Tesi sulla mafia

Questa è stata la mia tesi di Laurea in Psicologia. A dispetto del tempo, molti di quei concetti storici s0no ancora tutti in piedi.

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTA’ DI MAGISTERO
CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA

DIETRO IL MOTO MAFIOSO.

ONORE , FAMIGLIA E DONNA NELLA

SICILIA DELL’ UNITA’ D’ITALIA.

Relatore: Chiar.mo Prof. Ivano Spano

Laureando : Paolo Serra
matricola 251532/ps

Anno accademico 1990/91

INTRODUZIONE
Con il presente lavoro ci proponiamo di affrontare l’origine e il consolidarsi del sentimento mafioso nella Sicilia occidentale.
Riteniamo che tale problematica sia ancor oggi di estremo interesse, non solo dopo l’impressionante serie di delitti politici negli anni ottanta che tanto sgomento hanno suscitato nel Paese, ma sopratutto perchè ancor oggi sono pressochè inutilizzati gli strumenti, i metodi e i rimedi approntati per comprendere e affrontare seriamente questo fenomeno sociale così ampio.
Sono pochi i contributi psico-storici sulle condizioni sociali siciliane pre-unitarie, sulle forme particolari di potere assunte dai ceti dirigenti locali nella conduzione dei poteri pubblici, sullo sviluppo imponente che la devianza individuale e collettiva di tipo criminale ha assunto nella gestione corrente della vita dei cittadini.
La pur sterminata bibliografia sulla mafia finora prodotta ha continuato sopratutto a riproporre immagini di relitti folklorici, deformando una realtà che andrebbe esaminata con l’occhio attento a non fornire riduttive semplificazioni su un fenomeno che non è risolvibile con demonizzazioni culturali moderniste o, peggio ancora, con generalizzate condanne genetiche di intere popolazioni.
L’obiettivo che ci prefiggiamo, dunque, è quello di fornire una panoramica, necessariamente parziale, del quadro socio-psicologico su cui è nato, cresciuto e consolidato il fenomeno mafioso che, attingendo a piene mani ai valori etici del folklore locale, ha rappresentato, comunque lo si voglia oggi intendere, una delle poche risposte politiche allo sviluppo capitalistico siciliano.
Per raggiungere questo obiettivo ci avvarremo, in particolar modo, degli studi compiuti da scienziati sociali come Hess, Hobsbawn, Romano, gli Schnaider, Franchetti. Ovviamente, di volta in volta, ci avvarremo del contributo di tutti quelli studiosi che, anche in tempi più recenti, come Renda, Pezzino, Lombardi Satriani, hanno elaborato con attenzione e originalità l’imponente mole di documentazione storica esistente.
Il nostro lavoro, pertanto, risulterà diviso in tre parti. La prima affronterà il contesto storico-economico del potere feudale nella Sicilia occidentale e le varie fasi su cui si è costituito il potere della classe civile.
La seconda parte concernerà, invece, i gruppi e i soggetti sociali che in questo contesto sono stati gli elementi fondamentali per il radicamento del fenomeno mafioso.
La terza parte, infine, affronterà la formazione dei codici culturali, cosi’ come sono stati elaborati dalla popolazione locale, e l’uso che la mafia è riuscita a farne per i propri fini di potere.
La prima parte sarà costituita da due capitoli, di cui sintetizziamo le tematiche e le finalità.
Nel primo capitolo si analizza come la mafia del Settecento, in quanto fenomeno che attiene a una sfera complessa di rapporti tra società e potere, si sia prodotta ed evidenziata con una specificità che la distinse nettamente dal brigantaggio attraverso un quadro di interrelazioni perverse di politica e di affari che le consentì di assumere e di svolgere un ruolo di pressione sullo Stato e di mediazione tra lo Stato e la sua base sociale.Non a caso, fu proprio con la nascita dello Stato unitario che la mafia si rese evidente come fenomeno organico alle classi dirigenti siciliane.
Si esamineranno le condizioni economiche che, determinate dal contesto economico periferico, emarginarono le produzioni isolane negli scambi continentali e provocarono una reazione di violenta difesa dei privilegi feudali.
Nemmeno la nascita e lo sviluppo del brigantaggio in quegli anni fu motivo di preoccupazione per i ceti dirigenti, dal momento che nel contesto isolano i briganti finiranno per diventare il braccio armato dei ceti mafiosi emergenti.
Nel secondo capitolo vengono rivisitate le condizioni storiografiche, e il dibattito che ne è seguito attorno, alla nascita del nome “ mafia “ e le polemiche culturali attorno al fatto se questo problema riguardi una caratteristica innata della popolazione o sia frutto dei rapporti sociali nell’isola.

Nella seconda parte verrà sviluppata principalmente l’immagine mafiosa cosi` come si sviluppa nel contesto sociale, particolarmente nel gruppo e nella famiglia. Particolare attenzione viene dedicato al ruolo che la donna svolge in questo contesto.
Nel terzo capitolo l’origine del gruppo mafioso come elemento originariamente scisso dalla società ufficiale viene rivisitato alla luce delle determinanti economiche che consentirono la nascita dei gruppi commerciali, che trovarono protezione e sostegno attraverso l’unione delle forze emergenti dell’isola.
Questo determinò una cultura collusivamente condivisa, improntata sull’immagine della famiglia estesa, utilizzando tutti i valori e i pregiudizi culturali presenti nel bacino patriarcale mediterraneo, in particolare quelli finalizzati al controllo sociale.
Con la famiglia clanica viene affrontata un’altra ideologia della mafia del 1800. L’interiorizzazione normativa dei valori familistici viene riprodotta continuamente ad uso e consumo della ricerca d‘identità e del recupero dell’oggetto d’amore perduto, d’una riproduzione sociale che nella vita del baglio assume ancora di più i contorni di una prigione feudale non più immaginifica, ma reale.
L’educazione gerarchica clanica garantiva un’impronta dogmatica sui bambini e in tal senso contribuiva attivamente il ruolo della donna della famiglia mafiosa. Ben al di la dell’apparente passività, la preservazione e la purezza del sangue clanico è stato responsabilizzato, neanche troppo simbolicamente, nell’immagine femminile, e di ciò esse si sono fatte promotrici e protagoniste attive nella determinazione delle alleanze e delle coalizioni familiari e gruppali.
Gli interessi che le donne esprimono, pur all’interno di una rigida divisione del lavoro, necessitano di una simbologia e di una strategia, e il sistema dell’onore rappresenta il canale veicolare più importante per la trasmissione di questi valori clanici.
Nella terza parte vengono rivisitati i codici demologici che sono vissuti da secoli nel bacino del Mediterraneo. Il capitolo V esamina, in particolare, il codice dell’onore. Esso risalta come l’elemento culturale da cui discendono ideologie più specifiche, come la vendetta individuale e collettiva.
La rilevanza di tale codice‚ testimoniato dal fatto che l’onore finisce col definire i confini ecologici del gruppo clanico, contribuendo efficacemente alla sua difesa di fronte alla scarsità delle risorse primarie e alla mancanza di un potere centralizzato sufficientemente credibile in termini di tutela dei diritti degli individui. Il palese stravolgimento effettuato dell’ideologia mafiosa di questo codice mediterraneo testimonia simbolicamente in modo eclatante come sia possibile, ancor oggi, usare stratificamente l’onore per costringere gli individui all’interno delle classi sociali a pareggiare il conto della mobilità sociale e, in particolare, a tenere a freno ogni rivendicazione sessuata, garantendo il predominio di una classe sull’altra.
La vendetta popolare mediterranea, cultura folklorica primaria, viene enfatizzata simbolicamente ancora attorno al ruolo della donna clanica, protagonista principale, anche se spesso occulta, delle sanzioni popolari e mafiose normative. La violenza che ne deriva ‚ direttamente proporzionale all’importanza che il codice dell’onore prescrive per la tutele dei beni reali e simbolici del clan. Il potere reale mafioso ‚ fondato primariamente in questa primitiva capacita` esistenziale .
L’ultimo capitolo esamina come questo complesso sistema ideologico si sia stratificato nell’isola, passando attraverso un sistema di rappresentazione brigantesco e popolareggiante, che ha determinato una psicologia dove l’immaginario mondo materno della madre terra determina l’unico elemento di dolcezza esistenziale, e dove la sua progressiva sostituzione con il concetto esterno del potere ha determinato la nascita, e nel contempo la morte, di ogni possibile duraturo rapporto con il potere, simboleggiato dal padre.

P A R T E P R I M A

L’IDEOLOGIA DEL POTERE E DELL’ACCUMULAZIONE MAFIOSA

CAPITOLO I°

L’ORIGINE ECONOMICA DEL LATIFONDO

La mafia sorge in Sicilia con l’evoluzione delle classi dirigenti siciliane originatesi nel contesto dell’Unità d’Italia. Prima di allora la Sicilia ha conosciuto situazioni storiche molto diverse, sia di indipendenza (periodo greco, arabo e normanno) che di sottomissione (periodo romano e catalano) e si pone nel contesto mondiale dell’epoca in posizione decisamente periferica rispetto a un centro che gravita nel nord Europa e che comincia ad avere nell’America del Nord un concorrente mortale per la sua materia prima: il grano. Questo è, infatti, il prodotto primario, coltivato nella Sicilia occidentale, che la congiunge all’Europa continentale.
Lo storico Immanuel Wallerstein ha ricostruito gli schemi che, in epoca moderna, hanno prodotto la formazione di quel modello produttivo capitalistico i quali, partendo dall’Europa, è stato esportato nelle Americhe e successivamente in gran parte del resto del mondo.
Wallerstein distingue tre aree:
Centro: dove si afferma il modo di produzione capitalistico. Esiste un forte stato centrale e il lavoro è salariato;
Semiperiferia: dove il modo di produzione è fondato sulla mezzadria e lo stato centrale convive con altri poteri, avendo però l’oligopolio della forza ; Periferia: dove vige il feudalesimo, il lavoro coatto per lo scambio,soprattutto in agricoltura, e non esiste di fatto nessun potere centrale.
Nel caso dell’Italia, essa vive tutte e tre queste aree, a seconda della posizione geografica. ”A partire dal secolo 17° si può parlare di declino dell’Italia, che diventa una regione agricola depressa. Mentre Francia e Inghilterra sviluppano una loro industria tessile, l’Italia, che prima esportava tessuti in quei paesi, perde due clienti importanti; il mercato resta limitato alla stessa Italia del Nord e alla Germania settentrionale… …Quando la guerra dei trent’anni sconvolge la Germania, per le esportazioni italiane è un vero disastro“ (Crisantino, 1990, pag.43) .

“L’Italia non potè neanche seguire la strada dell’Inghilterra e della Francia , perchè mancava di unita’ politica. Quando la peste, nel 1630, colpì l’Italia, ridusse la domanda di cibo, ma ebbe anche l’effetto di spingere più in alto i salari. Fu l’ultima goccia. L’Italia del Nord concluse così il suo ciclo, dal centro alla semiperiferia” (Wallerstein, 1978, vol. 1°, pag. 247).
La Sicilia è, in questo modello, collocata nel contesto periferico. Il potere di governo è diviso tra la corona spagnola e i baroni siciliani, lasciando isolati i paesi e la stessa burocrazia, senza mezzi ne personale.
Fu in presenza di una classe dirigente locale, che pure possedeva grandi ed esclusive possibilità di controllo dell’economia e della società locale, che “i mercanti stranieri …incameravano la percentuale maggiore dei profitti“ (Schneider-Schneider, 1989, pag. 46).

Questa dominazione impedisce la formazione di una solida e stabile rete di rapporti interni tra i diversi paesi,cosicchè le eventuali eccedenze non hanno nessuna capacità di scambio e le merci si muovono quasi esclusivamente verso le coste, verso l’esportazione.
Esportare significava commerciare in modo imprenditoriale, assumere ruoli che non erano stati fino ad allora svolti ne dai grossi proprietari terrieri, che si erano stabiliti nelle città, ne dai commercianti stranieri che dall’estero, o al massimo dalla capitale dell’isola, stabilivano le quotazioni e dirigevano i traffici verso il continente. Questa figura imprenditoriale fu assunta da “imprenditori rurali che passavano giorni e settimane di seguito nella masseria, la fattoria-podere che coordinava le attività agricole e pastorali del latifondo“ (ibidem, pag.79).
Non è quindi improprio parlare “di un ceto caratterizzato da un uso borghese della terra” (Pezzino, 1990,pag. 78), che ha sviluppato nella mediazione un tipo di capitalismo che si sviluppa essenzialmente perchè il centro non ha interesse a monopolizzare ed amministrare l’area periferica.
La mancanza d’interesse del centro capitalistico incita i mediatori locali a investimenti speculativi a breve termine, dove è possibile superare le incertezze derivanti dall’avere a che fare con persone straniere che perseguono interessi di paesi lontani e imprevedibili.
Il modello dell’economia-mondo si configura quindi come “ una struttura sociale dotata di confini, strutture, gruppi, regole di legittimazione e coerenza. La sua esistenza è il risultato di conflitti tra forze che lo tengono con la tensione e la lacerazione dato che ciascun gruppo cerca di continuo di plasmarlo a proprio vantaggio” (Wallerstein, 1978,vol. 2ø, pag. 447).
Funzionale a questo obiettivo è l’utilizzazione dei tipici codici culturali locali, come l’onore, manipolandoli però al fine di dotarli di un nuovo potere individualistico, teso all’arricchimento personale e a consolidare, anche per brevi periodi, legami d’amicizia con altri mediatori di altri paesi. Non si può certo parlare di affinità con le associazioni corporative del commercio, o dell’industria o della finanza che nelle metropoli del continente europeo hanno steso, in maniera organizzata, obiettivi di lungo periodo.
In un’economia del genere crebbe moltissimo il banditismo e si delego’ alla mezzadria lo sviluppo delle campagne, ma nella Sicilia occidentale la mezzadria possedeva solo la propria zappa, dovendo dipendere dai gabellotti sia per gli aratri che per le sementi. In queste condizioni, oltre l’80% del raccolto finiva al gabellotto. Questa situazione di cronico sfruttamento è stato particolarmente evidente nella Sicilia occidentale.

Nella parte orientale, infatti, solo alla fine del 17° secolo il colonialismo spagnolo riesce a piegarne l’integrità e l’autonomia produttiva. Giovanni Raffaele riporta uno studio di G. De Felice Giuffrida, secondo cui alla base della nascita della mafia vi sono fattori economico-sociali. In particolare “la presenza soffocante del latifondo estensivo (in Sicilia vi sono 2,5 proprietari su 100 abitanti, contro i 15 del Piemonte) e, di contro, l’inconsistenza della mezzadria e della colonia parziaria e dei fittavoli, poveri di risorse e sottoposti ad un tasso di usura che va dal 20 al 100% e, infine, l’enorme piaga di una stragrande maggioranza di braccianti avventizi“ (Raffaele,1983, pag. 67).

Assistiamo al paradosso di un consolidamento del feudo quando in tutto il resto d’Europa sta rapidamente tramontando sotto l’avanzata del capitalismo moderno e delle nuove tecnologie agricole ed industriali. E’ da rilevare che nel medioevo lo sviluppo del feudalesimo europeo è stato probabilmente l’arma vincente per affrancarsi dagli imperi orientali, bizantino e musulmano, che in quei tempi erano molto più sviluppati, in particolare nel commercio.
Imparando a fabbricarsi in proprio i tessuti e gli utensili, dotandosi di eserciti stabili e di una vita più contadina, gli stati europei divennero in grado di svilupparsi in modo autosufficiente. Non avvenne così in Sicilia dove “le istituzioni feudali del tardo medioevo…contribuirono a scalzare e distruggere l’autonomia dell’isola nei confronti delle aree centrali europee più sviluppate e, a conferma di ciò, nel futuro la vita urbana e commerciale sarà un’appendice degli interessi stranieri. Le importazioni aumenteranno moltissimo rispetto ai beni prodotti nell’isola. Tra i nobili feudali della Sicilia non c’è traccia del castigato ascetismo che aveva pervaso il primo feudalesimo europeo. Infatti i baroni siciliani sono considerati tra i più avidi sperperatori della storia“ (Schneider-Schneider,1989, pag.69).

CAPITOLO I°.1.

CAUSE STORICHE DEL POTERE MAFIOSO
Di mafia in senso proprio si può cominciare a parlare intorno alla metà del XIX° secolo. Sorge dalle tensioni che si sviluppano tra una realtà regionale caratterizzata da una classe dirigente con notevoli margini di autonomia politica e lo Stato unitario. La mafia è stata definita dagli storici sociali (Pezzino, -Schneider) espressione di un sistema di broker-capitalism (capitalismo di mediazione) ed ha avuto la gestione reale dell’economia dell’isola, non finalizzandola però mai al suo sviluppo produttivo. Nel processo di dissoluzione del feudalesimo, a seguito del quale i contadini e i mezzadri finiranno per stare anche peggio di prima, questa classe dirigente è ancora in grado di dettare le condizioni ai piemontesi, utilizzando allo scopo alcuni codici culturali, come quelli dell’onore e dell’omertà, manipolandoli in modo tale da far assumere loro funzioni nettamente differenti da quelli che avevano nel contesto storico che li aveva generati, finalizzandoli ad un nuovo e più raffinato potere.
In questa operazione la mafia fu certamente aiutata dagli sviluppi post-unitari, quando “la repressione del movimento garibaldino, che ebbe punte di ferocia inusitate… non fece altro che radicare negli strati popolari, specialmente in quelli che si raccoglievano nelle squadre, il sentimento che solo opponendo la forza alla forza sarebbe stato possibile modificare la situazione in senso democratico (Romano, 1966, pag.109)”.
Intanto il vuoto creato dalla decomposizione della società feudale e dall’incapacità dell’aristocrazia di essere classe dirigente, diventa, oltre che determinante, un’abisso incolmabile “quando la rivoluzione francese non riuscirà a varcare i valli meridionali e l’unificazione sabauda metterà i sigilli della real casa agli antichi equilibri sociali e di potere” (Galante, 1986, pag. 98). In futuro qualsiasi tentativo da parte di altri gruppi sociali di avere potere sarà bloccato dalla mafia.
Non più felici si dimostreranno le riforme economiche avviate dopo l’Unità d’Italia: delle terre che i più grossi latifondisti dovettero cedere ai Comuni, le più sterili andarono ai contadini, le altre furono date in gestione ai gabellotti, i quali, a loro volta, subaffittavano i fondi lucrando ampiamente sulle spalle dei contadini. Una borghesia parassitaria e violenta crebbe e si sviluppò sulle spalle di chi effettivamente coltivava la terra. Successivamente, a questa borghesia si alleò quella parte di imprenditori della Conca d’Oro che, utilizzando metodi intimidatori e violenti nelle relazioni sociali, ne gestivano le ricche colture.
Anche se qui parliamo di mafia agraria, il ragionamento e l’analisi sono estensibili anche alle città, a cominciare da Palermo, la cui storia sociale è strettamente legata alla vicenda delle campagne. Ne sono testimoni “le 12 rivolte che si susseguirono ad un ritmo crescente fra il 1512 e il 1866 che sono il segno più efficace del grado di disgregazione economica e di crisi politica raggiunto dal sistema sociale palermitano” (Guarrazzi, 1978, pag.33). Grandi masse di emarginati, senza alcun peso politico, vivevano di espedienti e davano luogo a periodici quanto vani rabbiosi moti di protesta. Ma i signori della campagna preferiranno “rendere inoffensivi gli strati sociali più poveri della città, piuttosto che affrontare in qualche modo il problema delle loro condizioni di vita“ (ibidem, pag. 35).
La spina dorsale della mafia fu costituita da questa ricca classe media, la quale, diventata praticamente l’effettiva classe dominante al posto degli antichi nobili rintanati nei palazzi palermitani a vivere di rendita, ottenne un potere enorme che seppe gestire con spregiudicata ferocia nei confronti dei potenziali concorrenti e con grande abilità politica nei confronti dello stato piemontese.

Il suo ruolo venne ulteriormente rafforzato dal nuovo ordinamento assunto dallo stato dopo l’unificazione, che ne autorizzò la capacità di mediazione e di controllo sociale, stante la non volontà di imporre le proprie istituzioni e le proprie regole. Col tempo tale situazione fu solo confermata; nuovi canali di intimidazione e di violenza furono adottati nei confronti di ogni rivendicazione contadina; crebbe la sua capacita’ di incutere timore ed ottenere rispetto tramite squadre armate di campieri, a cui, tra l’altro, i contadini dovevano corrispondere varie “regalie“ (precorritrici delle odierne tangenti).

Va rilevato che lo spazio per la mobilità sociale dei gabellotti si apre non nel momento in cui il potere baronale è forte, ma quando quest’ultimo decade ed entra in crisi profonda. I baroni non sono più in grado di governare in prima persona i loro feudi e le loro attività. Delegano tutto, accontentandosi delle rendite annuali che ricevono.
Esisteva quindi uno stato unitario che operava in una realtà caratterizzata da coalizioni nelle quali il ruolo dell’èlite indigena era fondato non solo sul controllo della terra, ma anche dei canali di comunicazione interni ed esterni all’isola. Scrive l’Alatri: ”I funzionari che erano stati chiamati a tenere le cariche di più delicata responsabilità portavano con se una mentalità che li rendeva ancora più inclini a passare sopra alle garanzie costituzionali. Non privi di albagia e di pregiudizi di superiorità, consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semi-barbari bisognosi di un trattamento difficilmente conciliabile con le cautele imposte dal regime liberale …Questa persistente mentalità governativa creava un circolo vizioso, perché rinfocolava l’odio delle popolazioni contro il governo, considerato estraneo ed ostile, mentre d’altro canto gli atti più apertamente illegali dei rappresentanti del governo nell’isola trovavano sempre una difesa o una sanatoria presso il governo centrale“ (Alatri, 1954, pag. 347).
Questo testimonia che fu soprattutto la lunga subordinazione ai centri di potere esterno, avvenuta per il ruolo periferico giocato dall’economia siciliana che “ha impedito alle èlites siciliane di svolgere un ruolo classe dirigente nazionale, pur lasciando loro la gestione locale del potere politico e delle risorse economiche” (Pezzino, 1990, pag. 43).
Questa è la ragione per cui, a mio parere, lo Stato non ha prodotto altro che inchieste parlamentari che non hanno avuto nessun seguito. Legittimando il potere mafioso, lo Stato non poteva contemporaneamente produrre strumenti in grado di contrastarlo.
Con la nascita dello Stato Italiano, nel 1861, si ebbero 600.000 uomini elettori votanti. In quelle condizioni, era abbastanza agevole per i candidati ai collegi uninominali venire eletti. Bastava una buona base di consenso. Con la riforma del sistema elettorale del 1882 i votanti passano a circa 2 milioni e mezzo, con una popolazione pressochè inalterata. I candidati devono adesso essere “sostenuti nel collegio, contro il suo avversario, dal capomafia, dal personaggio di rispetto, il quale lo sostiene, lo fa eleggere, ma in un certo senso lo subordina a lui“ (Ganci, 1986, pag. 143).
Certo l’intreccio tra mafia e potere politico sarebbe comprensibile se si tenesse presente che la mafia è stata, all’origine, essenzialmente un fenomeno dei ceti detentori del potere economico, per cui il rapporto di collusione era dovuto al fatto che il deputato o il ministro erano di estrazione mafiosa. Solo successivamente “il rapporto si è invertito e si è fondato esclusivamente sull’apporto economico e da allora egemone è diventato colui che apporta le risorse economiche, cioè il mafioso“ (Sorgi, 1986, pag. 145).
Anche Romano concorda largamente con questa ipotesi quando ricorda che “una delle influenze trasformatrici più importanti che la politica ha esercitato nell’insieme dei rapporti di clientelismo, di attività criminosa e di violenza parassitaria dei gruppi mafiosi, è quella che si è avuta con l’andata al potere della Sinistra storica e con l’allargamento del sistema elettorale … dal 1882 in poi si inizia la fase della legalizzazione politica della mafia. La nuova fase politica consente una trasformazione dei rapporti nel senso che il potere reale dei gruppi mafiosi tende sempre più a tramutarsi e ad identificarsi con il potere legale locale e con rappresentanti di esso” (Romano, 1966, pag. 156).

Anche la mafia del Settecento ha quindi una precisa correlazione e organicità con gli organismi statali. Essa è la risposta al tipo di sviluppo capitalistico del Mezzogiorno. “L’unico interesse di questi ceti dominanti era di mantenere le proprie posizioni di privilegio, di impedire che i ceti medi si trasformassero in una borghesia imprenditoriale e moderna, di evitare insomma, il rinnovamento della società siciliana” (Turone, 1984, pag. 45).
Non è condivisibile parlare quindi di assenza, di latitanza, di inefficienza o di debolezza statale nei confronti della prevenzione o della repressione del fenomeno mafioso. Nei confronti della società italiana nel suo complesso, la mafia ha costituito una risposta data da strati sociali emergenti in un tessuto sociale segnato dallo immobilismo; ”cioè il tentativo di acquisire, senza mettere in discussione le radici socio-economiche del sistema sociale dominante, una migliore posizione, beninteso sempre in termini individuali, mai collettivi, e meno che mai di classe“ (Lombardi Satriani, 1978, pag.31).
Su questa interpretazione concorda anche Blok che, ricordando i profondi cambiamenti avutisi con la seconda metà del Settecento con la caduta della nobiltà e il sorgere del ceto medio agrario, scrive che questa classe media costituisce un’èlite di “imprenditori-contadini, dal momento che essi erano individui di origine contadina che, con un forte spirito di iniziativa, manipolavano persone e risorse alla ricerca di un profitto“ (Blok, 1986, pag. 51).
Non è possibile parlare di mafia come di una degenerazione del tessuto sociale dovuto a carenze pubbliche. Certo, anche prima esisteva un tessuto culturale di base che ha favorito la nascita del codice mafioso. Ma la mafia si manifestò e si rafforzò come fenomeno quasi istituzionale dell’assetto sociale siciliano nel momento in cui lo stato unitario cominciò a svolgere le sue funzioni, cioè dopo il 1860. L’establishment siciliano si pose, nei confronti dello stato liberale, in una posizione di opposizione, con evidenti tensioni conflittuali, con la rivendicazione orgogliosa di una irriducibile “diversità“ rispetto ai “piemontesi“.

La classe dirigente siciliana si attendeva dal nuovo stato la salvaguardia, e non certo la turbativa dei tradizionali interessi: quelli del latifondo, quelli della grande proprietà terriera, quelli di una feudalità che da poco aveva abbandonato la titolarità dei propri privilegi rivestendo i panni di una “modernità “ che, comunque, non doveva travolgere l’antico ed irriducibile ordine gerarchico. C’ era quindi una classe dirigente e un seguito di intellettuali servili che fungevano da cinghia di trasmissione tra i vertici del potere e i ceti popolari.
Lo scenario muta nel 1876. Fino ad allora l’Italia era stata guidata dalla classe dirigente “piemontese“, la Destra storica, erede della tradizione di Cavour. Con l’avvento al potere della Sinistra, determinata dai risultati elettorali del 1874, mutarono profondamente i rapporti tra Nord e Sud nella composizione della classe dirigente nazionale. La Sinistra, particolarmente nel meridione, era caratterizzata più da tendenze conservatrici e da una composizione clientelare che da tendenze progressiste, una Sinistra di notabili, costituita da poche persone di alta qualità intellettuale e morale, ma, in genere, espressione organica di una tradizione meridionale che si difendeva dallo Stato liberale. Questa Sinistra, in Sicilia, aveva inalberato i vessilli dell’autonomismo, fino a punte di separatismo.
E fu questa Sinistra siciliana, che deteneva il monopolio della rappresentanza dei grossi interessi siciliani, a entrare a far parte degli equilibri di forza dello Stato unitario. Da quel momento in poi la mafia diventò qualcosa di molto più simile ad una forza delegata dallo Stato ad esercitare il potere di classe in Sicilia. Ottenuta la legittimazione ufficiosa da parte della borghesia nazionale, il notabilato mafioso, e la sue forze sparse nel tessuto assolato dei latifondi, ebbero i titoli di rappresentanza e la libertà d’azione di difesa dell’ordine sociale.
Fu soprattutto l’inchiesta di Franchetti e Sonnino a costituire il punto di svolta nella visione dei problemi della Sicilia, indicando chiaramente la mafia come un’organizzazione delinquenziale al servizio della grande proprietà, rappresentata allora dai baroni latifondisti.

Franchetti osservava che il fatto che per lunghi secoli la potenza e la forza materiale erano stati il privilegio esclusivo del ceto baronale, e la violenza si fosse esercitata sempre a loro vantaggio, non era stato senza influenza nel formarsi del “sentimento di mafia“, la quale, prima ancora che un’organizzazione vera e propria, era in origine qualcosa di più ampio e abituale nella psicologia e nel costume dell’isola: un particolare modo di vita di una società semifeudale obbediente a una legge diversa da quella sancita dagli statuti e dai codici, la regola dell’atto di violenza in cui la forza e il coraggio personale conservarono a lungo un’importanza decisiva per assicurare successo e impunità; un mondo dove la dipendenza personale dal ricco e dal potente era continuamente sentita come una necessità che assicurava al debole il soddisfacimento di elementari bisogni (dal lavoro alle controversie con i più forti), e offriva, nello stesso tempo, al forte lo strumento di un potere che oltrepassa quello della legge ufficiale.
“La mafia è una unione di persone d’ogni ordine, d’ogni professione, d’ogni specie, che, senza aver nessun legame apparente, continuo, regolare, si trovano sempre unite nel promuovere il reciproco interesse…La mafia è un sentimento medioevale; mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della propria persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dalla azione dell’autorità e delle leggi“ (Franchetti, 1925, pag. 46).
Anche lo storico inglese Hobsbawn sottolinea che la caratteristica più importante del fenomeno consiste nel fatto che tutti i capi delle mafie locali erano persone facoltose appartenenti alla classe media, come appaltatori e agricoltori capitalisti, avvocati, ex feudatari delle zone dell’interno. “ Spina dorsale della mafia erano i gabellotti, – appartenenti alla classe media più ricca – che corrispondevano ai proprietari feudali assenteisti un affitto globale per l’intera proprietà e subaffittavano ai contadini, e praticamente erano diventati l’effettiva classe dominante, al posto dei padroni“ (Hobsbawn, 1966, pag. 62).

CAPITOLO I°.2.

VERSO IL CONTESTO PERIFERICO CAPITALISTICO

Marx ricorda che la premessa del modo di produzione capitalistico è “che gli agricoltori effettivi siano dei salariati, occupati da un capitalista, l’affittuario, il quale esercita l’agricoltura unicamente come un particolare campo di sfruttamento del capitale (Marx, 1989, vol. III°, pag. 717) e che la “cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione” (ibidem, 1989, vol. I°, pag. 778). Questo è avvenuto perchè “la struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura della società feudale“ (ibidem, pag. 779).
Nella Sicilia occidentale, questa struttura economica, fondata essenzialmente sul grano duro, coltivato per essere esportato, generò un’esperienza coloniale di catastrofico impatto sull’ambiente, sul possesso e sull’uso delle terre e dei boschi, sulle forme organizzative civili e politiche.
Un’utile testimonianza, visibile ancor oggi, del capitalismo di mediazione sviluppatosi nel corso dei secoli, è dato dalla rete di trasporti nell’isola. Le strade principali collegano i centri costieri con le città più importanti ma, sebbene queste strade attraversino l’interno dell’isola, raramente si congiungono tra di loro. “Queste strade non rappresentano un mezzo di integrazione, perché riflettono l’assenza di uno scambio simbiotico tra gli abitanti di centri reciprocamente dipendenti” (Schneider – Schneider, 1989, pag. 215).
Scarsi contatti, necessità di resistere alle pressioni industriali del Nord, saldezza delle strutture del capitalismo di mediazione che serviva gli interessi degli imprenditori rurali, dei pastori e del ceto civile delle città, furono gli ingredienti per resistere alla marginalizzazione che si prospettava per l’isola.

Una serie di fattori concorse alla trasformazione della Sicilia occidentale da riserva di grano duro a riserva di manodopera, instaurando un rapporto con l’estero ancora più sbilanciato e svantaggioso rispetto al passato. Si ebbe un notevole aumento dell’importazione di beni di consumo e un contestuale declino dell’esportazione di grano. La popolazione, invece, aumentò rapidamente passando da 2.400.000 a 3.500.000 dal 1860 al 1901. L’alimentazione della popolazione peggiorò per l’aumento del prezzo del pane a seguito delle tasse sul macinato.
L’esodo massiccio della popolazione (gli storici calcolano in oltre un milione i siciliani che abbandonarono l’isola tra il 1880 e il 1915) contribuì a frenare le sommosse e rendere l’emigrazione la fonte più importante di scambio estero. “Tra il 1891 e il 1895, le rimesse degli emigranti ammontavano allo 0,5% dei depositi del sistema di risparmio postale italiano. Nel 1910 erano arrivate al 20,9%“ (Neufeld, 1961, pag. 290). Pur con questi risparmi, muli o asini furono gli unici investimenti produttivi che i contadini rimasti in Sicilia si potevano concedere dalle rimesse dei familiari.

Il capitalismo di mediazione resistette, attraverso “il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan, in proprietà privata moderna …Questi metodi conquistarono il campo dell’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege“ (Marx, 1989, vol. I°, pag. 796).
Se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del moto di produzione capitalistico” (ibidem, pag. 692).
Queste due condizioni, sovrappopolazione e accumulazione mafiosa, sono ambedue fenomeni che si sono verificati nel contesto siciliano. Abbiamo visto come nella seconda metà del 1800 fosse avvenuta un’esplosione demografica, a seguito soprattutto del moltiplicarsi delle zolfatare, che vide però, pochi decenni dopo, rapidamente peggiorare le condizioni economiche delle famiglie e l’esodo successivo verso l’estero di manodopera non qualificata.
Galante ricorda che l’evoluzione del fenomeno mafioso può essere ricondotto ad un’unica ipotesi di interpretazione che, attraverso una lettura economica e storica, coglie nel dato dell’accumulazione, l’elemento costante della crescita e delle trasformazioni dell’organizzazione mafiosa. “Accumulazione che peraltro identifica, tanto nella fase elementare e rozza del precapitalismo feudale che nelle sue forme attuali e tendenzialmente sempre meno illegali i connotati sociali assunti dalla mafia“ (Galante, 1986, pag. 90).
Ancora più drastico è Antonino Sorgi quando dice che “la mafia non è altro che un processo di capitalizzazione fondato in modo essenziale e determinante sulla violenza“ (Sorgi, 1986, pag. 140). I mafiosi sostanzialmente iniziano un processo di accumulazione primitiva anomala, con la violenza, poiché costringono il bracciante stesso a lavorare sul feudo ed impongono ai contadini condizioni vessatorie, senza che questo comporti né un miglioramento delle colture né un investimento della capitalizzazione in attività diverse da quelle dell’agricoltura.
Una importante trasformazione sulla proprietà della terra si era già avuta nel 1912, quando una costituzione apparentemente liberale sancisce l’abolizione delle feudalità in Sicilia. In quella fase c’è il “Regno di Sicilia“, la separazione da Napoli. Ma la fine del feudo significa la nascita dell’“allodio“, cioè la padronanza completa a favore dei gestori dei feudi. “In termini di storia del diritto italiano feudo è proprietà limitata, allodio, invece è proprietà totale, da alles, in tedesco “tutto“, per cui il fruitore del feudo ne diventava padrone. Contemporaneamente avveniva un esodo dalle campagne verso le città, per cui i padroni della situazione rurale rimasero i gabellotti” (Ganci, 1986, pag. 142). Il modello siciliano di quel periodo potrebbe essere infine così tratteggiato: nella Sicilia occidentale concentrarsi delle aristocrazie fondiarie nelle città e delle popolazioni rurali nei borghi, affermazione della figura sociale del gabellotto, nella Sicilia orientale parcellizzazione della grande proprietà attraverso l’enfiteusi, esportazione del grano e dei semilavorati come la seta greggia, più centri di potere nell’isola e una sorta di oligopolio della violenza fisica a favore della mafia.

CAPITOLO I.3

IL BRIGANTAGGIO SICILIANO. MITI E REALTA`.
La prima descrizione dell’“onorabile confraternita“, come viene ironicamente definita la mafia, la troviamo nella quarta delle ventinove lettere che Brydone scrive nel suo viaggio in Sicilia del 1770. Essendo un viaggiatore illustre, il governatore di Messina mette a disposizione di Brydone e dei suoi amici che lo accompagnano nel viaggio una scorta per proteggerli lungo il viaggio nell’isola. Scrive Brydone: “ora da chi pensi fosse composto questo fidato corpo di guardia? te lo dirò io: dai più arditi e incalliti furfanti che esistono sulla faccia della terra. In un altro paese sarebbero già stati messi al supplizio della ruota o appesi in catene; qui invece sono pubblicamente protetti e universalmente temuti e rispettati” (Brydone , 1968 , pag. 56). Brydone spiega che era stato lo stesso principe a adottare questa politica “non solo la più sicura, ma anche la più saggia“, quella cioè di accogliere al proprio servizio i fuorilegge e i briganti che accettassero di mettersi al suo servizio. In tal caso sarebbero stati vestiti ed armati come si conviene, considerati “gente di rispetto e d’onore“.
Cento anni dopo la situazione non era certo molto cambiata. Tralasciando tutta la letteratura romantica che pure ha esaltato il tipo di protesta individuale del brigante, va detto che esiste un mito popolare attorno alla figura del brigante stesso. Romano ricorda come per i banditi meridionali i punti di onore fondamentale restano a lungo “il rispetto della madre, delle donne, specialmente zitelle e vedove, della parola data e della religione“ (Romano, 1966, pag. 75), e come nella psicologia di quei briganti le azioni di brigantaggio “assumevano in tal modo non solo un carattere di protesta, ma anche di forza che si fa valere e che quindi suscita attrazione e simpatia; anche per il fatto che quel brigante di origine virile in tal modo si rifaceva dello stato di inferiorità e del complesso psicologico di timore e di oppressione che dominava di solito nelle popolazioni del mezzogiorno e specialmente fra i contadini“ (ibidem, pag. 36).
Gramsci osserva come il sentimento pubblico verso il delinquente varia e muta secondo le circostanze e le tradizioni storiche, le condizioni sociali e che “il grande delinquente è stato spesso rappresentato come superiore all’apparato giudiziario, addirittura come il rappresentante della vera giustizia“ (Gramsci, 1954, pag. 12). E quelli sono anni in cui i giovani appartenenti agli strati poveri della campagna si trovano spesso davanti all’alternativa fatale di essere o servi o banditi.
“Il mito del brigante sociale è in realtà alimentato dai banditi stessi, che hanno tutto l’interesse a rivestire la propria azione di una forma di giustizia… … uno sguardo alle mappe del banditismo … evidenzia come esso si estendesse, nella Sicilia centro occidentale, sia nelle zone del latifondo cerealicolo e delle miniere di zolfo, sia a quelle di agricoltura ricca attorno a Palermo … non la povertà, ma l’attività produttiva sembra essere il terreno di coltura del banditismo“ (Pezzino, 1990, pag. 96).
La mafia si distingue dalle altre forme brigantesche perchè “essa è una forma di potere reale extralegale di cui si servono: gruppi politici, sociali ed economici secondo i fini di conquista e di egemonia che essi si propongono“ (Romano ,1966, pag. 205). Non a caso il mafioso si presenta non tanto quanto un giustiziere o un vendicatore, ma come un “uomo d’onore“ che conosce tutti i mezzi per raggiungere i suoi fini ed è disposto a ricorrere direttamente o indirettamente, “all’azione di imposizione e di forza che può arrivare fino al delitto, per punire i mancatori di parola, le spie, gli avversari ostinati e specialmente coloro che si oppongono alla ascesa degli intraprendenti che vogliono farsi strada con ogni mezzo nella vita“ (ibidem, pag. 45).
Dello stesso avviso è Hobsbawn che distingue il banditismo sociale dalla mafia, nel senso che la mafia è un “monopolio locale di estorsione controllata che spesso assurge a vera e propria istituzione, al punto da perdere i propri caratteri di forza bruta, con l’eliminazione di ogni intruso“ (Hobsbawn, 1966 , pag. 85).

La grande mistificazione di accomunare briganti e mafiosi è stata possibile perchè il rifiuto della miseria era simile sia al brigante che al mafioso, e questo è ancora più vero in una società chiusa come quella feudale. Ma le differenze sono notevoli poiché, mentre il brigante combatte l’ordine costituito e le leggi statali, la mafia non si mette mai o quasi mai apertamente contro la legge, ma al contrario si presenta come sollecita dell’ordine, del rispetto, naturalmente formale, della legge, con l’aria di chi è costretto a violarla di continuo, suo malgrado, per colpa di coloro che non vogliono intendere la “ragione“. L’amministrazione della giustizia statale è sempre stata inadeguata alla realtà dei fatti. Questo ha permesso ai possidenti rurali, già abituati all’uso del potere violento, di assumere un ruolo di protezione, promozione e utilizzazione dei briganti in funzione antipopolare. La classe dominante ha chiaramente e lucidamente individuato nel brigante un potenziale rivoluzionario, un antagonista; nel mafioso un potenziale alleato, “dato che il mafioso cercava spazi per emergere, anche con la violenza, all’interno del sistema, ma senza volerne il ribaltamento“ (Hess ,1984, pag. 10).
In realtà, il banditismo postunitario nel meridione è stata la risposta popolare ad un processo di unificazione che era teso a distruggere solo le specialità del Sud, le sue diversità. Una risposta che oggi definiremo politica. “E` stato, in altri termini, un processo di resistenza, anche se non ve ne era la consapevolezza specifica; gli altri fenomeni – mafia, camorra, ndrangheta – non solo non mettono in discussione il quadro dei valori prevalenti, ma tendono a ribadirlo perchè ne assimilano come finalità i valori fondamentali: ricchezza, prestigio, potere” (Lombardi – Satriani, 1978, pag. 36).

CAPITOLO II°
NASCITA DEL SIMBOLO D’ONORE

Non esiste accordo tra gli studiosi sull’origine del termine “mafia“. Essa appare documentalmente scritta solo nel 1863 nel titolo del dramma di Giuseppe Rizzotto “I mafiosi di la Vicaria“. Tale dramma, popolarissimo nei decenni successivi, fu scritto attingendo al gergo mafioso che Rizzotto conobbe direttamente da un capomafia palermitano. Il vocabolo è quasi sicuramente di origine araba (gli arabi hanno dominato la Sicilia dal IX° al X° secolo) e, probabilmente, si rifà al nome della tribù musulmana dei “Ma Afir“, governatori di Palermo in quel periodo. L’etimologia della parola “afah“ rinvia da un lato ai concetti di salute, vigore, coraggio e dall’altro vuol dire proteggere, tutelare. “Si tratta di un’etimologia che riporta i concetti di offerta e ricerca di protezione, e nel contempo di evasione di poteri che non si vogliono riconoscere“ (Turone, 1984, pag. 38).
L’origine araba del termine è rafforzata anche dal contesto in cui si è radicato il termine, la val di Marzara, luogo in cui furono relegati gli arabi dopo il 1100. E` in quella zona della Sicilia occidentale che i feudi si sono secolarizzati ed è lì, e non in tutta la Sicilia, che la mafia è nata, ha attecchito e prosperato. Anche Pitrè affermava che il termine “mafia“ in Sicilia aveva un significato diverso sia dal toscano “maffia“, che voleva dire miseria, sia dal francese “mauffè“.
Pitrè l’ha intesa come fenomeno sociale di una particolare psicologia isolana e, parlando con ampiezza del termine “mafia“ e dei successivi significati che essa è andata assumendo, scrive che già nei primi del 1800 la parola mafia nell’isola significava bellezza, perfezione, graziosità ed esprimeva l’idea di qualità, valentia, superiorità ed eccellenza: “ una ragazza bellina che apparisce a noi cosciente di essere tale, che sia bene assettata (zizza), e nell’insieme un non so che di superiore e di elevato, ha della mafia, ed è mafiusa, mafiusedda. Un oggetto d’uso domestico, di qualità così buona che s’imponga alla vista, è mafiosa“ (Pitrè, 1889, pag. 92).
All’idea di bellezza, la parola univa quella di particolari doti di coraggio e di intraprendenza quando era riferita a un uomo. “Coscienza d’esser uomo, sicurtà di animo e, in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L’uomo di mafia o mafiusu inteso in questo senso naturale e proprio non dovrebbe mettere paura a nessuno, poiché pochi come lui sono creanzati e rispettosi … La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, l’unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee; donde l’insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui” (ibidem, pag. 108).

Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre. Anche se viene offeso, l’essere uomo d’onore gli impedisce di ricorrere alla giustizia ufficiale poiché ciò sarebbe prova di debolezza e si offenderebbe anche il codice dell’omertà, che ritiene schifiusu e ‘nfami chi per aver ragione si rivolge alla legge statale. Egli deve farsi giustizia da solo e solamente se non ne ha la forza può farsi aiutare, comunque solo dai suoi amici e da “altri de’ medesimi pensamenti, del medesimo sentire di lui“.
Una tesi suggestiva, anche se non convincente, è quella avanzata da un attento filologo e studioso del fenomeno della mafia come Loschiavo. Egli sostiene che la parola mafia ha origine dal vocabolo arabo maha (che significa cava di pietra) e non, come ritengono alcuni filologi, dall’altro vocabolo arabo mahias (che significa spacconeria). La tesi di Loschiavo deriva dal fatto che nelle cave di tufo del territorio trapanese, vicino ai luoghi cioè dove avvenne la sbarco dei mille – cave di tufo dell’epoca saracena note come “mafie”- si rifugiavano i cospiratori politici e gli organizzatori delle squadre rurali, ossia dei famosi “picciotti” che combatterono con Garibaldi, per sfuggire alla persecuzione della polizia borbonica . Quei partigiani, poiché provenivano dal covo delle “mafie” furono chiamati mafiosi e poiché erano, o erano considerati, “uomini d’onore, la qualifica di mafiosi li gratificò di un appellativo che cominciò a significare, per le azioni compiute e il comportamento valoroso, qualcosa di particolarmente importante, di eroico. La qualifica fu estesa dagli uomini alle cose e la parola mafia venne adoperata per esprimere doti particolari di fascino, forza e bellezza.

Ma il termine mafia, al quale è associato quello di omertà, costituisce anche un simbolo di separazione. Si parla anche di società mafiosa come corpo separato e in contrapposizione alla società civile. Questo vissuto di separazione, che, come abbiamo visto, ha origine storiche e culturali molto remote, è uno degli elementi centrali su cui si è fondato il potere mafioso.

CAPITOLO II°.1.
INNATISMO ED AMBIENTALISMO MAFIOSO
Non è secondaria l’importanza attorno alla genesi mafiosa. Nel XIX° secolo esso era considerato un fenomeno squisitamente delinquenziale e criminale che riguardava soprattutto le classi popolari. Come tale doveva essere trattato, andando ad estirpare la radice del male. Lombroso non dubitava di attribuire la maggior gentilezza d’animo del nostro secolo, confrontandolo con quelli passati, alla epurazione della razza mediante la pena di morte e sulla stessa linea era Garofalo che sosteneva, senza mezzi termini, l’esigenza che i delinquenti abituali fossero eliminati, sia per migliorarne la razza con l’eliminazione dei comportamenti socialmente sgraditi, sia perchè costava troppo mantenerli in galera, soprattutto in caso di condanna all’ergastolo.
In ogni caso l’idea principale era che vi fosse un gene della delinquenza e, quindi, anche di quello della mafiosità. Non mancavano voci contrarie a questa impostazione culturale, anche se esse erano espressione più di politici che di studiosi sociali.
Turati indicava nelle sperequazioni economico-sociali la causa vera dei delitti, e ne indicava i rimedi attraverso le opportune misure di riforma sociale, mentre Gramsci, dando una lettura politica di questa ideologia degli scienziati sociali, imputava alla borghesia del Nord di trasmettere un messaggio alle masse settentrionali per dimostrare che “Il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari” (Gramsci, 1945 , pag. 5).

Oggi le tesi innatistiche sulla mafia si rifanno alla teoria sociobiologica “La mafia è un ritorno a gerarchie che esistono in forme animali precedenti le nostre o in forme societarie arcaiche … il ritorno alla gerarchia è il risultato dell’ingiustizia nella giustizia ufficiale” (Faranda ,1983, pag. 52), oppure a una forma curiosa di cultura innata: “La mafia … è una componente del sangue di chi nasce e vive nella Sicilia occidentale … è diventata un costume, quasi un modo di essere“ (Turrisi – Grifeo, 1982 . pag.44 ) .
Più scientificamente, credo che non esista nessun elemento che possa portarci a credere a un gene mafioso. Come scrive Lombardi Satriani “si tratta, nell’insieme, di valori concatenati, che si potenziano reciprocamente e che, interiorizzati dai ragazzi attraverso la famiglia e il paese … costituiscono l’animus mafioso, che non va rapportato ad alcuna determinazione genetica, come vorrebbe l’antropologia criminale di stampo lombrosiano, né ad alcuna struttura caratteriale, come si vorrebbe con terminologia più aggiornata, ma con uguale vena razzistica“ (Lombardi Satriani, 1978, pag. 103).

P A R T E S E C O N D A

L’IMMAGINE SOCIALE MAFIOSA

CAPITOLO III°

IL GRUPPO E LA COSCA

Cooley, nel 1909, stabilisce un criterio sociologico sui gruppi che ancor oggi è un punto fondamentale di riferimento: i gruppi primari e quelli secondari.
I gruppi primari sono quelli i cui membri sono uniti da legami emotivi, intimi, essi hanno un legame spontaneo, diretto, effusivo; sono primari nel senso che offrono all’individuo la sua prima e completa esperienza di rapporto sociale.
Nei gruppi secondari, gli individui vi partecipano con modalità finalizzate al raggiungimento di obiettivi particolari e delimitati e impiegano solo alcune capacità proprie allo scopo da raggiungere; il gruppo cioè non è fine a se stesso ma strumento per altri scopi. Le relazioni risultano razionali, contrattuali, formali.
Come esempio di gruppo primario, Cooley indica gli amici e sopratutto la famiglia. Se soltanto l’ideologia nasconde la natura del reale e dell’immaginario che caratterizza ogni gruppo, esso sarà la costruzione per eccellenza e il suo funzionamento politico non è altro che l’espressione compiuta di una determinata ideologia. Parlando di gruppo non mi riferisco né alla società in generale né ai singoli individui, ma alla struttura che funge da doppio veicolo ideologico della classe dominante per imporre, difendere, mantenere e rafforzare l’accordo tra gli agenti del processo di produzione e di scambio, la cui organizzazione e il cui fine recano, indelebile, il segno dell’ideologia che li sostiene.

Con questa premessa, l’analisi delle strutture e delle dinamiche dei gruppi criminali fornisce qualche utile indicazione sui fondamenti della loro costituzione e della loro stabilità. Nati originariamente in opposizione alla società ufficiale, vissuta come autorità estranea e patita come potentemente persecutoria, i gruppi mafiosi, mantengono nel tempo e continuano a fondarsi sull’originario isolamento dall’esterno, sull’originaria scissione tra società ufficiale e società mafiosa.
Questa scissione tra interno ed esterno, tra “buono“ (gli appartenenti al gruppo, al clan, alla famiglia) e “cattivo“ (gli altri, i non mafiosi, i nemici), ha immediate conseguenze sui valori del gruppo (l’assunzione di un comune oggetto d’amore e la coalizione contro un comune oggetto di odio) e sul piano della comunicazione interpersonale e sociale. La comunicazione con l’esterno è, infatti, negata e chiunque infrange la regola si situa al di fuori del gruppo. Anche gli altri membri della comunità sono chiamati al rispetto della regola, pena il loro inserimento nel gruppo dei nemici. Chi fa parte del gruppo ne deve assumere i valori ideologici di riferimento (gerarchia, onore, omertà, ecc.).
Essendo all’origine questi valori la base su cui fondare la fiducia, dovevano essere tra i più importanti e fondamentali nelle attività commerciali degli imprenditori rurali. Nelle colonie dell’impero spagnolo, come la Sicilia, prive di un’effettiva presenza dello Stato centrale, di mercati stabili, di una distribuzione tra i vari insediamenti rurali che permettesse una migliore articolazione e controllo nella circolazione dei beni, questi valori normativi assolvevano il compito di far sviluppare i rapporti tra persone così diverse avendo una comune base di riferimento etico. Particolarmente importante risultava l’amicizia. I soci d’affari bevevano e mangiavano assieme, e ciò rendeva più difficile ingannarsi a vicenda. La stessa parola “compagnia“ dal latino “panis“, “spezzare insieme il pane“ era usata anticamente nell’Italia medievale per indicare le associazioni commerciali.
Ogni associazione di commercio aveva bisogno vitale di buona fede e stima fra gli operatori, cose impossibili da ottenere con la forza in Sicilia, proprio per la mancanza di un governo autorevole che li tutelasse. Anche se instabile, il codice dell’amicizia permetteva agli imprenditori rurali di adeguarsi alle mutevoli e incontrollabili condizioni di mercato, con un minimo di organizzazione alle spalle. Inoltre, tutto ciò che mancava di una protezione legale veniva affrontato, tra imprenditori rurali e commerciali, in nome dell’amicizia, senza distinzione tra amici per affari o amici sociali.
Da allora coltivare amicizie in Sicilia diventò una strategia comportamentale necessaria per procurarsi un qualsiasi potere, e solo i giovani, che sono sempre stati fuori dal mercato affaristico, si potevano permettere i naturali legami emotivi. Marc Blok è dell’avviso che nelle società feudali questi gruppi, autoorganizzati in base a questo codice, siano stati importanti. Egli dimostra come le confraternite di bevitori servissero a risolvere i problemi della protezione e della sicurezza “per i mercanti e per gli uomini d’affari che non potevano contare sull’aiuto dello Stato” (Blok, 1949, pag. 355).
In tutta la storia successiva il gruppo mafioso assolve il compito di controllo degli individui ed è riconosciuto socialmente come gruppo di potere dominante. La cooperazione tra i membri mafiosi suscita nella gente comune fantasie di invincibilità e di onnipotenza.
“L’organizzazione mafiosa, con la sua elevata coesione interna, rinvia costantemente ad un’immagine di famiglia estesa, all’interno della quale il mantenimento dei rigidi valori tradizionali di tipo patriarcale risulta funzionale al raggiungimento degli obiettivi di controllo sociale“ (Lo Cascio-Pasquale-Lipari, 1986, pag. 28).
Il carattere di uniformità della cultura del gruppo mafioso, il suo essere condivisa collusivamente spiega anche le difficoltà interne di opporsi personalmente e apertamente al gruppo, pena il senso di colpa e di solitudine. “Tanto nell’aggressione mafiosa quanto nella reazione del singolo traspare il riconoscimento di un codice culturale condiviso, relativo alla frequenza del valore della famiglia” (ibidem, pag. 29).
La famiglia richiama ancora il vissuto di protezione, anche se è una protezione finalizzata, come avviene nel caso del singolo brigante. Per la mafia proteggere il singolo brigante era importante perchè questo era il campo da cui trarre manovalanza e perchè ciò era un chiaro messaggio intimidatorio nei confronti del resto della comunità, con l’obiettivo di indurre comportamenti omertosi. Il principio della vendetta privata ha dato origine all’omertà, ciò al tacere dinanzi alla giustizia statale. L’omertà nel suo significato originale non è affatto una perversione del senso morale, ma una conseguenza delle azioni delle classi dirigenti.

In questo scenario di individuazione, l’omertà è di tipo chiaramente passivo, indotta da una violenza morale, e si configura come difesa essenziale, per la propria esistenza. “Per i subalterni molte volte l’omertà può essere l’unico mezzo che è stato loro storicamente consentito per sopravvivere …A livello di potere, invece, l’omertà è stata una scelta di classe ben precisa o un mezzo per ottenere la propria ascesa politica” (Lombardi Satriani, 1978, pag. 65).
Anche Turone concorda con questa tesi, distinguendo l’omertà passiva, derivante dall’individuazione, dall’omertà “attiva che invece si presenta come una condivisione dei valori tradizionali della mafia, i quali vengono anzi interpretati e riaffermati proprio attraverso un comportamento omertoso consapevolmente assunto, in un contesto da cui emerge una valorizzazione esasperata del gruppo mafioso, ed un sostanziale disprezzo nei confronti della pubblica autorità “ (Turone,1984, pag. 91).
Gli individui erano non solo collocati nei rapporti generati dalla loro attività associata: essi di volta in volta interiorizzano tali rapporti, a cui sono condizionati. Se la mafia fu sopratutto una creatura degli imprenditori rurali minacciati dal possesso della terra, rappresentò essenzialmente un adattamento all’espansione del potere dello Stato unitario, non della sua assenza.
“La mafia non era ne un clan siciliano ne una sopravvivenza tribale“ (Schneider – Schneider, 1989, pag. 251). Era una cosca, un’organizzazione creata per assistere e proteggere i propri adepti, a spese del resto della popolazione e a spese anche di altre cosche . Blok descrive il modo in cui i membri di una cosca invadano il dominio dei membri di un’altra cosca e come questi ultimi, ormai sconfitti, debbano pagare addirittura un tributo ai vincitori.” ( Blok, 1986, pp. 161-171). Egli dimostra inoltre che questo tipo di egemonia era di breve durata e non superava l’ambito di due o tre paesi. “In complesso la mafia era acefala, come altre strutture siciliane, da quella dei trasporti a quella di mercato” (ibidem, pag. 145). In ogni caso il risultato della protezione e della mutua assistenza della cosca consentiva alle famiglie dei mafiosi di sopportare senza danni economici anche l’eventuale arresto del capofamiglia. A questo provvedevano i proprietari delle masserie, dando assistenza continua anche ai ricercati o ai familiari degli arrestati.

Intorno al 1870 si creano associazioni più grosse, che tendono a fondersi e a unire le loro forze “quali la fratellanza del centro zolfifero di Favara, i frutuzzi di Bagheria, e gli stoppaglieri di Monreale. Per i feudatari era un sistema per salvare proprietà ed autorità; per le classi medie rurali un mezzo per conquistarle. Per tutti costituiva un mezzo di difesa contro gli sfruttatori stranieri -governi borbonici o piemontesi- e di rivendicazione autonomista nazionale o locale“ (Hobsbawn, 1966, pag. 67).
Con la nascita delle fratellanze ha origine una mafia popolare, che ad esse si sostituirà dopo il 1860. Le fratellanze furono il prodotto del malgoverno borbonico: la corruzione e l’oppressione sociale, gli orrori e le angherie del feudalesimo, la pessime amministrazione della giustizia civile e penale. Spinto dal malcontento, e per difendersi dalle prepotenze baronali dei latifondisti e delle classi dirigenti corrotte e oppressive, il popolo comune cominciò anch’esso, nei suoi elementi più intraprendenti, a farsi la legge e la giustizia da sé con ogni mezzo, anche immorale e criminoso, alimentando inevitabilmente lo spirito della mentalità mafiosa: il disprezzo e la sfiducia per l’organizzazione dello Stato, per la legge e la giustizia comune. Napoleone Colajanni, uno dei più severi accusatori del regime borbonico, scriveva: “La mafia in Sicilia sotto i Borboni divenne l’unico mezzo per gli umili, pei poveri, pei lavoratori per essere temuti e rispettati, per ottenere la forma di giustizia ch’era compatibile in quelle condizioni e che non era possibile ottenere nelle forme legali. E alla mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime: sia attivamente, sia passivamente, occultando le gesta criminose e proteggendone, comunque, gli autori, creandole un ambiente favorevole“ (Colajanni,1885, pag. 56).

CAPITOLO III °.1

LA FAMIGLIA CLANICA
Un’analisi, sia pure sintetica, della famiglia, vista dal punto di vista antropologico, sociologico, e socio-psicoanalitico, consente un breve excursus per poter affermare, seguendo Engels, che è esistito un ciclo storico, suddiviso in tre fasi, che ha consentito di arrivare fino alla famiglia sindiamica, fase storica caratterizzata dalla relazione stabile di un uomo con un’unica donna. In questo studio si registra il cambiamento della linea di discendenza, cioè il passaggio dalla linea matrilineare alla linea patrilineare. Questo è un cambiamento fondamentale poichè si fonda una struttura monogamica basata sul potere dell’uomo e sulla procreazione di figli di paternità certa. Mentre la madre si occupa dell’allevamento della prole e dell’accudimento della casa, è il padre che possiede gli strumenti di lavoro e procura gli alimenti alla famiglia.
Un’analisi sociologica che parte da Murdock delinea l’organizzazione di questa famiglia elementare assegnandole, rispettivamente, tre ruoli e quattro funzioni. I ruoli sono quelli di padre-sposo, madre-sposa e figli; le funzioni sono economica , sessuale ,di procreazione e di educazione sociale dei figli.
Nell’ambito del pensiero socio-analitico, è Freud a dare l’avvio alla tematica del gruppo familiare nella corrispondenza con Fliess sul complesso di Edipo, riprendendo il tema, successivamente, né “l’interpretazione dei sogni“, “l’educazione sessuale dei bambini“ e “ il piccolo Hans“. Nella presentazione di quello che egli stesso definisce “romanzi familiari“, enuncia che questi non costituirebbero altro che la sostituzione, compiuta dai nevrotici, della famiglia reale con una famiglia inventata, la quale avrebbe la funzione di compensare le frustrazioni e di soddisfare le necessita` nevrotiche.
Questi punti di vista mi permettono di concordare largamente con la tesi che “il gruppo originario dove avviene la fondazione mentale dei processi relazionali è la famiglia“ (Di Maria,1989,pag. 5). Certo, ciò dipende dal modo in cui i rapporti si strutturano, siano essi tra genitori e figli oppure sul modello familiare come istituzione in grado di generare senso rispetto al gruppo di appartenenza, alle norme e ai valori comunitari.
Il modello di famiglia così inteso trasmette quindi non tanto un sapere concreto, quanto un codice di interpretazione del reale. Così è accaduto anche per la mafia del 1800, che aveva bisogno di un’immagine forte della propria struttura, anche per non dover rispondere agli adepti della organizzazione sul tipo di ideologia che ne strutturava i fini. La mafia veniva così vissuta naturalmente, interiorizzata normativamente, così come accade nel processo primario della famiglia reale.
La famiglia mafiosa si aggregava su base territoriale e si denominava in riferimento al proprio paese, per cui i valori familiari rientravano in tutti i contenuti nella cultura mafiosa “I grossi clan mafiosi … sono anche, prevalentemente, clan familiari; i legami tra gli appartenenti al clan sono, prima che mafiosi, in termini di consanguineita`” (Lombardi Satriani, 1978, pag. 43).
La classica organizzazione familistica mafiosa permeava in modo invisibile tutta la società. Il suo espandersi non era parte di un piano, ma il suo stesso modo di esistere. I gruppi di interesse della famiglia mafiosa poggiavano su solide basi parentali, anche se le gerarchie non erano normativamente chiuse. “La società mafiosa non è una monarchia assoluta in cui le cariche vengono trasmesse ereditariamente; è piuttosto una repubblica continuamente squassata da sussulti insurrezionali” (Santino, 1982, pag.37).
L’associazione mafiosa simboleggia la struttura familiare, ma normativamente appare più come rappresentazione di un oggetto perduto, di un’identità e di una cultura di valori di impossibile riproduzione. Spesso la famiglia clanica è stata al centro della analisi del fenomeno mafioso. Questa famiglia allargata ha la sua origine nella residenza sparsa della campagna nella Sicilia occidentale; i suoi connotati sono leggibili nel particolare edificio da essa abitato dal XVI secolo: il baglio. Questo è un edificio quadrangolare, quasi sempre cinto da altre mura. Vi si accede da un corridoio coperto, chiuso da una pesante porta che si apre sulla corte interna, corte a cui si affacciano le residenze delle famiglie. In luogo privilegiato per poter controllare la corte si situa la residenza del gabellotto e in posizione gerarchicamente inferiore quella degli altri membri della famiglia clanica. I servi invece abitano fuori della corte, e le loro residenze si appoggiano ai muri perimetrali del baglio.

La vita economica del feudo si svolge tutta all’interno di queste strutture sparse nella campagna; sono, infatti, assenti nella Sicilia occidentale sia i borghi rurali di origine medievale che l’esperienza dei liberi comuni medievali.
Dai bagli si passa ai villaggi di medie dimensioni, dove si concentrano le famiglie feudatarie che alternano così le residenze tra villaggio e campagna. Masini sostiene che questo modello attua una rigida gerarchia familiare che consente al gabellotto di avere una funzionale organizzazione del lavoro nelle campagne e “una condizione di relativo privilegio, una trasfusione di ideologia tra l’aristocratico e il contadino, legata sopratutto al modo di concepire la consanguineità. La famiglia baronale vive sulla propria tradizione di stirpe e ripone in questa il suo potere, utilizza poi il suo patrimonio per esercitare potere anche sul centro del regno. La famiglia del campiere, quando questi diventa assegnatario di un baglio, tende a riprodurre tale schema, unificando intorno a sè i membri della famiglia allargata “ (Masini, 1984, pag. 111).
In queste condizioni, l’obbedienza e la sottomissione dei contadini e delle famiglie del baglio all’autorità mafiosa, vissuta come superiore, diventano naturali. Come Fromm ha sostenuto, l’autorità consiste nel fatto che una persona considera un’altra superiore a se stessa. Ma c’è una fondamentale differenza tra il rapporto di superiorità-inferiorità che può essere definito autorità “razionale“ e quello che può essere definito autorità “inibitoria “. Nei due casi, la superiorità ha una funzione diversa: nel primo è la condizione per aiutare le persone soggette all’autorità a conquistare l’autonomia; nel secondo, è la condizione per il loro sfruttamento. Nella prima prevalgono i sentimenti di onore, di ammirazione e di gratitudine; la persona che ha autorità è anche un modello con cui ci si vuole identificare parzialmente o totalmente. Nella seconda situazione nasceranno, sopratutto, risentimento e ostilità contro lo sfruttatore.
E` questo secondo tipo di autorità quella mafiosa. Anche il tipo di educazione, impartita fin dall’infanzia, dei figli, è di tipo dogmatico. Dai genitori, il bambino non è considerato un’identità specifica, ma tale identità viene stabilita dall’adulto. Le opinioni dei figli sono ritenute irrilevanti; idee e principi vanno impressi, se necessario con la forza (che può essere sia fisica sia morale). Tali genitori non tollerano disubbidienza, poichè la tolleranza è essa stessa ritenuta una forma di debolezza. “Il dogmatismo educativo risulta collegato non tanto con le ideologie esplicite dei genitori, quanto piuttosto con la rigidità dei ruoli familiari e con la sierotipizzazione delle relazioni interpersonali” (Di Nuovo – Dolce, 1989, pag. 43).
Il processo di socializzazione che tale famiglia mette in atto era così costantemente teso a costruire una barriera tra la famiglia clanica e il resto del mondo, considerato “babbo“, (babbeo), e quindi da ingannare, oppure considerato potente, e quindi da rispettare. Nella divisione dei ruoli familiari, il padre era colui che doveva mostrare un’immagine di forza e coesione della famiglia, tale da meritare rispetto ed incutere timore. Per mantenere questo prestigio all’esterno del clan doveva mostrare di possedere autorità, potere e sovranità sui familiari.
Inoltre, non è di poca importanza il fatto che le differenze di classe giocassero un ruolo decisivo nello strutturare diverse concezioni di valori etici. Tramite l’educazione impartita fin dall’infanzia, l’ambizione diventava la caratteristica più apprezzata nei figli dei genitori delle classi dominanti, mentre l’obbedienza era il requisito essenziale richiesto ai figli delle classi inferiori. E in seguito, come sostiene Fromm, l’uomo a volte non può che effettuare una sola scelta di carattere etico, poichè soltanto questa sola scelta può realizzarsi in un determinato sistema sociale.
Ma la figura che resta saldamente al centro del gruppo familiare è quella materna che coprendo tutti i membri del clan con sollecita comprensione, garantiva la coesione del gruppo. Sono il ruolo e gli atteggiamenti della madre a non lasciare dubbi al fatto che l’unica cosa a non tradire è il sangue del gruppo. Il ruolo della madre è, infatti, quello che più profondamente è al centro della dinamica relazionale della famiglia clanica. Quando la famiglia mafiosa affronta nuovi spazi di attività che mettono in crisi l’apparente egemonia maschile, la sua reale strutturazione viene a galla e alla donna si delega un ruolo di primo piano nel dirimere le controversie tra i vari gruppi familiari.

Questo dato ci riporta alla lettura di un’origine araba di famiglia. Paradossalmente, proprio questo ruolo risolutivo delle controversie claniche, letta con la teoria dell’inconscio collettivo, è una chiara testimonianza della paura e della sudditanza con cui si cercava di allevare le femmine, rendendole formalmente succubi delle decisioni dei maschi nell’attività economica e, rendendole responsabili della salvezza onorifica del clan, protagoniste nella gestione della vita sociale.
La famiglia mafiosa allargata finisce per diventare poi essenzialmente inclusiva, nel senso che stabilisce rapporti con estranei al gruppo solo a patto di poterli successivamente inglobare.
Se sradichiamo questa organizzazione clanica dal contesto contadino che ne è culla e lo trasferiamo nelle grosse città siciliane, le immense energie difensive messe in atto da questa organizzazione si trasformano, nel nuovo contesto, in una continua ricerca di predominio, di possesso, di sicurezza.
“Il comportamento mafioso non è quindi un comportamento deviante ma è la riproduzione calligrafica di alcuni modelli trasferiti in un ambiente differente da quello rurale, senza averli saputi o voluti adattare” (Masini, 1984, pag. 113).
Non va sottovalutato anche il fatto che sia il familismo che il codice d’onore non solo sostenevano il gruppo domestico nella sua rivalità contro i concorrenti gruppi di potere, fosse pure limitato, ma difendevano anche la famiglia contro l’egemonia dei poteri ufficiali, in primo luogo lo Stato e la Chiesa, e quello delle classi dominanti, come i baroni, i gabellotti e i campieri che con lo sviluppo del latifondismo, esercitavano sempre più potere. Oggi è ben documentata la vita dell’aristocrazia siciliana, inclusa quella dei paesi rurali, che praticava, anche se non ufficialmente, una certa poligamia, impiegando nei propri palazzi concubine e domestiche.
Carmelo Trasselli documenta l’ipotesi che nel XVI° secolo le donne siciliane venivano spesso catturate, portate via con violenza, violentate e tenute per concubine. Sembra che proprio i baroni e i notabili fossero frequentemente, anche se non esclusivamente, commissionari di questi atti che avvenivano non solo nei piccoli paesi di campagna, ma anche nelle grosse città come Palermo. I proprietari non godevano dello jus primae noctis sulle donne dei loro fattori o dei loro mezzadri, ma comunque non avevano troppi scrupoli ad abusare delle donne come abusavano, su un altro piano, dei loro uomini (Trasselli, 1973, pp.226-240).

CAPITOLO IV °

LA DONNA ONORATA

Il ruolo ideologico della donna nella società mafiosa siciliana, malgrado si tenti di relegarlo dietro le quinte, è stato praticamente sempre lo stesso durante questo dominio culturale: assicurare la continuità del gruppo e sopratutto la sua quantità riproducendolo, salvaguardando la sua purezza genealogica con la propria castità. Questo ruolo, apparentemente passivo, è stato esaltato per preservare e conservare la stessa purezza al sangue che ha ereditato e per trasmetterlo tale e quale alla propria progenie; in quanto donna depositaria di questa purezza, ella è stata sempre rispettata e il suo status morale è stato esaltato come di tipo diverso da quello degli uomini, dato che si basava su dei simboli e non su degli atti di valore.
Le donne mafiose non assumevano nessuna funzione specifica e diretta in seno alle cosche, che si basavano esclusivamente su di una partecipazione maschile per il loro esercizio e sviluppo. Malgrado l’assenza di diretta partecipazione femminile, l’ideologia mafiosa faceva però riferimento alla purezza femminile. Questo riferimento era importante anche alla buona reputazione di un uomo, quando si trattava della purezza del suo clan familiare (madre, sorella, moglie e figlie), contribuendo così in un primo tempo ad introdurlo in seno alla cosca e in seguito al mantenimento del suo personale prestigio, interno ed esterno alla cosca stessa.

Nella vita del baglio non è solo l’uomo che controlla ed esercita il potere. La figura femminile, infatti, sia pure in apparenza sfumato, emerge saldamente al centro della vita relazionale della comunità. Per Masini, la donna in realtà esercita un ruolo e un potere ancora più sostanziale di quello maschile: “Il soggetto che è costantemente presente ed osserva è la donna, nella quale si sintetizza il potere gestionale ed amministrativo, mentre al maschio sono affidati i compiti più appariscenti, guidati però dall’articolata conoscenza della realtà che la donna possiede all’interno di questo ambiente.
Nasce così un modello di famiglia in cui al primo piano stanno i meccanismi di controllo, ragion per cui è pregnante la definizione di “difensiva “ (Masini, 1984, pag. 111). In questo contesto è abbastanza evidente che i litigi tra donne non nascono ne da presunti difetti psicopatologici e dalle devianze che ne dovrebbero derivare, ne sono irrazionali o nevrotici.
Cooperazione e conflitto tra le donne non si possono spiegare senza far riferimento alla struttura del potere domestico e alla posizione delle donne all’interno di essa e ai fattori relativi al rapporto tra la famiglia e la società più ampia. Lo stabilirsi di rapporti di antagonismo e la loro politica devono essere visti nel contesto dei conflitti che, partendo dalla famiglia nucleare, collega i vari segmenti al sistema sociale di produzione. Attraverso la divisione del lavoro si creano campi d’interesse prevalentemente femminili, che si aggirano attorno alle risorse, direttamente o in modo mediato controllate dalle donne, e l’economia domestica. Questi interessi vengono espressi attraverso il sistema dell’onore e la strategia per il loro successo si serve della sua simbologia.
Giovanna Fiume, ricostruendo la figura di una vedova di mafia nel 1860, rileva, infatti, che “l’universo sociale si sovraffollerebbe di donne se si indagassero, in questa stessa vicenda, più da vicino gli schieramenti e si ricostruisse la rete di sostegno ai due partiti, osservando le strategie dei gruppi coinvolti (familiari, clientelari, di vicinato), ed ancora, il comparatico, i matrimoni, la “voce pubblica“ che determina la fama di gruppi e di singoli individui“ (Fiume, 1987, pag. 39).
Nella Sicilia occidentale di quegli anni si era soliti pensare che la sessualità delle donne al di fuori del vincolo coniugale o della procreazione fosse pericolosa per la comunità. La sessualità femminile doveva essere costantemente sotto controllo perchè le donne erano ritenute incapaci di controllare i propri impulsi verso la gratificazione sessuale. Fin dall‘epoca in cui ricevevano la cresima alle ragazze venivano impartite precise norme volte a far comprendere loro l’importanza della rinuncia. Dopo la pubertà erano quasi recluse sotto la sorveglianza di genitori e fratelli. Quando la famiglia poteva affrontare la spese per far ricamare la biancheria per il corredo nuziale, le ragazze nubili avrebbero trascorso il loro tempo in questa attività in compagnia di altre ragazze. La quantità e la complessità dei ricami su lenzuola, coperte e federe stavano a indicare la ricchezza della famiglia della sposa e la magnificenza della sua dote.

Una moglie “da dodici lenzuola“ proveniva da una famiglia migliore di una moglie da “dieci“ e sicuramente avrebbe portato in dote una casa e terre migliori.
“Dalla pubertà al matrimonio…le attività di ogni ragazza erano strettamente controllate. Una volta trovato un fidanzato potevano vedersi o passeggiare assieme e solo in presenza di parenti. Se il fidanzato, o qualcun altro, riusciva a violare la sua verginità, il padre, i fratelli avrebbero dovuto uccidere lei e il suo amante (nell’ordine), poiché le figlie illibate simboleggiavano l’amore della famiglia, mentre la perdita della verginità gettava nella vergogna tutti i suoi membri“ (Schneider J.- Schneider P., 1989, pag. 123).
L’oltraggio al sangue del gruppo avveniva perciò quando un individuo o un gruppo esterno offendeva la castità di una o più donne del gruppo, con o senza il suo/loro consenso. Essendosi rotto l’equilibrio tra la purezza del sangue e l’integrità del nome, l’onore trasformato in vergogna, gli uomini, responsabili del loro prestigio e della loro rispettabilità agli occhi del resto della comunità, si sentivano costretti, per lavare l’affronto, a eliminare prima la donna e poi l’uomo responsabili dell’affronto al clan familiare.
Anche Chapman ricorda come, in caso di adulterio femminile, fosse sopratutto l’onore della famiglia ad essere messo al bando: “Se una delle donne è colpevole di adulterio, tutti gli uomini della famiglia sono cornuti e le altre donne devono dividere con lei la sua cattiva reputazione“ (Chapman, 1971, pag. 73).

Il ricorso al matrimonio, in quanto forma compensativa dell’uccisione degli amanti, poteva porsi come strumento di pacificazione tra le famiglie per la proporzionalità che garantiva, introducendo un’equazione tra sangue verginale e sangue dell’ucciso: “Il versamento di sangue verginale presenta un carattere di riscatto simbolico del sangue versato nel precedente omicidio“ (Cagnetta, 1975, pag. 96).
L’oltraggio al nome del gruppo avveniva invece quando, verbalmente o materialmente, un gruppo o un individuo esterno offendeva uno o più membri del gruppo. La vergogna del gruppo che ne conseguiva era maggiormente risentita dalle donne, che incoraggiavano con le parole e i canti, gli uomini del loro gruppo affinchè venisse ristabilito l’onore della famiglia.
Le interminabili vendette mediterranee nascondevano invariabilmente una o più figure femminili, le quali controllavano che gli uomini facessero vendetta. Si può dunque vedere nell’onore un primo tentativo, una strategia cosciente da parte delle società mediterranee, di darsi un codice culturale da cui le decisioni morali, legislative, ed esecutive verranno successivamente prese.
Il ruolo strategico della donna nel promuovere l’azione degli uomini perchè tale codice fosse costantemente rispettato, testimonia che la sua immagine sociale è molto più importante di quella che appare a prima vista. E certo, non è tramontato nel corso dello sviluppo del fenomeno mafioso.

P A R T E T E R Z A

I C O D I C I C U L T U R A L I

PREMESSA

I ruoli specifici e diseguali di ogni società nel sistema economico mondiale determinano la cultura sociale. Ciò è valido anche per la Sicilia del Settecento. Anche la cultura è utile ai ceti e ai gruppi dominanti per far affermare il proprio potere, e ciò è tanto più vero in quanto proprio perchè la cultura è parte integrante dei processi di produzione e di scambio. Non essendo una sovrastruttura, la cultura non può essere definita arretrata o primitiva. In ogni caso, essa non ritarda niente. Solo la sua falsificazione, promossa ed attuata per impedire i cambiamenti che consentissero una più vasta gestione collettiva delle risorse, consente di definirla arretrata o primitiva.
A parere mio, è stata la mancanza di una borghesia sana e socialmente produttiva che ha impedito, in quegli anni, alla Sicilia di svilupparsi. Nella seconda metà del XIX° secolo a questo tipo di borghesia predatrice si sono ripetutamente contrapposte le folle angariate ed affamate dei villaggi e delle città siciliane, al punto che Palermo detiene, in quel periodo, ”in quanto ad insurrezioni, il primato europeo“ (Hobsbawn, 1975, pag. 266).
La dipendenza economica secolare dall’esterno ha agito in tale profondità che “gli imprenditori rurali in ascesa hanno perpetuato lungo gli anni i codici culturali del passato, codici che servono bene lo scopo di “puntellare“ il loro potere all’interno della regione” (Schneider – Schneider, 1989, pag. 297). Anche Pezzino concorda largamente con questa tesi quando scrive che “I codici culturali … non rappresentano solo residui feudali, quanto un corollario del sistema capitalistico che si realizza nell’isola … la violenza si trasforma da autogiustizia logica di una situazione feudale a strumento di dominio di una classe borghese che, colmando un vuoto di potere dello Stato, se ne serve per consolidare il proprio controllo sulle risorse periferiche, utilizzando codici che possono pur essere di derivazione feudale ma che, nel corso del processo di incapsulamento della realtà locale all’interno delle strutture statali, assumono funzione diversa” (Pezzino, 1990, pag. 66).
CAPITOLO V °

L’ONORE, IL NOME E IL SANGUE

Possiamo definire l’onore come attributo in base al rispetto di un insieme di valori, divenuto sistema morale dell’intera collettività mediterranea, e quindi anche siciliana. Tale quadro normativo è dipeso dalla situazione ecologica, per cui in una condizione di scarsità di alcune risorse fondamentali, quali acqua abbondante, terre, bestiame, le società agro-pastorali si sono date un’ideologia di difesa e di tutela del gruppo clanico. L’onore, in questa accezione, definisce i confini sociali del gruppo e contribuisce alla sua tutela e difesa contro la rivendicazioni sia di gruppi equivalenti antagonisti sia di poteri troppo forti per poter essere affrontati con strumenti di mera forza fisica personale, come lo Stato.

Così inteso, le caratteristiche essenziali dell’onore sono, innanzi tutto, di un sistema di stratificazione sociale: esso descrive la distribuzione della ricchezza attraverso un idioma sociale e prescrive il comportamento appropriato agli individui a seconda della loro collocazione nella gerarchia sociale; esso comporta l’accettazione di una posizione dominante e di una posizione dominata. In secondo luogo è un sistema assoluto: quando l’onore è utilizzato come mezzo di allocazione delle risorse, la stratificazione per onore spinge gli individui di pari grado a scontrarsi, e sancisce la dipendenza in solido di quelli che hanno meno onore da coloro che ne hanno di più.
L’analisi di Raffaele concorda con questa impostazione quando sostiene che “l’onore non è principalmente una questione di carattere sessuale, anche se questa è la via più facile per perderlo. Esso si presenta piuttosto come uno degli strumenti principali per l’allocazione e la distribuzione delle risorse, in una disposizione gerarchica accettata come tale. L’offesa all’onore degli inferiori da parte di maschi di ceti superiori non è sentita come tale” (Raffaele, 1989, PP. 208-209).
Essendo il gruppo sociale giudice naturale, l’onore è categoria di pubblica valutazione, attribuzione di valore da parte del gruppo di appartenenza. Esso ha essenzialmente carattere relazionale e rimanda ai soggetti sociali di ben identificata comunità, che sono, appunto, quelle che esprimono il giudizio normativo. Nelle antiche società mediterranee, basate sul patto orale, solo l’onore individuale, e a più forte ragione l’onore collettivo, potevano garantire il rispetto e la realizzazione di questo stesso patto. In effetti, ogni uomo alla sua nascita si trovava provvisto d’una quota d’onore trasmessagli dalla propria famiglia o dal proprio lignaggio.
Uno degli elementi che costituiscono l’onore e i criteri con cui la società giudica dell’onorabilità dei suoi membri sembra essere, per il gruppo familiare, la difesa della proprietà e la castità delle sue donne. L’onore familiare era così importante che le dispute per i confini, per l’accesso ai feudi o l’utilizzo dell’acqua, per i diritti in genere, erano provocate non solo da particolari interessi, ma ancor più dall’onore. Nemmeno una soluzione delle contese che garantisse l’equità dei diritti legali tra le parti in conflitto era accettabile se non era anche “onorevole“ per tutti gli interessati, poiché da questo sarebbe dipesa in futuro la credibilità dell’intera famiglia.

Per quanto riguarda la castità delle donne “ci sono due criteri indissociabili che sono unici responsabili del funzionamento dell’onore: i criteri del Sangue e del Nome. In effetti, si può definire l’onore come una politica di equilibrio tra due poli di importanza capitale per le società mediterranee, quello del Sangue e quello del Nome, una politica oltretutto di unificazione che congiunge in questo modo il mondo femminile, il mondo dell’interno a quello maschile, il mondo dell’esterno, ma, soprattutto, congiunge la società del passato a quella del futuro … … l’onore di un gruppo … dipenderà da una situazione di equilibrio fra, da un lato la purezza del suo Sangue, dipendente sopratutto dal comportamento delle sue donne, e dall’altro l’integrità del suo Nome, dipendente sopratutto dall’attitudine dei suoi uomini. Nel caso in cui il Nome o il Sangue si macchiasse, l’onore di cui il gruppo godeva si convertirebbe in vergogna e il gruppo dovrebbe, per recuperarlo, ristabilire l’equilibrio, l’onore perso (Di Bella M. P, 1983, pp. 230 -231) ”.

Un ulteriore esempio che conferma questa tesi era data dall’uso del soprannome, per indicare l’intero gruppo patrilineare (raramente quello matrilineare). Esso si estendeva oltre il nucleo familiare nucleare per arrivare anche a tre – quattro generazioni precedenti. Non era raro quindi che tutti i discendenti fossero di conseguenza investiti dell’onore, e a volte anche del disonore, del gruppo ancestrale. Per poter competere in fatto di onore, un uomo doveva essere, innanzi tutto, un buon padre di famiglia. Doveva meritarsi il rispetto dei suoi familiari e assicurarsi che essi adempissero alle obbligazioni dovute, interne ed esterne al gruppo. I figli dovevano trovare un lavoro sicuro e le figlie fare un buon matrimonio. Il padre doveva soprattutto difendere la castità delle donne della famiglia da qualsiasi attacco esterno, facendosi aiutare in questo anche dai figli maschi, che non potevano sposarsi finchè tutte le sorelle maritabili non erano provviste di dote e accasate. I fratelli in molti casi non potevano prendersi la loro parte di eredità finchè le sorelle non erano sistemate, e dovevano sacrificare i propri guadagni per mettere insieme la dote.
Dal rispetto dei valori comunitari, vissuti come legittimi e stabili, discendevano l’onorabilità dei singoli e dei gruppi all’interno della stratificazione sociale e l’accettazione delle disuguaglianze in essa presenti. L’onore appartiene a chi rispetta le regole proprie del suo status sociale.
“Attentare a queste regole disgrega i meccanismi dell’interrelazione tra dominanti e dominati, rende questi ultimi insicuri di fronte a novità che stravolgono i valori accettati e fa scattare il sentimento della collera morale che finisce con il delegittimare l’ordine sociale esistente (Raffaele, 1989, pag. 210)”.

Come abbiamo visto, l’onore era un sistema di gerarchie e di stratificazioni sociali, le cui componenti riguardavano l’intera persona e l’intero gruppo. Il conseguente apprezzamento morale collettivo era decisivo su tre fronti: 1) Per la tutela della proprietà; 2) Per il prestigio e la condizione sociale; 3) Per la fedeltà sessuale delle proprie donne.
Riferite alla dignità della persona, queste nozioni comprendevano valori come le virtù, la moralità, i meriti e la posizione sociale. Inoltre, essendo un attributo dei gruppi parentali, e non solo dell’individuo, esso era esteso all’intero lignaggio. Un tale codice trans-generazionale aveva un senso cosmologico completo, sopratutto a livello di comunità ristrette come quelle dei piccoli villaggi siciliani.
“L’onore si presenta con caratteristiche locali – anche in risposta alle istanze universalistiche dello Stato e della religione – perchè locale è l’ambito del reciproco controllo, specie quando il singolo cerca di forzarne compatibilità e limiti attraverso un’ascesa con mezzi giudicati non ortodossi o incongruenti con il sistema di valori consolidati (Raffaele, 1989, pag. 208)”.
L’onore non costituisce quindi una scala morale: un uomo di basso rango che tenti di migliorare la propria posizione rappresenta comunque una minaccia, e coloro che si sentono in qualche modo da lui superati cercano di svilirlo, di attaccarne l’onorabilità nella sua terra, che è l’unico luogo dove può averne una.
Pur essendo presente presso tutti i popoli mediterranei, la nozione di onore si esprime attraverso sistemi idiomatici assai vari. In Sicilia una persona è onorata perché la si ritiene capace di difendere e di incrementare i propri beni e le proprie sostanze; queste vengono concepite quasi sempre come un prolungamento della dimensione corporea. “Si comprende perchè soltanto la vendetta possa ricostruire l’integrità morale di un individuo offeso nell’onore e allo stesso tempo, perchè denunciare colui che si sospetta di aver provocato il fatto costituisca un’attitudine più disonorante che il non cercare di vendicarsi personalmente (D’Onofrio, 1989, pag. 62)”.

Per essere onorati bisogna anche avere amici potenti e influenti, in grado di condizionare le decisioni più importanti a proprio vantaggio. Non è strano, quindi, che il clientelismo, in questo tipo di realtà socio-economica, diventi una condizione essenziale delle relazioni sociali. Esso “è legato all’onore perchè l’onore è un codice morale in cui i ricchi e i poveri sono ordinati in modo gerarchico e in cui la loro indipendenza assume un rilievo che non ha in nessun altro idioma di stratificazione … e perchè l’onore favorisce la scelta: è almeno in potenza un fattore di differenziazione assoluta, e un patrono, dovendo scegliere tra vari possibili clienti, sceglie il più onorevole (Davis, 1980, pag. 145) “.

Le rappresentazioni sociali durante lo XIX° secolo in seno alla società siciliana tradizionale si effettuano quindi attraverso le categorie dell’onore.
La mafia, sorta in questo ambito, non poteva funzionare a sua volta che per mezzo delle stesse rappresentazioni e ideologie se voleva riuscire, come riuscì, a manipolarne il senso storico ideale.
Tra gli studiosi sociali, anche Arlacchi sostiene che la mafia tradizionale, a differenza dell’attuale “è un comportamento e un potere, non una organizzazione formale. Comportarsi in maniera mafiosa significa comportarsi in maniera onorevole … Nelle aree mafiose della Sicilia e della Calabria tradizionali, l’onore è l’unità di misura del valore di una persona, di una famiglia o di una casa (Arlacchi, 1983, pp. 22-23) “.
L’idea dello scambio e dell’uguaglianza, e dell’uguaglianza nello scambio, che faceva dell’onore una regola sociale che permetteva ai diversi gruppi familiari di stabilire un contatto fra di loro, si inverte perciò grazie all’azione della mafia. Svuotata di ogni significato primario e della sua funzione d’origine, l’ideologia mafiosa diventa un modo di singolarizzare le diverse cosche tra di loro e di singolarizzare il singolo mafioso all’interno della propria comunità sociale.
Una specificità propria dell’ideologia mafiosa e` quella di essere bicefala. “Fra le diverse cosche mafiose vige un determinato tipo di comportamento che è diverso da quello richiesto all’esterno dalle cosche mafiose stesse. Per quel che riguarda i rapporti esterni, il fatto per la cosca di possedere dell’onore non è più percepito come un requisito essenziale ad uno scambio più equo possibile con altre cosche … ma diventa una necessità in vista di una gerarchizzazione fra cosche … Si passa così … ad un bisogno di sopraffazione della cosca vicina, per ottenere il controllo del territorio che diventa sinonimo di potere. (Di Bella M.P, 1983, pag. 234) ”.
Anche nel codice barbaricino, l’unico che sia stato studiato attingendo minuziosamente all’intero contesto ecologico locale, l’onore rappresenta per le popolazioni il codice fondamentale dei rapporti sociali. Nei suoi accurati studi, Pagliaru dimostra che per la popolazione barbaricina “su sambene no est abba“ (il sangue non è acqua). Da quì la fedeltà al proprio nome (sambenadu: “cognome“, che indica la direzione del sangue). “Essere uomo d’onore significa essere uomo di “promessa”, capace di una sola parola, d’un solo sangue, d’una sola totale dedizione al proprio onore, alla propria famiglia (Pagliaru, 1975, pag. 319)”.
L’onore è perciò un attributo morale dei gruppi o degli individui; esso discende dal fatto di svolgere determinati ruoli, in genere quelli economici gli uomini e quelli domestici per le donne, anche se in certe comunità altri tipi di ruoli possono determinare differenti valutazioni. I rapporti sessuali non entrano principalmente nella valutazione dell’onore; “Valere come uomo o come donna vuol dire avere onore, e ciò può comprendere anche la capacità di proteggere le donne dalle insidie di altri uomini o di criticare gli altri uomini attraverso le loro donne; ma in realtà i ruoli sessuali hanno un carattere eminentemente economico e domestico (Davis, 1980, pag. 88)”.
Il gioco delle alleanze e delle protezioni tra gruppi familiari passava principalmente per un buon matrimonio dei figli e i genitori erano perciò ben attenti alla scelta del “partito“. Come Raffaele ricorda, “l’onore, anche sessuale, più che un imperativo etico si configura come mezzo di allocazione e di distribuzione delle risorse e di scambio sul mercato, a partire da quello matrimoniale (Raffaele, 1989, pag. 221)”.

Occorreva garantirsi che la purezza e la fedeltà sessuale da parte delle donne portasse al singolo e tutto il gruppo parentale a sentirsi onorati. E` chiaro quindi che dopo la prima notte di nozze i più ansiosi e i primi a esaminare le lenzuola, che venivano stese alla finestra della giovane coppia, fossero i parenti stretti del marito, poiché il lenzuolo macchiato ora non simboleggiava più l’illibatezza della sposa ma anche l’onore dello sposo e dei loro figli futuri.
Capitava sovente anche che improvvisi innamoramenti travolgessero vecchi e diversi accordi parentali di matrimonio, costringendo i novelli amanti a nascondere pubblicamente i loro sentimenti per prevenire vendette da parte dei parenti. Questi ultimi, scoperta la situazione, dovevano assolutamente reagire, pena la perdita dell’onore familiare. In caso di scoperta l’usurpatore poteva rinunciare al suo attacco alla dignità della famiglia della sposa e rimuovere la macchia della reputazione della ragazza sposandola in gran fretta. Se ciò non avveniva, l’unico modo per i “cornuti“ parenti di far sparire le simboliche corna nate nel frattempo, era di uccidere le persone che le avevano fatte. “Solo il sangue lava il sangue“: da ciò il leggendario delitto d’onore.
Ma anche nel caso di un regolare e consenziente fidanzamento seguito dal matrimonio, “nel passato la sposa siciliana doveva aspettarsi che le venisse chiesto di provare la sua verginità nella prima notte di matrimonio, di sottoporsi cioè alla ben nota prova del lenzuolo macchiato di sangue (Chapman, 1971, pag. 105)”.
“Più la donna è priva di potere religioso, politico ed economico, più è investita di potere simbolico. La parola araba harem significa, contemporaneamente, sposa e sacro: la donna è sacra e guardiana del tempio familiare dell’onore. L’altra faccia è rappresentata dalla vendetta, manifestazione suprema della sacralità, poiché simboleggia e rappresenta il sacrificio umano (Fiume, 1989, pag. 19) “.Anche se l’onore nasce come un sistema di valori che diventano codici di riferimento normativo, esso viene comunque negoziato nella prassi sociale. Sopratutto nell’ ambiente ecologico mediterraneo, per quanto riguarda i rapporti sociali, si ha nel vicinato la sfera d’azione privilegiata della donna, a causa della divisione sessuale del lavoro e dei rispettivi compiti. E` in questa cerchia ristretta che il buon nome familiare va garantito o che, viceversa, la buona fama può essere distrutta dalla maldicenza. I rapporti intessuti dagli uomini spaziano invece anche fuori dai complessi residenziali di appartenenza.
La “comare“, per esempio, è la risposta che queste società danno al problema di sapere se il segreto nasconde qualche colpa. Le chiacchiere delle comari fanno e disfano le reputazioni, trasmettendo sospetti sulle colpe delle donne e dunque denigrando l’onore maschile. Il vicinato è, insomma, il fulcro dell’identità collettiva. E` lì che si collocano interessi, inimicizie, alleanze: dalla proprietà della terra al mercato del lavoro, alle strategie matrimoniali. Sicchè esso può essere la sede della solidarietà, ma e` al tempo stesso e necessariamente il luogo degli sguardi incrociati, del rispetto ma anche del controllo reciproco e dello scontro.
L’antagonismo sempre latente tra i vari segmenti e classi sociali e la concorrenza per le scarse risorse materiali si concretizzano nei conflitti interpersonali che contengono gli elementi dei diversi aspetti del codice d’onore. Le donne, pur “sede“ dell’onore altrui, si ritagliano una possibilità di intervento e di decisione nei momenti familiari più cruciali. Diventa emblematico che “se il concetto di onore civile garantisce il predominio di una classe sull’altra, quello dell’onore sessuale il predominio di un ceto sull’altro. E, di contro, alla svalorizzazione di un ceto, corrisponde la svalorizzazione di un sesso; l’uno e l’altro, in una società di ordini e di stati, intervengono a determinare la quantità e la qualità dell’onore posseduto (Fiume, 1989, pag. 15) ”.
Nello sviluppare questo tipo di famiglia clanica, i genitori erano ben consapevoli di perdere i figli maschi, quando questi si sposavano, e di acquisirne di nuovi quando erano le femmine a sposarsi. Perciò lavoravano con tenacia nel tessere rapporti d’amicizia con le persone di pari condizione sociale. Sebbene sia probabile che il codice d’onore sia sorto sopratutto come risposta alle minacce alla famiglia da parte delle èlites straniere e dei proprietari locali, è dubbio che la segregazione delle donne e le difese erette a salvaguardia della loro verginità fossero efficaci in ogni caso, ma certamente lo erano nei confronti delle persone di pari grado sociale.
Nella Sicilia del 1800, se importante è l’onorabilità per le donne sposate, essenziale lo è per le donne che si collocano sul mercato matrimoniale. L’onore, per le donne è la più importante dote a disposizione, sopratutto per le più povere. La donna, comunque è al centro d’onore non solo né necessariamente in qualità di vittima designata, ma anche con un suo ruolo attivo, definito e sostanziale.

E` indubbio che la posizione della donna nella società rurale siciliana dell’Ottocento sia subordinata e che il ricorso al lavoro femminile extradomestico sia precario, stagionale, temporaneo, limitandone drasticamente la socialità alla famiglia, alla parentela, al vicinato. Ma è proprio in questo contesto, che potremo definire di forza lavoro, della sua educazione e della correlativa trasmissione di valori consolidati, che essa esercita un ruolo centrale, in cui la salvaguardia dell’onore, del nome e del sangue è essenziale, vitale, spingendo anche all’azione delittuosa o comunque illegale per la sua reintegrazione, laddove sminuito o messo in discussione. “Ogni giovane sposa, come del resto ogni donna, ha innanzi tutto imparato -“interiorizzato“ – fin da piccola, a temere gli scandali e a non violare di conseguenza le “usanze“ consolidate del suo gruppo sociale. Ne consegue che la donna maritata finisce col diventare non soltanto una passiva depositaria dei valori sociali e religiosi ad un tempo, sottesi a quelle usanze, ma anche uno degli agenti fondamentali della loro riproduzione (Persichella, 1980, pag. 104) ”.
Questo ruolo attivo e riproduttivo va rimarcato, poiché ne viene fuori un dato in cui la donna siciliana non è semplicemente la depositaria dell’onore del maschio, ma protagonista attiva di strategie comunitarie di cui l’onore è mezzo, oltre che valore etico, possibile di manipolazione, laddove si renda necessaria ai fini della sopravvivenza, della collocazione e dell’identità sociale.

CAPITOLO VI °

LA VENDETTA MEDITERRANEA

Un altro dei molti distintivi dello spirito mafioso è quello di farsi giustizia da sè, senza bisogno di polizia e tribunali: si tratta di una fondamentale condizione di alienazione rispetto al resto della comunità, che ha le sue stesse radici morali nello stato d’animo di frustrazione collettiva e di risentimento di un popolo oppresso da secoli di dominio straniero. Certo non tutte la offese venivano vissute con uguale intensità. Generalmente, le offese pubbliche erano quelle che richiedevano un’immediata vendetta, mentre quelle inosservate dal resto della comunità potevano essere diluite nel tempo. Particolarmente grave era la mancanza di rispetto, sopratutto se questo rispetto era stato chiaramente richiesto.
“La vendetta è un istituto centrale della cultura popolare e della cultura mafiosa (Meligrana, 1983, pag. 240)” e questo pone seri interrogativi sulla nascita di questo codice culturale. Di fronte a un omicidio la reazione del resto del clan familiare del morto è obbligatoria poiché “la mancanza di pace del morto e la mancanza di pace dei superstiti si pone come pena mitica, ma non per questo meno pressante, per l’inosservanza dell’obbligo della ritorsione, fungendo, pertanto, da sanzione costituiva della cogenza giuridico-positiva della vendetta (ibidem, pag. 241) “.
Certo la vendetta, perché cerimonia, ha bisogno di un teatro pubblico in cui si possa esplicare. Le piazze e le strade diventano luogo privilegiato in cui tale teatralità raggiunge il massimo dell’efficacia. Così come per gli altri codici, a custodire la memoria del morto, la necessità culturale che la vendetta si compia provvede una pedagogia affidata alla donna che, con le diverse procedure (che vanno dalla conservazione di indumenti e di oggetti appartenuti al morto, alla custodia di indumenti o di oggetti intrisi del suo sangue, alla esortazione rituale della vendetta, come nei canti funebri) presentifica il morto e spinge gli uomini alla vendetta. Da qui la centralità della donna, anche nelle faide mafiose. “I morti come fonti e garanti della normatività popolare, la donna come mediazione e custode della memoria culturale. Morto-donna-uomo sembra essere l’itinerario della trasmissione della cultura tradizionale e il circuito simbolico dell’ideologia della vendetta (ibidem, pag. 242) ”. A testimonianza di ciò, Don Gino Riboldi riporta una lucida testimonianza sul persistere di tale codice anche ai giorni nostri: “L’ uomo ucciso era disteso sul letto. La moglie prese per mano i due figli, uno di quattro e l’altro di sei anni. Si accostò al viso del morto, fece chinare i bambini e con voce disperata ma ferma gridò: <<Guardate, guardate bene negli occhi di vostro padre! Lì c’è impressa l’immagine dell’ uomo che lo ha ucciso. Guardate, guardate e ricordate! E` vostro dovere vendicare vostro padre ( Del Rio – Riboldi,1990,pag. 28 )”.

Pagliaru ha studiato a fondo il codice della vendetta barbaricina, un classico demologico, che testimonia la necessita` di separare nettamente la vendetta mafiosa dalla vendetta popolare. Quest’ultima recita:
“1 – L’offesa deve essere vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità, vi rinunci per un superiore principio morale.
2 – La legge della vendetta obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano nell’ambito della comunità. Titolare della vendetta è il soggetto offeso, come singolo o come gruppo, a seconda che l’offesa è stata intenzionalmente recata ad un singolo individuo in quanto tale o al gruppo sociale, nel suo complesso organico, sia immediatamente sia mediatamente.
L’offesa si estingue:
a)quando il reo lealmente ammette la propria responsabilità assumendo su di sè l’onere del risarcimento richiesto dall’offeso o stabilito con lodo arbitrale;
b) quando il colpevole ha agito in stato di necessità ovvero per errore o caso fortuito ovvero perchè costretto da altri mediante violenza cui non poteva sottrarsi. In questo ultimo caso risponde dell’offesa l’autore della violenza.
-La vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva. Costituisce altresì strumento di vendetta il ricorso alla autorità giudiziaria quando oltre la certezza morale della responsabilità dolosa dell’agente si è conseguita una ragionevole certezza sulla sufficienza processuale delle prove raggiunte; e il danno derivante dall’esito del processo si può prevedere sufficientemente adeguato alla natura dell’offesa secondo i principi della legge sulla vendetta in generale.
– Nella pratica della vendetta, entro i limiti della graduazione progressiva, nessuna offesa esclude il ricorso al peggio sino al sangue. L’azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata, in altre parole non adeguata ovvero sleale. La vendetta del sangue costituisce offesa grave anche quando è stata consumata allo scopo di vendicare una precedente offesa di sangue (Pagliaru, 1975, pp. 111-127) “.
Emerge con chiarezza come la vendetta popolare non sia legata a nessuna ferocia istintiva, ma si configuri come un modello etico esistenziale per vivere nella comunità. La sospensione dell’obbligo della vendetta avviene per intervento dell’ucciso, che così rinuncia a un suo diritto perdonando l’uccisore. La vendetta appare, quindi, come una precisa richiesta dell’ucciso e testimonia dell’influenza dei morti sulle scelte e sul comportamento dei vivi e si avvale, ponendosi come mito giuridico di tutta la comunità, di una motivazione decisiva e radicale.
Lo status riconosciuto al morto ammazzato dalla concezione folklorica costituisce un’ulteriore ragione mitica, indiretta e densa di pesanti eventi sanzionatori. “Le anime degli uccisi vagano nel luogo dove cadde il corpo e gemono e si lamentano per tutto quel tempo che dovevano stare in vita secondo come era prestabilito in cielo. Dicono a Francoforte che il sangue di questi uccisi fa lu murmuru: ed in tutta la Sicilia che non bisogna passarvi molto da presso per non inghiottire lo spirito che và vagando (Pitrè, usi e costumi , vol. IV°, pag.267 )”.

Il vagare, il gemere, il lamentarsi, l’irrequietezza caratterizzano la presenza dell’ucciso e segnalano un pericolo più grande quanto più è vago e imprevedibile. Il pericolo per il sopravvissuto discende dalla condanna del morto e la condanna è la proiezione e la risposta allo stesso pericolo. L’ucciso fa parte di “quella categoria alle quali si doveva forzatamente concedere un particolare diritto alla collera: gli uccisi, che perseguitano come spiriti maligni i loro assassini, o a coloro che sono morti prima di aver potuto soddisfare i loro desideri, come gli sposi promessi (Freud, 1973, pag. 89) ”.

Emerge inquietante lo spirito del morto che entra nel corpo dei vivi, lo possegga e lo contagi fatalmente di annullamento. La pericolosità dell’ucciso è un’implicita richiesta di vendetta, e si configura miticamente con una pena per l’inosservanza dell’obbligo della ritorsione. La vendetta è risposta culturale, difesa contro la pericolosità dell’ucciso, tanto che lo stesso ordinamento barbaricino, incentrato, come abbiamo visto, sulla vendetta, trova una fonte simbolica nell’ideologia della morte e si pone simbolicamente contro la stessa morte. Gli uccisi, vittime della violenza, diventano portatori della ritorsione e richiedono, simbolicamente, una seconda morte. Le pericolosità dell’ucciso comportano per il superstite il rischio della perdita del suo esistere, proprio come l’elusione del diritto-dovere della vendetta comporta il rischio della perdita della sua esistenza sociale. Restituendo pace al morto, la vendetta si inserisce come sbocco culturale e ordine rituale al furore distruttivo.
La giustizia non è un affare statale, anche se è pubblicamente sollecitata, e un uomo d’onore deve essere in grado di risolvere i suoi problemi senza ricorrere ai poteri statali. Particolare importanza ha il vendicare i torti e le offese, vere o presunte, subite. La vendetta è un piatto su cui l’uomo d’onore si gioca la credibilità. Se non è in grado di vendicarsi da solo, non è un uomo, non è omu, uomo in dialetto siciliano. “Omu non indica l’uomo in astratto, ma l’uomo sovrano, quel tipo di uomo le cui proprietà e i cui dipendenti sono rispettati da tutti (Boissevain, 1966, pag. 201) “.
In Sicilia però lo sgarbo fatto a un uomo qualunque non può essere paragonato a quello fatto a un mafioso. Poichè quest’ ultimo si giudica invulnerabile e giudica gravissima la minaccia al suo prestigio, sul quale peraltro fonda il complesso dei ruoli che svolge nell’ambiente sociale. “E allora lo sgarbo, anche lieve, in quanto minaccia decisiva è pericolo grave, al quale va risposto con azione ugualmente grave. (Lombardi-Satriani, 1979, pag. 96) ”. E la vendetta mafiosa non può essere privata, chiusa.
“Per essere esemplare richiede una sua pubblicità; consumata in segreto perderebbe il suo carattere di avvertimento erga omnes (ibidem, pag. 96) “.

CAPITOLO VI °.1.

L’INDIVIDUALISMO COME RISORSA

Questo codice culturale mafioso racchiude, nel senso attivo del termine, altri valori analoghi a quelli folklorici. In particolare, il codice dell’individualismo è connesso alle doti di coraggio, di lealtà, di giustizia, di dignità e di prestigio.
Questo codice è una connotazione culturale che ha profonde radici, sopratutto folkloriche. Basti pensare alle centinaia di proverbi che esaltano l’individualismo come un elemento di risoluzione dei problemi economici: bisogna pensare a se stessi, gli altri sono essenzialmente dei concorrenti di cui bisogna costantemente diffidare; ciò è tanto più importante perchè l’economia mediterranea è troppo povera di risorse per potersi permettere il lusso di spartirle con altri.
Il succedersi continuo di dominazioni straniere hanno sviluppato nella popolazione motivazioni essenzialmente rivolte alla sopravvivenza immediata, con conseguenti bassi livelli di aspirazione per il proprio futuro, e una costante ricerca di protezione e tutela dai soggetti più pericolosi e violenti, proprietari rurali e banditi in particolare. La mafia non nasce da esigenze spirituali ma solo economiche, che trovano un terreno adatto nel sistema amministrativo dell’isola e nel comportamento risentito delle popolazioni locali nei confronti dei governi estranei. Essa “esprime, a suo modo, una forma eroica e anarchica di individualismo, una tendenza alla autosufficienza che e` assai viva e presente nell’indole di popolazioni fiere e impulsive (Novacco, 1972, pag. 45) ”.

La mafia si fonda su una curiosa inversione psicologico-giuridica, per cui il reato viene considerato affare privato e non elemento di vita sociale. In questi termini, intesa come costume di vita e concezione di rapporti tra gli uomini, la mafia è spirito eslege, integrale individualismo, negazione della impersonalità del diritto folklorico. Ma anche se il fenomeno mafioso prende piede in questo contesto ecologico deprivato, lo stesso mafioso era comunque ben attento a che i desideri individuali della collettività non proliferassero selvaggiamente, poiché ciò avrebbe fatto saltare l’ordine sociale del quale il mafioso era garante e interprete. Egli “può svolgere tali ruoli in quanto si è autoeletto, e ha fatto in modo che gli altri lo considerassero, uomo, caratterizzato da tutte le qualità del vir (non soltanto dell’homo). La virilità è, quindi, un altro valore essenziale della cultura mafiosa (Lombardi Satriani, 1979, pp. 97-98) ”.
L’individualismo così prodotto generava facilmente comportamenti prepotenti e violenti, ma anche atteggiamenti di furbizia. Naturalmente ogni furbo presupponeva un fesso. Comunemente era esaltata l’astuzia quando essa era vista in contrapposizione al bene pubblico o più generalmente alle norme statali, proprio partendo dalla premessa che un individualista non poteva preoccuparsi degli altri. Viceversa chi era sincero nei rapporti sociali veniva giudicato semplicemente fesso, babba. Questo era vero sopratutto a livello popolare, per cui nessuno voleva essere considerato sciocco e, anzi, l’azione condotta con astuzia era particolarmente apprezzata se dava risultati positivi, sempre che la vittima fosse sempre un estraneo.
Nel contesto agricolo, la disparità di potere e di diritti tra imprenditori e contadini mezzadri costringeva questi ultimi a difendersi accanitamente dai continui soprusi a cui erano soggetti sia in fase di stipulazione dei contratti di mezzadria che nell’acquisto di grano e sementi per la semina. Poter ottenere una qualsiasi facilitazione rispetto agli altri contadini o addirittura riuscire a imbrogliare il gabellotto era motivo di grande orgoglio poiché si poteva passare in seguito, tra la comunità come una persona che sapeva il fatto suo. Certo, non si può parlare qui di nessun attributo genetico, innato, dei siciliani quando parliamo di questi codici, ma di precisi prodotti dei rapporti feudali, proto-capitalistici, tra la Sicilia e il resto del Paese.
Che la mafia abbia usato questo codice in modo da finalizzarlo al raggiungimento degli obiettivi individuali dei propri membri è testimoniato dal fatto che, mentre nella cultura folklorica questi valori sono di mediazione tra la fantasia (intesa come libertà) e la realtà (intesa come dominio), e mettono in discussione quindi il potere e l’ordine sociale statuale come cultura estranea alla loro, nella cultura mafiosa “divengono finalità di arricchimento, di ascesa sociale e di potere di alcuni gruppi e di sostegno nel mantenimento dell’ordine sociale classista (Lombardi Satriani, 1979, pag. 60) “.

CAPITOLO VI°.2.

LA VIOLENZA FOLKLORICA
I possidenti rurali, il cui numero nel 1901 era inferiore a quello del 1860, hanno avuto bisogno di gestire la loro accumulazione e il loro potere di controllo sociale sulle classi popolari ricorrendo a forme di violenza private, tollerate, quando non protette, dagli organismi statali. “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova. E` essa stessa una potenza economica (Marx, 1989, vol. I°, pag. 814) ”. Questo fu il connotato essenziale della nuova classe dirigente siciliana. Ogni rapporto sociale aveva questa premessa; il fine era l’arricchimento. “Se il denaro, come dice l’Angier, viene al mondo con una voglia di sangue in faccia, il capitale viene al mondo grondando sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro (ibidem, pag. 823) ”.
Hess ricorda che ogni potere si fonda sulla capacità di essere violenti. “Senza l’uso perlomeno una sola volta della violenza fisica, [ l’uomo ], non è più in grado di soddisfare i requisiti necessari all’esercizio di funzioni mafiose (Hess, 1984, pag. 70) ”. La sua tesi essenziale è che la mafia non sia che un metodo di minaccia o di uso della violenza fisica privata, piuttosto che di un’organizzazione, un metodo con cui il mafioso agisce per procurarsi profitti materiali e prestigio, mettendosi al servizio di interessi propri e altrui che possano assolvere funzioni proprie del contesto subculturale. “L’atto di terrore acquista significato non come punizione o vendetta individuale, ma come dimostrazione simbolica di una capacità (ibidem, pag. 151) ”.

Questo potere è stato esercitato, sia pure in nome e per conto dei possidenti, anche dal mafioso tratto dalle stesse classi popolari, a condizione che le doti di coraggio, ferocia e furbizia fossero messe a disposizione di chi comandava. Questo diventa particolarmente evidente quando contadini, artigiani, e più in generale gli strati popolari, vengono repressi dalla possibilità di partecipare alla trasformazione della società siciliana, prima dal governo garibaldino e poi da quello sabaudo. “Non è il fatto in sè di questa estromissione, ma il modo con il quale viene condotta dai gruppi dirigenti in Sicilia che fa nascere, prima della cosa, lo spirito della mafia: e cioè quel trasferirsi dal piano della lotta generale, sociale e politica, al singolo e al gruppo, del sentimento della necessità, per contrastare le violenze e le ingiustizie di cui si è o si può essere vittime, di far ricorso ugualmente alla violenza, alla forza e al prestigio personale (Romano, 1966, pag. 111) ”.
Quindi il ricorso alla violenza presentava essenzialmente tre caratteristiche: difesa dei privilegi e delle proprietà per feudatari e aristocratici; sostegno all’ascesa sociale per il ceto civile e mezzo alternativo alla miseria per quelli provenienti dalle classi inferiori. Non furono pochi i ceti che optarono per la mafia, anche se è duro “per tutti ammettere che segmenti consistenti di ceti popolari possono trovare la strada alla mobilità sociale non nell’organizzazione e nella lotta politica ma nella spregiudicata e programmata utilizzazione della violenza (Pezzino, 1990, pag. 17) “.
Ma anche i ceti popolari che non erano ne intendevano diventare mafiosi, avevano bisogno di protezione, di un potere vicino che dirimesse i conflitti interni alla comunità e li tutelasse contro le prepotenze. Il mafioso per le sue caratteristiche e il prestigio di cui godeva, per la sua capacita` riconosciuta comunemente, “Senza violenza il mafioso non esiste. Non è necessario che sia esercitata realmente: basta che sia riconosciuta come possibile. Perciò è un capitale (Di Bella S., 1983/b, vol. I, pag. 24) “, era l’elemento in grado di soddisfare anche i bisogni di giustizia dei ceti popolari, oltre che quelli dei gabellotti e dei possidenti. Questa diplomatica capacità di giustizia nel dirimere conflitti interni alla comunità ne elevò il prestigio anche al di fuori della zona controllata.

Anche Blok vede la mafia come un sistema chiuso, che occasionalmente si apre al merito (cioè alla capacità di usare violenza). Esiste un sistema di trasmissione familiare di quelle professioni e di quei ruoli di controllo sociale che implicano essere mafiosi, come i campieri. Il sistema, che certo ha la sua radice nel feudo, si estende all’intero complesso sociale e politico. Perchè questa estensione? La spiegazione che dà Blok si basa sul concetto di “mediatore sociale“.Con la formazione del Regno d’Italia l’Isola viene a trovarsi immersa in una macrosocietà che ha altri codici, un`altra economia, altri canali di comunicazione. La mafia si rilancia e prospera perchè riesce a monopolizzare i punti di passaggio tra microsocietà siciliana e macrosocietà italiana. La società più vasta tollera la mafia perchè trova in essa una indispensabile figura di mediazione. L’esercizio della violenza viene, in gran parte, delegato alla mafia, in funzione di controllo sociale.
Perchè la mafia prosperasse, insomma, è stata necessaria una struttura agraria che già conosceva la figura del violento di professione, al servizio del feudo: il successivo inserimento di questa struttura in un’altra relativamente più moderna e l’assunzione della mafia stessa, col consenso dello Stato, della funzione di mediazione sociale.
“Sciolta oramai da ogni vincolo e privilegio, l’industria della violenza ebbe un’esistenza e una organizzazione indipendenti … si può quasi dire che essa è addirittura un’istituzione sociale. Giacchè, oltre ad essere un istrumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa è diventata … una classe con industria e interessi suoi propri (Franchetti – Sonnino, 1925, pagg. 111-115) ”.
Anche Don Riboldi, parlando a proposito della sua esperienza in mezzo alla mafia siciliana, ricorda che per il mafioso la via del potere è aperta dalla violenza e che, almeno per un volta, occorre dimostrare questo requisito di ferocia per fregiarsi del titolo di mafioso. “Il prestigio e il potere del mafioso nascono dall’omicidio (Riboldi, 1990, pag. 25) “.

Va sfatato il mito del mafioso agrario ozioso. Il gabellotto lavorava, e lavorava duramente. Egli esercitava un mestiere, in cui otteneva un alto profitto, perchè esercitava una capacità intimidatoria che altri non esercitavano. Questa capacità era utilizzata in tutti i mestieri, principalmente in quelli più esposti alla concorrenza, tant’è che il mafioso eccelleva “in quelle occupazioni mutevoli e flessibili che alla possibilità di una rapida ascesa uniscono un grande margine di rischio (Hess, 1984, pag. 82) ”.
Essi prestavano anche la loro opera come mediatori privati tra i conflitti nella comunità, come uomini rispettati dalle parti in lite perchè “istintivamente sapevano discernere il bene dal male (Romano, 1966, pag. 52) ”, e questo fu particolarmente evidente nei conflitti tra contadini e pastori nelle campagne. La capacità di pacificare queste contrade, abbandonate anche dalle poche forze dell’ordine statale, dava loro un notevole potere di controllo sia sui singoli individui sia sull’uso delle risorse del territorio. “Governare le campagne siciliane, come ha fatto il mafioso per decenni, ha equivalso a governare la società, mentre all’aristocrazia nelle città non restava che consumare i profitti di una egemonia progressivamente in disfacimento (Galante, 1986, pag. 99) ”.

CAPITOLO VII °

NELLA PSICOLOGIA DEL BAGLIO

La mafia è sempre stata attenta a rappresentare una propria immagine sociale, al punto che ha mutuato alcuni codici folklorici proprio perchè il proprio potere era fondato anche dalla sua rappresentazione. Hess pone alla base del fenomeno mafioso quella particolare attitudine psichica che si specchia nell’orgogliosa coscienza del proprio io, nell’indipendenza assoluta dai pubblici poteri, nelle capacità di cavarsela da soli e di difendere la propria dignità autonomamente e ad ogni costo: “un uomo d’onore, un mafioso che sa farsi rispettare, vendica con le proprie forze ogni menomazione arrecata alla sua personalità (e alla sua proprietà, perchè il furto è disistima e offesa) (Hess, 1973, pag. 16) “.
Lo studio di Hess è particolarmente utile perchè dimostra che l’uso o la minaccia della violenza da parte del mafioso gli procura un’immagine di potere reale che può essere utilizzato anche da altri, sopratutto in funzione di protezione contro il vissuto di ostilità nei confronti degli organi statali, ritenuti predatori e comunque ostili nei confronti dei siciliani.
Su questa abitudine psichica fanno leva coloro che valutano la mafia non tanto quanto organizzazione quanto come comportamento, come modi di vita di una società feudale. In questo quadro, il mafioso rappresenta il legame personale, quasi familiare.
Romano ritiene che nei ceti dirigenti dell’isola “lo spirito della mafia è nato dall’antica consuetudine e dimestichezza con i potenti signori, gli aristocratici dominanti e predominanti per lunghi secoli nell’isola, che i mezzi della forza e della violenza che passa sopra ogni legge avevano sempre usato a loro vantaggio (Romano, 1966, pag. 49) ”. Il sentimento mafioso tende, comunque, a conservare e rafforzare le posizioni singolarmente acquisite, non certo a modificare l’organizzazione della società; questo sentimento reazionario e antisociale è però dotato di una grande resistenza, di una forza passiva che la rende ancora più vitale.
Per Galante la percezione sociale sull’ineluttabilità della presenza mafiosa, nel sentimento popolare, nasconde inconsapevolmente il riconoscimento che la mafia è in grado di seguire e anche di determinare le trasformazioni sociali e che esiste una specie di appartenenza culturale: “La mafia cioè in quanto fenomeno che ci appartiene è… parte integrante dunque del nostro mondo e della sua evoluzione, rappresentando l’aspetto tragico e perverso delle sue non sanate contraddizioni. Non certo un fantasma dell’inconscio (o forse anche questo), ma uno di quei mostri dell’epica medievale con cui …si impara a convivere (Galante, 1986, pag. 92) ”.

Possiamo anche rappresentare la mafia come un fenomeno a due volti: uno rivolto al sistema di potere di cui è funzionalmente parte con i suoi meccanismi di integrazione; l’altro è rivolto invece agli strati popolari, presentandosi come parte omogenea ai loro bisogni e aspirazioni. “La mafia ha sempre curato la propria immagine al fine di evitare -ridurre i fenomeni di rigetto fra le classi popolari da cui seleziona i quadri e trae manovalanza (Di Bella S., 1983/b, pag. 21) ”. Nel far questo, la mafia utilizza il sentimento di carattere anarchico di istintiva ed impulsiva ribellione contro l’ingiustizia di un’ordine costituito che è lontano dai suoi problemi, che non amministra nessuna giustizia collettiva, che è fondamentalmente ostile.
Ma il terreno popolare è spesso caratterizzato anche da una profonda passività esistenziale, da una lacerante miseria economica, dalla presenza e dal dominio violento delle classi dirigenti. E questo attiva nell’immaginario sociale desideri di vendetta, di sangue, di morte e di autodistruzione. Come nella figura del brigante anarchico, che riconduce a quella dell’eroe solitario, che si fa giustizia da sè, negando e combattendo i valori e le leggi dell’autorità ufficiale, così in quest’ambito “la mafia nasce appunto da un tentativo di reagire alla passività, alla depressione, alla morte (Di Forti, 1982, pagg. 106-107) ”.

La verità delle classi popolari rimane solo nella dimensione poetica, unico spazio consentito alla testimonianza di verità. ”La stessa parola ha una referenza letterale e una coinemica, referenza che porta a un “dentro“ e a un “fuori“ di essa (Fornari, 1979, pag. 354) ”. Perciò se “reagire da mafioso può significare, a un livello immaginario, paradossalmente reagire alla passività, all’emarginazione (ibidem, pag. 354) ”, lo stesso linguaggio della mafia diventa ambiguo non solo perchè all’interno si compone di idiomi decifrabili solo tra i propri membri, e di un ricco significato nel linguaggio non verbale (gesti, sguardi, ecc.), ma perchè è anche il linguaggio di verità delle classi subalterne che “non può affiorare allo scopo, in sè, non può costituirsi come linguaggio esplicito alla eversione, ne può affiorare nei tribunali – che sono il luogo del soffocamento da parte del diritto statuale del diritto folklorico e, quindi, luogo della violenza e della menzogna istituzionalizzate -, ma va ricercata nel non detto, nell’allusività, nella parola camuffata, nella metafora, nel silenzio (Lombardi Satriani, 1978, pag. 31) ”.
Ogni possibilità di comunicazione egualitaria rimane bloccata dalla lotta per due poteri che sono e rimangono profondamente diversi nelle finalità. Rimane un mondo mafioso mascherato, dietro la quale vivono immaginifici fratelli coalizzati nel negare la autorità ufficiale, quella paterna, di cui tutti hanno sperimentato il ruolo severo e repressivo, e nel proteggere e preservare l’unica immagine dolce, della madre terra, quella materna. Canalizzando l’aggressività verso il potere, l’interno del suo gruppo da attacchi esterni che possono minare il fantasma materno, assunto come simbolo di solidarietà del gruppo stesso.
Nel simbolismo psicoanalitico le parole “mafia“, “mammasantissima“, ecc., rivelano “un attaccamento alla madre purificata delle parti cattive. La perdita dello oggetto di amore originario è sostituita dall’imago della madre (Di Forti, 1983, pag. 72) ”. Da essa il mafioso si difende con un linguaggio e un atteggiamento virile, con la negazione di ogni soggettività femminile, col silenzio e con l’impotenza. “Il mafioso non sa amare, ma fottere (ibidem, pag. 50) ”.
Uno dei segreti che legano insieme i mafiosi è il legame inconscio con questa madre, e l’aggressività esterna è, in fondo, il tentativo di difendere questo segreto. L’imago materno sostituisce l’oggetto d’amore originario: nell’imago sono rimaste solo le parti buone, purificate. Dello stesso avviso è Fromm “ La mafia siciliana, una società segreta di uomini rigorosamente ristretta, da cui sono escluse le donne … viene chiamata “mamma“ dai suoi membri. In effetti, il fantasma della madre, di un buon oggetto protettivo, è alla base della mafia (Fromm, 1965, pag. 114) ”.

Nel tentativo di controllare questo oggetto “interno“ buono, il mafioso è preda di un comportamento possessivo, genitalizzante nei confronti della donna. L’erotismo è bandito, l’amore è il controllo dell’altro. Il centro del mondo è quindi la madre. Il rapporto iperprotettivo e innamorante con la madre sviluppa un falso virilismo e una latente omosessualità, testimoniato anche dall’alto numero di omosessuali presenti nella Sicilia occidentale.
Musatti ricorda come il risolvere il complesso edipico nel bambino di sesso maschile sia importante se “da un lato si produce un’identificazione col padre, dall’altro la traslazione dell’affetto per la madre su altri esseri femminili (Musatti, 1977, pag. 278) ”. La paura della madre di perdere il proprio ruolo fa trasmettere enfaticamente al figlio la paura per le altre donne, determinando una profonda regressione e fissazione.
La fissazione al possesso materno è testimoniato anche dal masochismo che contraddistingue l’adepto mafioso, a cui è imposta la rinuncia a ogni ideale dell’Io e il rispetto gerarchico del gruppo. Il gruppo così assolve a funzioni primordiali che consentono il soddisfacimento psichico di pulsioni libidiche. Non è a caso che il mafioso, che pretende di essere un individualista estremo, non accetti l’isolamento sociale. La necessità di una “famiglia“ protettiva risolve anche le ansie persecutorie e, tra fratelli, si può efficacemente combattere “l’esterno“ minaccioso, preservando “l’interno“ come oasi munifica e ristoratrice.
Abbiamo quindi una duplice identificazione: paterna e materna. Si vorrebbe essere il padre per poter avere la madre, ma ciò non è possibile perchè il padre scatena, con la sua immagine, sentimenti di persecuzione. Questo padre “cattivo“ andrà ucciso, con la lupara, arma usata per uccidere il simbolo animale paterno. Ciò che rimane, l’onore paterno, la parte “buona“, andrà preservato e difeso da ogni attacco e offesa in quanto diviene l’ideale del gruppo come fratellanza.

P R E S E N T A Z I O N E

Con questo lavoro ci siamo proposti di analizzare la formazione, lo sviluppo e il consolidamento dei codici culturali mafiosi in un’ottica psicostorica. Abbiamo inteso, cioè, esaminare questi codici alla luce del contesto mediterraneo del 1800, periodo che nella Sicilia occidentale coincideva con una prolungata influenza culturale prodotta dal feudalesimo spagnolo.
Addentrandoci in questa problematica, nella prima parte abbiamo esaminato i fondamenti storico-economici del potere e dell’accumulazione delle classi dirigenti nella Sicilia occidentale, gli sviluppi sociali di quelle politiche e la nascita del fenomeno popolare di opposizione, come il brigantaggio, capace di generare alla lunga un’utilizzazione politica a sostegno dei disegni di potere degli emergenti imprenditori rurali.
Nella seconda parte si sono percorse le tappe organizzative del reale mondo mafioso, il gruppo e la famiglia, partendo dal latifondo agricolo dove esso nato e della relativa funzione che ha svolto in quel periodo storico. Si è infine esaminata la posizione psicologica della donna in quel contesto, e la funzione essenziale che essa ha svolto nel mantenere ed accrescere il fenomeno mafioso.
Nella terza parte abbiamo esaminato i codici culturali folklorici su cui ha fatto leva l’imprenditoria rurale mafiosa, e in genere tutto il ceto civile emergente, per conquistare, mantenere e rafforzare il proprio potere individuale. In particolare sono stati esaminati il codice dell’onore, fondamentale per inquadrare le strategie di sopravvivenza delle genti mediterranee, l’uso che tale codice ha rappresentato nello sviluppare i fenomeni ideologici della vendetta e del valore individuale e come questi siano degenerati nell’utilizzarli ai fini individuali di potere di sopraffazione e di violenza. Questa degenerazione ha prodotto un modello culturale di educazione che fin dall’infanzia condiziona il bambino a adottare atteggiamenti individuali e di gruppo che finiscono con il reprimere le potenzialità positive dell’essere.

I N D I C E

Introduzione …………………………..pag.

Parte prima

L’ideologia del potere e della accumulazione mafiosa

Capitolo I – Origine economica del latifondo ….pag.

Capitolo I.1. – Cause storiche del potere mafioso ..pag.

Capitolo I.2. – Verso il contesto periferico capitalistico…….pag.

Capitolo I.3. – Il brigantaggio siciliano.Miti e realta’…….pag.

Capitolo II – Nascita del simbolo d’onore………pag.
Capitolo II.1 – Innatismo ed ambientalismo mafioso pag.

Parte seconda
L’ IMMAGINE SOCIALE MAFIOSA

Capitolo III – Il gruppo e la cosca ……………pag.

Capitolo III.1. – La famiglia clanica ………….pag.

Capitolo IV – La donna onorata ………………pag.

Parte terza
I CODICI CULTURALI

Premessa …………………………………….pag.

Capitolo V – L’onore, il nome e il sangue……….pag.

Capitolo VI- La vendetta mediterranea …………..pag.

Capitolo VI.1.- L’ individualismo come risorsa ….pag.

Capitolo VI.2. – La violenza folklorica…………pag.

Capitolo VII – Nella psicologia del baglio ……..pag.

Bibliografia …………………………………pag.

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