1-Avendo già Sergio espresso i suoi chiarimenti ai 5 colleghi che gli hanno posto interrogativi, evito inutili ripetizioni. Cercherò di rimanere sulla traccia del pensiero, seguendo un poco il prezioso ragionamento di Carmelo, fatto di domande e considerazioni.
Non mi vengono domande specifiche sui seguenti capitoli :l’uomo terapeuta,sulla salute, domanda e risposta, terminologia.Probabilmente perché mi sembrano esaustive così come sono espresse.
Sulle altre : sulla premessa. Mentre sono d’accordo sul senso complessivo del pezzo, ti chiedo se la formulazione che usi per esprimere alcuni concetti non si presti a troppi fraintendimenti. Per esempio: “il modello strutturale è un’astrazione……..Un terapeuta che per assurdo funzionasse perfettamente secondo i dettami di questo modello sarebbe un robot, non un essere umano.”
Detto in questo modo, un terapeuta se ne guarda bene di funzionare come un robot, e quindi di ritenere quel modello astratto una cosa buona per lui. E’ più probabile che cerchi di evitare il modello, invece di assumerlo, sia pure come ideale.
Mi rendo conto che nel dire questo parto dall’idea che un essere umano che ha un’ideale potrebbe anche raggiungerlo…
Sulla concezione esistenziale: anche qui dichiaro la mia adesione di principio alla visione di creature e creatori e di mantenimento del discorso in termini logico-razionali. Già non mi coinvolge il problema della fede, ma quello della spiritualità sì. Mi manca il primo, ma mi ritrovo il secondo.
Ciò mi fa vivere certamente gli esseri umani (e non solo quelli umani) in modo diverso da quando non mi sono trovato la mia spiritualità interna. Per quanto mi riguarda è una conoscenza. Non mi è per niente possibile tradurla però con il linguaggio delle parole, perché le parole sono pensiero, il pensiero è duale, la dualità spezza l’unità in cui siamo inseriti come esseri. Qualsiasi cosa conosciamo e poi trasmettiamo ha inizio nella nostra coscienza. Ma anch’essa si presenta a noi da un’altra cosa che è prima. Come porre il passaggio tra unità e dualità? E’ un problema di linguaggio? Non credo sia il linguaggio, per le ragioni che dicevo prima.
Qualunque cosa dichiaro è un concetto, non la verità. Mi chiedo se invece di parlare di verità (che è interna all’essere, e quindi indiscutibile), non parliamo invece dei concetti di “essere” che abbiamo in mente come terapeuti.
Ultima considerazione: perché continuare ad usare il concetto di “istinto”? Non ne abbiamo più, come esseri umani, abbiamo solo pulsioni indirizzate da qualche parte.
Sul senso della cura: io credo che i sentimenti siano anch’essi duali, per cui se l’amore terapeutico è inteso come volere il bene dell’altro ciò dovrebbe valere fino a quando l’amore soddisfa le necessità dell’altro. Quando non le soddisfa più diventa indifferenza , anche odio.
Come affrontare, da terapeuti, questa dualità dei sentimenti?
Sulle conclusioni: è un problema di formazione? Anche. E’ un problema di soggetti? Anche. E’ un problema di linguaggio? Anche. E chissà quanti altri “anche”.
Nel dirti “grazie” per avermi costretto a pensare, spero di essere riuscito ad esprimere i miei dubbi concettuali.
2- Accolgo l’invito di Franco a riprendere più esplicitamente quanto ho finora scritto, con la premessa, in ogni caso, che ci sono questioni, in questo dibattito del pensiero fondante, che si prestano ad essere intuite e basta. Nessuna capacità linguistica riuscirà, secondo me, a darne ragione verbale.
a) Per “ideale” non intendo il freudiano ”ideale dell’Io”, con le relative vergogne provate se non si raggiungono gli obiettivi. Intendo il processo mentale di costruzione dell’identità fondata sul “giusto” più interiore, “giusto” che può o no coincidere con la realtà esterna che si percepisce.
Certo che si possono raggiungere certi ideali. Più quel “giusto” è praticato, più la paura può essere attraversata e l’ideale raggiunto. Dipende, io credo, dalla consapevolezza di quello che non si è.
b) Per “istinto” intendo una tendenza innata a reagire in modo fisso a degli stimoli interiori o ambientali. Ciò che succede agli animali, tanto per capirci.
Per “pulsioni indirizzate” intendo la tendenza innata a reagire in modo mutabile agli stimoli.
La mutabilità penso sia dovuta alle diversità culturali che ogni nicchia ecologica sviluppa e contiene.
Il cosiddetto “istinto di conservazione” vedi bene come può essere tradotto nel caso dei kamikaze, tanto per fare un esempio, oppure il cosiddetto “istinto sessuale” come può essere tradotto nel caso di una scelta di vita monastica e spirituale.
c) Faccio finta che non accetto la provocazione. Secondo me, il passaggio potrebbe avvenire abbandonandoci alla fiducia che l’altro (carteggista) ci aiuterà a raggiungere quell’ideale “giusto” per noi.
Un’ultimo stimolo, che mi viene dal riprendere il finale del contributo di Ottolini.
Direi (e sono sempre parole…) che una possibile differenza passa dal sentirsi figli di qualcosa, non servi di quel qualcosa.
Essere figli non è essere servi, è proprio essere figli.