Caro Sergio e cari colleghi,
speravo di essermela cavata con la lettera di Dicembre 95 avendo esaurito lì le mie capacità di sviluppare il problema.
Erba mi dice che è utile proseguire.
“Come inserire, o in quale rapporto mettere, questa teorizzazione dell’intrasoggettività con una teorizzazione dell’intersoggettività, e, ancora, con una teorizzazione dell’oggettività?”
Domanda drammatica per me. Troppo grande lei e troppo piccolo io.
Rischiando di non veder nascere neanche un fungo e di carbonizzare il maiale , posso solo tentare di arrostire la domanda con la speranza di non bruciarla.
Nella lettera precedente avevo sottolineato che tra Luciano e Sergio c’era una reciproca inudibilità. Perché si parlava di cose diverse. Nello sviluppo del carteggio Sergio ribadisce l’importanza di quelli che chiamerò “vincoli” e Luciano l’importanza di quelle che chiamerò “possibilità”.
Come si possono mettere in rapporto “vincoli” e “possibilità” ?
Potrei mettere in questo rapporto lo stesso terapeuta, ad esempio? In questo caso dovrei probabilmente stare attento a porre domande del tipo: perché fa questo lavoro? Che senso gli da ?.
Potrei usare, per farmi capire meglio, le parole di Tomàs, il personaggio di Kundera (ne: L’insostenibile leggerezza dell’essere). “Una missione e una cosa stupida. Io non ho nessuna missione. Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una missione”.
Commentando il romanzo di Kundera, Calvino osserva (in: Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio) che “nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna”.
Radicalizzando all’estremo la tesi: e se il terapeuta vivesse con questa leggerezza i “vincoli”e le “possibilità” che pone la terapia, non è poi inevitabile che ne senta poi il peso insostenibile?
Per quello che ho finora compreso, la crisi del nostro lavoro è dovuta in parte all’attacco delle scienze biologiche, che offrono un carico di oggettivabilità ancora molto di moda nei paradigmi scientifici dominanti (ripetibilità-quantificazione) e in parte per il tipo di terapeuta che su questi paradigmi si è formato.
Si è passati dai primi teorizzatori che con la passione dello scienziato-ricercatore hanno attinto a piene mani da tutte le scienze dell’epoca a un tipo di teorizzatore preoccupato essenzialmente di esaminare i processi intrapsichici dei soggetti alla ricerca, spesso ossessiva, di una quantificazione e matematicizzazione dei linguaggi e dei processi mentali.
Ma il guaio più grosso lo sento quando vado a leggere anche i recenti contributi di molti illustri colleghi più sapienti di me e trovo fantastiche riproposizioni su ciò che ha realmente detto Freud, Jung o Lacan, (o qualsiasi altro maestro del pensiero psicanalitico).
Perché non siamo più capaci di collocare le persone nelle loro culture?
Su cosa indaga oggi l’analista in realtà?
Non certo sull’uomo che abbonda sugli spazi metropolitani contemporanei.
E, soprattutto, ho il sospetto che, quando lo incrocia, l’analista contemporaneo cerchi spesso di fargli digerire le misture alienanti che l’hanno condotto sulla porta dei nostri studi professionali. Cosa che non mi pare davvero che facessero i nostri gloriosi antenati .
Com’è possibile creare un’ intersoggettività etica (cioè una condivisione di senso) se non è lo stesso analista a mettere in discussione questa alienazione planetaria che avanza nel mondo? L’aver trasformato tutto in merce non rende, contestualmente al soddisfacimento dei bisogni materiali, privo di speranza anche il desiderio?
Per Sergio la struttura (compiti, funzioni, competenze, gerarchia) e una cosa molto diversa dalle precondizioni di Luciano
Molto pragmaticamente Sergio ribadisce che in una relazione asimmetrica e slivellata nei ruoli, e reciproca a livello umano, soggettivistico, paziente e terapeuta si “incontrano”, si scambiano sentimenti, e la storia sta in piedi perché entrambi vi partecipano e vi contribuiscono..
“Ci sono verità che si impongono per intuizione, altre che sono di natura etica”.
Queste cose hanno probabilmente molto a che fare con le teorie oggettive del terapeuta di cui parla Friedman (in Anatomia della psicoterapia) “Una delle ragioni per cui la teoria non rende conto della lotta che ha luogo in terapia è che alcuni desideri del terapeuta sono incorporati nella teoria non come desideri, ma come quadri descrittivi della potenzialità”.
So bene che quando scrivo queste cose parlo dei miei sensori personali. E mica vero che poi riesco a comportarmi così come nelle dichiarazioni di principio che ho appena espresso. Ogni tanto mi ritrovo in contraddizioni lancinanti tra il pensare e l’agire.
Sono ancora ingenuo (e non è una virtù alla mia età!) e spesso perdo qualche pezzo di “vincolo” e di “possibilità”per strada.
Forse mi piacerebbe totalmente essere come l’uomo mediterraneo che Cassano descrive bene nelle mirabili pagine de “Il pensiero meridiano”.
Cassano ricorda come sia profondamente diverso l’uomo mediterraneo che si approccia all’incontro con l’altro, diverso da lui per lingua, cultura e bisogni, e che da questo incontro ricrea una nuova pienezza d’esistenza, epica o tragica che sia, dall’Homo Currens del Nord del mondo preoccupato di consumare sempe più spazi “altri”, poiché i suoi sono tutti morti.
Siamo noi, esseri che contribuiamo in modo decisivo alla salute mentale, disponibili a incontrarci tra la “costa e il mare”?.
Se non siamo capaci noi di “andare a piedi” come possiamo dare voce a questo desiderio non alienato?
Essere oggettivi significa stare sul “vincolo” della costa frastagliata dove è possibile incontrare la “possibilità” del “processo” del mare?
Siamo capaci di sentirci “creatori e portatori ” di una cultura così “incerta” nella propria epicità e tragicità?
Io parlo proprio di “creatori e portatori”, perché la responsabilità di una visione dell’uomo come “fine” ci rende protagonisti attivi nel processo di costituzione degli “strumenti” che ci servono per stare bene noi (rapporto intrasoggettivo) e stare bene con gli altri (rapporto intersoggettivo), nel tollerare “l’incertezza” che il nostro dominio cognitivo “chiuso” fatalmente determina.
Erba dice che “quando parlo di struttura, quando parlo di ruolo, quando parlo di funzione ho l’impressione di farlo all’interno di un pensiero che è diverso da quello che è il pensiero dell’interno del quale si muove Luciano. Credo che di questo vada preso vada preso atto. e qui credo che ci sia un’inconciliabilità, diciamo una diversità”.
Così è, mi pare anche a me. In ogni caso, l’uomo mediterraneo ha bisogno di coste per partire, di viaggiare nel mare ed approdare ad altre coste.
Finché rimane il desiderio.
Possiamo concordare che (nel caso si creda a queste verità) stiamo cercando il “fine” umano?
Cosa può essere più alto di questo “fine” se non il pieno e completo dispiegamento della natura umana?
Gioia-vitalità-amore- si contrappongono ad astrazione-alienazione-depressione.
E su questi “vincoli” che possiamo costruire il ruolo e la funzione terapeutica?
Possiamo mettere in questo ambito i giudizi di valore?
Un saluto a tutti.