Avevo sei anni la prima volta che mio padre mi ha portato in campagna per stare insieme con mio fratello, pastore già a tempo pieno del gregge di famiglia.
Era fine giugno, le campagne attorno al mio paese natio erano ancora piene di verde e di odori intensi.
Poter stare con l’unico fratello che avevo, di fatto, mai vissuto perché raramente veniva mandato a casa, mi faceva sentire bene, ero contento.
Avevo finito la prima elementare, ero stato promosso, e questo essere mandato a stare in campagna con mio fratello e le pecore lo consideravo un vero regalo.
Anche lui era contento di avere compagnia.
Viveva con le pecore da ormai otto anni, era in piena adolescenza e sognava da grande di fare il cantante.
Cantava canzoni di Claudio Villa in modo magistrale, ne imitava i toni e mi sembrava un vero cantante.
Provavo una vera suggestione per quelle canzoni.
Trascorse così la prima giornata.
Ci accampammo con le pecore in uno stazzo verso l’imbrunire.
La notte in Sardegna cala repentinamente in estate, così mi ritrovai immerso nel buio dopo poco tempo.
La cena consisteva in pane e formaggio, cosa così abituale che mi sembrava di essere a casa. M’inquietava solo il silenzio.
Un silenzio che era interrotto ogni tanto solo dal campanaccio di qualche pecora. In ogni modo mi addormentai presto, tanto era stata intensa la giornata.
Non so quanto tempo dormì.
Quando mi svegliai era ancora notte fonda, mi sollevai dal mio giaciglio di frasche e non vidi nessuno.
Mio fratello non c’era.
Mi alzai, feci qualche passo in direzione dello stazzo dove le aveva rinchiuse e non vidi niente.
Le pecore non c’erano.
Mio fratello nemmeno.
Lo chiamo: niente, non si sente nessuna risposta.
Grido il suo nome.
Mi sembra di sentire un rimbombo, però sparisce subito: è solo l’eco del mio grido.
La paura comincia a salirmi intensa.
Dove sarà?
Cerco di catturare il minimo rumore dei campanacci, ma non avverto niente.
Torno nel giaciglio e mi riavvolgo nella coperta, sperando che torni presto.
Trascorre un tempo che mi sembra eterno e mi rialzo.
Ho paura che sia andato via e mi abbia lasciato lì da solo, in un posto dove non sono mai stato e che so essere lontanissimo dal paese.
Vado nella direzione che mi sembrava di conoscere, ma è buio e non trovo la strada.
Comincio a gridare, poi a correre.
Ho corso moltissimo, piangendo e gridando il nome di mio fratello.
Poi mi sono accasciato, esausto, sotto un cespuglio di mirto e mi sono addormentato.
Quei momenti li ho vissuti con il più grande terrore che abbia mai provato.
Di tutti gli avvenimenti che ho vissuto, quella notte trascorsa correndo nelle campagne e gridando e piangendo me la sono portata dentro per anni e solo nelle mie solitarie traversate dei monti che ho fatto da adulto mi sono riconciliato con i miei timori e i miei limiti di bambino abbandonato.
Il giorno dopo fui ritrovato da mio fratello, che si era spaventato a morte non avendomi più trovato nell’ovile al ritorno dall’aver abbeverato le pecore nel fiume, e si era messo a cercarmi nelle campagne.
A dieci anni mio padre mi ordina di prendere il posto del fratello, che andava militare.
Vendette il gregge di pecore, comprò dodici mucche e trasformò la casa in una stalla.
Sono scappato da casa per 10 giorni, rifugiandomi in casolari fuori paese.
Poi la fame mi ha riportato indietro, dove una robusta dose di nerbi di bue sulla schiena mi ha reso mansueto per un pò di tempo.
Ubbidii per poco tempo, non volevo finire come mio fratello.
Mio padre divenne ancora più duro.
Ma più lui picchiava più io scappavo.
L’ultima volta mi riportarono a casa i carabinieri, che mi avevano trovato vagante in un paese vicino.
Io avevo il compito di andare a scuola la mattina e di occuparmi delle mucche il pomeriggio e la sera.
Col tempo assunsi una piena familiarità con loro.
Non solo avevo il loro stesso odore, che a scuola mi rendeva unico, ma giocavo con i vitelli e le mucche davano più latte quando le mungevo io di quando le mungeva mio padre.
Questo mi rendeva orgogliosissimo.
Mi mancava però ogni contatto con i miei coetanei fuori dalla scuola, e ogni tanto scappavo a giocare a palla con loro la domenica pomeriggio.
Come studente ero sicuramente una disperazione per gli insegnanti.
L’unica cosa che facevo bene erano i temi di italiano.
Viaggiavo con la media dell’otto-nove in italiano scritto.
Nelle altre materie scolastiche viaggiavo tra il quattro e il cinque.
Dovevo scrivere delle cose così strane e terribili che perfino il preside mi chiamò un paio di volte a colloquio con la mia insegnante di italiano, verso la quale nutrivo una specie di venerazione.
A casa non si accorgevano di niente, anche perché regnava un analfabetismo strisciante.
Prima di me solo mia sorella era arrivata alla quinta elementare.
I miei genitori erano autodidatti e gli altri due erano arrivati alla terza elementare.
Credo che nelle scuole medie mi abbiano promosso più per la pena della vita pratica che facevo, piuttosto che per meriti scolastici.
Cominciavo a reagire anche alle imposizioni che mio padre poneva.
Almeno la domenica pomeriggio volevo andare a giocare con gli amici a pallone, grande amore infantile.
Nessuna concessione.
Uscivo lo stesso.
Riprese il nerbo di bue in mano, ma stavolta non riuscì a colpirmi.
Gli tenni i polsi così stretti che nella colluttazione gliene fratturai uno.
Volevo andarmene, lo dicevo spesso, e lui temeva che l’avrei fatto.
E infatti me ne andai alla fine della terza media, quando un compagno di scuola che si era trasferito a Cagliari mi parlò della possibilità di trovarvi un lavoro.
Quando dissi a mia madre della mia decisione non fece altro che alzarsi, andare nella sua stanza e tornare con un biglietto di 500 lire.
Mi baciò e mi strinse a se.
Non ho mai dimenticato quella condivisione, silenziosa solo nelle parole.
Mio padre, sia pure con calma apparente, mi disse:”Tornerai qui a chiedere un pezzo di pane”.
La presi come una sfida.
Per nove anni non ho più messo piede in quella casa.
Inizio la mia avventura a Cagliari.
Qui ho conosciuto bene la differenza tra le classi sociali di allora.
Fui assunto da un negoziante come garzone di bottega.
La pena più grande la vivevo a cena, relegato in un angolo di un lavandino che veniva apparecchiato solo per me. Il resto della famiglia mangiava a un tavolo a cui io davo le spalle.
Ho maturato tanto di quel rancore in quei mesi per quella famiglia che sono ancora meravigliato di aver resistito tanto.
L’imperativo di “Non torno indietro neanche morto” è stato decisivo.
Ho fatto in seguito il lavoro di lavapiatti in una trattoria e dopo sono partito per Milano, promesso calciatore.
Sono rimasto solo una promessa, e anche qui mi sono arrangiato facendo il lavapiatti.
Non ho mangiato così tanto come quell’anno in quel ristorante, credo di aver recuperato la fame arretrata di tutta l’infanzia.
Verso i 18 anni, lavorando in una fabbrica di scatole, conosco per la prima volta la politica.
E’ un’amore immediato e totale.
Comincio a frequentare i radicali, mi coinvolgo nelle battaglie di quegli anni per i diritti civili.
Grazie all’attività politica, in quegli anni scopro la complessità delle mie origini, della mia terra, della mia storia affettiva.
M’iscrivo al PCI, faccio attività sindacale nel territorio, e attraverso la lettura e lo studio di Gramsci comprendo cosa significava essere meridionali in quel tempo.
Le ferite affettive dell’infanzia sono tutte aperte, ma l’appartenenza a un’organizzazione funge da casa madre e lenisce parecchio i dolori.
Non sono un teorico, mi va bene la trincea, la partecipazione in prima linea.
Divento sindacalista sempre più a tempo pieno.
Sempre più ardente nel desiderio di riscatto dei poveri, come mi consideravo.
Sono anni di intensa militanza nel campo dei problemi della casa e del territorio.
Cerco anche una calma affettiva, mi sposo con una donna che mi vuole molto bene, ma sono sempre irrequieto, la dimensione milanese la sento stretta, ho voglia di fare altre esperienze.
Il partito mi spedisce in Sicilia.
Mi rendo conto anche che il mio matrimonio non può funzionare in questo modo e lo chiudo, anche grazie alla nascita di una storia sentimentale che è diventata la più importante della mia vita .
Il meridione lo sento un poco un ritorno a casa, e come tale lo affronto.
La Sicilia di quegli anni è una terra di confine, in tutti i sensi.
Per la prima volta comprendo la mafia, il suo stratosferico potere e soprattutto, la comune e diffusa mentalità mafiosa.
Una mentalità classista, oscurante, disperante.
Il dominio dell’uomo sull’uomo, della morte sulla vita
La mia lotta personale contro questa mentalità e questo costume diventa totale, intransigente.
Anche all’interno del mio partito avvengono cose strane e per molti versi terribili.
Con la disperazione nel cuore capisco quanto è grande la frattura tra ciò che credo giusto fare e quello che è fatto da chi mi sta attorno.
Non posso rinunciare ad una prassi ideale che ho maturato in tutti quegli anni e così decido di chiudere la mia esperienza di sindacalista e di politica attiva.
Mi rimarranno vicini pochissimi amici.
Torno a Milano. Riprendo a fare l’operaio e ricomincio gli studi.
Una poesia che ho scritto in quegli anni penso renda bene quello che provavo.
Lo scrivere poesie è stato la valvola di sfogo del mio animo, di quello che vivevo e sentivo.
CAMPELLA
Nel disordine
Cadeva stanco
Tra quelle strade,
Un tempo,
Cadeva sangue
Verde d’ulivo
E uno sterile
Becchino trasparente.
Un fiore cinese,
Un fanciullo,
Una pallida luna
Schiuse gli occhi.
Si afferrò
Allo sguardo paziente,
Il fiore crebbe
Nella sabbia fiammeggiante
Del tiepido ruscello,
Annegarono piangendo
I tuoi capelli,
L’oppio cadde
Dagli alberi
Di carrubi.
Non dico follie.
Piove come l’abisso,
Lo spazio celeste
Penetra nelle pareti
Di pino
Di Svezia,
Nuota sulle ossa,
Sui calli
Dei ricordi infantili
Del tuo Io.
Oggi tu vivi,
Abbandonata,
Per la vita,
Sognando,
Forse,
I miei coralli.
No, non sono morto.
Solo un bacio
Mi ucciderebbe,
Mentre l’università
Della vita
Mi ha finora laureato
A frammento giornaliero.
Gli anni dall’ottantadue al novantuno sono stati anni intensi, pieni di energia e anche di avvenimenti amarissimi.
Una fondamentale esperienza in quegli anni è stata la conquista, in modo del tutto casuale, della mia dimensione spirituale.
Ho scoperto la meditazione, in modo del tutto inaspettato ho travato una grande possibilità di espansione della consapevolezza e poi è anche avvenuto l’incontro con Dio.
Di quest’ultimo fatto, che rimane un evento del tutto intimo e privato, non merita che ci si soffermi.
Parlo invece dell’importanza che ha avuto il comprendere progressivamente il mio stesso funzionamento come uomo, la produzione continua ed incessante della mente.
I miei maestri di allora sono stati molto bravi nel guidarmi nelle illusioni ricorrenti che la mia stessa mente creava.
Soprattutto è stato importante fare continuamente questa esperienza senza aspettarmi niente, senza spingere in nessuna direzione l’attenzione o la consapevolezza.
Queste ultime sono cose che nascono da sole, nella misura in cui si riconquista un senso di sé vivo e pulsante.
Mentre avevo passato i primi trenta anni a fare e riflettere, scopro la dimensione pragmatica del non fare, del non agire.
E’ un non agire, non un non sentire.
Nel linguaggio comune la meditazione è vissuta come un distacco dalla realtà.
Non è stata e non è questa la mia esperienza della meditazione.
In essa vivo la consapevolezza di quello che provo nel momento in cui ne faccio esperienza.
Di certo è stata un’esperienza che mi ha fatto vedere tutto ciò che provavo dentro di me.
E non c’erano certo angioletti con le ali dorate.
Non è questa una sede di discussione di queste cose, ma non vorrei che questo tipo di esperienza venga confusa con l’introspezione.
Quando quest’ultima funziona essa riguarda solo i propri pensieri.
Sono stati però anni anche di grandi lutti, come la morte di mia madre e l’internamento di mio padre in manicomio.
Nei cinque anni successivi in cui l’ho seguito a Napoli e poi a Castiglione delle Stiviere ho vissuto il suo dramma infinito di uomo senza più un’identità.
Era un uomo spento, sconfitto, bastonato, e io ho sofferto per lui e per me più di quanto non abbia sofferto nei momenti infantili in cui l’avevo vissuto a casa.
La follia nella mia famiglia originaria è stata drammatica, in tutti i sensi.
Io non so quanto ne sono immune.
Certo la storia tragica della mia famiglia mi fa vivere le invidie e le gelosie come potenzialmente omicide, perciò cerco di rifuggire situazioni che le provocano.
Impresa vana, mi rendo conto, perché si tratta di sentimenti assai normali, che hanno bisogno di essere disciplinati e poi elaborati perché non inquinino le relazioni vive.
In quegli anni m’innamoro di nuovo, rimetto anche su una casa stabile e una famiglia, nasce mio figlio e continuo a studiare a Padova e a lavorare da operaio.
Intanto ho deciso di fare lo psicologo.
Un libro di Erich Fromm, “Avere o Essere”, mi ha spalancato l’orizzonte della psicologia.
Prima di allora sapevo a malapena cos’era il termine psicoanalisi.
La prima volta che ho conosciuto il Ruolo terapeutico era il novembre 1991.
Laureato da pochi mesi, avevo appena iniziato un’esperienza di consultazione con studenti lavoratori nelle scuole della provincia di Milano e dopo due mesi ero già in difficoltà.
Nella facoltà di psicologia in cui avevo studiato avevo seguito l’indirizzo di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni perché immaginavo di continuare le mie esperienze di vita soprattutto all’interno del mondo della produzione.
Di clinica non sapevo quasi niente.
Anche l’analisi che avevo fatto, dopo la morte di mia madre, non mi era utile per trattare i problemi emotivi che portavano gli studenti durante gli incontri.
Avevo accettato di fare quell’esperienza nelle scuole perché, a mia volta, ero stato uno studente lavoratore, e sapevo quante difficoltà avevo incontrato nello studiare di sera dopo una giornata di lavoro.
Non ero però minimamente preparato a prendere bene le richieste di aiuto, che spaziavano dalle difficoltà scolastiche a quelle sentimentali, da richieste della scuola di rendere gli studenti produttivi a quella dei genitori stanchi di figli che vivevano i rapporti familiari con stanchezza, sfiducia, aggressività.
I test che conoscevo mi davano una specie di quadro diagnostico che poi non mi serviva per nulla nell’incontro che avevo con gli studenti.
“Visto che ho accettato di fare questa esperienza devo imparare a farla bene”, mi dissi.
Chiesi a qualcuno che conosceva la clinica psicoanalitica e mi parlarono del Ruolo Terapeutico come un posto dove si formano quelli che lavorano nel pubblico.
La cosa m’interessò subito.
Nel servizio pubblico ci credevo.
Fissai un appuntamento col Direttore del Ruolo, che mi fu dato una mattina.
In quegli anni continuavo a fare di giorno il lavoro di fabbro, perciò mi presentai a Sergio Erba vestito dei miei abituali abiti di lavoro, avevo chiesto un permesso apposta per poter fare quel colloquio.
Più che uno psicologo professionale credo che somigliassi ad un disperato.
Non mi pare di ricordare un grande entusiasmo da parte sua.
Lui pretendeva un poco di esperienza nel campo clinico ed io offrivo due mesi di lavoro di consultazione scolastica.
Mi propose di aspettare un poco, di fare prima un anno di esperienza.
Ma ero deciso a non mollare e dopo una mezzora si convinse a farmi entrare nel Corso Quadriennale di allora.
Come tutte le mie avventure, avevo valutato solo in parte le implicazioni possibili della scelta. Quelle affettive non le avevo considerate e mia moglie mi mise il muso per mesi perché per pagarmi la Scuola dovevo triplicare gli straordinari di lavoro.
Per fortuna mio figlio era un poco più grande e non abbisognava della mia presenza fisica come nei primi anni.
Comunque è stata dura. Moglie e figlio a carico, più il mutuo della casa e la Scuola mi hanno impegnato attivamente anche sul piano pratico.
Comincio i miei sabati nella Scuola Quadriennale.
Ero stato inserito in un gruppo di psicologi professionisti, in altre parole colleghi che facevano questo lavoro a tempo pieno.
Mi sembravano un poco marziani, conoscevano tante teorie psicoanalitiche su cui io decisamente balbettavo.
Mi salvava l’esperienza e soprattutto, un clima affettivo bellissimo.
Sono stati anni meravigliosi, ho vissuto rapporti umani intensi e pieni con quel gruppo di colleghi. Era un gruppo che emanava vita da tutti i pori.
Piena e sofferta partecipazione alle storie di ognuno, grande sostegno emotivo alle difficoltà che si incontrava nel lavoro, il cominciare a comprendere l’importanza degli strumenti pratici del mestiere, iniziando ad applicare il Setting in modo più attento e puntuale, il cominciare ad articolare un ragionamento metodologico coerente e funzionale.
Soprattutto, l’importanza di quel benessere relazionale, che porto ancora a fondamento del mio lavoro coi pazienti e nel lavoro di formazione coi gruppi.
Questa è stata la mia esperienza scolastica nei quattro anni di formazione col Ruolo.
Finita la Scuola Quadriennale Erba mi ha proposto di entrare a far parte del gruppo dei terapeuti del Centro Clinico del Ruolo.
L’inizio di questo nuovo lavoro è stato importante e anche molto difficile.
Venivo da un’esperienza nelle scuole dove facevo anche terapie con gli studenti, ma erano poche le esperienze di questo tipo e duravano al massimo l’anno scolastico.
Nel Centro Clinico arrivavano, naturalmente, situazioni cliniche molto più complesse.
Ho avuto la possibilità di misurarmi con situazioni cliniche al limite della praticabilità terapeutica, dove il paziente viene e non viene, magari non ti parla per mesi, ti martirizza perché non sei il suo salvatore o ti martirizza perché non vuoi farlo, e così via.
I sintomi delle persone sono tanti quanto le persone stesse.
Grandi, e qualche volta conflittuali, confronti con i colleghi su come attrezzarci a governarci nel setting in queste tempeste emotive con i pazienti, il rendermi conto che dovevo fare i conti fino in fondo anche con i miei malesseri relazionali.
Non sono un tipo facile nemmeno io, credo.
Il mio temperamento è tutt’altro che pacifico, sono passionale, non ammetto nessuna codardia nella mia esistenza.
Credo di essere cambiato in questi anni un poco sopratutto nel carattere.
Oggi mi sento molto più saldo e tranquillo nel porre i principi in cui credo a fondamento del benessere relazionale e terapeutico con i pazienti e nel lavoro formativo con i gruppi.
Questo mi consente di stare in seduta con un’attenzione all’ascolto dell’altro e di ciò che provo io stesso, uno stato che mi consente di affrontare, con tutta la pazienza del caso, i nodi affettivi e relazionali che intrappolano la vita del paziente.
Sono sempre più sicuro che l’incontro terapeutico è un grande atto etico con se stessi, un atto trasformativo delle proprie storie emotive ed affettive messe male, che chiedono di essere rivitalizzante.
Gli incontri terapeutici sono sani nella misura in cui il calore affettivo che si sviluppa, e che possono anche diventare dei veri e propri momenti di rottura negli schemi precostituiti fino ad allora, rimettono in moto i processi di sviluppo di sé che erano stati bloccati.
Non mi coinvolge molto tutto il discorso sulla psicopatologia delle persone, ritengo che non sia questo il problema essenziale del malessere relazionale ed esistenziale dei pazienti.
Certo ci sono sindromi organiche che possono pregiudicare gravemente una capacità relazionale, ma sono casi rari.
Di certo non mi è mai capitato che queste persone chiedessero un aiuto terapeutico come ho delineato.
Il continuo lavoro di formazione alla relazione attraverso la supervisione dei casi clinici è stato utile soprattutto nei momenti di difficoltà coi pazienti.
Non sempre il gruppo dei terapeuti ha la capacità di sintonizzarsi col problema emotivo di chi porta il conflitto, ma molte volte è di grande aiuto anche il semplice poter parlare dei problemi che urgono dentro chi porta il caso clinico.
Quando si riesce a cogliere qual’è il nodo difficile da sciogliere, è un atto liberatorio, anche se le ricadute comportamentali dovute ad abitudini consolidate sono spesso dietro l’angolo.
Occorre molta pazienza anche con noi stessi, non arrendersi a queste ricadute.
La conquista interna del senso del setting, la sua centralità, il mio ruolo in esso e l’importanza di riuscire ad incarnarlo nella seduta è stata decisiva anche nel consentirmi di riflettere sull’esperienza del metodo analitico che ho appreso e conduco al Ruolo come terapeuta e come docente.
Cerco di affrontare questa esperienza analitica con la stessa pragmatica con cui ho cercato di affrontare le altre esperienze.
La psicoanalisi che ho interiorizzato finora è un atto etico e pragmatico, anzi, per quello che ne so, è l’unico atto pragmatico-etico e trasformativo dell’uomo che la cultura occidentale ha inventato.
L’analisi con me stesso, con tutte le mie parti esperienziali, mi ha rivelato una completa mancanza di un sé unico.
Sono figlio del creato e genitore di tutti i micromondi interni che mi sono costruito con l’esperienza.
Questo mi ha spiegato perché sono fatalmente destinato ad essere sempre insoddisfatto dei risultati raggiunti, e di come ogni volta debba rinnovare la mia attrezzatura per percorrere le aspettative e le speranze che sorgono continuamente.
Un’etica pragmatica.
Potrebbe sembrare un bisticcio, non solo verbale, visto che col primo termine si viene normalmente rimandati al mondo delle idee astratte e col secondo al mondo del fare.
Come ho tentato di spiegare, quasi niente nella mia esperienza si fonda sul mondo delle idee astratte.
Quello che sono riuscito a conquistare, è questo penso possa valere anche per il futuro, è fondato invece sulla mia capacità o meno di riuscire a vivere pienamente l’esperienza che sto facendo.
Sono anche sicuro che molto lavoro sul piano clinico e metodologico attende di essere portato avanti.
Faccio un esempio per tutti: nel n° 97 della rivista del Ruolo, Sergio Erba ha pubblicato una sua riflessione sul ciò che fonda le relazioni d’aiuto.
Personalmente lo considero un caposaldo di tutta la nostra riflessione su ciò che facciamo, perché lo facciamo e in che senso lo spieghiamo.
Un poco misteriosamente, dopo dieci mesi dalla sua apparizione, a parte quei tredici colleghi che si erano espressi subito, è calato il silenzio su un tema così delicato , ma anche così rilevante per il senso che ha.
Considero una vera stranezza che si parli in così poche persone del senso di quello che facciamo nel nostro mestiere.
Di tanta letteratura psicoanalitica studiata e che pure tento di aggiornare nella mia testa, poca poi riesce a coinvolgermi nella riflessione.
Oltre agli scritti di Erba e dei vari maestri a cui s’ispira il metodo del Ruolo (Cremerius, Codignola), sono soprattutto gli scritti dei terapeuti relazionali che mi convincono di più, a cominciare da Erich Fromm e da Stephen Mitchell.
Ma anche terapeuti che si muovono ancora con l’originaria teorizzazione pulsionale freudiana, come Hans Loewald, mi fanno riflettere sull’importanza del concetto di individuo, che non è iscrivibile unicamente e solo in termini relazionali.
Centrale, nella mia riflessione, rimane anche tutto il lavoro piagetiano sulla formazione dell’identità nel bambino, a partire dagli schemi senso-motori a quello dell’acquisizione di un’idea di sé.
Importantissima è stata anche la riflessione sui lavori di Francisco Varela, un cognitivista che mi ha confermato tante esperienze personali sul funzionamento umano come autocostruttivo di senso, partendo dal concetto di un essere umano come un sistema auotopoietico.
Considero un vero peccato che il mondo della ricerca cognitiva sia ancora così lontana dal mondo psicoanalitico, anche se sono convinto che le due strade dovranno avere pure degli incroci in futuro.
Sono rimasto anche molto legato alla mia formazione originaria, per cui Gramsci e il Marx giovane sono ancora ben piantati dentro, oltre a vari altri temi che ora non val la pena enumerare.
Ma qui sconto probabilmente una mia convinzione di fondo.
Se bastasse essere più colti per diventare migliori, credo che starei immerso dalla mattina alla sera nei libri.
Nella mia esperienza so che non basta la cultura dei libri, men che meno se questa è fondata a partire solo dal mondo delle idee astratte.
Se posso porre un metodo di confronto, a mio avviso occorre partire, nella riflessione, dalla propria esperienza, poiché niente è più formativo e trasformativo di sé che seguire le attitudini migliori di noi stessi.
Nei millenni di storia occidentale, che hanno prodotto miliardi di libri e di cultura su tutti i fronti e su tutti i problemi, siamo ancora pieni di una cultura fondata prevalentemente sulle idee teoriche, e non siamo riusciti ancora a trasformare in esseri umani pieni e vivi le creature che pure mettiamo al mondo perché siamo pieni d’amore.
Sono convinto che anche altre esperienze ed altre saggezze ci possono aiutare nel cammino, per me irrinunciabile, come ho già testimoniato lo scorso anno ad Olbia, di diventare pienamente umano.
L’attenzione, la consapevolezza, lo sviluppo delle mie qualità umane sono il fondamento anche della mia esperienza al Ruolo Terapeutico, il posto dove ho potuto recuperare, ed è stata un’esperienza di un’importanza decisiva, tutte le mie parti affettive dolenti e malandate.
Ma vi ho trovato conferma anche di più antichi concetti che avevo pure interiorizzato.
“L’acqua è pura e libera quando scorre tra le due rive di un ruscello o di un fiume,
non quando è sparsa caoticamente al suolo, o rarefatta si libra nell’atmosfera.
Chi non segue una disciplina politica è appunto materia allo stato gassoso, o materia bruttata da elementi estranei: pertanto inutile e dannosa.
La disciplina politica fa precipitare queste lordure, e dà allo spirito il suo metallo migliore, alla vita uno scopo, senza del quale la vita non varrebbe le pena di essere vissuta”.
Trovo straordinariamente simile questo concetto gramsciano alla metafora di Sergio Erba dell’importanza che il processo terapeutico sia incanalato nella struttura del setting.
Appunto, l’acqua che scorre tra due rive.
Se avessi saputo cos’era la psicoanalisi forse ci sarei arrivato prima a questo mestiere.
Ma non sono per niente sicuro che gli esiti sarebbero stati gli stessi di ora.
E poi sono stati decisivi anche i miei compagni di strada.
Il pastore, l’operaio, il sindacalista, il terapeuta.
Se sono dotato di una qualche capacità oggi è perché di tutto ciò che ho vissuto credo di averne tratto una buona riflessione.
Di certo non sarei capace di stare tranquillo con un paziente se non avessi ancora nel cuore la mia parte di bambino che si perde nella campagna sarda e si addormenta sotto un cespuglio di mirto.
E posso capire l’orrore della solitudine e dell’abbandono dell’uomo quando rivedo le mie esperienze di sindacalista emarginato nei propri rapporti perché sceglie di non compromettere la propria integrità morale.
Non riuscirei che in maniera balbettante a dire quanto mi hanno aiutato i pazienti nell’affrontare bene questi problemi.
Spero solo di essere stato di aiuto anch’io a loro.
In questa riflessione devo essere grato anche al mio essere mediterraneo, e quindi spero di avere ancora molti margini di miglioramento.
Il codice barbaricino che ho respirato in tutta l’infanzia e l’adolescenza ogni tanto chiede udienza, se vede dei nemici morali.
Devo proprio tenerlo a bada.
Concludo con alcuni versi che scrissi quando iniziai l’avventura di questo mestiere.
Penso diano più significato di tante altre parole di ciò che intendo come futuro, almeno per me.
CRESCERÒ
I pianeti si allontanano definitivamente.
L’occhio scruta spaventato
Il deserto incipiente,
L’acqua sotterranea
Che scava
Le viscere adamantine,
I pensieri rovinosi
E irati.
Cieco e vano
E’ l’albero delle meduse
Cresciuto alto,
Più alto
Dei poveri
E dei papaveri
Di carta.
Alla vita
Ho rubato l’amore.
Non mi lamento.
Crescerò con steli di madrepore
A coltivare
Montagne abbandonate.