Voci

I pazienti si fanno vivi in molti modi. In questo caso la mia paziente mi ha scritto questa lunga mail dopo un mese di separazione per le vacanze. ha posto una questione di autenticità nel mio poterle parlare delle mie emozioni che mi ha fatto molto riflettere e anche modificare poi alcuni tratti nel mio essere terapeuta. E’ una di quelle persone alle quali devo anch’io dire “grazie”!

Voci

Ho capito. Forse. Mi spiego. Per qualche tempo mi sono chiesta se in qualche modo “ce l’avessi con me”. Sì, perché mi pareva che lo facessi apposta, a darmi addosso, in un certo senso. Ero in difficoltà, sono venuta per una supervisione: mi hai dato addosso, una, due volte. Con il tuo stile, dolce, ma fermo. Ok, va bene, mi dico: è vero, ……, che hai delle difficoltà, e le devi affrontare, se vuoi crescere sia nel lavoro, sia come persona. E lui ti sta aiutando, facendotele vedere, queste difficoltà, dal suo punto di vista, che tu stessa hai richiesto, peraltro, e del quale ti fidi. Se te ne fossi stata zitta, non avresti sofferto. Ma non avresti nemmeno visto, ed è meglio vedere, no?
Sì, certo, è meglio vedere. E’ meglio sapere. Adesso so. Le mie fatiche, da dove arrivano, perché mi ci scontro quasi di continuo, perché non manchi di ricordarmelo.
Ma allora? Qual è lo step successivo, dottore?
Condividere con te quello che sento. “Facciamoci i conti con questi genitori; vediamole, queste paure”
Il tuo invito è chiaro.
Ma… non ce la faccio. Davvero, ci provo con tutta me stessa. E di nuovo sbatto contro un muro di gomma che mi ributta indietro.
Che cazzo è sto maledetto muro? Ti vedo, vicinissimo, ma è come se tu stessi dall’altra parte, e una parete invisibile ci separa, e io non riesco mai a raggiungerti, nonostante ne abbia tutte le intenzioni.
“E’ la paura che sale … anche qui con me”. Sì, hai ragione ancora una volta. E riprendo la metafora del “matrimonio”, che hai usato tu stesso, quando hai detto che portavo in dote quei personaggi, prima solo miei mentre ora che li ho in qualche modo messi sul piatto, diventati un po’ anche tuoi. Oltre a quella dote, porto anche un bouquet. Uno di quei bouquet barocchi, pesanti da tenere in mano. Un bouquet di paure: tante, dalle molteplici sfumature. Legate assieme in un unico mazzo, nel quale s’intrecciano e si fondono assieme, ed hanno un effetto coadiuvante, rafforzativo.
Una paura la conosco bene: arriva sicuramente dalla mia parte bisognosa, a testimonianza di alcuni eventi che ormai appartengono ad un passato lontano, che non è rimasto più se non sotto forma di labili memorie, scene osservate, voci ascoltate o sentite di nascosto, brutti sogni ricorrenti e brividi sulla pelle. Di quel passato, conservo tracce dirette, impressioni mie, per quanto probabilmente siano punti di vista parziali; e tracce indirette: l’eco dei racconti di chi c’era. Mia madre, soprattutto; mio padre, un po’ meno.
Le “mie” tracce parlano di ……..bambina, che assiste inerme ed atterrita agli scontri verbali tra i propri genitori, e non ci può far niente, se non pregare con tutto il cuore “che non si lascino. Forse è stato lì che ho cominciato ad affinare la mia sensibilità, quella che vezzosamente chiamo “da principessa francese”: dovevo far di tutto per riuscire comprendere “come” stessero i miei genitori, e comportarmi in modo da non alterare gli equilibri raggiunti, che a quanto pare mi sembravano piuttosto precari. Dovevo tendere le orecchie, e carpire ciò che si dicevano: andavano avanti a discutere, quando noi – io e mio fratello – eravamo a dormire, o facevano pace? Bastava un piccolo particolare, un’occhiata, un sopracciglio, la piegatura delle labbra. Soprattutto di mia madre, della quale studiavo l’espressione del viso nei minimi dettagli.
E ricordo bene quanto, a quei tempi, fossi terrorizzata dal buio: mi figuravo una “signora senza testa” che veniva a spaventarmi, e non potevo prendere sonno. Forse, in realtà, ero troppo impegnata a controllare i miei genitori, per potermi abbandonare tranquillamente all’oblio del riposo serale.
I racconti, le mie tracce indirette, scavano ancora più a fondo, più indietro: mia madre, primipara di ventiquattro anni, dopo avermi partorito – da sola, perché i mariti a quei tempi non erano ammessi in sala parto, e comunque, dice sempre mio padre che anche potendo non sarebbe entrato – non mi ha potuto allattare.
Non ho mai capito perché. Me lo sono chiesta, eccome, soprattutto dopo essere a mia volta diventata madre, e aver vissuto sulla mia pelle tre parti e tre allattamenti.
Me lo sono chiesta io, ma non l’ho mai domandato direttamente a lei. Ho sempre pensato che una domanda così diretta sarebbe stata “troppo”, e quindi, ancora una volta, ho ascoltato le sue parole, proprio come facevo da piccola, cercando di carpirne il significato latente: “Mi hanno sconsigliato di allattarti; siccome ero molto miope, dicevano che il mio latte ti avrebbe fatto male”.
E così, a quella giovane donna alla sua prima esperienza di madre hanno fasciato il seno gonfio di latte, come si usava a quei tempi, e hanno dato delle pastiglie per inibirne la produzione. Questo, il racconto. Scarno nei particolari, e tuttavia carico nei sottintesi. Quanto dolore deve esserci stato, in quel suo corpo sfiancato dal parto, e poi aggredito dai farmaci? E quanto dolore, nel cuore di mia madre, quanta paura che con il proprio latte potesse addirittura far male alla propria creatura appena nata?
La creatura, ero io. La sensazione di freddo. Me la ricordo, non so come, non so perché, ma la associo a questo. E non c’entra il fatto che io sia nata in gennaio. La paura è cominciata lì, il giorno che sono entrata a far parte di questo mondo. Sappiamo bene, noi che abbiamo studiato queste cose, che più che il latte in sé, tra madre e figlio passano le emozioni. Ecco, mia madre mi ha portato in dote questa.
Questa specie di abbandono. Questo enorme buco. Tale è il mio bisogno. E’ grande quanto me. Cinquant’ anni . Ecco, un lato della paura che sale quando sono con te è questo: che tu veda quanto è grossa la voragine che m’inghiotte, e ne abbia paura a tua volta.
Perchè il compito che ti ho affidato potrebbe sembrarti “troppo”: ti ho portato questa mia anima -bucata alla base- e ti sto chiedendo di aiutarmi a ricucirne i pezzi, perché io in fondo non me ne sento capace, ma soprattutto perché da sola non voglio farlo, lo voglio fare assieme a te.
Me l’hai detto, che non sono sola. Me l’hai ripetuto più volte. Ma alla sensazione di freddo non si rimedia con le parole.
Ci vuole calore, vicinanza. Vicinanza prolungata. Caldo-freddo-caldo-freddo. Caldo interrotto dal freddo, ogni volta che ci vediamo e poi vado via. Ora che mi scaldo tutta, è già ora di andare. Non ce la faccio, così. Soffro tantissimo. Perché ogni volta è come se arrivassi sopravvissuta dalla battaglia che la volta precedente ho dovuto fare per tener duro fino alla volta successiva.
Poi c’è l’altro pezzo. Subdolo e strisciante si nasconde dietro alla Lucia piccola, poverina e bisognosa. Ma l’abbiamo scovato, anche quello. E l’abbiamo chiamato desiderio.
Cosa c’entra, la paura, con il desiderio? C’entra, eccome. In vari modi. Altrimenti, non mi verrebbe da pensare così spesso che se continuo a farmi vedere così da te, cioè così piccola, sofferente e bisognosa, non avrai mai la percezione che sono una donna che si può far desiderare da te.
Ma c’è una grossa ambivalenza, in questo mio sentire desiderante. Ho paura di mostrartelo, di raccontartelo, di fartelo sapere. Perché potresti non volerlo.
E qui torna ancora l’antica paura del rifiuto. Non del giudizio. Del rifiuto. Però forse si assomigliano, rifiuto e giudizio (negativo).
Forse sono la stessa cosa, perché se io giudico qualcuno in maniera negativa, poi non lo voglio.
Credo di averci provato, a parlarne. Credo di avertelo fatto sapere. Del desiderio, intendo. “Desiderio d’amore”, ho detto una volta. Piuttosto vago, lo ammetto. E pollitically correct.
Perché la paura del tuo “no” mi ha fatto preventivamente togliere tutti gli orpelli più colorati: quelli che appartengono alle fantasie e ai sogni che non ti ho mai raccontato, né scritto.
Quelli che riguardano il corpo, ad esempio. Tempo fa mi hai chiesto se sentivo un desiderio erotico. “No”, ho risposto. Da bravo analista quale sei, non avrai preso per buona questa prima risposta. E’ un “no” molto diverso dal tuo. E’ un “no” spaventato che dietro cela un sì, ma ho così tanta paura che tu non mi vuoi che non te lo posso neanche dire.
Ma mi è sembrato svilente, chiamarlo desiderio erotico. Non è solo questo. E’ anche questo, ma non solo.
Ma poi tu hai detto “basta non agirlo”. E hai chiuso. Ti sei ri-sintonizzato sulla mia parte bisognosa, e quella è talmente evidente e talmente vasta che dietro ci si può nascondere di tutto e di più.
E ho fatto come mi hai detto, non ho agito, e non solo. Non ho fatto più niente.
Come quando ti scotti, per la prima volta. Poi impari, ed eviti di toccare direttamente con la pelle nuda la fonte di calore che ti aveva ustionato.
Non saprò mai cosa provi veramente per me, vero? Sei così bravo a tenere il ruolo, che questa parte la tieni ben nascosta dentro di te. Tu il setting ce l’hai davvero molto ben impiantato. Ma io, invece no. Abbiamo parlato del limite, di che cosa significa prendere atto dell’esistenza di limiti che segnano il confine tra una cosa e un’altra. Sei tu, quello a cui spetta fare le domande. E io sono diventata insofferente. Una paziente “impaziente”.
Assieme alla paura di toccare l’argomento “desiderio”, si è aggiunta l’insofferenza di sentire un desiderio, ma di non poterlo agire, in nome di queste benedette “regole del setting”; che Dio abbia in gloria chi le ha inventate.
Il setting siamo noi, però, giusto? Allora sei tu, che hai deciso così. E io non ho capito perché.
E sono arrabbiata per questo, e quindi non parlo. Fine della storia. Paura-bisogno-desiderio-rabbia: ecco in fila ben allineati, come vagoni pronti per partire, i motivi del perché “de visu” faccio così fatica a lasciar uscire quello che sento.
Detto questo, facciamoli pure, i conti. Con i miei genitori, con le paure, con quello che vogliamo. Ma la matematica non è un’opinione. Mentre qui, invece, siamo nel regno delle opinioni. E i conti non tornano mai.
Se no, mi spiegheresti perché piangevi oggi, prima di salutarci, e poi ti sei asciugato le lacrime.
Senza dire una parola. Come puoi pretendere che io metta in parole le mie cose, se tu non lo fai con le tue?
Non trovo giusto tutto questo. Credo che sia sofferenza inutile da ambo le parti.

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