Qualche osservazione su considerazioni di Lampignano

La lettura di Lampignano del libro “Psicoterapia: un pensiero, un metodo, una pratica” è stata certamente attenta e meticolosa. Personalmente lo ringrazio anche per le considerazioni e le riflessioni che esprime sui vari argomenti. Saranno anche per me oggetto di riflessioni future.
Vorrei fare a mia volta alcune considerazione su alcune sue riflessioni.
1) L’abitudine di inserire una ragionata bibliografia di riferimento che consenta al lettore di avere un’idea sulla formazione dell’analista che scrive il pezzo clinico.
Sono abbastanza convinto di un dato di fondo: se è vero che io scrivo qualcosa è perché ho letto, meditato e fatto mio un grande bagaglio di scritti e riflessioni di tanti altri autori.
Nessuno nasce con un sapere precompilato in testa.
Sono tantissimi gli psicoanalisti che mi aiutano a riflettere che se ogni volta dovessi citarli lo scritto si riempirebbe solo di queste citazioni. Faccio un esempio sull’enactment che Lampignano cita nelle sue riflessioni. Egli cita Jacobs come l’autore che ha formulato questo concetto, ed io devo dire che personalmente il concetto di enactment è particolarmente affrontato anche in Bromberg, in Tony Bass, in Shore, in Buck. Questi sono alcuni degli autori che mi vengono in mente e di cui ho letto qualcosa, mentre ne ignoro un’altra moltitudine che non avrei mai il tempo di leggere, a meno che qualcuno non mi passasse un riassunto dei vari autori sull’argomento.
Ma questo aggiungerebbe qualcosa al lettore della storia clinica? Io dubito, perché sono abbastanza convinto che una vignetta clinica deve reggersi da sola in piedi per essere compresa, e non sarà la citazione di qualche autore famoso che la spiega.
Noi conosciamo anche troppo bene quanto gli autori sono citati a proposito e a sproposito e, in ogni caso, è vero anche che di ogni autore ciascuno prende un pezzo che in quel momento è masticabile nella propria riflessione.
Quante volte capita di rileggere lo stesso libro alcuni anni dopo e scoprire che ci sono cose che non si erano per niente capite anni prima! Credo sia un processo fisiologico comune a tutti.

2) Ogni storia clinica si dovrebbe reggere in piedi da sola, dicevo prima.
Lampignano si lamenta che la ricchezza e la saggezza clinica del libro è tale che noi non facciamo onore con i nostri commenti a quello che pure facciamo.
Prende ad esempio la storia di Mario e la sua famiglia per sviluppare una riflessione sul ruolo e la funzione del terapeuta in quella situazione descritta.
Io non ho nessuna obbiezione alle sua considerazioni psicoanalitiche, le condivido anche nel merito, soprattutto il punto 2, ma non credo che nell’incontro con quelle tre persone che in quel momento si parlano addosso l’un l’altro e che il terapeuta che li ha di fronte deve consentire di ascoltarsi reciprocamente, sia possibile fare un intervento che sia simile a regolare il traffico emotivo.
L’idea di un vigile urbano emotivo non mi convince, però l’analista svolge anche questa funzione qualche volta…
“Garantirò a tutti la possibilità di parlare, ascoltare e replicare gli uni con gli altri”. E’ un intervento che posso fare solo dal ruolo che occupo con loro e che sarà, com’è avvenuto, di accogliere tutte le tensioni di ognuno, di consentire agli altri una distanza emotiva da quello che accade, che consente di ascoltare e ascoltarsi con più calma.
L’essermi posto come centralino che registra le comunicazioni (non proprio un viglile urbano) ha consentito a quel gruppo familiare allora di ascoltarsi, questione per me sempre la più importante in un rapporto clinico.

Paolo Serra

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