In un recente articolo di Felice Cimatti, apparso sulla rivista di psicoanalisi, 2007, LIII, 3, viene ripreso uno dei problemi sull’attuale dibattito tra neuroscienze e psicoanalisi.
Cimatti rivendica alla psicoanalisi un posto tra le scienze, partendo dalla constatazione che oggi non si dovrebbe parlare di “Scienza”, ma di “Scienze”, ognuna col suo metodo razionale.
Riprendendo la polemica provocata da Kandel sulla metodologia psicoanalitica, fondata per quest’ultimo semplicemente “sull’ascolto del paziente”, Cimatti ribatte che è proprio della razionalità psicoanalitica occuparsi dei silenzi del paziente, delle libere associazioni, dei movimenti, delle posture ed altri comportamenti.
Non solo. Essendo la psicoanalisi un incontro tra persone, è questo che stabilisce un senso all’incontro stesso.
Kundel è interessato invece solo al cervello, per cui non c’è possibilità di comprendersi.
Il cervello è qualcosa che può essere atomizzato e ridotto a una serie infinita di studi quantitativi, mentre la persona, che produce paure, speranze, sogni, parole e così via, tutte cose immateriali non quantificabili, non può essere messa nel grande serbatoio della scienza misurabile.
“La psicoanalisi è un tipo di razionalità che ha lo scopo di stabilire una relazione, in base ad una serie di assunti teorici e mediante un metodo logicamente non oggettivo, tra la soggettività del paziente e la soggettività dell’analista ( transfert e controtransfert)”.
Trovo le considerazioni di Cimatti assolutamente pertinenti e motivate, pur ancorando egli stesso la psicoanalisi all’interno del concetto di “Scienze”.
Proprio questo tipo di “àncora” scientifica merita di essere ripresa.
A mio avviso la persona non è conoscibile attraverso nessun tipo di metodo scientifico.
Esprimo con nettezza questa posizione poiché ritengo che le Scienze, nelle sue varie metodologie, si possono porre sempre e solo come conoscitrici di oggetti quantitativi.
Al esempio, un corpo umano è un oggetto che può essere quantificato a piacimento, sezionando ogni sua parte e trovando tutte le misurazioni più idonee a descriverne il funzionamento.
La persona, che comprende ovviamente anche il corpo, non può esserlo.
La persona è un risultato totalmente altro dalla quantificazione, dal momento che risponde a stimoli e impulsi relazionali, che non sono cose ma, appunto, relazioni.
Prendiamo le considerazioni “sull’ascolto del paziente”, proviamo a vedere la differenza che c’è tra il linguaggio adoperato dalla scienza e il linguaggio adoperato dalle persone, siano o meno pazienti.
Il linguaggio scientifico è un linguaggio universalmente privo di qualsiasi possibilità metaforica.
I termini sono precisi, convenzionalmente dei puri segni linguistici, sia quando sono creati ad hoc sia quando vengono mutuali da altri riferimenti preesistenti. Il linguaggio scientifico non si presta a nessuna interpretazione, è rigido e vale per tutti, presso qualsiasi cultura.
Il vantaggio nominale dell’uso dei termini scientifici nella distinzione e nella chiarezza delle cose che oggettiva è indiscutibile.
E la parola umana? In essa non c’è niente di scientifico. Quando io parlo, dico qualcosa con le mie intenzionalità consce e inconsce, utilizzo un tono alto o basso, aggressivo o seduttivo, armonioso o duro, emetto un contenuto che posso articolare in modo chiaro e condiviso oppure oscuro e incomprensibile, c’è un altro che mi ascolta e che riceve la mia parola a seconda della sua disposizione d’animo nei miei confronti e di quello che intende ascoltare, delle sue aspettative e delle sue idiosincrasie.
Il senso delle mie parole può essere inteso solo se si tiene conto di tutti questi elementi, inseparabili l’uno dall’altro. E’ la loro contemporanea unità che la denota come parola umana.
Qualsiasi tentativo di frammentarla nelle sue parti costituenti la renderebbe atomizzata e frammentata, e lo studio di questa frammentazione ne sancirebbe la totale incomprensibilità delle singole parti.
La parola umana non può quindi essere oggettivata e, di conseguenza, ridotta ad oggetto di studio scientifico.
Qualsiasi tentativo di comprensione di quella parola passa non attraverso l’atomizzazione della parola stessa, come fa la scienza, ma attraverso la sua unità (chi parla, il modo in cui parla, il contenuto di quel parlare, il ricevente quella parola). Solo rinunciando al metodo atomizzante si può rendere intelligibile quella parola.
Non è così che avviene con i pazienti? Due persone che, da posizioni asimmetriche, tentano di capirsi reciprocamente e che, nel farlo, attingono a una rappresentazione dell’altro in termini unitari, non frammentati. E quando si parlano ognuno non lo fa con la propria totalità alla totalità dell’altro?
Perché ridurre la parola della persona ad un oggetto? Credo che la psicoanalisi debba occuparsi del soggetto, sapendo che ogni soggetto è un microcosmo irriducibile a qualsiasi tentativo di frammentazione.
Non che questa frammentazione non venga continuamente tentata. E’ sotto i nostri occhi il risultato dell’uomo nato e cresciuto in questo tentativo continuo di riduzionismo scientista.
Dopo che questa ha lavorato accanitamente per la frammentazione umana, almeno la psicoanalisi potrebbe lavorare per una ricomposizione dell’intero, del soggetto, della persona?
Tutto questo non si chiama più scienza. Si possono trovare altri modi per definire l’arte della vita umana.
Tutto ciò che di oggettivo si può applicare alla psicoanalisi ha a che fare col setting di lavoro che lo psicoanalista dovrebbe applicare per svolgere il suo mestiere. Ma questo è un altro problema.