Per preparare queste note ho scelto di andare a farlo in un piccolo borgo di una valle alpina. Volevo farlo in un posto non ancora da me frequentato, ma che mi richiamasse una condizione fisicamente già vissuta in precedenza in altri contesti.
Vi chiederete perché ho bisogno di questa condizione per scrivere delle cose che oggi leggo in un’isola mediterranea e applico nei fatti in una metropoli continentale. Spero che questo appaia più chiaro nelle cose che dirò in seguito.
Trovata la panca e il tavolo adeguato in mezzo a un prato, circondato da un filare di pini e avendo alle spalle il fruscio dell’acqua di un ruscello, lascio andare la penna sul tema che Sergio Erba propone come compito quest’anno: LA STRUTTURA DELLA RELAZIONE TERAPEUTICA.
Nelle settimane precedenti sono andato a rivedere le varie annate della rivista in cui questi punti presenti nel documento di quest’anno erano stati discussi e si può tranquillamente dire che non c’è niente che non fosse già stato abbondantemente discusso e convenuto. Dov’è la novità? E’ che, per la prima volta, tutto quel materiale si è condensato in queste cinque pagine. C’è una novità che prima non aveva una luce adeguata, che ha avuto anche una sua elaborazione storica, e che, per come sono i fenomeni storici, ha dovuto avere il suo tempo di incubazione e metabolizzazione.
Sulla fatica che, come esseri storici, facciamo cercherò di dire qualcosa dopo, nel prosieguo del ragionamento .
Negli scambi che ho avuto con vari colleghi prima di arrivare qui, in qualcuno ho avvertito una qualche difficoltà nel prendere atto di questo legame tra i vari punti presenti nel documento, quasi a dover constatare che tutta l’esperienza clinica di questi anni che si è praticata, spesso con grande soddisfazione, ha una sua filosofia di base che non era stata vista.
Si può pensare che la fatica possa essere solo quella di dover concettualizzare qualcosa che ha una sua coerenza organica, dal momento che la pratica clinica che segue il metodo del Ruolo ha già una sua prassi collaudata e apprezzata?
La fatica sta solo nel rendersi conto che quella prassi clinica nasce da concetti etici e non scientifici?
Dal momento che, degli otto punti che rappresentano questa struttura, si deve necessariamente essere d’accordo o meno sulla premessa che li sostiene, mi limiterò a sviluppare, per quello che sono capace, uno dei due concetti principali: la responsabilità del terapeuta.
È’ impossibile parlare di questo aspetto senza parlare dell’insieme, senza trattare l’insieme dei punti come un tutto organico. Ma rifare l’elenco dei vari punti inseriti sotto il concetto di responsabilità è un tentativo di dare alla responsabilità una connotazione ancora più vicina alla prassi, anche perché parlare di responsabilità vuol dire esattamente parlare di come ci si comporta nella prassi. Responsabilità e azione sono praticamente coniugati.
Dovrò usare molte parole per parlare di responsabilità, che è una cosa molto concreta negli esseri umani, e dovrò farlo sapendo che le parole che si usano sono costruzioni simboliche, che rappresentano col linguaggio quello che definirò la realtà di un incontro terapeutico. Nello scrivere, in modo particolare, le parole che uso hanno solo un interlocutore immaginario e quindi finisco sostanzialmente per parlare con me stesso e le mie rappresentazioni del mondo.
L’uso delle parole è quindi una rappresentazione povera della mia libertà. Non ha mai nascosto la mia ambivalenza per i concetti. Data l’intrinseca natura umana a voler tentare una spiegazione linguistica di tutta l’esistenza, ho una forma di resistenza passiva al continuo proliferare di parole e termini che alla fine non spiegano nulla di quello che ritengo essenziale nella vita.
La formulazione di concetti si dimostra sempre molto diversa dall’azione che si compie, è intrinsecamente povera la nostra capacità verbale di riprodurre l’azione che si compie. Tuttavia questo tentativo va perseguito, anche perché da sempre il Ruolo fonda sulla trasmissione del sapere una delle sue pratiche di coesistenza.
Abbiamo anche una Scuola che propone una formazione a questo mestiere con alla sua base una pratica clinica precisa e coerente. La nostra capacità di tradurla in concetti non è sempre all’altezza della prassi, ma ci stiamo lavorando. Siamo ancora imperfetti. Ma, indubbiamente, più questi concetti verbali di quello che facciamo sono vicini all’azione pratica, più saremo credibili.
“Lo spirito solo dà vita: la lettera uccide” dice una persona illuminata.
In un altro orizzonte, ma sempre con lo stesso sole, un’altra persona rifiutava di esprimere verità rivelate, perché “dovete rendervi conto che esse sono dentro di voi”.
Erba scrive nella sua premessa che “ Una concezione materialistica produrrà teorie e tecniche diverse da una concezione spirituale; uomo-macchina e uomo-persona si muoveranno diversamente sul terreno della cura…Volendo/dovendo concepire una teoria e una tecnica per questo mestiere, sarà quindi necessaria una preliminare presa di posizione di natura esistenziale”.
Dichiaro subito la mia adesione a questo principio concettuale. Probabilmente ci sarà molto da discutere su questo punto, non solo in questo convegno. Prendere una posizione vuol dire aver riflettuto su quella questione, averne valutato i vari punti e arrivare a certe conclusioni. Larga parte delle difficoltà di incontro con i nostri interlocutori nascono perché le premesse di uomo -macchina o uomo- persona non sono mai pienamente accettate, mentre l’oscillazione teorica tra il mondo della scienza e quello dell’etica provoca molti sussulti nel mondo degli psicoanalisti e dei terapeuti, soprattutto in quelli che concepiscono questo mestiere fondamentalmente ancora ancorato ai concetti freudiani delle origini.
Nella scelta del concetto “persona” si articola, a ben vedere, tutta la teorizzazione clinica di Erba. “Il concetto di persona potrebbe essere visto come la pietra angolare, quella su cui si regge tutta la costruzione”. La persona è qualcosa che non ha replicanti. Non esistono copie sparse nel mondo di noi stessi. Siamo unici e nessuno potrà mai essere un nostro replicante, nemmeno con atti di volontà appositi.
Come persone che hanno fatto la scelta di prendersi cura di altre persone, noi terapeuti siamo primariamente responsabili del nostro funzionamenti
Alla fine di tutto questo ragionamento sul terapeuta e sul paziente, l’unica differenza che rimane tra i due è sostanzialmente l’asimmetria.
Cosa provoca, nella sostanza, l’asimmetria? Il fatto che il terapeuta, preventivamente autorizzandosi a fare questo mestiere, viene chiamato ad aiutare un altro che lo ritiene più capace di se stesso di affrontare i propri problemi.
Già questo dato mette insieme una verità e un’illusione. La verità è che il terapeuta si propone, con la sua posizione, in un rapporto di conoscenza di un sapere che il paziente non conosce; l’illusione è che il paziente riponga la sua verità dentro il terapeuta piuttosto che dentro se stesso.
Come ristabilire la realtà concreta dell’esistenza umana in una simile situazione?
Da una parte il terapeuta accetta di porsi concretamente come il “soggetto presunto sapere” di lacaniana memoria, dall’altro il paziente deve porsi come domandante qualcosa che sta dentro di lui.
Solo il prosieguo processuale e temporale di questa relazione terapeutica rimanderà quanto illusoria fosse la domanda del paziente e della presunta verità del terapeuta sul paziente stesso.
Tuttavia, noi sappiamo che il terapeuta ha una sua verità. E che cosa testimonia nella relazione terapeutica se non questa sua verità? Si può certamente affermare che la verità del terapeuta è affare suo, che riguarda solo lui. E’ certamente così. Ma questa testimonianza di verità del terapeuta avviene in una relazione concreta, vitale, che dovrebbe aiutare il paziente a venire a capo delle sue illusioni.
Un collega milanese da cui ho avuto un contributo per questo incontro mi dice che “sentire di poter contare solo su me stesso e sulla mia coscienza nello scegliere ogni volta tra risposta buona o cattiva mette una certa ansia…anche se mi rendo ben conto che di fatto è esattamente ciò che accade: lì, nella relazione col paziente, ci stò io e ogni volta sta a me la scelta tra risposta buona o cattiva. Con la testa ci sono…con la testa! Come a dire che si tratta di staccarsi da quest’ultima maniglia della scienza, magari non utilizzata e contestata, ma sempre un po lì, a portata di mano all’occorrenza”.
Che cosa ci caratterizza come esseri dotati di libertà? Noi nasciamo in una condizione sociale fortemente simbolica, in cui le nostre dotazioni istintuali sono immediatamente oggetto di una cura parentale che le converte in una serie di facilitazione per la sopravvivenza e l’adattamento al mondo sociale e ambientale che ci circonda. Col tempo questa cura formativa consente anche di decifrare il mondo e interagire in modo sempre più maturo con esso.
Tutto il sistema filosofico e teologico, anche quello più profondo, cadono nell’errore di identificare con la costruzione di parole la rappresentazione dei fatti. Questi ultimi vengono rappresentati simbolicamente da termini o immagini. La confusione avviene quando i termini stessi assumono il concetto di fatto.
“Perché cianciate di Dio? Qualsiasi cosa diciate di Dio è falsa” scrive Maister Eckhart. Ma, almeno finora, questa preziosa verità non ha molto ascolto. Tutta questa costruzione intellettuale, filosofica e scientica, vale per quello che è: una costruzione storica per rappresentare il mondo.
Non sto sminuendo l’importanza dei simboli e dalle parole: senza questa gigantesca e continua costruzione intellettuale noi non potremmo avere che una relazione animalesca con gli altri esseri e con le cose.
Ma dovremmo anche essere consapevoli che la relatività storica e scientifica della costruzione del mondo ci stà togliendo ossigeno alle radici spirituali con cui le cose acquistano un senso.
So che alcuni storcono la bocca alla parola “spirituale”, identificata come sinonimo di “religione”, “fede” e così via. E sia. Io considero gli esseri umani dotati di una naturale spiritualità, che può o meno coincidere con una determinata religione, ma che rende il cammino umano una continua ricerca di senso della sua esistenza. Lo scorso anno, sempre qui a Spetses, Pietro Barcellona, che si dichiara ateo, a parlato per tutta la settimana di concetti come “anima” e “spitito”. Barcellona è una persona di concreta sensibilità religiosa, dove per religiosa intendo una religiosità laica che non attinge a fedi rivelate o a Dio per sondare i misteri trascendentali gli esseri umani.
Io credo che la questione dell’usare un concetto più che un altro attiene a quell’opzione di cui accennavo prima. Nella concettualizzazione scientifica della psicoanalisi la parte del mistero è nella mente, ed è definita “inconscio”, mentre in una concettualizzazione esistenziale della persona, la stessa componente mentale inconscia dovrebbe essere inserita, al pari di quella conscia, in una rappresentazione che trascende anche il conscio e l’inconscio.
La libertà umana è una libertà temporale.
Alberto Melucci scrive: “ Gli eventi e le esperienze che ci riguardano sono inquadrati, definiti e costruiti all’interno dei sistemi di rappresentazione e di modelli simbolici che ci collochiamo. Siamo passati da una percezione e rappresentazione del tempo come “ciclo”, tipico delle società tradizionali, a un tempo come “linea”, più propria delle società industrializzate. ..La concezione lineare mantiene l’idea fondamentale della finalità, che il corso storico vada in una direzione precisa e che il suo significato si illumini e si chiarisca a partire dal punto finale… Oggi tutte e due queste percezioni del tempo sembrano in declino; sempre più sembra affacciarsi una figura del tempo come “punto”, come esperienza puntuale…Il tempo costruito sulla comunicazione e sull’immagine è un tempo puntuale”.
Questo moltiplicarsi e differenziarsi delle misurazioni del tempo ci dicono che non è più possibile ricondurre l’esperienza del tempo a una misura unica, universale. Il tempo ciclico è qualitativo mentre il tempo lineare è quantitativo.
Ma la persona umana ha dentro anche un tempo escatologico, il tempo finale del senso di tutte le cose. E’ solo all’interno di questo tempo ultimo della persona umana che ha senso la domanda sul senso del tempo e della vita. Fuori da questa dimensione temporale ultima la domanda è per me fondamentalmente insensata.
Fuori esiste solo la mente e i suoi derivati, con le sue rappresentazioni e relazioni più o meno comprensibili.
“il tempo della nostra esperienza metropolitana, della nostra esperienza di umani che vivono in grandi conglomerati significa il costante passaggio da percezioni di dilatazione a percezione di contrazione. Nell’informazione il tempo diventa contemporaneità. Tutto quanto è accaduto in ogni tempo avviene ora.
La capacità di costruzione simbolica di queste dimensioni temporali costitutive dell’esperienza fa si che muti il rapporto tra possibilità e realtà.
Vivere in un sistema altamente differenziato significa dilatare, in misura incommensurabile con il passato dei sistemi più semplici, la dimensione dei possibili. La quantità dei possibili è sicuramente eccedente e oltrepassa le dimensioni reali dell’esperienza. L’eccedenza dei possibili produce il problema dell’incertezza e poi della scelta che ne deriva.
L’incertezza, in un mondo abitato da possibili, diventa la condizione quotidiana dell’esperienza. Se tutto è possibile il mondo si riempie di punti interrogativi e il problema di scegliere, di assumere il rischio della scelta diventa uno dei nodi centrali dell’esperienza umana contemporanea.
Mentre i possibili si dilatano siamo tuttavia legati ai ritmi profondi della veglia e del sonno, alle regolarità circadiane del nostro organismo biologico.
Un primo fondamentale problema in cui si misurano gli umani della complessità, gli umani della cultura metropolitana, riguarda l’identità individuale, la sua consistenza, la sua continuità.
La domanda , spesso, è “Chi sono io?”
Come contenere i possibili dentro le dimensioni dell’esperienza, dal momento che le rappresentazioni fuoriescono dai confini spaziali e temporali della nostra esperienza?
Come far corrispondere l’elaborazione simbolica così dilatata e così variabile alla realtà?
E attorno a questi problemi contemporanei che si manifestano le persone. Ne sono sintomo, ad esempio, la tendenza crescente al consumo usa e getta, l’identità personale senza più radici e referenti stabili. Sono queste questioni che rendono difficile rispondere a quella domanda “Chi sono io?”.
Le difficoltà psicologiche che abbiamo conosciuto come eredità della società industriale sono legate normalmente alla scarsità, alla repressione, alla rigidità dei sistemi di regole.
Ciò che si manifesta oggi nelle società metropolitane è sempre più legato alla ricchezza materiale, all’abbondanza di possibilità e alle difficoltà di scegliere: alla difficoltà di tollerare il rischio della scelta e alla frantumazione individuale che questo rischio produce.
Lo sconvolgimento dei ritmi biologici che la possibilità crea tende a dilatare lo spazio del giorno sulla notte, tende a spingere gli individui a non rinunciare a nulla.
Apre dunque la necessità di ristabilire un ritmo, una dinamica diversa tra tempi del rumore e tempi del silenzio, tra apertura verso la quantità indeterminata dei possibili e la chiusura dei limiti della nostra esperienza, che ciascuno di noi è in grado di raggiungere attingendo alla propria memoria, ai propri connotati biologici, alle proprie radici.
E’ un’operazione difficile perché non è mai assicurata una volta per tutte, non ci è data una misura definitiva e stabile. Questa misura va costruita ogni giorno. E’, in questo senso, la sfida di una nuova responsabilità.
Mentre l’astro che oggi fotografiamo con sofisticati strumenti tecnologici collassava, i nostri pelosi antenati percorrevano a balzelloni una savana popolata da animali oggi estinti, sotto un cilelo assai diverso da quello che noi vediamo.
La luce che ci mostra la morte della stella ci ha messo questi millenni per raggiungerci, correndo sul filo di quella fantastica velocità che Einstein ha posto come limite assoluto alla circolazione universale delle informazioni.
La relatività ci ricorda che non conosciamo le cose come davvero stanno. La cosidetta realtà è lo spettacolo di un teatrino allestito dalle nostre costruzioni sensoriali, una scena in cui siamo contemporaneamente attori e spettatori. Ed è l’illusione del tempo lineare che corre come un treno che ci fa credere alla sicura concretezza del nostro mondo.
La nostra civiltà ci ha abituati alla misurazione lineare del tempo mentre, in realtà, tutto in natura ci mostra il tempo ciclico,
Nel suo mito sull’eterno ritorno, Mircea Elide afferma che per il primitivo un atto diventa reale solo se riproduce un archetipo, cioè un modello ideale fuori da se. L’uomo primitivo, in altri termini, si sente reale solo nel momento in cui riesce a fissare il fluire del tempo nel modello magico, fuori dalla quotidianità.
Nella nostra civiltà del tempo lineare il trascorrere dei giorni è sinonimo di invecchiamento e di perdita di potenzialità. Così l’invecchiamento è diventato l’ultimo vero tabù, insieme alla morte.
Vi sono civiltà dove l’ignoranza risiede nell’idolatria della storia e l’illusione è di credere che il tempo abbia una realtà ontologica. La realtà ultima è altrove. Nelle Upanishad, scritte nel 600 a.C, l’assoluto si manifesta contemporaneamente sotto due aspetti polari: il tempo e l’eternità. Credere solo al primo significa precipitare nel nulla.
Il tempo, cioè, si annulla nell’eternità e la morte appare dunque come la fine dell’illusione e dell’ignoranza, il prologo alla rinascita, alla vera presa di coscienza della propria identità.
Galimberti
La società occidentale è generata da due forme di cultura , grecità ed ebraismo. La grecità ci ha dato due tipi di temporalità molto differenti tra loro. Una prima forma era la temporalità ciclica, dove, come nelle stagioni, non c’è nessun senso da realizzare ma un ordine da compiere.
Poi è intervenuto un altro tipo di temporalità, che vediamo annunciata nella tragedia di Eschilo “Il Prometeo incatenato”: è la temporalità che abitiamo oggi e che noi possiamo tradurre come scopo, raggiungere un bersaglio.
Allora la tecnica degli umani era ancora più debole della necessità, mentre oggi i mezzi tecnici sono largamente adeguati agli scopi.
Quali scopi? Non certamente il senso della vita, perché il tempo come scopo, il tempo come progetto cura una frazione di tempo che potemmo pensare di collocare tra l’oggi e il domani, nella verifica dell’adeguatezza dei mezzi di cui si dispone per gli scopi che si vogliono raggiungere.
Quando invece ci chiediamo la domanda di senso della vita è tutto un altro genere di temporalità che mettiamo in gioco, una temporalità escatologica, cioè ultima. Nel mondo ebraico l’ultimo giorno ci sarà l’Apocalisse, si svelerà il disegno nascosto delle storia; solo all’interno di questa temporalità è legittima una domanda sul senso del tempo e sul tempo della vita.
– E’ necessaria un’etica per la nostra fase tecnologica.
– Nonostante esista un diritto del paziente a disporre della propria vita (e quindi della propria morte, il medico ha il dovere di non spingersi sino al punto estremo di uccidere su richiesta il proprio paziente affetto da un male incurabile, perché così facendo entrerebbe in conflitto con i principi deontologici irrinunciabili della sua professione.
– Analogamente, la stessa cosa vale per i neonati, che non sono neppure in grado di esprimere una loro volontà.
– Un’etica della responsabilità nasce da quella che dei genitori hanno nei confronti dei figli. Mettendo al mondo dei figli noi regaliamo la vita, ma parimenti li costringiamo ad accettare quel regalo.
– Rimane un dilemma irrisolto: da un lato il diritto di morire di un malato terminale che ne fa richiesta, e dall’altro il medico che non può spingersi a compire quell’atto estremo.
– Forse sarebbe ora di cominciare a considerare l’eutanasia un atto eticamente giustificabile, ma non di pertinenza medica.
– Sono gli sviluppi qualitativamente nuovi della civiltà tecnologica a minacciare il futuro del genere umano. Minacce che riguardano la sopravvivenza in un habitat sempre più ostile, e sia la sua integrità biologica con gli sviluppi dell’ingegneria genetica.
– L’uomo è la tappa più elevata dell’evoluzione della vita sulla terra. Su di lui pesa la responsabilità di esse e di esserci.
– La prima responsabilità per l’uomo è di assicurare la sopravvivenza del genere umano sulla terra.
– Non è possibile stipulare un contratto con la natura, ed è insensato un atteggiamento “ecocentrico”. La natura non ha obblighi nei nostri confronti e quindi non può avere nemmeno dei diritti. Ma questo non significa che non abbiamo responsabilità verso di essa.
– Chi non è minacciato personalmente in modo diretto non si sforza di fare una vera revisione del proprio modo di vivere.
– Dal 17° secolo in avanti, e sempre più velocemente, abbiamo turbato troppo l’equilibrio della natura. La natura morale dell’uomo non lo può più permettere. Oggi siamo chiamati a un compito completamente nuovo, ad assumerci la responsabilità per la nascita di generazioni future e le condizioni della natura sulla terra.
– L’uomo è il più sorprendente di tutti gli esseri e non si può assolutamente prevedere come si comporterà in futuro.
– La libertà esiste solo nel momento in cui essa limita se stessa. La libertà illimitata della persona si autodistrugge per il fatto che non è conciliabile con la libertà illimitata degli altri.
Brecht ha detto che prima viene lo stomaco, poi viene la morale. La dignità, il pudore, il venir stimati va al di la del semplice voler godere.
Dell’etica classica vanno riconfermati i precetti dell’amore verso il prossimo, della carità, della giustizia, della fedeltà.
La filosofia odierna è stata contagiata, sedotta e soprafatta dal successo delle scienze naturali con le loro basi analitiche – matematiche, divenendo in gran parte un esercizio logico analitico. Essa s’interroga come si giunge a un sapere attendibile, alla formazione di concetti, come vi concorra il linguaggio.
Non c’è mai stata una coscienza collettiva della responsabilità verso le generazioni future, anche perché l’uomo non aveva il potere sulla natura che ha assunto oggi.
Le decisioni vengono prese da persone che hanno anche la responsabilità di queste decisioni. Quando le decisioni vengono prese da collettività, ogni singola persona ne è corresponsabile.
Il Principio Speranza di Block sostiene che l’ideale è quello di una liberazione dalla miseria tramite la tecnica, così come voleva il marxismo. Ma noi non possiamo più sostenere questo ideale, dobbiamo sviluppare comportamenti completamente nuovi se vogliamo far sopravvivere le nuove generazioni.
Abbiamo bisogno di una nuova etica, non ce la possiamo cavare coi dieci comandamenti, che offrono la cornice per un ordine sociale e per una condotta personale.
Un’etica dev’essere una dottrina su come ci si deve comportare nell’agire.
Il potere è la capacità di fare. La responsabilità è il lato complementare del potere.
Noi siamo predisposti alla responsabilità, perché siamo gli unici responsabili di quello che facciamo.
Un’etica fondata unicamente sulla compassione è discutibile. L’etica dev’essere fondata sulla responsabilità delle conseguenze che risultano dal nostro atteggiamento.
Dare un senso responsabile alla propria vita e al proprio mestiere provviene dal diventare consapevoli del destino che ci capita.
Il mestiere che facciamo è una scelta che comporta azioni e non-azioni. Questo si inscrive non tanto in una tecnica, quanto in un preciso e consapevole senso di responsabilità della scelta fatta.
Sono consapevole che le cose accadono. Questo è scritto nella storia del mondo. Accadono a dispetto del nostro volerle o non volerle e la misura in cui vale il nostro intervento nella relazione terapeutica è quello di muoversi rispettando la nostra intrinseca tendenza al bene.
Questo necessita di una profonda conoscenza di noi stessi (cosa intendiamo per il nostro bene?) e la capacità di porci in relazione con il paziente accettandone la domanda d’aiuto, perché anch’essa è la ricerca del bene per l’altro.
La nostra scelta di questo mestiere presuppone quindi una costante e prolungata ricerca del proprio bene.
Noi sappiamo che questo è difficile, perché anche noi siamo figli della storia, abbiamo sofferto e spesso soffriamo ancora, spesso in maniera del tutto inconsapevole, dei trami che abbiamo attraversato. Nessuna analisi sarà del tutto sufficiente per oltrepassare quello che è stato, ma la continua e leale ricerca del proprio bene dovrebbe consentirci di farlo.
Le condizioni iniziali con cui ci muoviamo nell’affrontare questo mestiere sono difficili. La preparazione accademica ci ha insegnato che dobbiamo curare qualcun altro da noi, ci ha fornito molte chiavi di lettura su come misurare e quantificare le patologie altrui e ci sono interi manuali sulla tecnica da utilizzare a seconda delle patologie riscontrate.
Intere generazioni di seri e competenti studiosi della psicoanalisi hanno profondamente indagato la mente dei vari pazienti che chiedevano aiuto. In larga misura hanno convenuto che larga parte della mente umana è di natura inconscia, inconoscibile. Oltre un secolo di ricerca in tal senso non ha fatto progredire di molto la conoscenza di quei contenuti inconsci, che sono in larga misura delle interpretazioni sui contenuti inconsci stessi, ma, in compenso, visto che i pazienti che vi sottoponevano alla fine stavano meglio di prima del trattamento, si è capito che la psicoanalisi funziona. Poi si è scoperto che funzionano anche varie altre tecniche terapeutiche, che non hanno nemmeno i principi su cui si regge la psicoanalisi, per cui ci si domanda che cos’è che funziona in questa relazione col paziente, che cosa fa sì che il paziente col tempo sta meglio con se stesso e con gli altri.
Lo scorso anno era qui Pietro Barcellona, che, testimoniando la sua avventura da paziente, ci ha detto che è stata la parte affettiva quello che lo ha aiutato. Era stato aiutato anche da un terapeuta che aveva saputo tenere la sua posizione terapeutica, a dispetto di tutti gli attacchi che il paziente Barcellona gli aveva portato.
Nello stare con il paziente faccio di volta in volta una scelta, che sia di puro ascolto di quello che l’altro dice, e come lo dice, oppure di chiedergli qualcosa sul significato di quello che dice.
La responsabilità di questa scelta è mia, ne sia o meno consapevole in quel momento. Colloco in questo instante tra di noi la responsabilità del mio agire terapeutico, determinando col mio ascolto, col mio silenzio, col mio dialogo con l’altro il risultato di un incontro umano che non avrà più una replica.
Questo incontro non avverrà mai più, perché un altro eventuale incontro tra di noi avverrà in un altro momento delle nostre storie, e noi non saremmo più quello che siamo stati in questo momento.
Il prossimo incontro, se avverrà, avrà un altro destino.
In un recente saggio, Sergio Manghi, un sociologo che si è profondamente occupato del pensiero di Gregory Beatson e di Edgar Moren, parla di una parabola di Gesù rivolto alla folla, che termina con una domanda:” Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”. Lascio il resto delle considerazioni che Manghi pone nel suo saggio per far rilevare un dato importante: non ci sono risposte ai problemi, ci sono solo domande, e ognuno è libero di trovare le proprie risposte, seppure ci sono.
I vangeli pongono domande, scrive Manghi. Anche i terapeuti pongono domande, dico io, domande che non dovrebbero necessariamente avere una risposta, ma che dovrebbero lasciare libero l’altro di interrogarsi su possibili risposte.
Non intendo adesso discutere del nostro mondo psicoanalitico, che della risposta sulla domanda del paziente fa un pilastro del suo agire terapeutico (ma, anche qui, molto si dovrebbe dire), quanto porre in rilievo che tutte le relazioni di aiuto mettono davanti il concetto di aiutare l’altro a diventare competente di se stesso.
Nel carteggio che si è sviluppato dopo Spetses 2007 con Manicardi, carteggio ricco di prese di posizione pro e contro i concetti che lì erano stati espressi, vi sono due brevi interventi che richiamo all’attenzione: nel primo Sergio Erba ricorda che “non è nostro compito accompagnare i nostri pazienti alla ricerca del senso della vita. Più modestamente, ci tocca accompagnare i nostri interlocutori ad affrontare quegli impedimenti di natura psicopatologica che possono limitare, fino ad annullarle, quelle libertà e responsabilità necessarie al benessere e all’eventuale ricerca del senso della vita”.
Nel secondo Roberta Giampietri si chiede “se il disagio psichico fosse davvero qualcosa che ha a che fare col disagio esistenziale…nel senso che una relazione malata impedisce a un soggetto di cercare un senso per sé, costretto a viversi nel senso di altri e perdere la propria libertà. E se la rinuncia di senso fosse così irrinunciabile e dolorosa per l’uomo da comportare disturbi, difese e sintomi che solo in qualche fortunato caso ci arrivano come domande d’aiuto?”
Faccio mie queste due affermazioni e domande. Credo profondamente che il senso della responsabilità del terapeuta, del senso della cura che pone, siano fondamentalmente in questi due passaggi che ho riportato.