza patita è stata in gran parte determinata da aspettative di ideali e di valori, allora inconsapevoli, che sono stati grandemente maltrattati da parte delle figure di accudimento e di aiuto che noi amavamo.
Quando c’è questo vissuto interno, esso è un grande ostacolo al pieno dispiegamento della ragione e della fiducia in noi stessi e negli altri.
I conflitti emotivi hanno un’enorme importanza nel ritardare, quando addirittura nell’impedire, lo sviluppo della capacità di usare la totalità fisico-spirituale di cui siamo fatti.
La sofferenza morale è un fatto umano. Soffrire moralmente rientra nell’ordine naturale del nostro essere e la qualità della nostra reazione alla sofferenza morale è determinata principalmente dalla capacità di porci in relazione ad essa come esseri completi, fisici e spirituali.
La conoscenza di come siamo fatti, di come funzioniamo, di come sono i conflitti consci e anche inconsci che ci portiamo nelle nostre relazioni non sono sufficienti per farci stare bene, per avere una buona modalità di vita, per assumere un atteggiamento pratico che ponga la nostra totalità di essere come base di partenza di qualsiasi azione.
Il sapere libresco e nozionistico, compreso il sapere psicoanalitico, non ci insegna nulla su come dovremmo vivere.
Saper vivere è qualcosa che dobbiamo necessariamente imparare a fare con le nostre azioni ogni volta.
Saper vivere ha a che fare, principalmente, con la capacità di mettere in accordo quello che pensiamo di essere con quello che ogni giorno realmente siamo.
Spesso le due cose sono lontane, anche di molto. Troppo spesso come terapeuti ci rassegniamo a questa lontananza, la diamo per incolmabile. Altre volte diventiamo consapevoli di questa lontananza e tentiamo di accorciare le distanze.
In questo accorciare le distanze tra un Io ideale ed un Io umano ci sono due tendenze di fondo.
La prima afferma che essendo gli ideali troppo astratti rispetto a quello che concretamente sono gli esseri umani, vale la pena diminuire l’aspettativa degli ideali e favore degli esseri umani in carne e ossa, così come sono.
La seconda afferma che gli ideali sono giusti e che sono gli esseri umani ad essere fatti male, perciò è giusto lasciare intatti gli ideali e migliorare gli esseri umani.
Personalmente sono dell’idea che le due cose sono assolutamente in mutua relazione, perciò nessun ideale o valore può essere perseguito se non è assunto da un essere umano, e nessun essere umano è tale se non persegue alcun valore o ideale.
La cura dell’uomo è di riuscire a vivere nella verità, è tentare di avvicinare la propria umanità pratica al valore ideale corrispondente, è riuscire a riparare il proprio malfunzionamento pratico rispetto alla concretezza del suo essere una creatura umana.
La nostra scelta professionale è largamente intrisa di necessità riparatrici, di questa esigenza di ripristinare nelle nostre relazioni quegli ideali e quei valori.
Questa scelta di “cura” è una scelta etica.
Quante volte siamo consapevoli di questo?
Nella mia esperienza professionale, di questa scelta etica non c’è sempre grande consapevolezza.
E’ vero, peraltro, che molte volte la formazione professionale degli operatori delle relazioni d’aiuto ha largamente sottovalutato i temi degli ideali e dei valori.
Mancando un approccio etico, c’è un fiorire di leggi, prescrizioni e norme deontologiche che accompagnano dall’esterno la nostra vita professionale.
Queste leggi, prescrizioni e norme spesso si contraddicono l’una con l’altra, mettendo il terapeuta nella posizione poco invidiabile di essere sempre in contraddizione con qualche norma esterna, qualsiasi cosa scelga.
Come affrontare, da terapeuti, queste cose?
Quale etica assumere per se stessi?
Un’etica fondata sull’autoritarismo emotivo esterno a se stessi oppure fondata sulle proprie caratteristiche intrinseche di essere umano?
A queste domande, fondamentalmente, non siamo abituati.
Ma siamo abituati, naturalmente a dare risposte a tutte le situazioni in cui ci troviamo ad interagire. Quante di queste risposte che diamo sono congruenti col nostro essere etici?
Torniamo al nostro mestiere di terapeuti.
La cura, la terapia è fondata essenzialmente sulla nostra capacità di occupare bene, nel funzionamento, il ruolo che abbiamo, capacità che ha al suo centro la qualità vitale dei nostri atti.
Che cosa ci chiede, essenzialmente, il paziente?
Che noi siamo completamente umani con lui, di aiutarlo ad esprimere meglio le proprie qualità specificamente umane (il desiderio, la speranza, la fede, la ragione, l’amore, la felicità).
Sono qualità tipicamente nostre, in cui crediamo (o dovremmo credere) perché sono queste qualità che fanno la differenza tra un’esistenza umana ed una animalesca.
Uso la parola credere, aver fede, ma potrei usare, con la stessa caratteristica etimologica, la parola “fermezza”.
Credo molto nelle fermezza dei propri principi, anche se così si è spesso accusati di essere poco moderni.
Non credo nemmeno che questa fede o credere vada intesa in maniera da confonderla con una specifica religione, anche se può comprenderla.
Conosco anche dei convinti laici che sono fermissimi nei propri principi etici.
La fermezza e la fede che ho in mente ha più a che fare col sacro, con quel senso assoluto di mistero che accompagna alcuni aspetti della nostra esistenza.
Nel lavoro terapeutico, credo che siano le nostre qualità umane che determinano fondalmentamente il successo o l’insuccesso della cura.
Se questo è vero, primo dovere etico di noi terapeuti è di lavorare con noi stessi in modo da poter tentare di diventare completamente umani, intesi come esseri che possano esprimere quelle qualità.
Se ci pensiamo, è lo stesso passaggio che ci aspettiamo che compia il paziente che è in terapia con noi.
Nell’usare la parola “qualità umane”, intendo riferirmi a quelle qualità che ho accennato prima, non al modo in cui queste qualità possono essere espresse, cioè ai nostri temperamenti personali.
Il temperamento di ognuno di noi è una caratteristica del tutto predeterminata, veniamo al mondo in questo modo.
Seguendo la classificazione ippocratica, possiamo essere collerici, oppure sanguigni, malinconici oppure flemmatici.
Se fossimo di formazione junghiana la classificazione sarebbe ridotta all’osso: introversi o estroversi.
Soggettivamente possiamo trovarci meglio nella relazione con una persona che ha un temperamento estroverso, e avere molte difficoltà nella relazione con una persona che è di temperamento introverso.
Oppure viceversa. Siamo nel regno delle preferenze soggettive.
Comunque non possiamo pretendere da nessuno, a cominciare da noi stessi, alcun cambiamento temperamentale, essendo questa una caratteristica, per quello che ne so, non soggetta a variabili affettive ed ambientali più generali.
Noi terapeuti siamo primariamente responsabili del nostro funzionamento come persone.
Ed è sulla base di questo concetto di responsabilità che poi affermiamo che l’altro da noi, la persona che ci chiede aiuto, il nostro paziente, si deve prendere anche lui la sua parte di responsabilità nel funzionamento che ha con noi.
Mi pare che il concetto del Ruolo Terapeutico che passa col nome di “fifty-fifty”abbia questo senso.
La responsabilità di se stessi, quindi. Del proprio funzionamento umano.
Del senso della vita, perché questo senso non è determinato da nessuno, siamo noi che diamo senso e valore alla nostra vita, e questo senso e valore si esprimono attraverso le capacità che mettiamo in atto.
Io credo che non possa esistere nessun reale progresso umano, né materiale né spirituale, se non si pone in gioco il proprio valore umano.
E’ attraverso questa conquista della possibilità di dispiegarsi nelle proprie potenzialità che si conquista il senso di quello che si è, del proprio posto nel creato, della propria grandezza e dei propri limiti, della propria universalità e dei propri confini, del nostro essere figli di una storia che noi stessi continuiamo a scrivere attraverso i nostri atteggiamenti e comportamenti con noi stessi e nelle relazioni con gli altri.
Questo potersi sperimentare nelle proprie qualità umane ritengo sia anche il vero antidoto a qualsiasi adattamento passivo, rispetto ai condizionamenti inevitabili che avvengono nelle relazioni che quotidianamente viviamo nella società.
Da millenni le religioni conosciute e le varie filosofie morali hanno tradotto in comandamenti e norme di comportamento quelli che sono gli imperativi etici per ogni essere umano.
Volendo ridurre all’osso questi aspetti, potrei affermare che nei principi fondamentali tutte queste norme affermano le medesime cose, ed in particolare che l’uomo deve vivere nella verità.
Poi questa verità può dispiegarsi in modo diverso a seconda della cultura di appartenenza, ma non è questo il dato essenziale.
L’essenziale è quella verità di se stessi, del proprio aver fede o fermezza nei propri ideali, nel precipitare in uno stato di malattia quando vengono violati questi imperativi etici.
Maria ha vissuto, nei nove anni di terapia con me, moltissimi di questi temi. E’ stata sempre più in grado di accorgersi di come si fossero integrate le varie parti di se, di come il mio essere un affettuoso compagno di viaggio non le togliesse la libertà di decidere la direzione della sua vita.
Oggi Maria è sposata e ha messo al mondo 2 splendidi bambini.
Il suo lavoro a tempo pieno di infermiera in un CPS le è pesato troppo, per cui da un paio di anni lo svolge a tempo parziale.
Ha giurato a se stessa di continuare ad occuparsi della cura di sé come premessa della cura dell’altro.