Il dilemma del concetto di persona

Indice

1. Una diatriba nel mondo della bioetica

2. Perchè considerare la filosofia della mente

3. Le due res e l’«invenzione della mente»

4. Dalla mente alla persona: Locke

5. Hume e la natura illusoria dell’io

6. La concezione funzionalistica della persona (o mente)

7. I personalismi e la visione sostanzialistica della persona

II. De-ontologizzazione del soggetto

8. Premessa: modificare la Weltanschauung dei filosofi

9. Destituzione del soggetto, the demolition job

10.Il rifiuto dell’introspezione

11.Un metodo «neutrale»: l’eterofenomenologia

12.L’astuzia dell’evoluzione: l’atteggiamento intenzionale

13.A just so story: lo strumento della parola

III. Cosa significa essere «persone»

14.Essere e dover essere: un riduzionismo «non avido»

15.Una nozione «intuitivamente così forte»

16.Persona metafisica e persona morale: sei condizioni interconnesse

17.I sistemi intenzionali di ordini superiori

18.Comunicazione verbale e (auto)coscienza come precondizioni per l’agire morale

Introduzione

Come il marinaio che in alto mare si trova a riparare la barca con i soli mezzi che possiede, così il padre fondatore del naturalismo contemporaneo, W. V. Quine, considerava la nostra capacità conoscitiva.

Alla stregua di quell’uomo i cui unici strumenti che ha per salvarsi sono quelli presenti nella barca, noi possediamo la scienza e da questa non possiamo “uscire”.

«Non si esce dalla scienza e dai suoi metodi: essi sono tutto ciò che abbiamo per indagare sia ciò che esiste intorno a noi, sia le nostre teorie del mondo e il linguaggio in cui le esprimiamo.

Non c’è una posizione di “esilio cosmico” in cui osservare le nostre teorie e valutarne l’adeguatezza rispetto alla realtà».

Formatosi nella scuola della filosofia analitica inglese alla fine degli anni Cinquanta, Daniel Clement Dennett aderisce a quella che sarà poi denominata la “svolta naturalistica”, inaugurata dal maestro W. V. Quine.

Filosofo della mente e cognitivista intende impiegare gli strumenti filosofici non soltanto per edificare un’opera di chiarificazione terminologica e concettuale, ma anche per commentare i risultati delle scienze empiriche, ridefinendo i concetti tradizionali dell’indagine filosofica, dal concetto di mente a quello di intenzionalità, dalla nozione di libertà umana alla responsabilità morale.

Nel presente lavoro si prenderanno in considerazione le argomentazioni che egli propone in merito alla nozione di persona, per porre in essere un dibattito su un concetto ampiamente discusso in sede filosofica e nella teologia cristiana della tarda antichità, ma che si rivela, giorno dopo giorno, sempre più attuale.
Fin dalla sua nascita il concetto di persona è stata una delle nozioni filosofiche più variamente declinate, come valore, sostanza ontologica, attribuzione di coscienza e status sociale.

In questa sede si evidenzieranno i profili di una disputa dalle radici antiche, che oggi, alla luce delle nuove conoscenze scientifiche, assume sfumature del tutto particolari rispetto alla classica definizione del concetto nel contesto dei moderni dibattiti etici.

A tal fine, la linea d’indagine scelta sarà interdisciplinare e ciò affonda le sue ragioni nell’intento di fornire un quadro non banale per interpretare un concetto così rilevante dal punto di vista morale, sociale e politico ma dalla semantica così incerta.
Nel tentativo di individuare i differenti aspetti di una nozione così ampiamente discussa, il pensiero multiforme e irrequieto di D. C. Dennett pone una sfida interessante e originale rispetto alla concezione tradizionale di noi stessi.

Da una prospettiva metafisico- mentale in linea con le scienze naturali, Dennett cerca di tracciare un continuum con il piano etico e bioetico, che nella nozione di persona assume il suo senso.
Si intende mostrare attraverso la prospettiva dell’autore come sia efficace e produttivo far sì che avvenga un’integrazione tra i differenti campi d’indagine, tra il senso “metafisico” e il senso morale, che, seppur nella particolarità dei metodi e degli scopi, risulta necessaria per avere un quadro complessivo e coerente della nozione di persona.

Se la filosofia della mente si pone il problema delle origini del mentale, ciò nondimeno ha presente la ricerca e gli sviluppi scientifici.

Da tale peculiarità della disciplina emergono differenti concezioni del soggetto che implicano argomentazioni morali riguardo alla natura delle entità coinvolte.

Attraverso un percorso che da Cartesio in poi ha incorporato la nozione di mente e di coscienza in quella di persona, e che grazie ai contributi di Locke e Hume ha dissolto lo statuto ontologico del soggetto, l’attribuzione di una mente e di stati mentali diviene fondamentale per i criteri di attribuzione dello status di persona.

La sfida delle neuroscienze e il progressivo sviluppo scientifico pongono quesiti interessanti che investono sempre di più la riflessione morale, soprattutto riguardo ai criteri di valutazione per essere persone.

Chi ha una mente?

Che cos’è una mente?

Quali entità sono persone?

La scienza può rispondere a questo genere di domande?

O ci appelleremo a «ganci appesi al cielo»?

I. Il dilemma del concetto di persona: paradigmi a confronto.

1. Una diatriba nel mondo della bioetica
Per l’avvenire vedo campi aperti a ricerche di gran lunga più importanti.

La psicologia si baserà su nuove fondamenta […] quelle della necessaria acquisizione per gradi di ogni facoltà e capacità mentale.

Verrà fatta luce sull’origine dell’uomo e la sua storia.

Charles Darwin, L’Origine delle specie (1859).
Chi non conosce il panorama contemporaneo del dibattito bioetico, potrebbe stupirsi del ruolo che il concetto di persona ha assunto nelle più svariate e controverse questioni della vita umana e animale.

In particolare, tale nozione è di scottante attualità poiché ricopre un ruolo tutt’altro che indifferente nei problemi dell’inizio e della fine della vita umana, come ad esempio nelle posizioni da sviluppare nei riguardi dell’embrione, del feto o del moribondo.
Il fervente dibattito che si è creato dipende in gran parte dai progressi tecnici degli ultimi decenni, in quanto se, da un lato, questi hanno contribuito al miglioramento delle condizioni di vita, dall’altro hanno posto nuovi problemi morali.

Infatti, si nota come la diatriba sul concetto di persona non sia un vuoto dibattito sui contenuti del concetto, ma bensì implica e coinvolge antitetiche dottrine morali.

Non si tratta semplicemente di una disputa sulla semantica della nozione di persona, ma anzi è una diatriba con sostanziali conseguenze morali, che presuppongono ognuna un diverso statuto descrittivo-cognitivo e ontologico del concetto di persona.

In altre parole, il quesito maggiore sta nel conferimento di tale status.

Tutti gli esseri umani sono persone?

Tutte le persone sono esseri umani?

Ciò che il dibattito rende confuso è che la nozione di persona, diversamente da quella di homo sapiens, non è semplicemente descrittiva, ma è compresa anche ad un livello prescrittivo, normativo, capace di avere un importante ruolo nell’attribuzione di criteri etici e giuridici, fondamentali nella nostra società.
Nel dibattito si possono rilevare principalmente due importanti scuole di pensiero, da una parte la concezione che afferma la corrispondenza semantica tra i termini “persona” ed “essere umano” e che, come corollario, dichiara che tutti gli esseri umani sono persone.

Ciò vuol dire che lo status di persona, coinvolgendo tutti gli appartenenti alla specie homo sapiens, genera una parità indifferenziata tra le diverse classi di entità umane (embrioni, feti, individui adulti, malati in stato terminale, ecc.) che si esplica in pretese e diritti etico-pratici.

Tale concezione è rappresentata principalmente da filosofi di area cristiana o teologicamente orientati, i quali sostengono l’identità e l’interscambiabilità del concetto di essere umano con quello di persona.

Per molti di questi autori l’affermazione “l’uomo è una persona” è così assiomatica da rendere il primum anthropologicum anche un primum ethicum.

Si può ben constatare come questa dichiarazione abbia importanti conseguenze a livello etico-pratico, poiché implica una relazione diretta tra l’essere umano e il possesso di diritti morali (come il diritto alla vita e il diritto all’inviolabilità del corpo).

La persona è, secondo questa visione, l’essere umano singolo e sussistente che non si esaurisce nella sua manifestazione fenomenica e, proprio per tale visione ontologica della corporeità, questa tesi è definita personalista o sostanzialista.
Dall’altra parte, in posizione simmetricamente polare, vi è la concezione che considera i termini “persona” ed “essere umano” non soltanto divergenti per intensione, ma anche per estensione. Con questo, si vuole affermare che non tutti gli esseri umani hanno i requisiti per essere persone. Tale prospettiva inaugura una serie numerosa di teorie legate alla nozione di persona, le quali hanno in comune questa assunzione fondamentale.

L’assunto essenziale che sta alla base di questa “non-equivalenza” tra i due concetti, è il fatto che l’essere umano può possedere lo status di persona soltanto nel momento in cui possiede determinate qualità e proprietà.

Da tale asserzione conseguono anche concezioni “estreme”, come la possibilità che animali e determinati artefatti siano considerati persone nel momento in cui si dimostrano in possesso di particolari proprietà.
Secondo Stefano Maffettone, è proprio la distinzione tra la titolarità della persona e l’appartenenza alla specie homo sapiens a costituire l’assunzione fondamentale per poter parlare di tematiche bioetiche o, simpliciter, di bioetica come disciplina.

Questo approccio può essere chiamato, in senso lato, funzionalista o attualista.

Ovviamente, la questione inerente alla discussione sulla nozione di persona può avere una pluralità di punti vista e non essere semplificata alla divisione tra queste due grandi scuole di pensiero.

Tuttavia, si mostra interessante, alla luce dei recenti progressi scientifici, capire come uno sfondo epistemologico-descrittivo possa influenzare il dibattito etico-pratico.
Nei paragrafi successivi si cercherà di mostrare il ventaglio di teorie contemporanee sulla nozione di persona non secondo l’ottica tradizionale ma nella linea d’indagine della filosofia della mente.
Con i termini «intensione» ed «estensione» si intende il binomio che è alla base della teoria logica del significato delle nozioni linguistiche. In breve, l’«intensione» di un’espressione linguistica è il concetto che tale espressione evoca, mentre l’«estensione» è il riferimento oggettuale esterno al segno linguistico.
Soggetto  della persona come quella del filosofo statunitense Daniel C. Dennett e della nuova avanguardia del funzionalismo, sia per aiutarci a riflettere sul clima contemporaneo che, grazie all’innovazione tecnologica, ha posto interessanti orizzonti di novità anche alla riflessione bioetica. Sarà avvincente e, allo stesso tempo, sconcertante notare come tali premesse filosofiche possano condizionare divergenti visioni nell’etica applicata.

Perché considerare la filosofia della mente

Per effetto di fortunate innovazioni tecniche la scienza della mente ha compiuto significativi passi per la sua teorizzazione.

Grazie ai progressi compiuti nello studio del cervello e delle funzioni cognitive delle creature biologiche e artificiali, è iniziata «una vera e propria rivoluzione concettuale» che ha coinvolto numerose discipline, come la linguistica, la psicologia, la filosofia, le scienze dell’informazione e le neuroscienze.

Da questi campi del sapere sono nate differenti scuole, come il cognitivismo, il funzionalismo, il connessionismo e l’intelligenza artificiale.

Per comprendere adeguatamente tali etichette possiamo considerarle “programmi di ricerca”, gruppi di teorie differenti (a volta, in competizione tra loro) e, per parafrasare Imre Lakatos, con un nucleo teoretico in comune, l’esplorazione del mentale sulla base dei recenti progressi scientifici. Possiamo permetterci una generalizzazione e considerare questo campo speculativo – e le varie etichette interdisciplinari – filosofia della mente, in quanto vi è in essa l’incontro e l’interazione tra antiche tradizioni filosofiche come la metafisica e l’epistemologia da un lato, e dall’altro aree disciplinari contemporanee come l’intelligenza artificiale.
In realtà, fin dai tempi di Democrito e Platone – per rimanere nella tradizione occidentale – esisteva una riflessione filosofica sul concetto di individuo in senso lato, tuttavia è solo oggi, grazie al disincanto dato dal metodo scientifico, che sorgono una serie di problematiche fondamentali.

Che cos’è un io?

Che cos’è la mente?

Come può la materia pensare?

La mente è il cervello?

Da dove deriva il nostro senso di individualità e di irriducibilità?

Tali domande sono al centro del dibattito della scienza cognitiva contemporanea e, conseguentemente, della philosophy of mind.
Ogni membro della nostra specie possiede un cervello, una complessa struttura nervosa grazie alla quale riesce a compiere alcune delle attività essenziali ai fini dell’esistenza.

Tuttavia tra tali attività vi sono anche quelle delle funzioni cognitive, la memoria, la percezione e l’utilizzo del linguaggio.

Quelle facoltà che denotano il fatto di avere una mente.

La nozione di mente, da Cartesio in poi, ha avuto un ruolo essenziale nella definizione di persona. In tale ottica, condizione fondamentale per avere il titolo di persona è possedere una mente, ovvero avere stati mentali, quali credenze, desideri, intenzioni che caratterizzano in modo peculiare l’essere soggetto di esperienza.

Tuttavia, la novità sostanziale che ha fatto sorgere un vivace dibattito sulle proprietà mentali, tanto da far confluire le varie teorie nella nascita di una filosofia della mente, è l’inserimento di queste proprietà distintive dell’homo sapiens nel registro delle scienze naturali.

In altre parole, è soltanto nel momento in cui la mente è considerata un concetto scientificamente valido, che abbiamo il fiorire di una scienza della mente e, conseguentemente, di una filosofia della mente, che è attenta sul piano concettuale agli aspetti metodologici e ontologici della scienza cognitiva.

La stessa espressione «filosofia della mente», formatasi nel contesto della filosofia analitica contemporanea, trae origine da problematiche legate alla scienza, come ad esempio il rapporto tra mente e cervello,
La filosofia della mente si propone di indagare la natura e il funzionamento degli atti mentali, che costituiscono ciò che noi chiamiamo “coscienza”.

Per questo, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, è strettamente influenzata dalla nascita delle scienze cognitive, che hanno la sua ragion d’essere nello studio dei processi cognitivi in generale, anche in casi di esseri non umani, come i computers, nati e sviluppati a metà del Novecento.
Per filosofia analitica s’intende non una teoria strutturata e unitaria, piuttosto una corrente di pensiero, nata alla fine dell’Ottocento, che individua nell’analisi del linguaggio, seppur con metodi e scopi differenti a seconda delle particolari teorie, un fondamentale strumento per la chiarificazione dei principali problemi filosofici.

Uno degli iniziatori di tale modo d’intendere l’attività filosofica fu il matematico tedesco Gottlob Frege (1848-1925), che fu il primo ad offrire un esempio di analisi del linguaggio rivolto alla ridefinizione di un problema concettuale, dal quale prese avvio la cosiddetta Linguistic Turn (“svolta linguistica”) che caratterizzò il pensiero filosofico del XX secolo.

Il ruolo dell’intenzionalità e la coscienza, lo statuto della psicologia di senso comune, i rapporti tra le emozioni e la ragione e altri ancora.

Non si può non notare come negli ultimi decenni tale filosofia abbia spiccato il volo, e il gran numero di «ismi», come ben suggerisce Michele di Francesco, ne è una testimonianza notevole. Le difficoltà prodotte dai recenti sviluppi tecnologici sorgono a vari livelli.

In primo luogo, l’inadeguatezza della distinzione cartesiana tra mente e corpo nel panorama di una linea di pensiero naturalista e attenta alle recenti indagini empiriche, la quale rifiuta qualsiasi tipo di intrusione soprannaturale; in secondo luogo la difficoltà di inserimento in questa cornice metodologica proprio di quelle caratteristiche che sentiamo più intimamente nostre, capaci di farci distinguere – come sottolinea il filosofo oxoniense P. Strawson – «se stesso e gli stati di se stesso da una parte e ciò che non è se stesso o uno stato di se stesso dall’altra».
Le difficoltà sono emerse quando le scienze naturali sono riuscite a proporre una migliore e più esaustiva spiegazione del reale e dei nessi causali tra i vari fenomeni.

In questo quadro, come sostiene il premio Nobel per la fisica Richard P. Feynman, «per poter spiegare ciò che accade a livello atomico, bisogna rinunciare al comune buon senso».

E non è un caso, se proprio l’«ente sui generis, che è la persona» rivesta il ruolo più ostico per intraprendere un’analisi esplicativa in termini fisico-biologici lontana dal senso tradizionale della soggettività umana.

Sebbene il dibattito sull’interiorità sia antico – fin dai tempi di Aristotele ci si interrogava sulla natura delle facoltà “mentali” – è solo in tempi recenti, grazie allo sviluppo delle neuroscienze, che si è avuto un notevole progresso sui meccanismi e sui funzionamenti che regolano l’attività cerebrale.

Ora, se i risultati conseguiti dalla scienza – in particolare scienze cognitive e neuroscienze – debbano espatriare dalle loro discipline madri e avere un eco per la riflessione filosofica rimane una questione aperta e opinabile.

Ma, è evidente che per un’adeguata riflessione filosofica e, nella fattispecie morale, della nozione di persona non possano essere esclusi tout court gli altri livelli di analisi che, grazie allo sviluppo tecnologico, si sono imposti nella riflessione contemporanea.

In particolare, il fiorire di numerose indagini empiriche mediante la scoperta di nuove metodologie, come ad esempio l’utilizzo di microelettrodi in grado di notificare l’attività di singoli neuroni oppure tecniche come la risonanza magnetica capaci di visualizzare l’attività cerebrale, per non citare gli studi sul processo di cognizione proposti dopo la macchina virtuale di Alan Turing o il modello evoluzionista del sistema cervello-mente, hanno condotto il dibattito filosofico ad una straordinaria vivacità che può essere interpretata nei termini di una controversia tra differenti teorie della persona, in quanto sono stati i progressi scientifici (in campo biologico e, in particolare, nelle neuroscienze) a mettere in crisi l’idea di una contrapposizione irriducibile tra persone e mondo “esterno”.
La sfida della filosofia della mente ruota intorno alla nozione centrale di persona e coinvolge tanto l’etica, quanto la metafisica descrittiva.

Il presupposto da cui non possiamo prescindere è che le teorie sulla nozione di persona non possono essere indifferenti alle giustificazioni morali che quotidianamente adottiamo nei comportamenti etico-pratici degli individui.

In altre parole, la riflessione sul concetto di persona non può essere condotta su binari paralleli, ma è necessaria una «integrazione concettuale» – come sostiene Sebastiano Maffettone – tra questi diversi livelli di analisi per «poter raggiungere una comprensione sistematica e coerente di un concetto fondamentale qual è quello di persona.

Da una tale integrazione concettuale trarrebbero vantaggio tanto la bioetica quanto lo studio metafisico della mente.[…] si potrebbe fornire […] una concezione ontologico-epistemologica in grado di fare da cornice alla discussione dei casi di bioetica; discussione che altrimenti potrebbe farsi frammentaria e sarebbe troppo facilmente influenzata dalle nostre personali idiosincrasie.

La nozione di persona, infatti, non può divenire veramente chiara se non affrontiamo la questione metafisica di cosa voglia dire avere una mente e di quali entità possono averla».
La necessità di coniugare la filosofia della mente alla filosofia morale e, quindi, per la proprietà transitiva anche la bioetica, è fondamentale per comprendere pienamente l’utilizzo che la nozione di persona ha nel panorama contemporaneo e nei differenti settori in cui è richiesta la sua applicazione.

Uno degli esempi sicuramente più illuminanti da questo versante è l’aborto o interruzione della gravidanza.

I termini del dibattito cambiano a seconda delle premesse che di volta in volta assumiamo per giustificare l’attribuzione dello status di persona.

E non può non essere chiaro come la riflessione filosofica sulle nuove conoscenze scientifiche (sia per quanto riguarda la biologia degli ultimi trent’anni, sia in merito all’applicazione della concezione evoluzionistica al mondo naturale e al sistema cervello-mente) possa favorire un compromesso tra le differenti posizioni.
In tale ottica, diventa fondamentale avere nuovi scenari per comprendere l’etica, per capire i processi di legittimazione delle scelte pubbliche e per riconsiderare la figura dell’essere umano nel mondo naturale.

Ma, prima di entrare nel merito delle conseguenze etiche di talune visioni filosofiche sullo statuto descrittivo del concetto di persona, si cercherà di favorire un frame delle principali intuizioni filosofiche, dove le concezioni contemporanee hanno posto le loro radici, partendo dal centro propulsore di “discordie”, il dualismo cartesiano.
3. Le due res e l’«invenzione della mente».
Per avere una maggiore consapevolezza del ruolo che le nozioni di «mente» e di «persona» hanno nel dibattito contemporaneo non si possono non prendere in considerazione le celebri tesi cartesiane della contrapposizione metafisica tra le due differenti sostanze (res cogitans e res extensa) che, nel bene e nel male, lasceranno una consistente eredità nelle teorie della soggettività posteriori.

«Tutti noi, in fondo, siamo eredi di Cartesio».

Dennett sottolinea più volte come anche nel più quotidiano modo di esprimersi (secondo i termini della psicologia comune) i residui del dualismo cartesiano siano manifesti.

É il «Mito Cartesiano», di cui parlava Ryle.

Ma perchè e come mai le celebri tesi cartesiane hanno influito così “prepotentemente” sull’immagine che noi abbiamo di noi stessi e sul nostro posto nell’ordine naturale?

Non è una domanda semplice e, soprattutto, non richiede una risposta univoca.

Ciò che possiamo stabilire è che il dualismo mente-corpo operato da Cartesio in risposta al disincanto del mondo prodotto dalla metodologia scientifica postgalileiana contribuisce alla costruzione di una certa immagine delle facoltà superiori dell’uomo contrapposta al naturalismo e, di conseguenza, a quel mondo reale oggettivo incentrato su quantità, numero e figura.

L’intento di Cartesio era proprio quello di ridefinire il nostro posto nell’ordine naturale, il nostro “io”, alla luce della svolta scientifica che relegava qualsiasi elemento antropomorfo e soggettivo in un «oscuro labirinto».

In sintonia con la visione tradizionale, aristotelica, della natura della persona, Cartesio, attraverso il suo metodo (il test del “dubbio iperbolico”), s’impegna alla dimostrazione dell’esistenza della nostra dimensione spirituale: io trovo che il pensiero è un attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. […]

Io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè una mente o un’anima, o un intelletto, o una ragione [res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio], i quali sono termini che mi erano per lo innanzi ignoti […].

Io non sono quest’unione di membra che chiamiamo corpo umano; io non sono un’aria sottile e penetrante, diffusa in tutte queste membra, io non sono un vento, un soffio, un vapore […] eppure […] io continuo ad esser certo di qualcosa […]. ma che cosa sono dunque io?

Una cosa che pensa.

E che cosa è una cosa che pensa?

Una cosa che dubita, che concepisce, che afferma e che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente.
Con queste parole nella seconda delle Meditazioni metafisiche (1641) Cartesio compie differenti passi teoretici importanti per le successive teorie della soggettività, in quanto dimostra, attraverso un argomento epistemologico, come l’essenzialità dell’ “io” – che egli identifica con il soggetto dell’attività psichica – risieda nel pensiero e possa prescindere dal corpo («io non sono quest’unione di membra che chiamiamo corpo umano»).

Ovvero, come fa notare Rorty, Cartesio trae una conclusione ontologica (l’esistenza di due sostanze distinte e rispondenti a leggi differenti) da premesse epistemologiche (la mente mi è data con certezza, non posso dubitare di avere una mente, bensì posso dubitare di avere un corpo) e tale conclusione dualistica appare intimamente coinvolta con l’esigenza di una «certezza immediata e indubitabile come base per la nostra conoscenza».
Le implicazioni delle argomentazioni cartesiane conducono non soltanto ad una distinzione tra due sostanze, una materiale ed una spirituale, appartenenti a mondi ontologicamente differenti e governate da leggi distinte – la res extensa, sostanza estesa «di cui la spazialità è l’attributo essenziale e lo spirito (o mente), res cogitans, sostanza inestesa, non spaziale»–, ma anche alla “superiorità” di una delle due sfere rispetto all’altra.

Ciò si può vedere, innanzitutto, dall’esclusione della corporeità come attributo essenziale dell’io e, in secondo luogo, è l’indubitabilità del dubitare, dell’affermare, del negare, del volere e del non volere, la base su cui Cartesio edifica la conoscenza della “vera natura” del soggetto.

Da ciò nascono ulteriori conseguenze nella storia del pensiero che porteranno ad una svalutazione della corporeità e, quindi, della materialità nei confronti di una dimensione immateriale in noi, trasparente a se stessa e fondante per la comprensione del reale. In altri termini, il soggettivo, l’atto introspettivo, prende il sopravvento sul materiale, sul corporeo.
La dicotomia che prende forma da Cartesio è di estrema importanza per un’esaustiva comprensione del dibattito sul concetto di persona, in quanto coinvolge nozioni come “mente”, “coscienza” e “spirito” sulle quali si basa, consapevolmente e non, la distinzione tra l’essere persona e il non esserlo.

Mentre la tradizione filosofica antica e medievale problematizzava il rapporto tra “noi” e tutto il resto, argomentava sulla natura delle essenze e non distingueva il rapporto spirito-materia, soggetto-oggetto, la comparsa del meccanicismo e del determinismo nella nuova fisica postgalileiana mise in crisi quel “noi” e quel rapporto con “tutto il resto”.

Come sottolinea Rorty, si può rintracciare «nelle sue varie forme, che vanno dalle nozioni neoplatoniche della conoscenza come connessione diretta con (emanazione da, riflessione di) la divinità, da un lato, alle più terrene concezioni ilomorfiche dei neoaristotelici sull’astrazione, dell’altro, l’anima immateriale-in-quanto-capace-di- contemplare-gli-universali» la risposta che la filosofia occidentale si è data, per «qualcosa come duemila anni», alla domanda sul carattere speciale di quel “noi”.

Dunque, la grande originalità di Cartesio fu nel porre come carattere distintivo e fondante dell’essere umano una nuova nozione di pensiero.

Come osserva il professore statunitense Gareth B. Matthews, esperto in filosofia medievale e antica:
La descrizione degli uomini come di esseri che hanno […] sia un “interno” sia un “esterno” è tanto comune che ci risulta difficile accorgerci di quanto straordinariamente moderna essa sia.

Ma per apprezzare la sua modernità basta mettersi a cercare delle esposizioni precedenti a quella di Cartesio.

Se ne trovano delle anticipazioni interessanti in Agostino, ma prima non si trova molto e non molto tra il tempo di Agostino e quello di Cartesio.
Il punto significativo da notare è come Cartesio sviluppi nel XVII secolo la nozione di un’area interiore, immateriale, del nostro essere uomo, in maniera talmente problematica e audace rispetto al pensiero antico e medievale, da permettere che soltanto la sostanza inestesa, in quanto unica fonte di certezza, potesse garantire conclusioni chiare e distinte, quindi, garantire quel sostrato filosofico e fondazionale alle leggi matematiche della meccanica galileiana, abbandonando le spiegazioni ilomorfiche tradizionali.

Come si può vedere, abbiamo una concezione della mente strettamente interconnessa con il problema della conoscenza.

A tal riguardo, il problema mente-corpo è paradigmatico per la comprensione della visione filosofica del soggetto e del suo rapporto con l’ “esterno”, poiché definendo la natura della mente come un mondo interiore – totalmente autonomo dal mondo fisico del corpo – capace di conoscere la verità delle cose, ridefinisce e riqualifica nuove classi di identità che saranno distinte tra chi possiede quel mondo e chi non lo possiede.

Che cosa fa parte di quel mondo?

Cartesio lo indica in maniera chiara, quando identifica il sentire con il «nient’altro che pensare», inglobando nel mondo interiore
Cartesio in epoca moderna, la dimensione spirituale totalmente autonoma rispetto al mondo
giudizi, credenze e dolori, tutto ciò di cui possiamo avere consapevolezza, e che quindi può essere oggetto di coscienza.

L’estensione del cogito cartesiano alle sensazioni implica una novità rispetto alla «distinzione aristotelica tra la ragione che coglie gli universali e il corpo che si cura della sensazione e del moto».

Si tratta di una nuova concezione del pensiero, e quindi, di una “nuova” dicotomia mente-corpo, che possiamo denominare distinzione tra «la coscienza e ciò che la coscienza non è».
Tale implicazione e gli sviluppi nel pensiero successivo sono di notevole interesse per poter comprendere i termini del dibattito sulla distinzione tra persona e non persona.

Cartesio, concependo la mente totalmente indipendente dal corpo ha, da un lato, messo in un angolo la corporeità, la materialità, sostenendo che i nostri stati mentali, fonti di conoscenza, non dipendano dai nostri stati fisici e, dall’altro, ha affermato come la sostanza inestesa sia qualcosa di esistente, ma interno, completamente trasparente a sé e il solo fatto di averne consapevolezza, coscienza, garantisce la realtà di quello che siamo.

In altri termini, la conclusione ontologica a cui approda Cartesio deriva da un particolare tipo di accesso, un accesso privilegiato, che soltanto noi abbiamo nei confronti di noi stessi.

Ed è in ciò che risiede la grande innovazione del modello cartesiano, l’apologia di un nuovo «paradigma di sapere, in cui la conoscenza più certa è quella, per così dire, privata».
Quest’ultima conseguenza del dualismo cartesiano è sicuramente quella più soggetta a revisioni, negli ultimi quarant’anni, alla luce delle nuove scoperte sul funzionamento del cervello ad opera delle neuroscienze e delle scienze cognitive.

Ed è proprio questa una delle sfide della “postmodernità”.

Non è un caso che se la dicotomia, posta in essere da Cartesio in poi, tra spiritualismo e naturalismo ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo dell’età moderna, chi argomenta la crisi della “modernità” o la fine delle epistemologie fondazionaliste, veda nella dissoluzione dello spazio di autonomia del soggetto cartesiano la necessità di trovare un nuovo “ rifugio” al soggetto.

Un autorevole filosofo statunitense commenta così la nascita di questa tensione dicotomica tra punto di vista soggettivo e punto di vista oggettivo:
La nascita delle scienze fisiche moderne è stata resa possibile dalla messa a punto di un metodo che permetteva di esaminare il mondo fisico non in funzione del modo in cui esso appare ai sensi […] bensì in quanto regno oggettivo che esiste indipendentemente dalle nostre menti.[…]

Il prezzo di tale progresso spettacolare è stata l’esclusione dell’apparenza soggettiva della realtà. […]E così quando la scienza applica i propri sforzi alla spiegazione della qualità dell’esperienza, quest’ultima non ha più alcun luogo dove rifugiarsi40.
Come nota Thomas Nagel, gli effetti della nascita del soggetto interiorizzato di Cartesio sono ambivalenti, in quanto da un lato si prova a cercare un luogo dove far rifugiare il soggetto dinanzi alla comparsa delle scienze fisiche, ma dall’altro si esclude la possibilità di utilizzare la metodologia di quelle scienze per indagare l’esperienza “interiore” del soggetto.

Ed è questa la sfida che le neuroscienze e le scienze cognitive supportate dalle analisi empiriche intendono affrontare.

Allo stesso modo anche per l’indagine filosofica sul concetto di persona e per la filosofia tout court si presenta la medesima sfida, sebbene con linguaggi e modelli differenti, in quanto è la visione tradizionale e antropocentrica del soggetto umano ad essere stata messa in crisi.

Lo slittamento nello sganciare il concetto di persona da una precisa classe di entità e, attribuendo ad esso una proprietà o una funzione del soggetto, individua nuove modalità per la caratterizzazione della nozione di persona che apriranno le frontiere a diversi filoni della riflessione filosofica contemporanea, quali, ad esempio il costruzionismo e, più recentemente, l’eliminativismo e il riduzionismo cognitivo.
In questa prospettiva, disturbi quali la sindrome da disconnessione interemisferica (split brain o cervelli divisi), le personalità multiple o anomalie dissociative in genere, rientrano nell’indagine filosofica non come casi-limite di persone, ma come «la spia di quella natura frammentaria e molteplice del soggetto, esplicitamente riconosciuta da molti modelli dell’architettura cognitiva umana».

I confini del soggetto tradizionale, grazie anche allo sviluppo delle teorie neo- lockeane in età contemporanea, diventano sempre più labili e le risposte a queste nuove esigenze di definizione dei confini possono essere interpretate a seconda di quale nozione di persona si assuma nel proprio paradigma.

Il perché sia di fondamentale importanza capire a quali entità attribuire lo status di “persona” si comprende non soltanto in una prospettiva di dibattito speculativo, ma soprattutto in una più ampia riflessione etica che regolamenta non soltanto le nostre singole esistenze, ma anche le istituzioni della vita sociale e pubblica di cui noi facciamo parte.
Da tale sfondo si comprende come le condizioni per l’assegnazione di questo status rappresentino una delle sfide dell’orizzonte filosofico contemporaneo.

La costellazione di teorie o di programmi di ricerca che emergono dall’identificazione lockeana tra mente e persona possono essere denominate funzionalistiche, nel senso che l’equivalenza posta da Locke ha costituito le basi per poter identificare i contenuti mentali del soggetto (i suoi stati mentali) con stati funzionali, in antitesi alla concezione delle teorie “neoaristoteliche” e “neocartesiane”, che al contrario, presuppongono criteri sostanzialistici e introspezionisti per l’individuazione del soggetto d’esperienza.

5. Hume e la natura illusoria dell’io
La prospettiva lockeana di un agnosticismo nei confronti della sostanza pensante subisce una essenziale accelerazione con David Hume (1711-1776).

Se Locke non arriva a negare l’esistenza di una res cogitans, le celebri tesi humeane mostrano la base per una seria critica all’immagine tradizionale che abbiamo di noi stessi.

Argomentazioni che si dimostreranno fondamentali per una scienza della mente ed, in particolare, per alcuni eredi spirituali del filosofo scozzese, come Daniel C. Dennett e Derek Parfit.
Nel Trattato sulla natura umana (1740), Hume affronta in maniera del tutto originale il problema dello statuto ontologico del soggetto.

Sebbene rimanga l’eredità cartesiana di una identificazione tra pensiero e coscienza, tuttavia Hume non s’interroga più sul problema metafisico dell’essenza del pensiero, ma indaga la questione dell’identità personale da un punto di vista empirico: «non si tratta più di comprendere l’essenza nascosta della mente, intesa come sostanza, ma di mettere in luce quali regolarità sussistano tra gli stati mentali, cioè tra stati di cose (o processi) dei quali abbiamo esperienza diretta».
Dall’esame del funzionamento della mente, Hume sviluppa una radicale critica a ciò che «alcuni filosofi […] chiamano il nostro io».

Egli afferma che, in realtà, «noi non abbiamo nessun’idea dell’io»58 nei termini di una perfetta evidenza ed intelligibilità.

Per Hume, non è possibile avere alcuna percezione di quell’io cartesiano, permanente ed unitario, poiché, attraverso un’analisi rigorosamente empirica, non riusciamo con i nostri sensi ad avere un’impressione dell’io, o persona, che sia costante ed immutabile per tutta la durata della vita di un individuo.

Infatti, come nota Hume: quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso m’imbatto sempre più in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere.

Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione.
Un punto di rilievo, nell’analisi humeana, su cui occorre riflettere e porre attenzione è il fatto che per giustificare le percezioni particolari, che «sono tutte differenti, distinguibili e separabili», non si ha bisogno di postulare un io necessario e sussistente. In altri termini, la spiegazione della natura delle “percezioni particolari” non consegue all’affermazione dell’esistenza di un io unitario, continuo e semplice, anzi, sostiene Hume, (ed in ciò si manifesta il suo radicale antisostanzialismo) le percezioni possono esistere «separatamente l’una dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza».
È in tale prospettiva che il filosofo scozzese giunge alle sue celeberrime tesi della bundle-theory (teoria del fascio) sulla natura dell’io: noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento.

La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni.

Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità ed identità.

L’unità e la continuità dell’io sono illusori.

Il soggetto per Hume non si dimostra altro che un insieme di fasci di percezioni distinte che si susseguono a formare una rappresentazione teatrale, di cui queste sono le attrici.

L’io è un’illusione, una metafora, una «repubblica di stati mentali» e anche «l’identità che noi ascriviamo alla mente umana è un’identità fittizia, dello stesso genere di quella che ascriviamo ai vegetali e agli animali».

Ma allora, si chiede Hume, com’è possibile avere quel senso di identità «del quale noi siamo così intimamente coscienti»?.

Poiché «l’intelletto non coglie mai nessuna connessione reale tra gli oggetti e che anche l’unione di causa ed effetto […] si risolve in un’associazione abituale di idee», ne segue che ciò che noi percepiamo come un’identità continua e sussistente altro non sia che una mera percezione di una catena progressiva di percezioni.

In altre parole, ciò che si è soliti chiamare identità personale o percezione continuativa dell’io, per Hume, non rappresenta qualcosa di reale e ontologicamente fondato, bensì «è semplicemente una qualità a loro [alle nostre percezioni] attribuita a causa dell’unione delle idee di esse nell’immaginazione quando vi riflettiamo».
Hume individua nelle tre relazioni di rassomiglianza, contiguità e causalità, i «principi unificatori del mondo ideale», ovvero quelli attraverso i quali scaturisce il «cammino piano ed ininterrotto del pensiero», e quindi la nostra nozione di identità personale. In questo senso si può parlare di “scetticismo” humeano, poiché è soltanto la marea delle nostre percezioni e non l’io unitario, continuo e sussistente cartesiano, a permetterci di considerare noi stessi come io o persone.

L’io, dunque, non è una cosa spirituale o materiale, bensì una «relazione di percezioni».

Ed è in questo modo che Hume incrementa la crisi di quell’idea chiara e distinta sulla quale Cartesio aveva fondato lo statuto ontologico della cosa pensante.
Tuttavia, se la natura dell’io e dell’identità personale sono illusorie e fittizie, nondimeno per Hume esse non hanno un valore nella nostra vita pratica.

Il filosofo scozzese s’interroga sui motivi che ci spingono a ricondurre e correlare quelle percezioni distinte e separate nella vita di unico soggetto.

Se la memoria e l’immaginazione, attraverso i tre principi unificatori, garantiscono la percezione illusoria dell’individuo unendo eventi empirici di per sé non identici e assimilabili, per Hume vi è anche una «spiegazione motivazionale» e non soltanto cognitiva, che contribuisce a creare la nostra identità (fittizia).

Ciò che vuole intendere Hume è che noi non possiamo fare a meno di costruirci un’identità, poiché «siamo naturalmente propensi ad attribuire coerenza e continuità» a quello che percepiamo.

In questo modo, per il filosofo scozzese il nostro senso di continuità, che ci permette di «cancellare ogni interruzione» e di ricorrere alla «nozione di un’anima, di un io, di una sostanza, per mascherare ogni variazione», si dimostra sì un’illusione, ma un’illusione necessaria ai fini di una «indispensabile costruzione (socio)logica».

Se tale tendenza naturale ad identificarci in un io, in una sostanza, in un’anima non deriva dalla struttura intrinseca della realtà, essa diventa un bisogno psicologico.

«La persona stessa diventa non una durata ma piuttosto un costume, o un’abitudine».
È bene notare, che la concezione di Hume, esposta nei primi capitoli, subisce una modificazione nell’Appendice del Trattato sulla natura umana, e per questo può essere suscettibile di critiche di incoerenza. In tale contesto, egli si pronuncia in merito alla teoria riguardante l’identità personale ammettendo la perdita di speranza nel chiarire tale problema.

Secondo il filosofo scozzese, risultano difficili da «armonizzare» i due principi – esposti in precedenza – in quanto, da un lato, si sostiene l’incapacità della mente di cogliere una reale connessione tra le percezioni e, dall’altro, si afferma che tutte le nostre percezioni distinte sono esistenze distinte.

Secondo Davide Sparti, in realtà qui non è presente alcuna autocontraddizione di Hume.

Se distinguiamo tra «identità perfetta, ossia invariabile ed ininterrotta», che vale per monti, fiumi, chiese «ed identità imperfetta, che può essere interpretata o come un tipo particolare di identità, quella che vale per le persone e si basa su una costruzione logica, o come un errore, una imputazione impropria», l’apparente incoerenza si estingue.

Poiché, in altri termini, vi è una tensione esclusivamente filosofica sull’identità, che può avere un «valore molto blando nella vita pratica».

Inoltre, è utile sottolineare le similitudini che intercorrono tra la dissertazione humeana sull’identità personale e la celeberrima argomentazione sul principio di causa ed effetto, in merito all’attribuzione di causalità nella relazione tra gli eventi.

Com’è noto, per Hume, l’inferenza che traiamo quando si vede una causa e poi un effetto è illusoria, poiché egli suggerisce che «essendo stati condizionati a inferire ed ad aspettarci l’effetto quando vediamo la causa, ci scopriamo intenti a trarre l’inferenza, e ciò fa sorgere l’illusione di vedere una connessione necessaria tale da spiegare e fondare l’inferenza che siamo obbligati a trarre».

Non siamo altro che il prodotto di una relazione fittizia di percezioni, che creiamo grazie all’abitudine e alla forza delle credenze.

In questo senso, il contributo del filosofo scozzese si dimostra imprescindibile per capire l’ampia costellazione di teorie che, in opposizione al dualismo cartesiano, ritengono necessario ridefinire la percezione che abbiamo di noi stessi alla luce delle nuove scoperte scientifiche.

In particolare, Dennett e Parfit individuano nell’argometazione humeana sulla natura illusoria e fittizia dell’io, il nucleo propulsore da cui sviluppare le rispettive dissertazioni, che, in linea con le nuove scoperte nel campo delle neuroscienze, dissolvono l’immagine tradizionale del soggetto di esperienza, come un’entità unitaria e continua, per dar vita ad un’idea dell’io come soggetto virtuale nel primo autore, o come insieme di relazioni tra classi mentali, che il secondo paragona a club, nazioni e partiti politici.

6. La concezione funzionalistica della persona (o mente).
Uno dei tratti principali dell’età contemporanea è la possibilità di disquisire sul concetto di persona da una molteplicità di punti di vista.

Per questo si presentano teorie realiste, che sostengono che se qualcosa è o non è una persona, ciò dipende da fatti obiettivi, indipendenti dal nostro volere, oppure dal versante opposto si hanno teorie della persona relativiste o convenzionaliste, che sostengono l’arbitrarietà del concetto di persona.

Da un altro angolo visuale abbiamo teorie della vaghezza della persona e teorie della determinatezza dell’essere persona, secondo le quali si può sempre stabilire con certezza o meno se un dato ente è o non è una persona.

Come si può notare, il dibattito è ampio e può assumere numerose sfumature.

In questa sede, si approfondirà il modello più ampio e discusso nel dibattito attuale, il funzionalismo, sia per avere una più ampia disamina della cornice filosofica in cui nasce la riflessione dennettiana, sia per favorire un dibattito che incoraggi una nuova prospettiva d’indagine sulla natura dei criteri che permettono l’inclusione dell’individuo nella classe delle persone.

Ai nostri fini sarà opportuno far emergere i fattori principali che connotano l’atteggiamento funzionalista.
In primo luogo, si noti che la connotazione di una impostazione teorica come funzionalistica riguardo ai problemi dell’essere persona si oppone ai modelli che, al contrario, si dichiarano sostanzialistici.

In questa prospettiva, le concezioni funzionalistiche in senso lato assumono come propria un’immagine della persona definita in termini di classi di stati mentali (vi è un’identificazione tra mente e persona) che sono descrivibili in base al ruolo che tali stati rivestono nel processo di elaborazione dell’informazione, il quale stabilisce il passaggio da input percettivi ad output comportamentali.

Tale visione, come si affermava in precedenza, si distanzia da una concezione che identifica l’essere persona con gli esseri umani tout court.
In secondo luogo, sulla base delle critiche poste in essere da Locke e Hume, per concezione funzionalistica dell’essere persona s’intende un tipo particolare di approccio che comprende un ampio ventaglio di posizioni, le quali si intersecano nell’assunzione base del funzionalismo, secondo cui essere persona significa essere una qualunque entità capace di svolgere certe attività. In questo senso, il funzionalismo si dimostra come la cornice teorica più appropriata per le scienze della mente.
Il funzionalismo nasce verso la fine degli anni Cinquanta, durante il dibattito tra il riduzionismo materialista, che sosteneva l’identità tra gli stati mentali e gli stati cerebrali, e il dualismo, che al contrario sosteneva la tesi dell’irriducibilità degli stati mentali agli stati fisici.

La terza ipotesi, quella del funzionalismo, si affermò grazie ad Hilary Putnam, che in un articolo del 1960, Menti e macchine, ipotizzò una diversa concezione degli stati mentali.

Ecco come si espresse in merito allo stato di dolore: Il dolore non è uno stato cerebrale, nel senso di uno stato fisico-chimico del cervello (o addirittura del sistema nervoso nel suo complesso), ma un genere di stato completamente diverso.

Propongo l’ipotesi che il dolore, o lo stato di provare dolore, sia uno stato funzionale dell’intero organismo.
In tale prospettiva uno stato mentale non corrisponde ad un determinato stato del sistema nervoso, bensì «è individuato dal ruolo causale svolto all’interno di una determinata organizzazione cognitiva».

In questa prospettiva, che originariamente fu denominata funzionalismo computazionale, gli stati mentali sono stati funzionali in quanto svolgono un ruolo causale all’interno dell’attività mentale, ma non possono essere ricondotti in un rapporto uno ad uno con gli stati fisici.

È da notare che gli stati mentali, nella versione più comune del funzionalismo, svolgono un ruolo causale, ma non è necessario che essi abbiano proprietà causali, poiché l’efficacia causale appartiene propriamente alle strutture fisiche sottostanti. Inoltre, è bene precisare che si può parlare di funzionalismo in due differenti accezioni, sebbene normalmente vadano di comune accordo.

Una nozione propriamente metafisica che sostiene ciò che è stato esposto in precedenza, ovvero gli stati mentali sono funzioni dell’organismo e sono un ruolo causale.

Poi, vi è un modo d’intendere il funzionalismo come modello di spiegazione.

Se devo descrivere il comportamento di un sistema complesso «il modo più efficace di farlo non è specificarne i componenti materiali, bensì individuarne i sottosistemi funzionali».

Tale punto di vista è molto appropriato per descrivere la struttura di certi processi cognitivi, i quali ad esempio possono essere spiegati ricorrendo alle proprietà funzionali dei sottosistemi individuati, in base ai suoi input e output.

In questo senso, una delle analogie più utili che il funzionalismo ha creato è quella tra la mente e il calcolatore, che ha posto a sua volta le basi per la nascita e lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Secondo tale tesi i processi mentali “girano” nel substrato neurologico come “programmi” di un computer.

A tal riguardo, è stata proposta l’analogia tra software e mente, e allo stesso modo tra hardware e cervello.
Tuttavia, ciò che è di notevole interesse ai fini della nostra indagine è la questione ontologica che il funzionalismo assume.

Il dolore, riprendendo l’esempio di Putnam, esiste, ma da un punto di vista funzionale, poiché non si tratta né di uno stato disposizionale, né di un particolare evento cerebrale.

Ciò dimostra una novità fondamentale poiché si sottolineano «che tipo di operazioni svolge la mente, non quali sostanze (fisico-chimiche o magari spirituali) siano impiegate per la realizzazione delle operazioni in questione: differenti stati fisici possono realizzare il medesimo stato mentale».

In altre parole, per la concezione funzionalistica è il nostro “come” e non il nostro “che cosa” che ci rende dotati di mente.

Ciò vuol dire, nella prospettiva di una teoria della persona, che sarà quel “come” il criterio per l’assegnazione dello status di persone. In tale linea d’indagine, anche una macchina pensante potrebbe essere considerata persona, in quanto il substrato materiale è ininfluente per accedere a quella classe di entità che si differenzia dalle altre per l’organizzazione dei processi mentali.
Uno dei problemi di un tale approccio è la giustificazione di quelle esperienze che, pur se possono essere ricondotte e analizzate, attraverso stati funzionali, non rendono giustizia all’irriducibilità soggettiva di quelle proprietà qualitativamente distinte che possono essere colte soltanto dal soggetto che ne fa esperienza. In questo senso, Dennett pone le basi per una risposta alternativa ed efficace.

7. I personalismi e la visione sostanzialistica della persona.
Prima d’indagare una delle più originali risposte che il funzionalismo ha assunto nel dibattito contemporaneo delle teorie della persona, analizziamo le riflessioni di un altro filone d’indagine sul concetto di persona che respinge il carattere funzionalistico delle recenti teorie, basate sull’indagine empirica degli stati mentali del soggetto, per affermare il carattere ontologico-metafisico dell’individuo umano.
La crisi della nozione di sostanza e le conseguenze della distinzione lockeana tra l’essere umano, appartenente alla specie homo sapiens, e la persona, essere capace di vita cosciente e libero in atto, sono state, oltre che una pietra miliare per la possibilità di una filosofia della mente, anche una sfida per tutte quelle concezioni che assumono la nozione di persona come riferimento «assoluto» e principio ontologico della loro teoria, i personalismi in generale.
Il dibattito dei personalismi è ampio e non è rilevante in questo contesto analizzarne tutte le varie sfumature.

Mentre, ciò che risulta fondamentale per interpretare le “urgenze culturali” del nostro tempo – la questione dei diritti, la bioetica, il confronto interculturale, ecc. – sono gli assunti teoretici, di cui il personalismo si fa garante, che discriminano il concetto di persona e che possiedono forza normativa.

In altre parole, occorre capire quali entità abbiano le condizioni per possedere lo status di persona e, conseguentemente, la facoltà di accedere alla comunità morale.
Si può definire il personalismo in base a due accezioni.

In senso lato, è personalistica ogni filosofia che rivendica la centralità della concezione ontologica, gnoseologica, sociale e morale della persona, in antitesi alle tesi materialistiche o immanentistiche per le quali la persona non ricopre un ruolo più “dignitoso” del resto dell’esistente.

Mentre, in senso stretto, si dice filosofia personalistica o personalismo la concezione che individua nella persona il significato di realtà.
Si possono rintracciare diverse interpretazioni del personalismo, quali il personalismo comunitario (E. Mournier, L. Stefanini), il personalismo spiritualista (C. Renouvier, J. Lacroix, M. Blondel), il personalismo fenomenologico (M. Nédoncelle), il personalismo dialogico (M. Buber), il personalismo ontologico tomista (J. Maritain).

Inoltre vi sono anche concezioni che, pur non argomentando la centralità del concetto, tematizzano una riscoperta della persona; si pensi ai risultati della fenomenologia e dell’esistenzialismo (M. Scheler, K. Jaspers, L. Pareyson) o a filosofie di ispirazione religiosa (P. Ricoeur e E. Lévinas), come pure di filosofie che sottolineano il valore della soggettività e della dimensione intersoggettiva (l’etica comunicativa di K. O. Apel e J. Habermas), ma anche alcuni filoni della filosofia analitica che si soffermano sul concetto di identità personale utilizzando le categorie aristoteliche di natura e sostanza (da P. Strawson a S. Kripke, a Wiggins, a B. Williams).
Il crocevia di questo ventaglio di teorie è il concetto di persona, che ha avuto fin dalla sua genesi una innumerevole varietà di significati.

Se si ripercorre l’analisi “storica” del termine, possiamo constatare nei movimenti filosofici personalisti del Novecento una rinascita della nozione classica di persona, nel senso che, dinanzi alla dissoluzione del soggetto umano, fatta propria dal dualismo cartesiano e concretizzata dal cambiamento semantico apportato dagli empiristi inglesi, per non parlare della nuova concezione dell’uomo operata dalle scienze naturali, si è stati “tentati” di riscattare il termine “persona” nell’accezione tradizionale che si rifà a Severino Boezio e Tommaso d’Aquino.

Tratto fondamentale, quindi, della corrente filosofica personalista è l’intento di ridare al termine “persona” «un significato pieno» attraverso il ripristino del senso classico di tale nozione, dove per senso classico intendiamo “persona”: qualsiasi essere individuale, animale (come l’uomo) oppure no [come le Persone della Trinità], che sia per sua natura (quindi anche solo potenzialmente) spirituale, cioè dotato di intelligenza e libertà, e che per questo è un fine in sé ed è dotato di un valore che lo pone all’apice della realtà conoscibile.[corsivo mio]
Sebbene molte concezioni personaliste abbiano presupposti speculativi eterogenei, convergono nella necessità di dare una risposta alla «profonda “crisi” teoretica» che attraversa la storia del pensiero occidentale intorno alla dissoluzione del soggetto e dell’identità personale, tradizionalmente intesa.
Severino Boezio (480 ca-526) fu il primo grande traduttore di Aristotele e per questo ebbe un significativo influsso sul pensiero medievale. Inoltre, egli diede per primo la definizione classica del termine “persona” associandolo chiaramente ad una certa realtà, l’essere individuale.

La persona è, secondo Boezio, rationalis naturae individua substantia (sostanza individuale di natura razionale), ovvero un essere individuale che ha come forma (intesa nei termini aristotelici di causa efficiente e finale di ogni sostanza) la razionalità.

È il logos che caratterizza l’autentica essenza della persona.

San Tommaso d’Aquino ( 1221-1274) riprende la definizione boeziana della persona, rielaborandone alcune difficoltà teoretiche e giungendo ad esporre quella che sarà poi denominata l’accezione classica del concetto di persone.

In breve, alla formulazione di Boezio san Tommaso aggiunge che «persona significa ciò che è più perfetto nell’intera natura, ossia che è sussistente in una natura razionale» (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 29, a. 3) e ancora che «il modo di esistere che riguarda la persona è il più degno, ossia come qualcosa esistente per sé» (San Tommaso d’Aquino, De potentia, q. 9, a. 4)

Uno degli aspetti interessanti della nascita dei personalismi è come, nel corso del Novecento, è parso indebolirsi il versante ontologico della riflessione filosofica per lasciare spazio alla dimensione etica.

In altre parole, si è assistito ad un «”recupero” del concetto [di persona] come categoria pratica» che ha trovato nella bioetica un “luogo fertile” dove concentrare le proprie “battaglie”.

Per comprendere pienamente questo “slittamento” occorre capire il ruolo chiave che il concetto di persona ha avuto in questi anni.

Se con Boezio il termine “persona” era un concetto con determinazioni assiologiche, un nomen dignitatis, è con Kant che tale nozione diviene fondamentale per l’assegnazione di diritti.

Ed è proprio in tale contesto, che, attribuendo alle persone e solo alle persone l’appartenenza alla comunità morale, la definizione del concetto assume una veste innegabilmente importante. Tuttavia, negli ultimi anni, attraverso l’innovazione tecnologica e l’acquisizione di nuove conoscenze, si è teorizzata una distinzione tra vita biologica e vita personale, «fra i principi della vita organica e quelli dell’essere persona, dell’esistere come persona in questo mondo», che hanno contribuito ad un «mutamento della visione ontologica» dell’essere uomo.

Tale «rivolgimento teorico», o «ribaltamento del tradizionale modo di concepire la persona», è alla base dell’emergere di teorie personaliste che si propongono come fine non soltanto l’identificazione tra essere uomini ed essere persone, ma anche il ripristino di quel valore intrinseco dell’idea di persona che la modernità o, piuttosto, la “crisi” della modernità ha partorito.

Secondo un noto filosofo e teologo tedesco, Robert Spaemann, ad esempio, l’identificazione tra esseri umani e persone è giustificata e pertinente, in quanto la separazione e l’isolamento della soggettività dal concetto di vita presuppongono un paradosso, ovvero la distruzione della nostra tradizione culturale, dell’umanità e dei diritti umani, che da Aristotele in poi considera la vita l’«essere del vivente».
In questa prospettiva, mons. Elio Sgreccia, un teologo italiano studioso di etica, considera il modello personalista l’unico valido a «risolvere le antinomie dei modelli precedenti e nello stesso tempo a fondare l’oggettività dei valori e delle norme».

Il principale fattore di rottura della tradizione personalista, rispetto ad una concezione della persona che si rifà a Locke e Hume, è nell’individuare nell’uomo un fine in sé, a prescindere dalle caratteristiche fenomeniche che manifesta.

«In ogni uomo sta racchiuso il senso dell’universo e tutto il valore dell’umanità: la persona umana è un’unità, un tutto e non una parte di un tutto».

L’uomo è la persona, e come espressione della vita possiede un valore oggettivo che è irriducibile agli stati coscienti della mente e a qualsiasi altra funzione o proprietà della specie umana. L’individuo per il fatto stesso di appartenere alla specie homo sapiens è persona, poiché l’«essere persona» coincide con il suo essere e non con la presenza di determinate caratteristiche.

«Le persone sono individui in un senso incomparabile», per questo non vi è soltanto una differenza quantitativa con gli esemplari delle altre specie, ma bensì una differenza qualitativa e ontologica che contraddistingue l’essere uomo da ogni altra cosa che faccia parte della natura.

È questa profonda differenza che assegna un valore intrinseco alla vita umana, cioè alla persona, e che fornisce la base per poter parlare di dignità umana, ovvero di un agente che ha la capacità di agire in vista di un fine.
In questa visione, vi è un recupero delle ragioni metafisiche classiche per cui il logos non rientra tra le qualità della persona, bensì la persona è persona la realtà portatrice di logos.

In tal senso, l’essere persona è una «condizione ontologica radicale (non oggetto di immediata evidenza)», che conferisce all’essere umano tout court una realtà che rimane identica a sé pur nel mutare delle proprietà, azioni e funzioni.

La realtà della persona non si riferisce a caratteri empiricamente osservabili, piuttosto deve comprendere i «caratteri essenziali della natura dell’uomo (ontologicamente intelligibili)».

È una realtà che va considerata non dal punto di vista empirico, ma «dal punto di vista filosofico della contemplazione e della intellezione ontologica».
Se si considera la definizione tradizionale della persona elaborata da Tommaso d’Aquino, – “sostanza sussistente di natura razionale” (individuo subsistens in rationali natura) – si vede come vi sia in essa, per i sostenitori del valore sostanziale della persona, una stringente attualità, in quanto mantiene nella sua formulazione «apparentemente povera» una ricchezza intrinseca, tale per cui diviene «un punto di riferimento importante e chiarificatore» per determinare i “confini” dell’essere personale.

Vi è in questa visione un’importante implicazione: il recupero della nozione aristotelica di “sostanza” che, sebbene criticata fortemente dalla tradizione filosofica moderna110, considera come «sostanza individuale il soggetto distinto che sussiste in sé, non inerendo ad altro, ovvero ciò che appartiene soltanto a sé».

Il ripristino di siffatta nozione permette di rispondere alle domande sullo statuto descrittivo del concetto di persona (“che cosa è persona?”, “chi è persona?”), che la crisi della soggettività moderna ha messo in discussione.

Dunque, è la valenza ontologica, il valore trascendente posto nell’individuo, che consente di considerare qualità, funzioni e proprietà non esistenti in sé, bensì appartenenti a quella natura sostanziale unitaria e oggettiva del soggetto, quella «unitotalità di corpo e spirito», per cui non ha senso la distinzione tra vita umana biologica e vita personale, che al contrario risultano essere due modi diversi di leggere dentro allo stesso livello ontologico della realtà, «human et persona corporea convertuntur».
In questa prospettiva vi è una interscambiabilità delle due espressioni linguistiche e una coestensività piena e totale dei loro rispettivi campi semantici.

L’uomo è l’”essere”, non il suo “attuarsi”.

È in questo senso che l’«uomo non è riconducibile alla somma giustapposta di proprietà, né alla successione seriale di atti», in quanto mantiene sempre la sua «sostanzialità individuale, consistente, sussistente e stabile, unificante e durevole, irriducibile all’insieme plurale delle proprietà ed eccedente il divenire operativo».

In altri termini, è il fatto stesso di essere, ovvero di affermare un «principio ontologico unificante e permanente», che permette all’individuo di poter essere e di poter attualizzare le proprie capacità, ma non per questo la persona, l’ente, si riduce ontologicamente nell’agglomerato dei suoi attributi. «È la capacità ontologica reale del soggetto (radicata nella stessa natura) che fonda la possibilità di divenire (in altri termini: l’essere ha il primato sul divenire, l’atto sulla potenza): l’ente che muta o diviene, può divenire ciò che ancora non è, solo se già è; nulla può divenire qualcosa che già non è».
È interessante notare come anche in area analitica si sia reintrodotto un discorso sulla nozione aristotelica di sostanza.

Ad esempio, Peter F. Strawson, nel suo noto saggio Individuals (1959) ripropone un’analisi metafisica della realtà di tipo non riduttivo, attraverso una stringente argomentazione sul fatto che gli stati mentali sono riconoscibili in quanto stati di individui spazialmente determinati.

Questo avviene poiché per identificare uno stato, od un oggetto in generale, come tale dobbiamo essere in grado di identificarlo e di re-identificarlo in tempi e luoghi diversi come lo stesso stato od oggetto.

Tale condizione di esperienza è inattuabile senza il soggetto.

Dunque, per Strawson vi è una fondamentale «primitività del concetto di persona», dove per concetto di persona intende: il concetto di un tipo di entità tale che tanto i predicati attribuenti stati di coscienza quanto i predicati attribuenti delle caratteristiche corporee, una situazione fisica ecc. siano ugualmente applicabili a un singolo individuo di quel tipo.

Inoltre, afferma come è il concetto di persona a permettere logicamente ed ontologicamente la nozione di coscienza.

Si può notare in questo modo, non soltanto una presa di posizione nei confronti della soggettività (che per sua natura è inalienabile), ma anche il rigetto delle conclusioni empiriste.

Ad esempio, come nota G. De Anna, per Hume gli oggetti individuali (il libro rosso) sono dei costrutti creati dal soggetto a partire delle impressioni (il rosso e il parallelepipedo), mentre «se l’analisi di Strawson è corretta […] non potremmo individuare le impressioni di Hume se prima non individuassimo gli oggetti a cui appartengono».
In particolare, nel quadro di una prospettiva sostanzialistica, «il concetto di persona è identificato con il “sortale” dell’essere umano», ovvero è un «certo tipo o “sorta” di sostanza, precisamente, la sostanza che identifica, nel genere e nella specie, l’essere umano, sussumendolo sotto un predicato che ne offre individuazione e continuità».

Si vede in tali concezioni una ripresa in senso forte della nozione aristotelica di sostanza che restituisce quel primato ontologico della persona, e cioè della vita umana, per la quale una persona è o non è.

Il fatto che, a causa di impedimenti esterni (ad esempio patologie) il processo di sviluppo dell’essere umano si arresti o muti, non implica una modifica di quella realtà ontologica sussistente senza la quale la potenzialità dell’essere non sarebbe stata messa in atto.

In altri termini, non può esservi nessuna riduzione dell’idea di persona.

In questo modo soltanto, ovvero mantenendo l’equivalenza ontologica di essere umano e persona, si può avere il pieno riconoscimento della persona e rifondare quella dignità umana, che le «temperie postmoderne» (rivoluzione biologica e concezione evoluzionistica) mettono in crisi e che, secondo il prof. Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di Bioetica, conseguono nel «logoramento morale».

Nel senso che: revocare in dubbio la coincidenza tra esseri umani e persone attiva inevitabilmente una duplice logica di discriminazione, verso l’alto e verso il basso, a cui non potrebbe non seguire […] una tutela giuridica della vita differenziata per gradi.

In conclusione, ciò che qualsiasi concezione sostanzialistica della persona vuole sostenere è l’affermazione di una necessaria corrispondenza tra vita biologica umana e vita personale, rifiutando o misconoscendo la nuova visione dell’essere umano che traspare dalle nuove conoscenze riguardo ai nostri corpi, dalle concezioni evoluzionistiche o dalle teorie naturaliste tout court, che non ammettono fondamenti ontologici all’origine sia della vita biologica sia della “persona”.

Il recupero di un concetto di persona trascendente e ontologicamente identico a quello della specie biologica, potrebbe sembrare ciò che più si allontana da quella visione secolarizzata della persona, che oggi, negli ambienti più vicini alla ricerca scientifica, sta affiorando prepotentemente e che le progressive scoperte non sembrano placare.

E, proprio a questo punto, occorre chiedersi se una visione sostanzialistica della vita umana, fino ad ora descritta, renda effettivamente giustizia, nel senso di dare dignità alla persona, a quel bíos che alimentato dal “semplice” zoé, è fornito del massimo valore.

Come nota un bioeticista di tradizione liberale, H. T. Engelhardt Jr.:
Mentre all’inizio di questo secolo [il Novecento] […] era facile adottare una definizione di morte centrata sull’intero corpo, oggi non è più così. Infatti, ora si sostiene l’esatto contrario: è molto facile che un corpo vivo con un cervello completamente morto non sia più considerato persona. […] Col tempo vi è stato un mutamento nella concezione di ciò che significa essere vivi, incarnati in questo mondo.

Si è passati da una definizione della vita e della morte centrata sull’intero corpo a una definizione centrata sul cervello. […]

Tali riflessioni portano a mutamenti nelle pratiche e nelle opinioni culturali consolidate.
Vi è, sostiene Engelhardt, un «mutamento nella concezione di ciò che significa essere vivi», che si dimostra centrale per poter capire i termini di una dialettica tra homo e persona, in quanto si è assistito, a partire dalla seconda metà del Novecento, ad una ridefinizione dei “confini” del soggetto, nel senso che, grazie alle innovazioni tecnologiche e ai nuovi paradigmi in cui le nuove conoscenze sono inserite, è stata perso quel substrato indissolubile, quel garante ontologico, che permetteva l’identità tra vita biologica e vita personale e l’individuazione dell’essere nella persona.
Si intravede in queste riflessioni l’importanza di considerazioni, che se in un primo momento possono apparire inerenti solo all’ambito speculativo-teoretico, condizionano poi la nostra Weltanschauung negli ambienti più specifici, come quelli di una legislazione politica e sociale.

Ed è, a volte, proprio un modo fallace di pensare, che conduce al paradosso di una delegittimazione di quella “libertà umana” tanto spesso invocata.

II. De-ontologizzazione del soggetto.
Premessa: modificare la Weltanschauung dei filosofi.

Non esiste scienza privata della filosofia, al massimo può esistere una scienza dove il bagaglio filosofico è stato portato a bordo senza alcun esame preliminare.
D. C. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, (1995), p. 24.
«Io sono un filosofo, non uno scienziato, e noi filosofi siamo più bravi a fare domande che a dare risposte, così Daniel Dennett, uno dei massimi guru americani del dibattito filosofico contemporaneo, intraprende l’avventura verso «l’unico mistero che ancora sopravvive», la coscienza.

Allievo di Willard Van Orman Quine e di Gilbert Ryle, Dennett assume ben presto una posizione di rilievo internazionale non solo per le sue tesi notoriamente provocatorie, ma per l’autorità dei suoi studi nel campo delle scienze cognitive.
«Se solo un filosofo, dalla mentalità aperta, si fosse dedicato ad approfondire le loro visioni [degli scienziati]- prendendole sul serio e trascurandone gli aspetti inessenziali (come le incomprensioni terminologiche e qualche infelice trasposizione) – queste avrebbero ampliato l’orizzonte delle loro cognizioni filosofiche».

Una certa vena polemica trasuda dalle parole dennettiane.

Egli critica il prototipo moderno di filosofo, evidenziandone l’eccessiva autoreferenzialità nel tentativo di dare una fondazione dei principi primi prescindendo dai progressi della scienza.

Come egli stesso sostiene, richiamandosi a Cartesio e Leibniz, non si può svolgere bene il proprio lavoro speculativo, soprattutto per quanto riguarda misteri come la coscienza e la mente, se non si ficca il naso nei laboratori.

«Noi filosofi vaghiamo, da un lato, tra la ristrettezza e l’ottusità di taluni pensieri rosicchiati e, dall’altro, tra visioni grandiose, ma imperfette.

Il fatto che gli scienziati possano dimostrare piuttosto velocemente la correttezza o meno delle loro ipotesi rende queste ultime più solide e penetranti di quelle filosofiche».

Riecheggia distintamente nelle parole di Dennett la lezione dei maestri sulla necessità di una filosofia scientificamente informata.

Trovare un punto di contatto tra la prospettiva filosofica e la prospettiva scientifica rimane uno dei capisaldi indispensabili per poter accedere alla comprensione del reale.

Il fatto che alcuni filosofi siano del tutto estranei alla conoscenza scientifica e usino la filosofia per difendere una qualche verità a priori o per dimostrarsi più “esperti” nell’intelligibilità dell’esistente rispetto ai non-filosofi, considerando qualsiasi contaminazione con le scienze come un “errore categoriale”, è un atteggiamento che, secondo il filosofo statunitense, non conduce a nessun progresso e alimenta l’incomunicabilità tra le varie discipline coinvolte.

L’approccio interdisciplinare è la risposta a questo impasse che si è venuto a creare tra la scienza e la filosofia.

Un metodo d’indagine molto caro a Dennett, perché ciò che egli ha individuato fin dai primi anni di studio è una sorta di crescente distanza tra le disquisizioni sulle riviste filosofiche e gli esperimenti nei laboratori.

Nel panorama anglofono, in particolare, emergono da circa un decennio due diversi orientamenti nell’affrontare il problema della mente umana.

Vi sono coloro che sono intenti a ragionare di entità metafisiche e coloro che si preoccupano dello studio della macchina-uomo.

Tale spaccatura non è affatto produttiva per il miglioramento della conoscenza e, secondo Dennett, non rispecchia la vera natura del filosofare.

Porre interrogativi quali “Cosa la filosofia può apprendere dalla scienza?” dimostra un atteggiamento di chiusura mentale nei confronti di un processo che non dovrebbe avere ostacoli e barriere, ma dovrebbe essere all’insegna della continuità e della funzionalità reciproca.

Non si vuole annullare la specificità e l’autonomia dei linguaggi e delle problematiche proprie dei rispettivi campi, ma creare un punto di contatto per avere gli adeguati strumenti per indagare «l’unico mistero che ancora sopravvive».
Ogni teoria scientifica, dalle neuroscienze alle scienze cognitive, presuppone un’inevitabile cornice filosofica e il ruolo del filosofo è, in un certo qual modo, quello di «prevenire il disordine mentale tra gli scienziati», di impiegare gli strumenti filosofici per svolgere un’indispensabile opera di chiarificazione terminologica e concettuale, ma anche di commentare ed interpretare i risultati concreti delle scienze empiriche.
E, sebbene la necessaria complementarietà della filosofia con le scienze naturali sia una prerogativa di tutta la filosofia analitica, Dennett assume una decisiva (e radicale, come chiamano in molti) presa di posizione al riguardo, in quanto accetta come unico sfondo ontologico il mondo «oggettivo, materialistico e impersonale delle scienze fisiche».

Tutto quello che non è indagabile secondo i criteri della scienza normale diventa un’illusione, una mistificazione, un appellarsi ad un ”extra” fuori dal mondo naturale.

E questo non vale soltanto per fenomeni come la digestione, la respirazione, la deriva dei continenti, la crescita, ma anche per la coscienza umana.

Sono fenomeni meravigliosi, ma non così meravigliosi da non poter essere oggetto di indagine scientifica.
Dennett, anche in maniera ironica, identifica il regno “misterilandia” e i rispettivi “abitanti” misteriani come coloro che, seppur in una linea di continuità con la posizione naturalistica, si rivolgono all’irriducibilità del punto di vista in prima persona come limite della conoscenza scientifica.

Essi sostengono che vi siano “intenzionalità intrinseche”, per dirlo con la nozione di Searle, o ingredienti vitali come “quello che si prova ad essere così e così”, come direbbe Nagel, che non possono essere descritti con il metodo scientifico.

Rifacendosi alla metafora gulliveriana di Leibniz, tali studiosi affermano che sebbene la coscienza sia un prodotto di un qualche sistema meccanico straordinariamente complesso, sarà sicuramente al di là delle possibilità umane scoprirne il meccanismo secondo i dettami della metodologia scientifica, in quanto esiste quell’ «ineffabile» (usando un temine molto caro alla fenomenologia), che ha una realtà ontologica nel soggetto e si manifesta nei fenomeni spirituali, come i «qualia», esperienze percettive soggettive.
La comune convinzione dei “misteriani” deriva da un difetto di comunicazione interdisciplinare, secondo il filosofo statunitense, «nulla di più».

Il fraintendimento interdisciplinare è generato principalmente dal modo in cui utilizziamo un certo insieme di metafore, dal modo in cui siamo ostaggi di certe immagini del mondo (Weltanschauung).

Egli, infatti, denuncia come l’uso di analogie improprie da parte dei filosofi abbia portato a condizionare negativamente il tema della coscienza.
Le metafore sono definite «pompe di intuizione», esse non sono né vere, né false e «non hanno nemmeno significato perchè per definizione non è decodificabile rispetto al linguaggio di codice del quale costituisce una rottura».

Esse agiscono nel discorso, secondo il filosofo statunitense, come uno schiaffo o un bacio all’interlocutore durante una conversazione.

(Un esempio di qualia (plurale del termine latino quale,is,attributo, modo) per esempio potrebbe essere la percezione di un dolore o la semplice degustazione di una macedonia, singole esperienze qualitativamente differenti ed esperibili, secondo i sostenitori della loro esistenza, soltanto a livello introspettivo.

Dennett li descrive così «”Qualia” è un termine poco conosciuto per una cosa che più nota non potrebbe essere a ciascuno di noi: i modi in cui le cose ci sembrano.

Come capita sovente con il gergo filosofico, è più facile fare degli esempi che dare una definizione del termine. Guarda un bicchiere di latte al tramonto: il modo in cui ti appare, la qualità visiva particolare, personale, soggettiva, del bicchiere di latte è il quale della tua esperienza visiva in quel momento. Il sapore del latte che senti in quel momento è un altro qual, gustativo, e il suono che senti quando lo deglutisci è un quale uditivo.

Queste varie proprietà dell’esperienza conscia sono esempi primari di qualia.» (D. C. Dennett, Quainare i qualia, in Mente e Corpo, Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, a cura di A. De Palma e G. Pareti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 190).

A differenza degli esperimenti mentali di Galileo (o di Einstein) le pompe di intuizione non procedono con una stringente argomentazione da premesse a conclusioni, ma cercano di creare suggestioni.

Il lettore (o l’interlocutore) viene inserito in questa dimensione “fantastica”, dove i concetti sono legati l’uno all’altro attraverso i dettami dell’intuizione, in modo da focalizzare la sua attenzione verso determinati aspetti rispetto ad altri secondari, in un’operazione di deliberata semplificazione. La storia della filosofia è piena di questi bellissimi esperimenti del pensiero (Gedankenexperimente), per esempio il mito della caverna di Platone, il genio maligno di Cartesio, lo stato di natura di Hobbes e persino l’imperativo categorico kantiano.

E come spiega: molti filosofi sottovalutano la potenza di queste metafore filosofiche.

Mi piace molto l’idea di ritornare alla cara e vecchia filosofia di un tempo, quando buona parte della comunità filosofica degli ultimi decenni, soprattutto di orientamento analitico, ha trasformato questa disciplina in una tecnica arida che tenta maldestramente di imitare il rigore logico della matematica.
Sono potenti strumenti pedagogici che ci aiutano a scoprire nuove possibilità e che, se possiamo confermare poi con dei metodi più sistematici, sono un bene e ci istruiscono, ma alle volte, data la loro forza, possono sviarci e condurci con facilità ad argomentazioni fallaci, «anche i buoni utensili possono essere usati erroneamente».
Talvolta le analogie utilizzate dai filosofi non sono soltanto meri artefici retorici, ma divengono parte integrante della teoria.

L’ipotesi di Dennett è che molte volte i filosofi rimangono vittime inconsapevoli di quelle pompe d’intuizione che essi stessi hanno creato ed è per questo che occorre una necessaria cautela nell’impiego delle metafore filosofiche.

Sottolinea più volte come l’utilizzo di questi strumenti filosofici abbia portato ad adottare termini quali qualia o a dissertare sui “dati fenomenomenologici”, come quando gli aristotelici credevano nel moto del sole o i cacciatori di streghe nell’esistenza delle streghe.

Dobbiamo stare attenti alle immagini del mondo evocate dagli strumenti del pensiero per non rimanerne imbrigliati acriticamente.

Occorre un’attenta disamina e magari una nota storico-filosofica sulla nostra argomentazione per comprendere come un tempo si argomentava su cose e questioni che ora la teoria stessa non ha più bisogno di evocare.

(Si pensi ad esempio all’utilizzo di un concetto quale élan vital in riferimento al DNA, ora sarebbe una terminologia decisamente ridicola per qualsiasi biologo).
Con il progresso delle scienze cognitive a partire dagli anni ’70 e l’avanzata del meccanicismo, non del tutto innocente appare al filosofo statunitense il plauso a baluardi vitalistici o essenzialistici. Non sono i qualia, le proprietà intrinseche, a rendere la vita degna di essere vissuta.

Dobbiamo capire che il soggetto umano, quella meravigliosa creatura, non è una «qualche perla esterna al mondo fisico» e per questo «non dovrebbe essere lasciata fuori dalla spiegazione». Molti credono che spiegare dei fenomeni meravigliosi sia una sorta di oltraggio, di dissacrazione o, in un certo qual modo, di inflazione della poesia del fenomeno.

Dennett non lo ritiene e pone come esempio paradigmatico il temporale, quel fenomeno atmosferico un tempo temuto e adorato per la sua grandezza, che non attenua il suo fascino anche dopo averne scoperto la spiegazione scientifica.

La bellezza di un fenomeno – sia che si tratti di deriva dei continenti, di metabolismo o di coscienza e libertà del soggetto umano – non viene compromessa dalla sua delucidazione. Occorre distaccarsi dagli aridi “ganci metafisici”, anche se questo può significare riconsiderare le proprie convinzioni (ideologiche e non).

Locke sosteneva nell’Epistola al lettore, all’inizio del Saggio sull’intelletto umano, che il filosofo deve essere «come un semplice manovale che sgombera il terreno e lo ripulisce da alcuni dei detriti che ostacolano la via verso la conoscenza».

L’impegno di Dennett, forse, è molto più ambizioso, ma, da feroce ottimista, sostiene che un giorno le nostre credenze “appese al cielo” si libereranno dalla loro forma tossica e persisteranno come
una mutazione genetica meno virulenta, psicologicamente meno potente, ma prive di autorità. Abbiamo già assistito in passato a casi simili.

Sembra ancora che la Terra stia ferma e il Sole e la Luna le girino intorno, anche se sappiamo che è sensato considerare questa potente apparenza come mera apparenza.

Sembra ancora che vi sia differenza tra un corpo in quiete assoluta e un corpo in moto rettilineo uniforme in un sistema di riferimento inerziale, anche se abbiamo imparato a diffidare di questa impressione.

Verrà un giorno in cui filosofi, scienziati e gente comune sorrideranno delle tracce fossili delle nostre confusioni sulla coscienza: “Sembra ancora che queste teorie meccanicistiche della coscienza lascino qualcosa fuori, ma ovviamente si tratta di un’illusione.

In realtà, esse spiegano della coscienza tutto quello che ha bisogno di essere spiegato” .
Escludendo gli amuleti soprannaturali e qualsiasi “aspirazione alla trascendenza”, il filosofo della Tufts University ci invita ad una radicale modifica della nostra visione della soggettività, attenta a svelare il mistero del gioco di prestigio in cui false credenze ci hanno condotto.

9. Destituzione del soggetto, the demolition job.

Nel nostro cervello c’è un aggregazione un po’ abborracciata di circuiti cerebrali specializzati, che, grazie a svariate abitudini indotte in parte dalla cultura e in parte dall’autoesplorazione individuale, lavorano assieme alla produzione più o meno ordinata, più o meno efficiente, più o meno ben progettata di una macchina virtuale, la macchina joyciana […] questa macchina virtuale, questo software del cervello[…] crea un comandante virtuale dell’equipaggio […].

Il lavoro di demolizione delle nozioni di mente e di coscienza – come entità intrinseche, fornite di una natura propria e indipendente – inizia con lo smascheramento del dualismo cartesiano.

In continuità con il pensiero ryleano, Dennett polemizza contro «il dogma cartesiano dello spettro nella macchina (ghost in the machine)».

La distinzione operata da Cartesio, tra due sostanze (res cogitans e res extensa) distinte ed eterogenee, ha posto in essere l’idea che la mente sia un’entità separata dal cervello e composta di qualche materia non ordinaria, per così dire speciale.

Questa contrapposizione metafisica, che Cartesio lascia in eredità alla filosofia moderna, ha ostacolato in maniera profonda le indagini empiriche sul funzionamento della mente umana e ancora oggi, anche se gode di una cattiva reputazione, la sostanza mentale è investita di proprietà così misteriose da poter mettere in scacco l’indagine scientifica.
Per macchina virtuale Dennett intende «un insieme temporaneo di regole altamente strutturate imposte all’hardware sottostante da un programma» (D. Dennet, Coscienza, op. cit., p. 243.), ovvero un insieme di istruzioni che determinano il complesso delle disposizioni all’azione.
Si badi bene come la questione posta in essere da Dennett non sia la negazione dell’esistenza della coscienza e della mente, ma il tentativo di fondare una diversa prospettiva di indagine riguardo tali nozioni.

«Non affermo, ovviamente, che la coscienza umana non esiste; dico, piuttosto che essa non è ciò che le persone spesso pensano sia» (D. Dennett, Sweet dreams , op. cit., p. 66)

Secondo Dennett, occorre una radicale demistificazione dell’eterno enigma filosofico.

Una demistificazione che vuole dimostrarsi come assunto imprescindibile per una corretta analisi dell’essere umano inteso nella sua globalità.

Il pericolo, la disgrazia maggiore del dualismo agli occhi del filosofo statunitense risiede proprio in quella miopia teoretica, in quell’alone di mistero che si crea intorno alla coscienza e che si dimostra come una decisiva rinuncia a capire.

Egli vuole dimostrare con l’aiuto delle ultime scoperte sul funzionamento del cervello che è possibile sviluppare proprio sulla base delle prove scientifiche un nuovo modo di pensare, di porre interrogativi sul grande mistero della coscienza.

E sebbene ci siano altri grandi misteri, come l’origine dell’universo, l’evoluzione teleologica della natura, il tempo, lo spazio e la gravità, tuttavia questi pur non essendo scomparsi, sono stati domati grazie alle scoperte in campo fisico e biologico.

Infatti, anche se non abbiamo una soluzione definitiva, perlomeno possiamo intravedere un approccio metodologico corretto ed eliminare le speculazioni più fuorvianti.

Ciò è secondo Dennett l’obiettivo da raggiungere per poter abbandonare totalmente l’eredità cartesiana e il misticismo che abbraccia ancora l’argomento.
Egli insiste molto nell’attaccare qualsiasi compromesso con il dualismo, perché, anche se scienziati e filosofi hanno raggiunto un certo consenso in favore del materialismo, non è difficile notare come molti di loro dimenticano che, una volta abbandonata l’idea di una sostanza spirituale, non esiste più alcuna via d’accesso privilegiata alla coscienza.

Non esiste alcuna res cogitans, nessun misterioso locus situato da qualche parte nella nostra testa che funge da centro direzionale del cervello e che coordina l’attività intellettuale e corporea dell’uomo, nessun homunculus intelligente che dirige il nostro agire intenzionale e cosciente.

Tale immaginario centro unificatore all’interno del cervello è paragonato da Dennett ad un teatro, il Teatro Cartesiano, in onore di quello che egli denomina materialismo cartesiano.

L’epifisi o ghiandola pineale potrebbe essere un esempio di Teatro Cartesiano, ma ne sono stati proposti anche altri come il cingolato anteriore, la formazione reticolare e vari luoghi nei lobi frontali.

Un posto, un centro nel cervello dove tutto converge e «dove siamo coscienti di qualsiasi cosa della quale siamo coscienti» dove vanno in scena i contenuti mentali e lo spettatore, il Sé, osserva e intende lo spettacolo.

Ma se qualcuno osserva il teatro del pensiero, a sua volta quel qualcuno avrà un proprio teatro e così via, in un infinito regresso verso l’assurdità.
La nostra eredità filosofica e culturale ci porta alla convinzione dell’esistenza di un singolo punto nel cervello verso il quale tutte le informazioni vengono incanalate ed è molto attraente e naturale considerarsi spettatori di se stessi, tuttavia «tale supposizione non è un’innocua scorciatoia: è una cattiva abitudine».

Accettare il quadro concettuale proposto dal dualismo e dal modello di coscienza del Teatro Cartesiano significa ammettere l’esistenza di una materia spirituale, di una coscienza interiore, di un Sé che governa i nostri comportamenti. Il progresso verso la comprensione della mente deve basarsi sul rifiuto di qualsiasi protesi metafisica, poiché come le scienze cognitive e la teoria evoluzionistica ci hanno insegnato, abbiamo tutti gli strumenti per indagare il mistero della mente umana.

Si tratta soltanto di risolvere, con il progresso delle neuroscienze e delle tecnologie, gli aspetti tecnologici e meccanici, i soft problems, (problemi facili, come l’architettura del cervello e la meccanica del funzionamento di sinapsi e neuroni) e non gli hard problems (problemi difficili, come il problema della coscienza in quanto tale o dei qualia, delle esperienze soggettive).

«Le nostre menti sono semplicemente ciò che i nostri cervelli fanno in modo non miracoloso, e il talento del nostro cervello non può che evolvere come ogni altra meraviglia naturale», così Dennett nel contesto di una prospettiva naturalistica forte, identifica la mente con il cervello e richiamandosi all’idea humeana della natura illusoria dell’io sostiene che i processi cognitivi e decisionali sono distribuiti nella configurazione del cervello e non governati da un centro di controllo che chiamiamo Sé.

La complessa teoria che in Consciousness Explained contrappone alla teoria del Teatro Cartesiano è da lui definita Modello delle Molteplici Versioni (Multiple Drafts model).

Secondo tale teoria ogni tipo di attività mentale «è compiuto nel cervello da un processo parallelo e a piste multiple di interpretazione ed elaborazione dei dati sensoriali in ingresso», quindi il cervello risulta essere un elaboratore di informazioni che agisce in parallelo, un fascio di agenzie semi- indipendenti.

Secondo tale concezione, l’attività significativa, anche a livello causale, dell’elaborazione avviene attraverso una moltitudine di organizzazioni che «giocano vari ruoli semi- indipendenti nella più vasta economia tramite la quale il cervello controlla il viaggio del corpo umano attraverso la vita».

Ciò vuol dire che per essere coscienti non dobbiamo percepire tutto il fluire lineare delle nostre attività mentali, non dobbiamo avere una sorta di Neurone Pontificio, come sottolinea ironicamente William James49, che domina tutta l’informazione confluita. In realtà, secondo Dennett, vi è solo l’alternarsi di “circuiti abborracciati” che «sgomitano in un pandemonio con le costruzioni grammaticali per aprirsi una strada di accesso al messaggio di cui tutte vogliono far parte», creando a mano a mano delle Molteplici Versioni.

Solo alcune di queste frammentarie «narrazioni» vengono promosse ad ulteriori ruoli.

Questo atteggiamento “opportunistico” dello “sgomitare” dimostra che la nostra autocoscienza è fondata soltanto su una delle narrazioni possibili, che viene attualizzata attraverso l’espressione verbale.

( Per il filosofo scozzese, noi non abbiamo esperienza o «impressione» del nostro «io» (inteso come entità unitaria e immutabilmente identica a se stessa), ma solo dei nostri stati d’animo successivi, che fanno apparizione nella nostra coscienza come in una specie di teatro.

Ovvero ciò che crediamo di percepire come «io», come si è visto nel primo capitolo, altro non è che un fascio di impressioni: «l’io, o la persona, non è una impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee.

Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, perché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme.

Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata» (Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere Filosofiche, op. cit., I, IV, 6))

Come si può notare Dennett vede uno stretto legame tra coscienza e linguaggio nel ruolo della produzione del sé o, per meglio dire, del Centro di Gravità Narrativa (center of descriptive gravity), poiché uno stato mentale diviene cosciente solo se diviene disponibile alle agenzie cognitive dell’espressione linguistica.

In modo tale che il meraviglioso pandemonio degli automi semi-indipendenti crei il referente del pronome personale “Io”, la nostra individualità narrativa e proprio come i ragni non devono pensare, consciamente e deliberatamente, su come tessono le ragnatele; e come i castori, a differenza degli esseri umani ingegneri di professione, non pianificano consciamente e deliberatamente le strutture che costruiscono, noi (a differenza dei narratori umani di professione) non immaginiamo consciamente e deliberatamente quali narrazioni raccontare e come raccontarle.

I nostri racconti vengono tessuti, ma per lo più noi non li tessiamo; essi ci tessono.

La nostra coscienza umana è un loro prodotto, non la loro fonte.

Da ciò consegue che l’unità della coscienza non viene ottenuta riconducendo l’attività dei diversi moduli, in cui può essere idealmente suddivisa la corteccia cerebrale, a un centro finale, che agisce da Boss o da presidente, bensì dal loro funzionamento strettamente integrato e interdipendente.

Ciò, come ammette lo stesso Dennett, può risultare controintuitivo rispetto a quanto ci sembra avvenire a livello fenomenologico, ma, tenendo presente i risultati degli esperimenti sull’effetto phi e recentemente i lavori di Libet, egli dimostra sperimentalmente come molte volte noi stessi siamo ingannati da ciò che appare.

Un esempio potrebbe essere il fatto che dati due fenomeni collegati tra loro in rapida successione, accade in certi casi che il secondo influenzi il primo ancor prima di essersi verificato, a dimostrazione del fatto che la percezione dei due eventi è il risultato di una rielaborazione successiva e non, come si teorizza nel modello del Teatro Cartesiano, il fluire lineare di segnali d’ingresso verso un determinato punto.

Inoltre, prova che gli stimoli percettivi possono avere influenza su di noi, senza che noi possiamo esserne coscienti.
Alla luce di questi indizi sperimentali, Dennett conclude che alla sensazione di unità e connessione prodotta dall’individualità narrativa, dalla macchina joyceana, non corrisponde nessuna realtà neurobiologica.

Non vi è quindi nella mente un sé centrale, che osserva, acquisisce ed agisce, ma soltanto un processo di “autocomunicazione” tra diverse agenzie che agiscono in parallelo e semi – autonomamente.

L’illusione dell’unità dell’io, la coerenza del nostro comportamento dipende dalla macchina virtuale, dal software che opera nel cervello e che è in grado di creare un comandante virtuale che si presenta al mondo esterno come io continuo e coerente, «la cui apparente coerenza non è quella di un ente reale, ma è il prodotto di regole di ottimizzazione delle attività cognitive, delle buone meta-abitudini, che tendono a produrre successioni al trono coerenti, piuttosto che caotici colpi di stato».

Ciò mostra come l’unità e la continuità della soggettività sia più una costruzione logica che una realtà ontologicamente fondata.

Il comandante virtuale si dimostra essere più un portavoce che un Sé unitario e indipendente.
L’io viene ridefinito come Centro di Gravità Narrativa e le proprietà intrinseche inafferrabili e soggettive (i qualia) diventano relazioni, «complessi stati disposizionali del cervello».

Ciò che costituisce l’identità e continuità dell’”io” e caratterizza la nostra specie è il modo in cui tessiamo i nostri sé e il «perdurare della narrazione» (la quale «potrebbe in teoria sopravvivere ad infiniti cambiamenti del mezzo» ).

Lo statuto ontologico del soggetto è modificato, esso è un’individualità narrativa e, come i centri di gravità della fisica, è un’astrazione, una magnifica finzione, che «ognuno sarebbe orgoglioso di aver creato».

Non esiste alcuna mente, alcun homunculus, nessun demiurgo, ora si tratta soltanto di convertire la soggettività metafisica nella sua oggettività.
Ma se i Sé non sono reali, che succede alla responsabilità morale?

10. Il rifiuto dell’introspezione.
Ogni volta che sappiamo rispondere a una domanda senza ritardo apprezzabile,si ha l’impressione che questa risposta fosse già attiva nella nostra mente.
Marvin Minsky, La società della mente (1989).
Il radicale rifiuto del dualismo cartesiano, il decisivo impegno di non avvalorarsi di cose non fisiche per spiegare la soggettività pone non pochi problemi all’indagine dennettiana.

Infatti, come possiamo rendere giustizia alle nostre esperienze soggettive ineffabili senza tuttavia abbandonare l’approccio metodologico della scienza?

Come si può pretendere d’indagare in una prospettiva in terza persona ciò che sentiamo più intimamente noto?

Risulta davvero possibile dare una spiegazione del proprio mondo mentale in termini oggettivi e distaccati?

E se si, come?

Attraverso quali metodi?

A questi e ad altri interrogativi Dennett risponde attraverso due strategie: in primo luogo mette in dubbio l’infallibilità dell’introspezione e in secondo luogo propone un modello alternativo, in linea con il paradigma scientifico, per poter esplorare le “soggettività altrui”.
Nella pars destruens, egli non nega l’«accesso privilegiato» che ognuno di noi sente nei confronti del proprio sé, tuttavia ne critica l’incondizionata fiducia di psicologi, addetti ai lavori e, ovviamente, di noi stessi.

Fin dai tempi di Cartesio, l’introspezione, la capacità umana di avere un accesso diretto ai propri contenuti coscienti, incarna il punto cardine del nostro sentimento dell’io.

Dennett non intende demolire questo stato pre-teoretico, bensì metterne in crisi l’assunto di incorruttibilità.

La capacità che noi abbiamo, in quanto esseri umani, di avere un’esperienza dei nostri fenomeni mentali rimane una roccaforte indissolubile per il paradigma di essere cosciente, tuttavia la pretesa dei fenomenologici61 di spiegare in prima persona plurale i vari oggetti del mondo interno  appare al filosofo statunitense alquanto eccessiva e fuorviante.

Il punto di vista in prima persona non può essere immune da errori e Dennett cerca, attraverso molti esempi, di mettere in guardia l’utente dal privilegio che noi concediamo al nostro “angolo visuale”.
Cartesio, ma anche gli empiristi britannici come Locke, Berkley e Hume, commettevano l’errore di considerare l’attività di introspezione come «un semplice metodo storico», privo di astruse deduzioni a priori, una questione di semplice osservazione.

In realtà, secondo Dennett, quando ci “guardiamo dentro” siamo «sempre impegnati in una specie di teorizzazione improvvisata» e siamo «dei teorici molto ingenui perchè non ci rendiamo conto che c’è così poco da osservare e così tanto su cui pontificare senza paura di essere contraddetti». Il punto centrale che si vuole mettere in crisi è l’idea che la mente non è trasparente a se stessa, come teorizzava Cartesio e che, conseguentemente, l’introspezionismo non è più adeguato a descrivere i nostri “eventi” mentali.

(Secondo gli empiristi britannici, i sensi sono i varchi d’accesso per il mondo interiore.

Una volta che i materiali forniti dai sensi accedono al mondo interiore, essi possono essere “ammaestrati”e organizzati in infiniti modi.

Secondo Dennett, ciò non è del tutto valido, in quanto «quello che passa dall’esterno all’interno non è nient’altro che informazione e benché la ricezione dell’informazione possa provocare la creazione di qualche oggetto fenomenologico (per esprimersi nel modo più neutrale possibile) è difficile credere che l’informazione stessa – che è soltanto un’astrazione concretizzata in qualche mezzo fisico modulato – possa essere l’oggetto fenomenologico».

Ad esempio, quando si immagina una mucca viola che vola in realtà, secondo il filosofo statunitense, non è del tutto giusto sostenere che l’immagine si ottiene unendo il viola e le ali alla mucca (il viola preso vedendo un ciclamino e le ali osservando un’aquila).

«Ciò che penetra negli occhi è una radiazione elettromagnetica e non può quindi essere usato come una tinta con la quale dipingere mucche immaginarie.

Varie forme di energia fisica bombardano i nostri sensi, subendo nei punti di contatto una “trasduzione” in impulsi nervosi che viaggiano verso il cervello» (Cfr., ibid., pp. 67-69)).

Prima della rivoluzione avvenuta nella storia recente della riflessione sulla mente, l’atto di introspezione denotava un’osservazione diretta del proprio “interno”, un metodo d’indagine più che valido sul quale fondare il senso individuale del sè.

Le conseguenze che ebbe la rivoluzione freudiana furono significative per la successiva nascita della psicologia sperimentale “cognitivista”, in quanto misero in discussione la capacità degli individui di avere una reale conoscenza di se stessi.

L’esistenza di credenze e desideri inconsci che agiscono senza il controllo della soggettività cosciente sconvolse l’idea stessa di persona, di soggetto d’esperienza, di continuità del sé.

Una delle implicazioni rilevanti fu il mettere a nudo la vulnerabilità dell’approccio introspettivo.

In noi avvengono raffinati e straordinariamente complessi processi di ragionamento ai quali non sappiamo dare una spiegazione.

Secondo la psicologia cognitivista, tali processi non sono il frutto di un’attività inconscia, come pensava Freud, e, quindi, lontani dallo sguardo della coscienza, ma sono il prodotto «di un’attività mentale che è in qualche modo completamente al di sotto o al di là della portata della coscienza».

In altre parole, Freud ha individuato la debolezza e le insidie dell’atto introspettivo e le recenti teorie della psicologia sperimentale hanno dimostrato come i nostri poteri di auto-osservazione non siano del tutto capaci di dare una spiegazione alla quantità di contenuti che la nostra mente elabora.

In conclusione, non solo la nostra mente è accessibile agli altri, ma «addirittura alcune attività mentali sono più accessibili agli estranei che al proprietario stesso della mente».

In sintonia con il paradigma scientifico e tenendo ben presente l’«incubatrice di errori» dell’atto introspettivo, il docente della Tufts University conia un neologismo per definire il suo metodo: heterophenomenology (eterofenomenologia, fenomenologia dell’altro).

Il termine non è facile da assimilare, ma «ciò che implica e ciò che presuppone» è, in realtà, molto «familiare a tutti noi».

Egli lo annuncia come un sentiero neutrale che ci conduce dalla scienza fisica oggettiva, e dalla sua insistenza sulla prospettiva in terza persona, ad un metodo per la descrizione fenomenologica che può (in linea di principio) rendere giustizia delle esperienze soggettive più private e ineffabili pur senza mai abbandonare gli scrupoli metodologici della scienza.

Dopo aver abbandonato la «Trappola Introspettiva» o, come la denomina Marvin Minsky, l’«Illusione dell’immanenza», Dennett tenta di indagare la coscienza attraverso quel «sentiero neutrale» dell’eterofenomenologia.

Da un lato prende le distanze dalla fenomenologia della tradizione – rinnegando l’infallibilità e
l’autorità della capacità di auto-osservazione – e dall’altro mantiene i “dati” fenomenologici del soggetto.

Il metodo, già applicato per più di un secolo in vari ambiti della psicologia sperimentale e al quale Dennett dà un nome, ha come obiettivo sostenere la legittimità scientifica dei “dati fenomenologici”. In altri termini, vuole abbandonare uno «scrupolo metodologico» che caratterizza oggi tutta la neuroscienza e la psicologia sperimentale.

Il fatto che gli eventi mentali siano le esperienze più intime che abbiamo e che non possano essere direttamente accessibili, se non fidandosi dei resoconti verbali che l’ “io” concede, non discrimina l’attendibilità di considerarli come dati della scienza.

Come i buchi neri e i geni, gli eventi mentali non possono essere considerati dati della scienza. Tuttavia, ciò non dimostra l’incapacità di analizzarli scientificamente e, come nel caso dei buchi neri, «la sfida consiste nell’elaborare una teoria degli eventi mentali usando i dati che il metodo scientifico permette».
Il metodo in terza persona, quello che sia noi sia i marziani possiamo adottare, implica:
la registrazione e la purificazione dei testi prodotti da soggetti che (apparentemente) parlano; testi utilizzati per generare una finzione teorica, il mondo eterofenomenologico del soggetto.

Questo mondo fittizio è popolato da tutti gli eventi, immagini, suoni, odori, impressioni, presentimenti e sentimenti che il soggetto in modo (apparentemente) sincero crede che esistano nel suo flusso di coscienza.

Nella sua accezione più ampia equivale a una rappresentazione neutrale ed esatta di cosa si prova a essere quel soggetto – negli stessi termini usati dal soggetto, secondo la migliore interpretazione che possiamo fornire.

Infatti, il lavoro dell’eterofenomenologo consiste dapprima in una catalogazione di dati grezzi, ovvero nella trascrizione di tutti gli eventi chimici, ormonali, elettrici ed acustici inerenti al soggetto preso in esame.

Successivamente attraverso il lavoro di diversi stenografi si attua l’interpretazione di tali dati.

In pratica si passa dal mondo degli eventi fisici al mondo della semantica, dei significati e delle parole.

Come si può notare, gli attori principali della metodologia eterofenomenologa sono gli eventi vocali. Il passaggio teoretico che ne consegue è fondamentale.

Si attua una riduzione dei contenuti fenomenici ai contenuti concettuali dei giudizi e delle interpretazioni.

Ciò che rimane è la produzione narrativa del soggetto, la descrizione cognitiva in prima persona tradotta in comunicazione verbale dallo sperimentatore.

In tale trascrizione si manifesta la differenza con l’atteggiamento comportamentista vecchio stile che considera il soggetto in terza persona senza prendere in considerazione le sue dichiarazioni, le sue credenze, i suoi desideri.

Quando Dennett sostiene che l’eterofenomenologia può «rendere giustizia delle esperienze soggettive più private e ineffabili […] senza mai abbandonare gli scrupoli metodologici della scienza» intende proprio l’adozione di un metodo che inglobi il punto di vista in prima persona, seppur in una logica sperimentale.

Si combina un approccio metodologico in terza persona ad un’inclinazione antropologica, in quanto l’individuo viene considerato produttore di mondi narrativi.

Per chiarire meglio, il filosofo statunitense paragona il lavoro dell’eterofenomenologo, di interpretare gli atti linguistici del soggetto, a quello del lettore che ha di fronte una nuova opera narrativa.

Il lettore di un romanzo consente «che il testo costituisca un mondo fittizio» così come lo
sperimentatore, l’eterofenomenologo, permette al testo di un soggetto di costituire il «mondo eterofenomenologico» di quel soggetto.

Le due differenti narrazioni hanno, seppur appartenendo a mondi eterogenei (mondo della narrativa e mondo reale), lo stesso status metafisico, in quanto concediamo la stessa autorità costitutiva agli atti linguistici in nostro possesso.

Come nel romanzo, correggiamo gli errori tipografici e cerchiamo la traduzione migliore del testo, ma non giudichiamo se, per esempio, Conan Doyle abbia sbagliato a chiamare l’ispettore “Sherlock Holmes”, allo stesso modo concediamo autorità al mondo eterofenomenologico del soggetto, «tu sei il narratore, la tua parola è legge».

Tuttavia si noti bene la differenza tra parola/legge e soggetto/custode della verità:
Tu non sei autorevole su ciò che sta avvenendo in te, ma solo su ciò che ti sembra stia avvenendo in te, e noi ti stiamo concedendo un’autorità totale e dittatoriale sulla descrizione di come ti sembra, di cosa si prova a essere al tuo posto.

E se ti lamenti dicendo che alcuni aspetti di ciò che provi sono ineffabili, noi eterofenomenologi ti garantiamo anche questo.

Quali basi migliori avremmo per credere che sei capace di descrivere qualcosa del fatto che  non lo descrivi e  confessi che non puoi?

Naturalmente potresti mentire, ma ti concediamo il beneficio del dubbio.
Il metodo eterofenomenologico, quindi, si mostra come un catalogo di dati, organizzati e purificati, un elenco di «cosa debba essere spiegato, non una spiegazione».

E, sebbene egli chiarisca che non ci sia nulla di «rivoluzionario o di originale nell’eterofenomenologia», l’importanza dell’applicazione del metodo è evidente nei presupposti che la legittimano, la necessità di far vedere come non vi sia una necessaria dicotomia tra esperienze soggettive e metodologia scientifica.

Al contrario, cerca di «ancorare l’esperienza soggettiva a qualcosa – qualsiasi cosa, effettivamente- che possa essere rilevato e confermato tramite esperimenti replicabili».
Inoltre, l’approccio in terza persona della soggettività pone in evidenza alcuni assunti base della teoria dennettiana per una scienza della mente.

In primo luogo, si dimostra la centralità del linguaggio, come unico mezzo che permette ad ogni essere umano di elaborare una narrativa coerente con se stesso.

In secondo luogo, tutta la metodologia dell’eterofenomenologo si basa sull’assunzione che tutti gli esseri umani presi in considerazione siano agenti razionali, portatori di credenze, desideri e «altri stati mentali che mostrano intenzionalità o “riferimento”, e le cui azioni possono essere spiegate (o previste) basandosi sul contenuto di quegli stati».

12. L’astuzia dell’evoluzione: l’atteggiamento intenzionale.
In che modo siamo in grado di capire, descrivere, prevedere gli atteggiamenti,
le attività dei nostri simili, gli esseri umani?

D. Dennett, L’atteggiamento intenzionale.
Il termine “intenzionalità” appare nel panorama filosofico a partire dall’età medievale.

I filosofi scolastici coniarono tale termine per indicare l’analogia tra il riferimento a qualcosa e l’atto di prendere la mira, di scagliare una freccia (intendere arcum in).

Successivamente il termine ebbe diverse accezioni e fortune discontinue.

Nell’ambito della filosofia della mente contemporanea sta ad indicare una particolare proprietà (chiamata «direzionalità») degli stati mentali, ovvero il fatto che essi si rivolgano ad oggetti esterni. In altri termini, diciamo “intenzionale” una cosa se è capace di riferirsi in qualche modo a qualcosa d’altro.

Come si può notare, il termine ha un significato differente dal senso che quotidianamente è ad esso conferito.

Per esempio, nel momento in cui riconosciamo quell’oggetto come cavallo, il nostro stato di riconoscimento presenta una forma di riferimento molto precisa, che tuttavia non ha nulla di intenzionale nel senso non filosofico del termine.
In The Intentional Stance, Dennett propone una ridefinizione del termine “intenzionalità” in una prospettiva evoluzionistica.

Da grande sostenitore del naturalista, autore de L’origine delle specie (1859), il filosofo statunitense attribuisce “intenzionalità” ad ogni agente razionale le cui mosse possono essere interpretate secondo uno schema di credenze, desideri e altri stati mentali.

Ogni oggetto o sistema intenzionale è considerato da Dennett un vero credente (true believer):
Essere un vero credente significa essere un sistema intenzionale, un sistema il cui comportamento è suscettibile di ampia e attendibile previsione mediante la strategia intenzionale.
Le particolarità dell’atteggiamento intenzionale possono essere comprese se le si confrontano con altre due strategie di previsione più elementari e meno appropriate a prevedere il comportamento – variabile e troppo complesso – dell’oggetto in questione, la soggettività umana.

La prima strategia è l’atteggiamento fisico (physical stance), il tipo di previsione più comunemente usato dalle scienze fisiche, nel quale dobbiamo utilizzare la nostra base di conoscenze sulle leggi della fisica per ipotizzare il comportamento del sistema in questione.

L’adozione dell’atteggiamento fisico si manifesta per esempio nel lancio di una pietra a terra. Quando prevedo che se abbandono il sasso dalla mia mano, questo cadrà a terra, in tal caso, sto utilizzando l’atteggiamento fisico.

Tale strategia, per esempio, è quella usata da Laplace per prevedere l’intero futuro di ogni cosa dell’universo, applicabile di fatto solo su sistemi localizzati.
Talvolta tuttavia, dato un evento qualsiasi, è più utile migrare dall’atteggiamento fisico a quello progettuale (design stance).

Si tratta di una strategia che prescinde dalla costituzione e dalle leggi fisiche e che, in un certo qual modo, è un’efficace «scorciatoia».

In base all’assunto che l’oggetto o il sistema abbia una precisa destinazione, «si prevede che si comporterà così come è stato progettato che si comporti in diverse circostanze».

Ad esempio, chi utilizza una sveglia non deve necessariamente essere consapevole dei procedimenti meccanici che ne regolano il funzionamento e, allo stesso tempo, sarà capace di prevedere (escludendo l’ipotesi del guasto, ovviamente) il fatto che essa suonerà all’ora prestabilita.
Sia l’atteggiamento fisico, sia l’atteggiamento progettuale mostrano lacune nella previsione dell’agire di sistemi od oggetti più complicati, come ad esempio gli esseri umani, gli animali ed, anche, le piante.

Nel considerare sistemi più problematici o, se vogliamo, più evoluti adottiamo, anche inconsapevolmente, l’atteggiamento intenzionale (intentional stance).

Dennett ne esplicita il funzionamento nel modo seguente: innanzitutto si stabilisce di trattare l’oggetto di cui si deve prevedere il comportamento come un agente razionale; poi si individuano le credenze che l’agente in questione dovrebbe avere, data la sua posizione e il suo scopo nel mondo.

Quindi si determinano i desideri che dovrebbe avere, sulla base delle stesse considerazioni, e infine si può prevedere che quest’agente razionale agirà per favorire i suoi obiettivi alla luce delle sue credenze.
Come si può notare, prima di tutto bisogna conferire razionalità all’agente, altrimenti non avrebbe senso discutere di atteggiamento intenzionale, poiché se l’agente fosse stupido potrebbe commettere qualsiasi azione stupida e il nostro potere predittivo sarebbe eluso. In seconda analisi, si considerano credenze tutte quelle verità rilevanti per i desideri (gli interessi) del sistema e «bisogna attribuire desideri di quelle cose che un sistema crede siano i mezzi migliori per conseguire altri fini desiderati».
Sebbene sembri una strategia complicata a definirsi, l’uso pratico che ne facciamo è talmente abituale e sistematico da non rendersene conto e spesso «è facile trascurare il ruolo che essa gioca nella formulazione delle nostre aspettative intorno alle persone».

Basta soltanto considerare come noi nella vita di tutti i giorni trattiamo gli altri esseri umani come sistemi intenzionali, ovvero dotati di desideri e credenze.
Tale strategia può risultare idonea anche nei confronti degli altri mammiferi.

Ad esempio, è possibile utilizzarla per la cattura di questi, nel momento in cui si prendono in considerazione le “credenze” dell’animale, come ciò che predilige e ciò che preferisce evitare. L’atteggiamento intenzionale funziona anche con alcuni oggetti artificiali.

Se giochiamo a scacchi con un computer, la nostra abilità sarà nel predire le sue mosse, in quanto lo consideriamo un agente razionale e sappiamo che non prenderà il nostro cavallo se nella mossa seguente potrà perdere la sua regina.

Un altro esempio è il termostato, il quale bloccherà la caldaia quando giungerà a credere che la stanza abbia la temperatura desiderata.

Tuttavia, nel caso di oggetti inanimati, non ha molto senso attribuire desideri e credenze, poiché per Dennett l’atteggiamento intenzionale assume significato soltanto nei confronti di quella classe di oggetti per i quali la strategia funziona: non è che noi attribuiamo (o dovremmo attribuire) credenze e desideri soltanto a cose in cui troviamo rappresentazioni interne, ma piuttosto che quando scopriamo un oggetto per il quale funziona la strategia intenzionale, cerchiamo di interpretare alcuni dei suoi stati o processi interni come rappresentazioni interne.

Ciò che fa di una caratteristica interna di una cosa una rappresentazione potrebbe essere solamente il suo ruolo nel regolare il comportamento di un sistema intenzionale.
Dennett adotta tale strategia nei confronti di una più ampia classe di fenomeni in questa prospettiva, per mostrare la sua utilità anche in quei casi dove non vi siano oggettivamente sistemi esprimibili in termini di credenze o desideri.

In tale ottica, l’analogia con il termostato non è superflua, in quanto: non esiste alcun momento magico nel passaggio da un semplice termostato a un sistema che possiede realmente una rappresentazione interna del mondo circostante.
Ciò che davvero è reale sono i modelli, le disposizioni con cui interpretiamo il mondo che l’evoluzione ci ha fornito per rispondere alle sollecitazioni e alle sfide della realtà esterna.

Si tratta di un utile metodo per capire che l’intenzionalità non è una proprietà peculiare del Sé, come affermava il filosofo tedesco Franz Brentano, ma bensì uno schema di interpretazione del mondo.
L’atteggiamento intenzionale costituisce, tuttavia, un concetto esplicativo problematico dal punto di vista scientifico, in quanto si avvale di categorie del mentalese, quali convinzioni, desideri e volizioni, che non costituiscono la causa vera, ossia la relazione delle interazioni fisiche, del comportamento, ma sono semplici schemi per interpretare e prevedere l’agire del sistema o oggetto.

Inoltre, l’attribuzione di razionalità all’agente non può evitare di far riferimento ad un soggetto unitario, il Sé o il Pubblico del Teatro Cartesiano.

Tale apparente contraddizione nella teoria dennettiana, viene eliminata, ricorrendo alla Teoria delle Molteplici Versioni, nella quale l’homunculus, protagonista del Teatro Cartesiano, è eliminato demitizzando il Sé e ricorrendo alla struttura del cervello.

(Franz Brentano (1839-1917) pone al centro della propria riflessione il carattere intenzionale della coscienza e, più in generale, dell’esperienza.

Secondo Brentano, l’intenzionalità è il carattere peculiare dei fenomeni psichici in quanto si riferiscono tutti ad un oggetto immanente.

Sulle diverse forme di intenzionalità, egli fonda la classificazione dei fenomeni psichici. L’intenzionalità indica la tensione verso l’oggetto, sempre reale, cui si riferiscono i fatti mentali, che Brentano riduce a tre tipi: rappresentazioni, giudizi e sentimenti.

La sua teoria dell’intenzionalità è molto importante perché, grazie alla mediazione di Husserl e di Russell, avrà grande successo nella filosofia della mente e nella scienza cognitiva nel Novecento, quando si sviluppò l’intelligenza artificiale e cominciò a farsi strada un modello di intenzionalità differente.

Dennett si allontana da tale concezione dell’intenzionalità già dal titolo del suo saggio, individuando il concetto in una prospettiva più ampia e considerando l’intenzionalità una strategia, una disposizione, che riguarda tutto il mondo della vita, non soltanto i fenomeni psichici).

In tal modo si può sostituire il Sé con tanti sottosistemi più elementari, ognuno dei quali è predisposto ad assumere il suo compito specifico.

Di conseguenza, non sarà più necessario parlare di fini o di convinzioni, analogamente a quanto avviene per il computer, dove subroutine di un programma lavorano parallelamente, attraverso compiti semplici e specifici, per l’attuazione del medesimo.

Se dal punto di vista scientifico, questa potrebbe essere una spiegazione possibile, ciò nondimeno Dennett riconosce pragmaticamente il valore dell’intenzionalità come strategia adattiva, voluta dall’evoluzione per lo sviluppo e il successo dei gruppi umani.

Come si può vedere, il filosofo statunitense non sottovaluta la psicologia del senso comune, ma la “naturalizza”, inserendo le categorie mentalistiche utilizzate da questa in una cornice evoluzionistica.

Da un lato, quindi, si sconsacra il Sé, o almeno la sua portata ontologica, e con esso tutti i concetti esplicativi cari alla tradizione, come “sé”, “sostanza”, “volontà libera”.

Mentre, dall’altro si conferisce a ciò che rimane uno status determinato, e soprattutto, da buon pragmatista, utile.

13. A just so story: lo strumento della parola.
Un ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue celle di cera.

Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla con la cera. Karl Marx, Il Capitale, (1867).
L’atteggiamento intenzionale, come si è visto, non appartiene alla categoria dei processi fisici del mondo, che sono ciò che sono e non mostrano alcuna direzionalità, non «stanno per» e non si «dirigono verso» qualcosa.

Tuttavia, tale strategia è indispensabile per prevedere il comportamento dei fenomeni della realtà, di quel tipo di sistemi fisici (gli oggetti o agenti intenzionali) che entrano in gioco nel meccanismo del sistema intenzionale e ciò non vuol dire che l’agente abbia proprietà non fisiche, ma che l’intenzionalità dipende dalla complessità funzionale della sua organizzazione cognitiva.

Tuttavia, che cosa s’intende per complessità funzionale della struttura cognitiva dell’agente?

La storia evolutiva ci mostra come tale strategia è diventata sempre più vantaggiosa e raffinata ed ha contribuito allo sviluppo delle nostre capacità cognitive.

Si tratta, afferma il filosofo statunitense, di un lento processo evolutivo che soltanto in tempi relativamente recenti ha fatto emergere la mente umana.

L’adozione del dispositivo intenzionale ad una classe più ampia di fenomeni è molto illuminante in quanto mostra non soltanto il percorso evolutivo, ma anche la differenziazione tra la nostra mente e quella degli “animali non umani”.

Gli artefatti, come il termostato e il computer, «possiedono un’intenzionalità derivata in virtù del ruolo che hanno nell’attività del loro creatore», allo stesso modo le immagini mentali del soggetto, quelle attraverso le quali prevedere il comportamento dell’agente sono esse stesse artefatti del nostro cervello.

Queste immagini sono state prodotte grazie alle complesse attività interne del nostro sistema nervoso e grazie alla funzione che queste ricoprono nel dirigere le attività del cervello nell’organismo e nel mondo che ci circonda.

Ma come è possibile che il nostro cervello abbia una così raffinata struttura, tale da produrre stati così prodigiosi?

Secondo il fervente sostenitore delle teorie darwiniane: il cervello è un artefatto, e le sue parti traggono qualunque tipo di intenzionalità dal ruolo che ricoprono nell’economia del sistema più ampio di cui esso è parte – in altre parole, dalle intenzioni del suo creatore, Madre Natura (altrimenti nota come il processo di evoluzione per selezione naturale).
Il passaggio che segue da questa riflessione è molto chiaro nelle sue conclusioni.

Sostenere che l’intenzionalità degli stati mentali derivi dal processo che li ha progettati (Madre Natura) significa far notare come un’intenzionalità derivata (ad esempio, il termostato) possa scaturire da un’altra intenzionalità derivata (il costruttore).

E, sebbene tutto ciò possa risultare controintuitivo, secondo Dennett, mostra «l’illusione di un’intenzionalità intrinseca98 (intenzionalità originale dal punto di vista metafisico)».

Occorre trovare una via di spiegazioni più promettenti e prendere atto che «tutta l’intenzionalità di cui godiamo deriva da quella più elementare di miliardi di sistemi intenzionali primitivi».
L’evoluzione del nostro sistema nervoso è iniziata dalla semplicità dei sistemi di comunicazione interni di esseri sensibili, ma non senzienti.

Dennett distingue la mera sensibilità dal “sentire”, in quanto la prima non comporta autoconsapevolezza, allo stesso modo di una pellicola fotografica che può avere diversi gradi di sensibilità alla luce, ma che certamente non ne sarà conscia.

Soltanto successivamente e gradualmente i minimali sistemi sensibili svilupperanno sistemi di controllo sempre più complessi e senzienti, tali da elaborare l’intricata struttura di un sistema distribuito, costruito da milioni di microagenti e piccoli robot, che ininterrottamente assimilano e gestiscono informazioni dall’ambiente circostante.

Una struttura che il filosofo statunitense paragona ad una «Torre della generazione e della verifica», dove ogni piano della torre rappresenta un sistema intenzionale minimale che via via costruisce il successivo piano, un sistema intenzionale superiore, capace di «mosse migliori» e dotato di un «crescente potere di produrre futuro».
Il processo che conduce allo sviluppo delle nostre facoltà cognitive si infiltra dal basso verso l’alto ed è in questa riflessione che Darwin mostra la sua originalità.

Aristotele vide l’origine di tutto l’universo nel motore immobile, Locke dimostrò in maniera empirica ciò che la tradizione considerava ovvio, è Dio la mente, noi siamo sue creature e dall’intenzionalità originaria discendiamo.

Questa idea deve essere ribaltata, secondo Dennett, in quanto noi discendiamo da:
processi algoritmici inizialmente privi di mente e di obiettivo che acquisiscono progressivamente significato e intelligenza man mano che si sviluppano.
Tale processo è chiarito dal filosofo statunitense attraverso una Just so story, una di quelle «storie proprio così».

Si tratta di un racconto “fantascientifico”, in quanto tiene in considerazione le recenti teorie scientifiche, ma fantastico poiché sopperisce laddove queste mostrano ancora lacune.

In attesa di spiegazioni scientifiche più valide, Dennett inizia la sua just so story con le creature darwiniane, gli “abitanti” dei primari giardini evolutivi.

Questi organismi furono generati attraverso processi arbitrari di mutazione e combinazione genetica.

Essi avevano un minimale apparato sensoriale capace di informare i propri sistemi di controllo semplicemente per le attività di sopravvivenza.

Al secondo piano della torre troviamo le creature skinneriane, un sottoinsieme delle creature darwiniane, le quali mostrano nei loro sistemi di controllo un progressivo accumulo di funzionalità ed una maggiore capacità d’azione.

Se nelle prime creature il meccanismo di controllo per la sopravvivenza è molto elementare, del tipo prova e correggi, in tali organismi abbiamo il «condizionamento operante» teorizzato dallo psicologo behaviorista B. F. Skinner.

Il condizionamento skinneriano esercita sugli organismi la capacità di trasformare la competenza comportamentale in strategia adattiva, ovvero la possibilità di «rinforzo» per tutte quelle azioni che si dimostrano, ai fini della sopravvivenza, maggiormente intelligenti.

Tuttavia, in questo tipo di atteggiamento vi è il rischio di pagare eccessivamente gli errori compiuti, in quanto non si ha prima dell’azione una selezione delle alternative in un qualche ambiente interno all’organismo medesimo.

Succedono così le creature popperiane, le quali dispongono di un ambiente selettivo interno per simulare l’azione prima di compierla.

L’atteggiamento di preselezione delle possibili mosse da compiere evoca un miglioramento del progetto evolutivo e «consente alle nostre ipotesi di morire al posto nostro», come disse elegantemente il filosofo Karl Popper.

In questo stadio dell’intenzionalità, le menti hanno già raggiunto una raffinata meta, rispetto alle creature skinneriane, in quanto dimostrano di poter reagire alle informazioni quantitativamente e, soprattutto, qualitativamente superiori.

Tali organismi utilizzano un atteggiamento intenzionale che non è più rudimentale, poiché agiscono come se chiedessero a se stessi “che cosa devo pensare ora?”.

Una sorta di dialogo silenzioso delle creature con se stesse che ha contribuito al passaggio da un semplice sistema di controllo ad un autocontrollo, un automonitoraggio dell’organismo.

Tuttavia per quanto sofisticato rimanga il processo adattivo delle creature popperiane, queste non hanno ancora raggiunto un livello di raffinatezza e di comprensione del dispositivo intenzionale. Infatti, secondo il filosofo statunitense, non è nelle creature popperiane la differenza tra l’uomo e tutte le altre specie.

La capacità di preselezione delle proprie opzioni di comportamento è propria anche di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e perfino di qualche invertebrato.

Ad esempio, se un ratto si trova davanti ad un cibo tossico, sicuramente farà delle smorfie e non si avvicinerà. Il divario tra l’uomo e le altre specie risiede in qualcos’altro che le ultime creature della just so story esemplificano.
La manifestazione «matura e completa» della strategia intenzionale si ha nell’ultimo piano della torre, le creature gregoriane.

In onore dello psicologo Richard Gregory, che ha avuto un ruolo fondamentale nella teorizzazione dell’Intelligenza Potenziale, tali creature si differenziano dagli antenati popperiani per il fatto che i loro «ambienti interni ricavano informazioni dalle porzioni dell’ambiente esterno frutto di un progetto».

Ciò significa che queste creature non solo riescono a padroneggiare gli strumenti, ma anche a capire il nesso tra l’uso dello strumento e l’intelligenza dell’utente.

Ad esempio, Gregory osserva come un paio di forbici non soltanto sia un artefatto ben progettato, ma anche un «dispensatore di intelligenza», nel senso che se diamo a qualcuno un paio di forbici si incrementa la possibilità che egli compia in maniera più rapida mosse intelligenti.

Inoltre, quanto più un artefatto è ben ideato, ovvero incorpora più informazione, «tanto maggiore è l’intelligenza potenziale che esso conferisce al suo utente».

Questo è un punto basilare del ragionamento dennettiano, poiché denota in che modo il percorso evolutivo abbia immagazzinato le varie strategie e mostra come gli esseri umani siano capaci di sviluppare la strategia intenzionale non solo verso altri atteggiamenti in generale, ma anche un atteggiamento intenzionale verso un altro atteggiamento intenzionale.

In altri termini, la strada darwiniana è diacronica e illustra come nel corso di miliardi di anni si sia arrivati a scoprire e a manipolare i pensieri altrui. In questo senso, tra gli strumenti più importanti che l’essere umano si è trovato a possedere abbiamo quelli della mente: le parole.

Ed è soltanto lo strumento della parola, o del linguaggio in senso lato, «che apre le porte alla trasmissione culturale, che ci differenzia da tutte le altre specie».
Tale storia ci mostra, semplificandola, l’evoluzione della mente umana, ovvero il modo in cui la mente umana è riuscita ad acquisire il suo più grande potere, il possesso del linguaggio, attraverso un processo lento milioni di anni di evoluzione per selezione naturale.

Un percorso graduale che ha condotto il nostro cervello, quello della specie Homo sapiens sapiens, a munirsi di metodi, di informazioni e di utensili mentali e che, grazie agli sforzi cognitivi delle specie precedenti, gli conferiscono un potere senza precedenti: l’uso del mezzo linguistico. Come si può notare, Dennett vede nel linguaggio l’esplosione “teleologica” della specie umana, in quanto evidenzia la differenza fondamentale con le altre specie non umane, i cui comportamenti possono essere spiegati soltanto con l’incremento della fitness adattiva, mentre lo strumento della parola ha consentito alla specie umana di inventare e conseguire obiettivi che oltrepassano la semplice riproduzione.

Il linguaggio, si rivela così, il massimo grado di differenziazione tra noi e le altre specie e incarna un ruolo chiave per la comprensione degli esseri agenti, poiché non è soltanto una semplice comunicazione tra esseri, bensì un potente strumento per organizzare le proprie rappresentazioni, estrapolandole come unità manipolabili e riutilizzabili.

In conclusione, la storia mostra come la nascita del linguaggio non derivi da capacità innate dell’individuo, ma dal raffinarsi di una strategia intenzionale nel rapporto continuo e attivo della mente con il mondo.

E, sarà proprio l’abilità di manovrare questi mezzi linguistici, il prerequisito fondamentale per caratterizzare l’agente moralmente.

III. Cosa significa essere «persone».
Essere e dover essere: un riduzionismo «non avido».
In un’ottica materialista radicale la teoria della selezione naturale di Charles Darwin si inserisce come un ponte tra le scienze umane e le scienze naturali, poiché, attraverso il principio di continuità della specie, individua l’uomo come parte di un processo rigorosamente naturale.

E, per quanto l’uomo ricopra innegabilmente il ruolo di cosa più complicata nell’esistente conosciuto, è un dato di fatto (almeno fino ad ora) che la selezione naturale risulti l’unica teoria che in linea di principio riesca a spiegare il mistero della nostra esistenza.

Quindi, se Galileo e Newton hanno unito, quello che era denominato il “mondo celeste” con il mondo terrestre, è Charles Darwin colui che con la sua opera unisce l’umano alla natura.

«L’idea dell’evoluzione per selezione naturale unifica, in un colpo solo, il regno della vita, del significato e dello scopo con il regno dello spazio e del tempo, della causalità, dei meccanismi e delle leggi fisiche».
Tuttavia, al tempo di Darwin e del suo co-scopritore Alfred Russel Wallace, il candidato a rimanere fuori dalla teoria evolutiva fu la mente.

É soltanto con la grande rivoluzione nelle scienze della mente – linguistica, neuroscienze, psicologia cognitiva e intelligenza artificiale – che anche questa entità misteriosa entra ad essere oggetto di discussione in termini evoluzionistici e naturalistici.

In altri termini, se la natura della mente può essere, in modalità differenti (a seconda delle concezioni) ricondotta all’entità biologica del cervello, si intravede come la contrapposizione cartesiana tra mente e corpo risulti artificiosa, poiché è l’insieme che evolve e la mente diviene anch’essa un prodotto dell’evoluzione.
Si capisce chiaramente come tali riflessioni comportino un impatto filosofico di notevole importanza, poiché, in primo luogo, incidono con forza sulla visione antropocentrica che abbiamo rispetto all’universo e in secondo luogo, conseguentemente, consentono una spiegazione laica degli eventi e che, insieme, contrastano con la difficoltà oggettiva della specie umana nella considerazione di se stessa, ovvero nel pensarsi come un insieme di enti speciali rispetto ad altri enti dell’esistente e nel considerarsi la realizzazione di un complesso “disegno”, di un Intelligent design.
Richard Dawkins, eminente professore di zoologia dell’Università di Oxford, si esprime in merito alla singolarità con cui «un’idea così efficace stenti ancora […] a essere assorbita dalla coscienza popolare».

E continua. «È quasi come se il cervello umano fosse stato specificamente progettato per fraintendere il darwinismo e per giudicarlo difficile da credere».

I motivi di questa sorta di “repulsione” sono innumerevoli e, secondo il biologo inglese, una delle cause è proprio nel modo in cui noi siamo stati cablati; così selezione naturale furono le perplessità di inserire o di esentare la mente umana dalle regole ferree dell’evoluzione.

Come, facendo un’analogia, per il nostro cervello è più semplice apprendere la caccia e l’accoppiamento, piuttosto che leggi della fisica, per cui «siamo mentalmente male equipaggiati per capire oggetti molto piccoli e molto grandi, cose la cui durata si misura in psicosecondi o in giga anni; particelle che non hanno una posizione; forze e campi che non possiamo né vedere né toccare».

La medesima dinamica avviene similmente per quanto riguarda l’accettazione del darwinismo ed in parte ne costituisce una delle cause della sua amletica comprensione.

Darwin stesso capì come la sua idea avrebbe avuto un impatto enorme nell’immaginario collettivo e cercò di dare la notizia con più delicatezza possibile.

Thomas Huxley, ad esempio, uno dei coraggiosi difensori di Darwin, intravide fin da subito (qualche mese dopo la prima pubblicazione dell’Origine delle Specie) l’impatto che una teoria, che affermava il principio di continuità della specie, avrebbe avuto nell’immaginario collettivo, soprattutto da parte dei cattolici conservatori.
In uno dei più famosi confronti della storia tra il darwinismo e l’establishment religioso, avvenuto nel 1860, nel Museo di Storia Naturale di Oxford, Huxley dovette cercare di “calmare”, si fa per dire, gli animi di coloro che rappresentati dal vescovo Samuel Wilberforce, non riuscivano ad accettare l’idea che l’uomo, creato a somiglianza e immagine di Dio, potesse avere una così «brutale origine».

La replica di Huxley, nella tensione disarmante dell’uditorio, fu, pur nel tentativo di attenuare le resistenze, di una estrema chiarezza:
Nessuno è più profondamente convinto di me del fatto che tra uomo civile e bruti c’è un abisso. […].La mia devozione per la nobiltà della nostra specie non è minimamente diminuita dal riconoscimento che l’uomo come sostanza e come struttura, non è diverso dai bruti.
E, benché ora, a distanza di più di cent’anni dalla morte di Darwin, qualsiasi biologo e scienziato non contesti il nocciolo della teoria per spiegare i fenomeni della vita, c’è una particolare riluttanza nell’accettare i principi del darwinismo in una prospettiva umana, ovvero non soltanto non vi è una distanza tra le specie a livello biologico, ma anche a livello morale.
Sicuramente, uno dei fattori che ha incentivato tale “incomprensione” si rintraccia nelle teorie di molti sociobiologi (ad esempio, E. O. Wilson, autore del termine «sociobiologia»), che ipotizzano dal determinismo dell’algoritmo evolutivo e del DNA un determinismo anche nella sfera delle credenze, dei desideri e quindi, di conseguenza, delle azioni morali.

Tale concezione, secondo Dennett e molti sostenitori del darwinismo “forte”, comporta una «fallacia genetica», in quanto si effettua una troppo “avida” riduzione che non tiene conto di altri fattori, uno su tutti, la cultura che ricopre, per quanto riguarda la nostra specie, un ruolo fondamentale.

Secondo il filosofo statunitense affermare il riduzionismo, ovvero una concezione che “riduce” l’essere umano ad un meraviglioso essere naturale, può anche essere corretto, anzi deve esserlo, tuttavia non bisogna essere troppo semplicistici o “avidi”(come meglio preferisce dire) nel sostenere tale tesi, altrimenti vi è il rischio di condurre argomentazioni fallaci ed ingenui.

Contrapponendosi ad uno dei famosi “Mantra” della filosofia analitica contemporanea, per cui vi è una «fallacia naturalistica» se si ritiene possibile far derivare il «dover essere» dall’«essere», Dennett sostiene che un tale atteggiamento non intacchi «minimamente il naturalismo come obiettivo teorico» e individua la fallacia in altre forme di naturalismo “riduzionistico”.
Attraverso un’argomentazione che tende a bandire i cosiddetti “ganci appesi al cielo”, il filosofo statunitense intende chiarire la sua critica distinguendo tra le condizioni sufficienti e quelle necessarie per sviluppare una certa teoria.

E sostiene:
Un conto è negare che un insieme di fatti relativi al mondo naturale sia necessario per motivare una conclusione di carattere etico e tutt’altro conto è negare che esista un insieme di fatti di quel genere che sia sufficiente a motivarla.

Secondo il postulato dominante [il “Mantra” della fallacia naturalistica], se si rimane saldi nel regno dei fatti relativi al mondo così com’è, non se ne troverà mai alcun insieme, che si potrà considerare un insieme di assiomi, da cui sia possibile dimostrare in maniera definitiva una particolare conclusione di carattere etico.
Secondo Dennett, tutto ciò vale a dire che, a meno di non considerare la facoltà etica come qualcosa di totalmente autonomo e assimilato ad un particolare senso innato che si innesca grazie a delle piccole stimolazioni dell’ambiente esterno, non si può prescindere da una considerazione descrittiva della natura umana.

Nel senso che, a suo avviso, «l’etica deve basarsi in qualche modo su una valutazione della natura umana – sul senso di ciò che è, o che potrebbe essere, un essere umano e su ciò che un essere umano potrebbe voler avere o essere».

In questa prospettiva e così concepito, il naturalismo non è soggetto ad accusa di «fallacia», poiché non si può negare che la dimensione etica sia indifferente a fatti che concernono la natura umana.
Secondo Dennett, ciò su cui, eventualmente, si può obiettare è l’“ambiente” dove trovare tali «fatti significativi» sulla natura umana – «nei romanzi, nei testi religiosi, negli esperimenti psicologici, nelle indagini biologiche o antropologiche».

Il principale obiettivo polemico del filosofo statunitense sono coloro che commettono la cosiddetta «fallacia» in nome di un presunto ossequio al naturalismo.
(D. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, op. cit., p. 596.
In tale ottica vi è una forte critica nei confronti di uno dei massimi linguisti al mondo, Noam Chomsky, e dei suoi seguaci, Colin McGinn ad esempio, il quale sostiene che «secondo Chomsky, è plausibile considerare la nostra facoltà analoga alla nostra facoltà di parlare; noi acquisiamo la conoscenza etica con pochissime istruzioni esplicite, senza un grande sforzo intellettuale, e il risultato finale è notevolmente uniforme data la gran varietà di segnali etici che riceviamo. L’ambiente serve semplicemente a far scattare e a specializzare uno schematismo innato (…) Secondo il modello chomskiano, la scienza e l’etica sono entrambe prodotti naturali della contingente psicologia umana, vincolate dai suoi specifici principi costitutivi; ma l’etica sembra avere un fondamento più saldo nella nostra architettura cognitiva.

Nel possesso della conoscenza scientifica sembra esservi un elemento di fortuna che manca nel caso della conoscenza etica» [C. McGinn, In and Out of the Mind, in «London Review of Books», 2 dicembre 1993, p. 30, cit. in D. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, op. cit., p. 597]).

Ad esempio, il già citato E. O. Wilson, emerito entomologo e professore di Harward, sostiene nel suo trattato etico, On HumanNature (1978), che la principale causa dell’azione morale sia lo scopo riproduttivo dei nostri geni.

Egli afferma in diversi punti del trattato come il summum bonum o “valore cardinale” dipenda da valori biologici, ovvero dal nostro «pool genetico», nel senso che, come argomenta insieme al filosofo della biologia Michael Ruse, «la morale, ovvero, in termini più rigorosi, la nostra fede nella morale, è soltanto un adattamento realizzato per promuovere i nostri scopi riproduttivi».

O ancora «In un senso importante, l’etica così come la si intende è un’illusione che i nostri geni ci rifilano per farci cooperare […] Inoltre, le nostre caratteristiche biologiche ne rafforzano gli obiettivi facendoci pensare che esista un codice oggettivo superiore, al quale siamo tutti soggetti».

Da queste osservazioni, Dennett, pur essendo un ortodosso sostenitore del naturalismo darwinista, si vuole distanziare e, anzi, bandisce tali riflessioni come conseguenza di una fallacia naturalistica, e nella fattispecie genetica.

Alcuni sociobiologi tendono a non considerare la complessità dei meccanismi che contribuiscono alla formazione di un agente morale, ed è qui, a suo avviso, che vi è un riduzionismo avido.

Come sostiene tenacemente e tende a precisare più volte in L’idea pericolosa di Darwin (1995):
I nostri scopi riproduttivi possono essere stati gli obiettivi che ci hanno consentito di continuare ad avere probabilità di successo fino al momento in cui potemmo sviluppare la cultura e possono ancora giocare un ruolo potente – a volte soverchiante – nel pensiero, ma questo non autorizza affatto alcuna conclusione riguardo ai nostri attuali valori.

Dal fatto che i nostri scopi riproduttivi sono stati la fonte storica fondamentale dei nostri valori attuali non segue che essi siano i massimi (e ancora i principali) beneficiari delle nostre azioni etiche.

In altri termini, Dennett condanna una visione semplicistica dell’entità umana e, rimanendo fedele al darwinismo e alla sua concezione della coscienza, argomenta una prospettiva che concili la complessità dell’Homo sapiens con l’«acido universale»  darwiniano, ma che, tuttavia, non riduca, senza un’accurata riflessione di tutte le parti in gioco, la dimensione dei valori alla dimensione biologica.

Dunque, che cosa sono queste parti in gioco che sociobiologi come E. O. Wilson hanno “sottovalutato” nella loro spiegazione?

A questo proposito sono molte le domande e le accuse che sono state rivolte a Dennett, (e, in generale, alle concezioni riduzioniste) per il fatto di voler conciliare l’agire morale con una teoria che non soltanto si propugna di espellere qualsiasi entità “misteriosa” (qualia, intenzionalità intrinseche, teatri cartesiani e ganci appesi al cielo tout court) dal novero delle spiegazioni, ma che afferma il principio di continuità della specie attraverso la selezione- variazione naturale.

È in questo senso che Dennett si definisce un «umanista secolare».
Gli esseri umani, nella sua linea d’indagine, sono oggetti di un certo tipo, esseri viventi di una determinata specie.

Ciò vuol dire che hanno delle caratteristiche naturali e che queste possono essere sviluppate in certi modi, fiorire e defezionare a seconda dell’ambiente in cui vivono.

Tuttavia, prima di argomentare una prospettiva di riduzionismo “non avido” che coinvolga il mondo delle credenze e delle volizioni e che, in ultima analisi, concili mondo naturale e mondo umano, occorre capire quali sono le condizioni che permettono a questo determinato ente di poter essere
L’«acido universale» è una delle espressioni utilizzate da Dennett per caratterizzare il processo evolutivo darwiniano.

Riprendendo tale espressione suggestiva dal «mondo giovanile underground», identifica metaforicamente l’idea di Darwin ad un acido capace di corroborare qualsiasi cosa, nella fattispecie «corrode quasi ogni concetto tradizionale, lasciando dietro di sé una visione del mondo rivoluzionaria, con la maggior parte dei vecchi punti di riferimento ancora riconoscibili, ma trasformati in maniera sostanziale».

15. Una nozione «intuitivamente così forte».
Nella sua indagine filosofica sulla natura della coscienza, come abbiamo visto nel capitolo precedente, Dennett dà la definizione di “persona”, intesa come soggetto di conoscenza, come Centro di Gravità Narrativa, cioè un sistema la cui individualità e unità affiora dalla descrizione di sé che ognuno fa agli altri e a se stesso, mediante il linguaggio.

In questo capitolo si cercherà di fornire una definizione normativa dell’essere persona, che presuppone l’unità illusoria che il soggetto crea, come base ineliminabile per poter intraprendere argomentazioni morali.

In un saggio scritto nel 1978, Brainstorms, nella sezione dedicata al concetto di persona, Dennett argomenta sei condizioni per definire tale classe di entità e, come nota adeguatamente Michele di Francesco, sono indicazioni talmente generiche da poter essere utilizzate come un test, poiché non attribuiscono un «particolare valore definitorio o euristico nella costruzione di una teoria della persona».

Tuttavia, possiamo considerare tali riflessioni come un’ampia premessa a quella che sarà poi la sua teoria della coscienza sistematicamente elaborata (in Coscienza, 1991) e della persona in relazione all’ordine naturale (solo per citare i maggiori lavori), maggiore nei futuri lavori; dalla teoria cognitiva sulla coscienza al posto delle persone in una forma di spiegazione evoluzionistica.

Il motivo di tale esposizione “tardiva”, si fa per dire, delle prime riflessioni dennettiane sul concetto di persona risiede in alcune considerazioni teoriche e metodologiche.

Si è considerato più utile, per la comprensione del pensiero dell’autore, approfondire prima gli assunti base del suo pensiero maturo, per rendere poi questo saggio Conditions of Personhood, maggiormente comprensibile in tutte le sue intuizioni e, a fortiori, può essere illuminante per avviare un tipo di analisi filosofica, che tenga in considerazione le conseguenze etiche di un particolare approccio descrittivo.

Sarà interessante notare che questa definizione del concetto, se inserita in un frame teoretico più ampio, può giustificare sia un nuovo modo di concepire la disciplina etica sia, in una prospettiva filosofica generale, un differente rapporto tra «la nostra visione di noi stessi come agenti liberi e responsabili e quella che ci rappresenta come parti complesse del mondo fisico della scienza». Inoltre, vi è anche un motivo, per così dire, di carattere “storiografico”, si è cercato di rimanere fedeli alle riflessioni metodologiche che lo stesso autore espone nella Prefazione di Brainstorms, quando dichiara che prima di un assalto al campo dell’etica occorre avere un buon fondamento sui cui poggiarsi.
Dennett edifica il concetto di persona da un punto di vista logico, attraverso l’attribuzione di molteplici qualità ad un determinato ente.

La sua analisi inizia da una “piccola” petizione di principio: Io sono una persona e anche tu lo sei.

Fin qui non ci sono dubbi. Io sono un essere umano, e probabilmente anche tu lo sei.

Se il «probabilmente» ti offende, sei imputabile di una sorta di razzismo, perché ciò che è importante non è che noi apparteniamo alla stessa specie biologica, ma che siamo entrambe persone, ed io questo non l’ho messo in dubbio.

La dignità di un individuo non dipende dal suo lignaggio, fino al punto che è irrilevante se sia stato partorito da una donna, o addirittura mai partorito.
Da queste parole che aprono il saggio, si possono già individuare diverse conclusioni di ciò che sarà l’argomentazione seguente. Innanzitutto, in queste righe egli dà una risposta precisa alla questione che si poneva nel primo capitolo del presente lavoro, ovvero “È lecito considerare persone tutti gli esseri umani?”.

L’identità non è scontata, perché il concetto di «persona» sembra implicare qualcosa in più.

E Dennett stesso, in queste righe iniziali della sezione Conditions of Personhood, individua quel “qualcosa in più” nella «dignità».

Soltanto chi è persona può avere dignità, a tal punto che non importa sapere come si sia giunti a possedere tale qualificazione.

Ciò che diviene fondamentale è avere tale status, ovvero essere persone
In questo caso, possiamo concepire «persone biologicamente molto differenti», come ad esempio HAL 9000 (il computer emotivo di 2001: Odissea nello spazio di Kubrik) o il capitano Kirk della serie televisiva Star Trek.

E dall’altra parte, si possono considerare individui appartenenti alla specie biologica homo sapiens, a cui è stata tolta la titolarità di persone, come nel caso di «esseri umani infanti, esseri umani oligofrenici34, esseri umani dichiarati pazzi da psichiatri abilitati alla professione».
In tali affermazioni si può già constatare, come nota il professore di epistemologia Fabio Bacchini in Persone potenziali e libertà, che molte volte la locuzione «persona» viene utilizzata invertendo l’ordine logico dei fattori.

Ad esempio, quando enunciamo che dal nostro punto di vista (movimento religioso, associazione culturale, comunità sociale, ecc.) un individuo «va trattato con il massimo rispetto, come noi ci trattiamo l’un l’altro» noi commettiamo una fallacia logica, in quanto «non è più vero che una certa cosa merita rispetto perché è una persona, ed è invece vero che una certa cosa è una persona perché merita rispetto (senza che a questo punto si riesca più a spiegare perché alcunché meriti rispetto)».

Bacchini, seguendo il filosofo statunitense, sottolinea come si debba dare rispetto, dignità, e qualsiasi cosa presupponga l’idea di persona (titolarità piena dei diritti, ad esempio) in virtù di un possesso di determinate qualità e non viceversa.

Tale argomento logico può essere inserito in una concezione funzionalistica dell’essere persona, in contrasto con una concezione sostanzialistica o personalistica (le etichette in questi casi tendono ad essere piuttosto blande, ma possono essere euristicamente utili) che non assegna la titolarità dell’ «essere persona» in base al possesso di determinate qualità, bensì rispetto all’intrinseco valore di appartenere alla specie biologica homo sapiens.

Data l’importanza che tale concetto assume, ne consegue per Dennett la necessità di cercare delle condizioni per essere una persona, altrimenti, non soltanto aumentiamo la confusione già presente nel dibattito, ma rischiamo che tale nozione diventi «un fluttuante titolo onorifico che siamo ben contenti di concedere a noi stessi, e ad altri – a seconda dei nostri umori, emozioni, considerazioni di opportunità, sensibilità estetica e simili – proprio come sono chic tutti e solo quelli che riescono ad essere considerati chic da altri che si considerano chic».

Nella prospettiva di una ricerca delle condizioni che regolano l’assegnazione dello status «persona», Dennett può essere considerato come colui che più sistematicamente ha discusso tale questione39. In primo luogo, si sofferma nel constatare come sia di fatto autocontraddittorio e inapplicabile eliminare una «nozione intuitivamente così forte», contrariamente a quanto auspicava nei suoi lavori il famoso psicologo comportamentista Burrhus Frederic Skinner (1904-1990).
Dennett, in uno dei saggi presenti in Brainstorms, Skinner Skinned, critica aspramente le posizioni skinneriane e cerca di dimostrare l’inutilità e l’inefficacia di una tale posizione speculativa.

In particolare, egli vuole evidenziare la falsità di quella che considera la tesi principale di Skinner, ovvero «la scienza del comportamento dimostra che le persone non sono agenti liberi, moralmente responsabili, dotati di dignità».

Secondo Dennett, la visione d’insieme del concetto di persona è molto più complessa e inoltre l’eliminazione di una tale nozione e di ciò che presuppone si dimostrerebbe autocontraddittoria. Per dimostrare ciò, il filosofo statunitense pone l’attenzione sulla differenza tra sistemi intenzionali e sistemi scientifici, e sulla considerazione che, in realtà, Skinner confonde i due sistemi, in quanto «non coglie la differenza tra spiegare e smascherare».

Nell’intento skinneriano di mostrare come fallace qualsiasi tipo di atto «mentalistico» (credere, volere, desiderare), attraverso le spiegazioni comportamentali e la sua teoria del rinforzo, il comportamentista confonde l’atto di smascherare con l’atto di spiegare.

Egli crede che tutti i comportamenti umani, anche quelli conseguenti a volizioni e credenze, siano illusori quanto il comportamento di una vespa, ed è in virtù di ciò che cade nella tesi eliminativista. Secondo Dennett, ciò è falso.

Un esempio illuminante, a questo proposito, è la confusione di chi crede che, poiché il colore può essere spiegato in termini di proprietà degli atomi incolori, nulla sia colorato.

Il discorso che Dennett argomenta e che lo spinge a rifiutare le descrizioni meccaniciste di Skinner, si basa sulla valutazione della condizione primaria ed essenziale per diventare persone, ovvero sulla presupposizione normativa di razionalità.

Non si potrebbe nemmeno affrontare la questione della definizione di persona se non si considera il soggetto razionale, «che crede quel che crede, che desidera cose desiderabili, che agisce secondo intenzione».

In altre parole, se non si risponde affermativamente alla domanda: «È possibile dire veramente che gli uomini hanno credenze, desideri, intenzioni?».

Tale affermazione verrebbe meno, se applicassimo le argomentazioni meccanicistiche di Skinner per spiegare il comportamento animale e umano.

E, si può comprendere, che in un contesto teoretico, dove credenze, volizioni divengono concetti obsoleti, la nozione di responsabilità morale perde enormemente il suo significato e la sua efficacia.

Per questo, pur condividendo alcune tesi (ad esempio, il valore delle spiegazioni meccanicistiche in alcuni contesti e la denuncia di viziosità nell’uso in psicologia degli «idiotismi intenzionali»), la posizione di Dennett risulta più sottile.

Egli afferma in più punti nelle sue opere, come l’utilità delle nozioni di credenza, desiderio e volere, siano efficaci per considerare un agente un sistema intenzionale, quindi razionale.

Inoltre, nella fattispecie dell’homo sapiens, vi sono innumerevoli fattori da considerare e l’«ambiente delle nostre credenze» è uno di questi.

Come nota: Può darsi, certo, che tutti i comportamenti umani possano essere smascherati, che tutti i segni di intelligenza umana siano illusori quanto la prestazione della vespa; ma per quanto Skinner proclami il trionfo del suo modo di spiegare il comportamento umano, la sua stessa testimonianza rivela che si tratta di un pio desiderio.

Anche non contestando tutte le sue affermazioni di avere realizzato un condizionamento operante degli esseri umani in situazioni sperimentali, restano aree del comportamento umano che si dimostrano del tutto non trattabili con il metodo di analisi skinneriano.

E non sorprende che queste siano le aree dell’azione deliberata, intenzionale.
Tali osservazioni mostrano l’inutilità di un’eliminazione dei concetti di credenza, volizione, e in ultima analisi, del concetto di agente morale.

Ciò, tuttavia, non giustifica il postulare qualche evento o processo non fisico, e quindi il dualismo mente-corpo, poiché, come si mostrava nel capitolo precedente, le spiegazioni possono essere a vari livelli e l’utilizzo di concetti, per così dire, «mentalistici», non implica la realtà di un’entità intrinseca e insondabile nel soggetto.

Per Dennett, bisogna prendere atto del fatto che l’universo delle volizioni, delle credenze e delle intenzioni è qualcosa da cui certe indagini non possono prescindere.

16. Persona morale e persona metafisica: sei condizioni interconnesse.
Dopo aver stabilito che una rinuncia al concetto di «persona» risulterebbe inutile e sterile, Dennett nota che esistono più modi d’intendere la persona.

In particolare, vi sono «due nozioni strettamente intrecciate» tra loro.

Si potrebbero chiamare, secondo il professore della Tufts University, «persona morale e persona metafisica», dove intendiamo, approssimativamente, con la prima nozione un «essere intelligente, conscio e dotato di sentimenti», mentre con la seconda un «agente responsabili di diritti e di doveri».

Ora, si chiede Dennett, può la nozione metafisica coincidere con la nozione morale?

E, altrimenti, essere persona nel senso metafisico è soltanto una condizione necessaria, ma non sufficiente, per essere una persona nel senso morale?

Nella teoria della giustizia di Rawls le persone metafisiche possono diventare persone morali, o piuttosto devono diventare persone morali.
In altri ambiti meno specifici siamo soliti distinguere tra le due nozioni.

Per esempio, quando parliamo con un pazzo, almeno in un senso della parola, lui è una persona. In modo simile a come faremmo con qualsiasi altro individuo, noi interagiamo con lui, sebbene non lo possiamo reputare sano di mente e moralmente responsabile.

In questo caso, il pazzo è ritenuto sì una persona, ma soltanto in una delle accezioni designate.

Per Dennett, ciò vuol dire che «rivolgersi in modo appropriato a qualcuno con i pronomi personali “io” e “tu” significa considerarlo una persona nel senso metafisico».

Fuori da ogni dubbio, sono due nozioni distinte, tuttavia sembra ragionevole considerare che «essere persona in senso metafisico sia condizione necessaria per essere persona nel senso morale».

A tal fine, Dennett propone sei condizioni, ognuna delle quali mostra una condizione necessaria per essere persona. Inoltre, ogni condizione sussiste solo grazie alla presenza delle precedenti.
La prima condizione è la più ovvia, la razionalità.

Le persone sono esseri razionali, come nelle teorie «metafisiche» di Aristotele, o in tempi moderni di Kant e di Rawls.

La seconda condizione è l’ascrivibilità di predicati intenzionali.

Ad esempio, il concetto di persona in Strawson, richiede questo secondo tema, poiché è «il concetto di un tipo di entità a cui [è possibile applicare] sia i predicati che ascrivono stati di coscienza, sia i predicati che ascrivono caratteristiche corporee».

La terza condizione per attribuire personalità a qualcuno è l’assunzione di un atteggiamento nei suoi confronti.

In altri termini, non è dopo aver stabilito oggettivamente che lui, lei, o esso siano persone, che adottiamo un certo tipo di disposizione, bensì «il nostro trattare lui, lei o esso in quel modo» risulta essere «in una certa misura costitutivo del suo essere una persona».

Come nota il professor Sparti, sarebbe assurdo pensare che al compimento del diciottesimo anno di età maturino improvvisamente le qualità per poter essere trattati come persone.

«Ciò che muta non è una qualità interna all’individuo di maggiore età (tale che gli permetta di accedere alla maturità).

Muta il tipo di rapporto che gli altri intrattengono con lui».

Queste tre condizioni sono per Dennett interdipendenti e le altre sono parzialmente dipendenti da esse.

La quarta condizione è la reciprocità, la capacità di assumere quell’atteggiamento personale nei riguardi di chi lo assume nei propri confronti.

In questo senso, l’individuo deve essere in grado di contraccambiare l’atteggiamento ricevuto.

Tale reciprocità, nota Dennett, è stata molte volte espressa con lo slogan: «essere una persona consiste nel trattare gli altri come persone».

In realtà, non è uno slogan molto soddisfacente, poiché di solito viene accompagnato da un’altra espressione, secondo la quale trattare un altro come persona significherebbe trattarlo secondo morale.

Ciò, in conclusione, risulta falso, se si considera la diversità e la distanza tra alcuni tipi di reciprocità.

Ad esempio, si può osservare che una delle differenze fondamentali tra alcune forme di strage e l’omicida è che quest’ultimo tratta la vittima come una persona.
La quinta condizione è la capacità di comunicazione verbale.

Tale tema rappresenta la differenza principale con gli animali non umani, proprio per questo motivo, secondo Dennett, tali esseri senzienti non possono essere considerati persone a pieno titolo.

La sesta ed ultima condizione, è che «le persone si distinguono dalle altre entità grazie ad una coscienza di tipo particolare: il modo in cui noi siamo coscienti non lo condividiamo con nessun’altra specie; talvolta è stato identificato con una forma di autocoscienza».

Soltanto questo tipo particolare di coscienza costituisce una «precondizione per essere un agente morale».
Come si è detto, le prime tre condizioni sono interconnesse, ciò significa che essere razionale equivale ad essere suscettibile di caratterizzazione intenzionale e che, a sua volta, corrisponde ad essere l’oggetto di un certo atteggiamento.

Le prime tre condizioni, inoltre, costituiscono nella linea d’indagine dennettiana, una condizione necessaria ma non sufficiente per esibire quella forma di reciprocità (quarta condizione), che è a sua volta condizione necessaria ma non sufficiente per avere la capacità di comunicazione verbale.

Infine, quest’ultima è condizione necessaria ma non sufficiente per aver quel tipo particolare di (auto)coscienza che è una condizione necessaria per essere una persona morale.
Come si può notare, il filosofo statunitense assegna un ruolo centrale al concetto di atteggiamento intenzionale.

Già discusso nel capitolo precedente, assumere una disposizione (o atteggiamento) intenzionale nei confronti di un individuo (ente o sistema) significa che il comportamento di quell’individuo può essere spiegato e previsto in base a credenze e desideri (predicati mentalistici) che gli sono stati attribuiti.

L’assunzione dell’atteggiamento intenzionale è di rilievo nella descrizione del concetto di persona poiché, seguendo la definizione data da Henry Frankfurt in Freedom of the Will and the Concept of a Person (che si analizzerà a breve) risulta fondamentale per stabilire se un dato ente o sistema abbia o meno tutte le condizioni per essere una persona.

Tale impostazione risente fortemente del Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen (1953), la cosiddetta “seconda fase” della speculazione wittgensteiniana, secondo la quale per comprendere gli stati mentali e i termini psicologici che ad essi fanno riferimento (il credere, il volere, il dolore) non occorre postulare nessun processo interno od entità nascosta.

Per Wittgenstein non dobbiamo chiederci se il pensiero, la comprensione, l’intenzione siano dei «processi mentali» [mental process], dei processi che sembrano «nascondersi dietro quei fenomeni concomitanti più grossolani, e pertanto appariscenti», ma occorre domandarsi in quali «circostanze» [Umstände, circumstances] noi abbiamo quell’esperienza vissuta e diciamo “io so”, “io intendo” e così via.

Il problema che si pone Wittgenstein è l’indagine grammaticale riferita alla descrizione dei nostri usi linguistici, compresi anche i termini psicologici. In questo senso, rifiuta un’indagine metafisica sulle questioni ultime.

Come sostiene: «Se “dietro l’atto del pronunciare la formula” dev’esserci qualcosa, questo qualcosa saranno certe circostanze, che mi autorizzano a dire che posso continuare […].

Ma non pensare affatto al comprendere come a un “processo mentale”!- Infatti è proprio questo il modo di dire che ti confonde le idee» (Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1999, § 153-155, pp. 82-83. e E. Carli, Mente e Azione. Un’indagine nella filosofia analitica. Wittgenstein, Ascombe, von Wright, Davidson, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 47-51.

Nella traduzione italiana il termine «mentale» è stato reso con «psichico», qui si seguiranno le indicazioni di Eddy Carli che si rifà all’edizione critica inglese curata dall’allieva di Wittgenstein, E. Anscombe).

Come Wittgenstein, Dennett non intende scoprire cosa siano gli stati intenzionali, bensì analizzare sotto quali condizioni possiamo attribuirli.

In questo caso, non si pone il problema se l’ente, nella fattispecie la persona, abbia effettivamente intenzionalità o meno, poiché l’atteggiamento intenzionale è una strategia utile a livello esplicativo (perciò possiamo adottarlo anche per spiegare il comportamento di altri sistemi non umani, come nel caso di un cane che abbaia davanti alla porta) e risulta «neutrale rispetto alla questione ontologica dell’ente o del sistema in questione»63.

È ovvio che, in tale prospettiva, assumere un atteggiamento intenzionale nei confronti di un sistema, non significa sostenere che tutti i sistemi intenzionali siano persone.

Dennett considera la strategia intenzionale come l’«unica strategia efficace» e pragmaticamente utile per spiegare il comportamento di un sistema, sia esso una persona, un animale non umano o, perfino, una macchina.

Uno degli esempi più famosi e ricorrenti nelle opere del filosofo della Tufts University è quello del computer che gioca a scacchi, come si è visto nel capitolo precedente.

Se intraprendiamo una partita a scacchi con un calcolatore, noi assumiamo nei suoi confronti un atteggiamento intenzionale, poiché gli attribuiamo credenze (o informazioni) e desideri (o funzioni di scelta preferenziale)65 in merito alla partita che stiamo giocando.

Tuttavia, trattare il calcolatore come un agente intenzionale, non significa che esso abbia particolari proprietà intrinseche e nascoste, bensì implica considerare l’agente con cui si ha a che fare come «un’entità raziocinante».

In questo senso, Dennett sostiene che le persone sono una sottoclasse di sistemi intenzionali, in quanto il fatto di essere trattato come un sistema intenzionale costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerati persone.

Ciò che è rilevante da un punto di vista morale, in questo uso dell’atteggiamento intenzionale, è che quando consideriamo quelle sottoclassi di sistemi intenzionali, le persone, noi diciamo che questi hanno realmente credenze e desideri.

In merito a tale questione sono sorte numerose polemiche nei confronti del filosofo statunitense, poiché se si ammette che, a differenza degli animali non umani e delle macchine, le persone hanno realmente rappresentazioni mentali, allora si potrebbe sostenere l’esistenza degli stati mentali e ciò risulterebbe in contrasto con il fervido antidualismo dennettiano.

In realtà, la posizione dell’autore è più articolata, in quanto egli afferma sì l’esistenza degli stati mentali nelle persone, ma soltanto se ci esprimiamo in termini psicologici, mentre se utilizziamo il linguaggio della neurofisiologia essi non esistono.

In questa impostazione della questione sugli stati mentali e sull’intenzionalità, egli abbraccia una «concezione relativistica dell’ontologia», che può essere fatta risalire alle tesi di Quine e Davidson in merito all’olismo semantico.

Per tali autori ogni enunciato ha un determinato significato non isolatamente, ma soltanto all’interno di un intero contesto linguistico.

Ciò che Davidson sostiene nei confronti del sistema semantico, Dennett lo traspone riguardo al mentale, ai sistemi intenzionali e a tutto quello che può essere considerato a livello, per così dire, personale.

In altri termini, non vi è contraddizione se parliamo di credenze, desideri, e quindi di stati mentali di persone come veri e realmente esistenti, purché teniamo ben presente che «cessano di essere reali – ecco il punto cruciale – […] quando dal livello d’analisi personale della psicologia (dove troviamo persone, azioni, intenzioni, desideri, credenze, passioni, ecc.) passiamo al livello sub-personale delle neuroscienze (dove troviamo neuroni, sinapsi, aree corticali sensoriali o motorie ecc.)».

In questo senso, per Dennett è ingenuo e fallace sostenere un’ontologia assoluta sulla base di presunti stati intrinseci, oggettivi, a livello sub-personale, come ad esempio sostiene John Searle [1974], con l’irriducibilità dei qualia, ed in un certo qual modo Thomas Nagel [1992] e P. F. Strawson [1959], con le loro rispettive concezioni sull’irriducibilità del concetto di persona.

Si può constatare che la spiegazione di Dennett a proposito degli stati intenzionali è un punto di notevole rilievo per l’articolazione della sua teoria della persona, poiché assumere e attribuire atteggiamenti intenzionali si dimostra essere costitutivo dell’essere persona in senso metafisico, ovvero essere capaci di utilizzare i pronomi personali “tu” ed “io”.

L’individuo è considerato per l’attribuzione di una vita “personale”, partecipe di un mondo di credenze, tuttavia ciò non è sufficiente per Dennett a farlo divenire una persona, nel senso pieno che tale concetto assume, in altri termini, nel senso di un agente morale.

17. I sistemi intenzionali di ordini superiori.
Il linguaggio fu inventato in modo che le persone potessero nascondersi reciprocamente i
propri pensieri.
Charles- Maurice de Talleyerand.
Come si affermava in precedenza, Dennett trae numerose riflessioni dall’analisi del concetto di persona di Hanry Frankfurt, espresso nel suo saggio del 1971, Freedom of the Will and the Concept of a Person.
Frankfturt critica le definizioni di persona di P. F. Strawson e di Alfred J. Ayer69, che sono quasi convergenti nel sostenere che sia persona quell’entità a cui sono attribuite contemporaneamente proprietà fisiche e proprietà mentali.

Per Frankfurt tali definizioni sono troppo ampie, poiché anche ad altre creature non umane, ad esempio a cani e maiali, possiamo attribuire un certo grado di proprietà mentali e, di conseguenza, di stati coscienti, ciò nonostante sarebbe illegittimo considerarli persone.

La proposta di Frankfurt, che riprende nelle linee principali Dennett, è più raffinata.

Si considerano persone soltanto quelle entità che riescono ad avere volizioni di ordine superiore, ovvero mentre cani e maiali possono avere volizioni di primo ordine, desiderano compiere o non compiere una tale azione, le persone sono “speciali” in quanto riescono a desiderare di desiderare, e a possedere, nei termini di Frankfurt, volizioni di ordine superiori.

Ed è questo talento, per così dire, che ci rende titolari dello status di persone.

Ma che cosa intende Frankfurt con “desiderio di desiderare”?

Si hanno volizioni di secondo ordine quando, nei termini di atteggiamenti intenzionali, “X crede che Y voglia che Z pensi..”, ad esempio: “So che vorresti uscire, ma non penso che tua madre sarebbe contenta”.

In questo caso, noi non attribuiamo soltanto una volizione di primo ordine, ma, riferendoci ad una credenza che riguarda altre credenze, adottiamo un atteggiamento intenzionale di ordine superiore.

Attraverso le parole di Dennett, noi definiamo sistema intenzionale di secondo ordine:
quello a cui attribuiamo non solo generiche credenze, desideri e altre intenzioni, ma anche credenze, desideri e altre intenzioni riguardo a desideri, credenze e altre intenzioni.
Per Dennett, seguendo l’impostazione di Frankfurt, il tratto distintivo per essere persone non è la razionalità, poiché, intesa nel senso ampio di «mamma» dell’intenzionalità, essa è presente anche nei sistemi intenzionali di primo ordine.

Non si può parlare di atteggiamento intenzionale se non si presuppone la razionalità dell’agente, sistema, o ente.

La definizione di persona introdotta da Frankfurt richiede condizioni più “restrittive” ed, in questo senso, si può dire che è più raffinata, poiché considera quell’«autovalutazione riflessiva» presente in ogni nostro discorso, o soliloquio, come il tratto caratteristico dell’essere persone.

Nella prospettiva di spiegazione del filosofo statunitense, tale caratteristica, enfatizzata da Frankfurt, ha un ruolo fondamentale nell’attribuzione dello statuto di persona, come agente morale. Vediamo come.
Attraverso il suo consueto argomentare logico, Dennett si domanda se è possibile considerare l’intenzionalità superiore come l’effettivo spartiacque tra persone e non persone, e ne indaga il ventaglio di ipotesi.

Ad esempio, noi potremmo supporre di ascrivere per ragioni «pragmatiche ed euristiche», l’attribuzione di atteggiamenti intenzionali di secondo ordine anche a cani, gatti, leoni, uccelli, delfini, ecc.

Uno dei casi possibili potrebbe essere quando il nostro cane Fido, alle tre del pomeriggio, guaisce davanti alla porta perché vuole essere portato fuori casa dal suo padrone.

Come si può vedere, anche dall’utilizzo del vocabolario linguistico per descrivere tale situazione, noi attribuiamo volizioni al cane, tuttavia, ed è questo il punto centrale, possiamo ascrivere al comportamento dell’animale un atteggiamento intenzionale di primo ordine (Fido vuole uscire e crede che il padrone lo farà uscire se piagnucolerà), ma non è necessario attribuirgli una credenza di ordine superiore del tipo summenzionato prima (Fido crede che il suo piagnucolare induca il padrone a credere che lui, Fido, voglia uscire).

In un caso del genere, Dennett applica il principio di L. Morgan, un caso speciale di rasoio di Occam, secondo il quale «a un organismo si dovrebbe attribuire una quantità di intelligenza, o coscienza, o razionalità, o mente, non superiore a quella strettamente necessaria a spiegarne il comportamento».
Tuttavia, l’analisi non è conclusa poiché possiamo constatare che in natura esistono altri tipi di comportamento a cui sembrano ascrivibili volizioni di secondo ordine, ma che in realtà si possono comprendere nella categoria della «destrezza automatica».

Uno degli esempi più studiati è «l’esibizione di distrazione» degli uccelli che fingono di avere un’ala rotta per riuscire a distrarre il predatore e portarlo fuori dal nido.

Dennett ne riproduce un soliloquio immaginario per comprendere meglio come vi sia una «base razionale liberamente fluttuante» in questo comportamento:
Io sono un uccello che nidifica al suolo e non posso proteggere i miei pulcini una volta che un predatore li abbia scoperti.

Posso aspettarmi che il predatore che si sta avvicinando adesso ben presto li scoverà, a meno che io non lo distragga; una cosa che potrebbe distrarlo sarebbe il desiderio di catturare e mangiare me, ma solo se pensasse che esiste una probabilità ragionevole di catturarmi (se pensasse che non è un trucco); se io gli dimostrassi che non posso più volare, istillerei in lui esattamente questa credenza; posso farglielo credere fingendo di avere un’ala spezzata, ecc.

Ecco, tale soliloquio mostra l’ingegnosità di un siffatto comportamento, e ve ne sono molte altre varietà in natura dove è possibile rintracciare nel contesto di una interazione tra preda e predatore la stessa base razionale complessa.

Ciò nondimeno, anche se volessimo considerare tale comportamento una prova della manifestazione di un’intenzionalità di ordine superiore, le prove di una rappresentazione di intenzioni di tal genere sono «scarse o addirittura assenti».

Si può provare che è un comportamento «meramente istintivo» e ciò significa che «tutti gli uccelli di quella specie lo seguono; lo seguono anche quando le circostanze non sono del tutto adeguate; anche quando ci sono ragioni migliori per rimanere nel nido.

Questo schema comportamentale è rigido, una sorta di tropismo, e presumibilmente i meccanismi di controllo sono geneticamente cablati, e non appresi o inventati».
Negli esempi citati, ciò che è rilevante ai fini dell’argomentazione sull’attribuzione delle condizioni per essere una persona, è mostrare come non sia sufficiente avere una base razionale per rendere un comportamento intelligente davvero intelligente, «anche un essere umano potrebbe fare una cosa altrettanto astuta, autenticamente intelligente, nuova e appropriata, senza esaminare alcun pensiero cosciente».

Per Dennett, «pensare i pensieri, comunque lo si precisi» non è uno dei tratti distintivi tra creature non umane e creature umane.

Anche la Anscombe, sostiene che: sarebbe in generale del tutto assurdo supporre che [una tale espressione del ragionamento] descriva effettivi processi mentali.

L’interesse della spiegazione sta nel fatto che descrive un ordine che è presente ogni volta che un’azione viene compiuta con intenzione.
Si nota, secondo il filosofo della Tufts University, che l’«ordine che è presente» appare sia nel caso dell’uccello sia nel caso in cui si prendano in considerazione comportamenti astuti e, per così dire, “istintivi” negli esseri umani.

Dennett, pur sottolineando la profonda differenza che intercorre tra il comportamento tropistico degli animali, dettato da una storia evolutiva naturale, e quello versatile degli uomini, nota che gli uccelli sono sistemi intenzionali di secondo ordine «alla stessa stregua degli esseri umani», se si accetta la definizione di sistema intenzionale come strumento di previsione e di spiegazione del comportamento.

In altre parole, per interpretare un sistema in termini di reciprocità, ovvero come «capacità dei sistemi intenzionali di esibire intenzioni di ordine superiore», non occorre presupporre, come sosteneva la Anscombe, che questo elabori il proprio quadro d’azione in una prospettiva rappresentazionale e, in particolar modo, linguistica.

Ciò che Dennett vuole provare, e l’uccello che finge di avere le ali spezzate ne è l’esempio paradigmatico, è che, affinché un sistema intenzionale sia autocosciente e capace di caratterizzare verbalmente il proprio comportamento, non è sufficiente esibire intenzioni di secondo ordine.

18. Comunicazione verbale e (auto)coscienza come precondizioni per l’azione morale.
Il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini […]
Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è coscienza pratica.

Riprendendo criticamente le argomentazioni principali della teoria del significato di Grice, Dennett individua alla base della capacità di comunicazione verbale sistemi intenzionali di terzo ordine.

In altre parole, per interagire verbalmente è necessario non soltanto saper manifestare atteggiamenti che possono presupporre agli occhi di chi li osserva stati intenzionali di secondo ordine, ma deve esserci un mutuo riconoscimento delle intenzioni (nel senso quotidiano del termine) dell’agente destinatario-ricevente.
Per Grice, la caratteristica principale dell’atto linguistico risiede nell’insinuare implicitamente qualcosa, nel far intendere.

È questo ciò che egli chiama «significato non naturale» e la definizione che ne dà è la seguente:
«U significa qualcosa pronunciando x» è vero se, per qualche uditorio A, U ha pronunciato x con l’intenzione che:
(1) A produca una certa risposta r;
(2) A pensi (riconosca) che U intende ;
(3) A soddisfi (1) in base all’adempimento della (2).


Ciò che si vuole far notare è che le condizioni di Grice sono sì alla base di ogni comunicazione verbale, ma nel senso che presuppongono un insieme di intenzioni più o meno latenti (poiché nella maggior parte dei casi avvengono inconsapevolmente e, come ricordava la Anscombe, a proposito di «un ordine che è presente») che soggiacciono alla dinamica della comunicazione verbale.

Tali intenzioni costituiscono la precondizione per avere una comunicazione verbale, ma non necessitano la richiesta che chi vi si cimenta sia realmente consapevole degli atteggiamenti intenzionali che sta impiegando.

Per Dennett, ci può essere un incontro tra le intenzioni di chi parla e di chi ascolta, ma questo non è del tutto scontato.

Infatti, ci possono essere situazioni in cui le condizioni del significato non naturale di Grice vengono adempite senza tuttavia mostrare un’effettiva consapevolezza da parte del parlante-emittente.

Si pensi ai casi di manipolazione o di inganno, come ad esempio il caso dell’americano che, catturato in Italia durante la seconda guerra mondiale, cerca di liberarsi pronunciando l’unica frase tedesca che conosce: “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühen?”.

Da questo esempio possiamo ricavare che l’incontro tra il parlante- emittente e il destinatario-ricevente non avviene, quindi la possibilità di un’interazione “non naturale”, verbale, può presentarsi senza quell’autoconsapevolezza dell’agente tipica della comunicazione normale e fondamento di ogni agire morale.

In altre parole, ci può essere reciprocità, capacità di attribuire intenzionalità a se stessi e agli altri, e comunicazione verbale senza esserne consapevoli, ma affinché ci sia un effettiva comunicazione ci deve essere fiducia tra coloro che interagiscono.

Come mostra il controesempio di Searle, il caso dell’inganno non è la norma per le comunicazioni verbali.

Ciò implica, per Dennett, che:
La comunicazione, essendo una sorta di manipolazione, non funzionerebbe, soddisfatto il requisito della razionalità dell’ascoltatore, se la fiducia di quest’ultimo in chi parla non fosse ben fondata o ragionevole.

Così la norma per le enunciazioni è la sincerità: se normalmente non fossero degne di fiducia, fallirebbe il loro scopo.
Attraverso questa serie di argomentazioni, Dennett ribadisce che ciò che consideriamo coscienza o autocoscienza interviene solo successivamente e sembra presupporre le prime cinque condizioni menzionate (razionalità, ascrivibilità di predicati intenzionali, assunzione di un atteggiamento intenzionale, reciprocità, comunicazione verbale), che tuttavia possono svolgere un ruolo rilevante per l’etica.
La «posizione originaria» di Rawls potrebbe essere una dimostrazione per argomentare che le cinque condizioni dennettiane sono alla base di qualsiasi azione morale.

In questa ipotetica situazione ideale, un gruppo di persone attraverso una scelta razionale esaminano gli effetti dei loro «interessi individuali e antagonistici (e per far ciò dovranno formulare intenzioni di ordine superiore: per esempio, credenze sui desideri di altri, credenze sulle credenze che altri hanno propri desideri e così via)» .

Per Dennett, è possibile stabilire una analogia tra il riconoscimento di un individuo, in base a degli atteggiamenti intenzionali in quanto aderisce a norme razionali, e l’accettazione da parte di un individuo dei principi di interazione con gli altri sulla base dell’adesione a quei principi.
Per Rawls ai principi di base della giustizia si aderisce in virtù di una riflessione razionale (idealizzata) che mostra aspetti di tipo pragmatico, in quanto se dei soggetti razionali che perseguono i propri interessi avessero libertà di scelta, comunque li adotterebbero.

Ciò che per Dennett risulta fondamentale nella sua interpretazione del concetto di persona è che la dinamica che conduce ad adottare i principi basilari della giustizia non è soltanto razionale, ma deve anche essere morale, nel senso che l’inferenza di tipo razionale che permette l’adesione a quei principi non è sufficiente a garantirne la moralità.

Come sostiene Rawls:
Per riconoscere un altro come persona si deve rispondergli e agire nei suoi confronti in certi modi; e questi modi sono intimamente connessi con i vari doveri immediati.

Riconoscere questi doveri, in qualche misura, e avere così gli elementi della moralità, non è un problema di scelta né di intuizione di qualità morali, e nemmeno un problema di espressione di sentimenti o atteggiamenti […] è semplicemente perseguire una delle forme di condotta in cui si manifesta il riconoscimento di altri come persone85.
In altri termini, affinché un soggetto diventi responsabile, soprattutto moralmente, deve essere capace di avere la consapevolezza piena della sua azione, in questo modo per Dennett l’autocoscienza (la sesta condizione) è alla base di ogni agire morale.

«Solo se ero consapevole di quell’azione io posso dire che cosa facevo, e partecipare da una posizione privilegiata al gioco di domande e risposte sui motivi della mia azione».

In altre parole, soltanto se posso razionalizzare ciò che sto facendo, ovvero agire in una prospettiva intenzionale, sono una persona, un soggetto morale.

Poter rendere conto, attraverso la comunicazione “non naturale”, per dirlo nei termini di Grice, delle proprie azioni in una prospettiva razionale è l’assunto fondamentale per il raggiungimento di un accordo tra le esigenze e gli interessi proprie e altrui, affinché si raggiunga quell’equilibrio che è la norma di ogni società.

Dalla caratterizzazione razionale dell’essere persona, emerge che si diventa agenti morali nel momento in cui non soltanto si è in grado di riconoscere le proprie azione, ma soprattutto di intervenire su queste ad un livello che risulta essere metavolitivo.

Frankfurt sostiene che i «desideri del secondo ordine sono una nozione vuota, se non si è capaci di agire su di essi».

Ma cosa significa agire su una volizione del secondo ordine?

Per Dennett, che riprende fedelmente le argomentazioni di Frankfurt, ciò significa saper trattare se stessi proprio come si tratta un’altra persona, in un’ottica non solo di chi comunica, ma anche di chiede ragioni e vuole persuadere.

Vi è una sorta di indottrinamento di noi stessi, nel senso che «cerchiamo di accumulare motivi di persuasione, ragionamenti, minacce, allettamenti, nella speranza di indurre noi stessi ad acquisire il desiderio del primo ordine», la nostra deliberazione spontanea.
Il particolare accesso che abbiamo nei confronti di noi stessi per il filosofo della Tufts University risulta essere non essenzialmente differente da quello che abbiamo nei confronti di altri. «Dobbiamo chiedere a noi stessi quali siano realmente i nostri desideri, le motivazioni, le ragioni, e solo se riusciamo a individuarli e ad esserne consapevoli possiamo indurci a cambiare».
Le sei condizioni espresse e intrinsecamente correlate che permettono ad un essere di acquisire la titolarità dell’essere persona, ovviamente, sono idealizzate, sono normative, nel senso che, come Dennett stesso ammette90, risulta impossibile soddisfare pienamente tutti gli assunti.

Tali condizioni possono essere ottemperate soltanto in maniera relativa.

Ed è in questo senso che «il concetto di persona è intrinsecamente e inevitabilmente normativo o idealizzato».

Ciò non toglie che, proprio in quanto non possiamo stabilire con chiarezza quando tutte le condizioni per essere una persona siano soddisfatte, queste assumono un valore normativo su cui approssimare i nostri criteri di valutazione.

In questa prospettiva la nozione metafisica e la nozione morale dell’essere persona non sono due concetti «distinti e separati ma solo due punti diversi, e instabili, dello stesso continuum».

Essere persone per Dennett significa accedere alla sfera morale e politica della nostra vita: «Quanta meno giustizia compare nel commercio e nelle interazioni di certe creature, tanto più esse non sono persone».
In altri termini, essere una persona in senso metafisico, ovvero dotata di vita biologica, è condizione necessaria, nell’ottica dennettiana, ma non sufficiente per diventare una persona morale.

Soltanto chi possiede una vita mentale ha una certa rilevanza morale.

Soltanto chi appartiene alla «classe di oggetti dotati di mente» ha degli interessi.

Cosa significhi avere degli interessi si esplica nel “percorso” graduale che conduce ad essere una persona in senso morale. Il linguaggio, in questo senso, diventa, come si è visto, fondamentale nella storia del progresso delle menti.

«Non esiste alcun passaggio più edificante, esplosivo e fondamentale dell’invenzione del linguaggio» poiché «nessuna transizione nella vita di un individuo conferisce un potere più astronomico dell’ “imparare” a parlare».

In altre parole essere un centro di Gravità Narrativa, è la precondizione fondamentale per avere una vita cosciente, che a sua volta è la precondizione per avere una vita morale.

Si diventa persona soltanto nel momento in cui si è agenti, questa è una delle condizioni basilari per Dennett per entrare nella sfera morale.

«Ciò che rende potente una mente – in realtà ciò che la rende cosciente – non è ciò di cui essa è fatta, né quanto essa sia grande, ma ciò che è in grado di fare» .

Ciò che è in grado di fare vuol dire agire, che nel caso della vita mentale, anzi cosciente, si esplica nella visione dennettiana in un’azione su se stessi e su gli altri, mediante lo strumento più potente che Madre Natura (la selezione naturale) ci ha dato, il linguaggio.

In conclusione, solo gli utenti di linguaggio per Dennett hanno un differente tipo di consapevolezza, che li distingue da tutti gli altri esseri viventi e permette all’Homo sapiens di diventare persone morali.

E, se dobbiamo distinguere la tutela morale dall’attribuzione dello status di persona, nondimeno possiamo esimerci dal riconoscere l’importanza che l’assegnazione di tale titolo comporta.

Epilogo.
Le barriere assolute, come la Linea Maginot, raramente servono allo scopo per cui erano state progettate.

Se, ad un primo sguardo, si può scorgere una contraddizione con la teoria dennettiana delle Molteplici Versioni che si oppone continuamente all’unità centrale del soggetto e la teoria dell’atteggiamento intenzionale, che al contrario presuppone l’unità dell’agente, in realtà per il filosofo statunitense «tutto dipende dalla distanza con cui ti poni».

Se ci si avvicina al soggetto si scopre che è disunito, molteplice e formato da tanti piccoli robot competitivi ed incoscienti.

Se ci si allontana si scopre la meravigliosa creatura complessa che s’interroga, si studia e si rappresenta con le parole e che, progressivamente, agisce.

È qui che quell’entità complessa inizia ad essere una persona, un soggetto che interagisce con se stesso e con gli altri, un soggetto che, presa l’ «autostrada della cultura», diviene intrinsecamente morale.

La capacità di pensare sui propri pensieri, di agire contraddistingue la persona.

Non ci sono confini netti, se così fosse alcuni dei nostri grandi problemi morali sarebbero risolvibili semplicemente con delle risposte.

Non per questo non ci sono stati progressi nel nostro modo di pensare e di affrontare questi grandi quesiti, la teoria dell’evoluzione naturale ha compiuto decisivi passi avanti nel campo delle scienze biologiche e non solo.

La lezione dennettiana sul concetto di mente, di coscienza e poi di persona, mostra in che modo si possano scoprire i misteri del trucco magico di alcuni “dolci sogni” di filosofi e teologi.

Fuor di metafora, ciò che diventa fondamentale è che non perdiamo le nostre coordinate morali se indaghiamo la coscienza umana e se mostriamo il progressivo cammino che trasforma l’homo sapiens in persona, attribuendo importanza e valore a ciò che l’uomo e il mondo umano è e può diventare.
Si deve incoraggiare «un atteggiamento che fondi la sollecitudine morale su basi non assolutistiche, non intrinseche, non dicotomizzate e che possa coesistere con la nostra crescente conoscenza del funzionamento interno di questa incredibile macchina, il cervello».

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