Appunti clinici 1

Maria, 4° anno di terapia.

“Non so come, ma mi sembra di essere diventata un’altra persona. E come se improvvisamente le sue parole, che ho ascoltato per molto tempo senza capirle bene, si fossero messe a risuonare dentro”.
“Quali parole?”.
“Che sono nata per essere felice”.

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Ugo, 3° anno di terapia.

Il paziente, dopo un silenzio verbale iniziale e una forte emozione che lo porta poi a commuoversi:
“Devo proprio dirglielo, non riesco a tenermelo dentro”.
“Che cosa mi deve dire?”.
“Che le voglio bene, ma ho paura, non dovrei sentire questo per un uomo, io non mi sento omosessuale”.
“Un uomo che vuol bene ad un altro uomo è un omosessuale?”.
“Si…No, che sciocchezza. E che continuo ad avere paura di manifestare l’affetto a mio padre”.

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Franco, 4° anno di terapia

“Lunedì sera sono stato felice d’incontrarlo all’Osteria”.
“Anch’io sono stato contento di vederla”.
“Ero felice perché è stranissimo quello che ho provato. Scoprire che è la stessa persona che è con me in seduta è stato incredibile”.
“Incredibile?”.
“Eh sì. E’ possibile essere se stessi dovunque!”.

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Gianni, paziente che ha interrotto ripetutamente la terapia con me per dedicarsi ad altri approcci terapeutici e non (farmaci, maghi, ecc), telefona per fissare un nuovo appuntamento.
“Va abbastanza bene, dottore, ho solo qualche problemino da mettere a posto. Ci possiamo rivedere?”.
“Certo”. Gli fisso un appuntamento, al quale arriva con 40 minuti di anticipo.
All’ora convenuta mi manifesta la sua contentezza nel rivedermi e gli rimando la mia nei suoi confronti.
“Sono arrivato molto in anticipo anche perché speravo di poter essere ricevuto prima”.
“Come mai ci sperava?”.
“Così. Magari col tempo è diventato meno rigoroso sul tempo della seduta”.
“Sono convinto nel mantenere le cose buone”.
“Tutto sommato è vero. Sono sempre sicuro di trovare la mia seduta, anche se arrivassi in ritardo.
Non mi toglierebbe mai l’ora che mi spetta”.

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Ugo, 4° anno

Ugo è arrivato con un quarto d’ora d’anticipo e aspetta, come sempre, che lo venga a prendere.
Appena entra nella stanza non si siede come al solito, ma rimane in piedi, appoggiando le mani sul tavolo, aprendole e chiudendole a pugno.
Mi siedo sulla mia sedia e gli chiedo cosa gli sta passando in mente con questo suo nuovo atteggiamento.
“ Sono venuto con un sentimento contrastante. Ero deciso a chiederle una seduta supplementare perché sono troppo pieno di rabbia, ma avevo anche in mente di proporle di sospendere per un mese le sedute. Credo mi farebbe bene starmene a riflettere da solo per le cazzate che faccio. Così mi sento proprio impotente. Oggi ne ho combinato una veramente grossa al lavoro, sono stato un idiota.”
Si siede e mi racconta una storia, abbastanza confusa, su come si è comportato in una vicenda lavorativa.
“Prima di poter o meno parlare a fondo di questa storia al lavoro, bisogna collocarla in un contesto più chiaro tra di noi. Me ne parla col sentimento di stare qui o con quello di sospendere?
“Sono impotente a scegliere qualsiasi cosa”.
“Una cosa è il sentirsi impotenti, un’altra è scegliere di esserlo”.
“Si…però così devo impormi una scelta!”
“Già si impone una scelta. Segue quello che il suo sentimento le suggerisce? Decidere di “non scegliere” è una scelta, peraltro rispettabile come qualsiasi scelta, purchè consapevole.”
“Lei non mi capisce! Non si rende proprio conto! Le racconto nel dettaglio cosa ho combinato”
Mi parla degli avvenimenti avvenuti al lavoro, dove ha assunto una posizione opposta a quello che aveva avuto fino al giorno prima.
“Dove mette questa storia? Nel continuare ad incontrarci o nel sospendere?”
“Sono anni che vengo qui! E ancora faccio questi casini! A che cosa mi serve continuare a venire se non riesco nemmeno a scegliere? Ci dev’essere qualcosa di molto malsano in me se faccio così…Come si fa ad avere dentro due cose così contrastanti…Eppure qualcosa mi dice anche che posso sperare di cambiare…ed è quello che desidero”.
“Potrebbe scegliere quest’ultimo come criterio di scelta. Finora non se lo è consentito. Non si tratta di negare l’ambivalenza del sentimento, quando mai non lo è, ma di assumerlo così, insieme alle altre cose che prova, desiderio compreso. Solo se lo assume può scegliere consapevolmente qualcosa, altrimenti la scelta è fatta a favore di quello che preme di più in questo momento”.
“E se sbaglio nella scelta?”
“Avrà qualcosa in più di prima da comprendere. Anche per fare un’altra scelta, se la ritiene utile”
Rimane assorto per molto tempo.
“Continuo, ma non riesco adesso a tenermi dentro tutto per una settimana ancora. Almeno per una volta, mi da un’altra seduta?”
Apro l’agenda.

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Carmela, 1° anno

“Sono una vera frana, non mi piaccio proprio, sono brutta, anzi, non sono proprio brutta…sono normale, insomma…Ma quando mi guardo allo specchio mi faccio paura, sono visibilmente triste, sofferente. Mi vedo proprio male… E gli uomini mi fanno proprio schifo! Non ne voglio più vedere uno attorno…”
“Anch’io sono un uomo. Le faccio schifo anch’io?”
“Ma no…che c’entra…Lei è il mio analista…”
“Mi sta dicendo che mi vede solo come il suo analista?”
“Si…no…Lei è tanto… E poi Lei non mi rifiuta”.

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Maria, 5° anno

“ E’ passato tanto tempo. Non sono più sicura nemmeno se ho vissuto queste cose o le ho solo sognate…”
“E’ importante questa differenza”
“Eh, si, lo capisco… Però oggi risento anche più leggera, sento di poterle parlare senza dovermi nascondere dentro delle cose importanti…Per anni ho sempre avuto paura che parlandole di quello che provavo lei mi avrebbe rifiutato…”
“Cos’è successo che le ha fatto venir meno questa paura?”
“Quando lei mi ha fatto notare che lo tratto come se fosse il mio ex marito…”

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Irene, 1° anno

Sempre in anticipo, questa volta ritarda di pochi minuti.
“Sono in ritardo…”
“Già”
“Sono solo riuscita a venire in ritardo… non volevo proprio venire…”
“Come mai?”
“Mi vergogno”. E mi racconta di una sua compulsione ad agire una cosa che dura da tanto tempo.
“Cosa prova nel raccontarmi questa cosa?”
“Uh, non ne potevo più! E’ da quando la conosco che non riuscivo a dirglielo. L’ho anche detto a mio marito, che proprio non riuscivo a dirglielo, che era meglio smettere di venire.”
“ E adesso che me l’ha detta?”
“Mi faccio un po meno schifo”

Una seduta di gruppo di supervisione di casi clinici

La seduta in questione è avvenuta circa un mese fa. Il gruppo di lavoro è composto di sei persone.
Esse operano insieme da molti anni, coordinando l’attività delle insegnanti degli asili nido di una città di provincia.
Quattro sono psicologhe e due psicopedagogiste.
Alcune di loro hanno già partecipato ad un’esperienza di lavoro di formazione con il metodo del Ruolo, avendo lavorato lo scorso anno con noi in una decina d’incontri a Milano.
Questa volta siamo noi che andiamo nella loro città.

Dopo un iniziale silenzio di qualche minuto, una collega parla di una sua difficoltà a relazionarsi con un’insegnante di un asilo. Quest’insegnante mette costantemente in difficoltà anche il resto del personale dell’asilo nido, oltre ad assumere atteggiamenti ostili sia con i bambini sia con i loro genitori. La coordinatrice sa di questa situazione sia perché individualmente qualche altra insegnante gliene ha parlato, sia perché lei stessa, avendola osservata, non apprezza i modi di fare dell’insegnante contestata.
La coordinatrice parla nervosamente di questa situazione e dei tentativi, mai riusciti, di discutere nel gruppo di quell’asilo il problema.
Disorientati e impauriti, nessuno del personale dell’asilo porta nel gruppo di lavoro il problema in cui è coinvolto.
Anche la coordinatrice non riesce a mettere all’ordine del giorno il problema.
“ E’ una persona di cui non ho la minima stima, non è per niente capace di fare il suo lavoro”, dice in modo rabbioso. Intervengono anche le altre persone del nostro gruppo, esprimendo appoggio a questa valutazione della coordinatrice.

Chiedo alla coordinatrice se rientra nel suo ruolo valutare il lavoro dell’insegnante.
“Certo. Dipende da quello che scrivo io se prenderà o meno il premio di produttività”.
“E cosa ha scritto finora?”
“Niente. Mi fa paura dirne male, potrei ferirla…”
“Ferirla? Perché dovrebbe ferirla?”
“ Eh, no, guardi, lo so, è un problema mio, lo so, è un problema che mi opprime…ma non voglio parlarne qui…”
“ Non ha voglia di parlarne qui”, ripeto echeggiando le sue parole.”C’è un posto dove ne parlerebbe?”
“Col mio analista, individualmente. Ma in gruppo mi vergogno…”.
“ Bene, è importante che almeno col suo analista abbia voglia di parlarne. E cosa succede se prende da parte la sua insegnante e le parla della sua insoddisfazione per il lavoro che quest’ultima svolge?”.
“Caspita. Non ci avevo mai pensato!”
A turno intervengono altri colleghi, negando in maggioranza che ci sia possibile un ascolto individuale delle persone. Però l’idea di poter finalmente esprimere qualcosa di personale si fa strada.
“ C’è il problema di potersi parlare. Anche la nostra coordinatrice sa che dovrebbe porre la questione del funzionamento nel suo apposito gruppo, ma non lo fa perché ha paura di ferire la persona. Anzi, non riesce nemmeno ad immaginare di poter parlare con quella persona. E’ anche consapevole che la ferita è una cosa sua. Sarebbe meglio affrontare la sua ferita, ma lei ci respinge, per molti versi ha anche ragione, non siamo un gruppo che fa psicoterapia. Almeno, non prioritariamente, anche se il lavoro che facciamo ci dimostra che le difficoltà che incontriamo con gli altri hanno sempre a che fare con nostre personali ferite.”
“ Lei mi fa parlare anche se non voglio…”.
“ Mica vero!”
“ Vero, vero, mi porta sempre ha parlare di me…Però, potrei quindi chiamarla nel mio ufficio e dirle i miei dubbi personali su come si comporta…non mi va proprio che maltratti gli utenti…così potrei anche dirle che da quest’anno faccio una valutazione personale che può pregiudicare il premio di produttività anche per lei…”
“Certo che può. Poi si porrà il tema di come affrontare le questioni col gruppo, ma almeno comincia a trattare gli altri come individui affrontabili.”
“ Domani la convoco!”

Seduta in gruppo

E’ un incontro con un gruppo dei terapeuti in supervisione. Prende la parola un collega, su una situazione clinica iniziale. Parlando della paziente, riporta la situazione avvenuta nella prima seduta, dove la motivazione del paziente a venire nasce a seguito di un invio di un’altra collega. Emerge anche che, però, la paziente ha un altro terapeuta, da cui va saltuariamente perchè non si trova bene.
Della seconda e della terza seduta il collega racconta di una telefonata preventiva della paziente per accertarsi di poter venire in seduta anche se non ha i soldi per pagarla.
Dopo essere stato sollecitato da me su come ha trattato questa cosa con la paziente, il collega dice di essersi sentito rispondere che la paziente non aveva pagato le sedute perché era rimasta senza soldi, avendo pagato tutti gli altri debiti che aveva in giro.
“ Lei è l’unico debito che mi è rimasto”, gli dice la paziente.
Sottolineo l’importanza delle cose dette dal collega e chiedo agli altri membri del gruppo cosa pensano e provano rispetto a tutto questo che viene portato.
Molti sottolineano la patologia della paziente, qualcuno accenna alla frustrazione del sentirsi trattare così come terapeuti. In generale c’è un’aria di scoramento.
Chiedo al collega che presenta il caso che accordi ha preso con la paziente sul pagamento delle sedute.
“Eravamo d’accordo dalla prima seduta che mi avrebbe pagato a fine mese”.
“Come mai non gli ha ricordato il vostro accordo?”
“Cosa vuole che gli dica! Non mi sembra molto affidabile, mi fido molto poco di queste persone”, dice in tono risentito.
Sottolineo questo dato come troppo importante per lasciarlo così. Intervengono alcuni membri del gruppo che mettono l’accento su come sia difficile lavorare con pazienti così, è già bravo a tenerla.
Il collega non risponde a queste affermazioni del gruppo, assume un atteggiamento di una persona ferita.
Intervengo segnalando la mia sensazione che il collega ci sta respingendo tutti .
“Si, non mi fido di chi mi dice bravo”, dice il collega.
Intervengo con molto calore. “Il collega mostra tutta la sua sfiducia su quello che avviene qui, con noi. Dobbiamo fermarci a lavorare su questo”.
Il collega si emoziona molto, racconta su una sua storia affettiva in cui si è sentito tradito proprio da parte di chi gli diceva che era bravo, e ora reagisce così ogni volta che qualcuno glielo dice.
Chiedo agli altri membri del gruppo come prendono quello che viene detto ed emergono diverse valutazioni. Alcuni sono contenti, altri perplessi, qualcuno è anche intimorito.
L’ora finisce e il collega che ha presentato il caso mi saluta ringraziandomi.

A mente fredda mi chiedo: la mia reazione alla manifestazione di sfiducia del collega è stata motivata a evidenziare al collega che noi non eravamo realmente i suoi persecutori. Ho anche evidenziato l’importanza di mantenere il rapporto vivo, anche a dispetto dell’evidente difficoltà di alcuni membri del gruppo ad accogliere il collega che portava il caso.
In incontri successivi mi è stato rimandato che questa seduta è stata importante perché ha permesso a molti di comprendere i sentimenti che provavano per il collega che portava il caso, sentimenti tutt’altro che accoglienti.
Lo stesso collega che ha portato il caso dice di essersi reso conto di quanto sia chiuso nei rapporti.

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R.G. è una donna di 40 anni, fisicamente piacente, separata, 3 figli adulti, impiegata.
Ha una relazione sentimentale con un’uomo più grande di lei di 30 anni, sposato e padre di una figlia che ha l’età di R.G..
Da circa 10 anni ha iniziato a rivolgersi a psicoterapeuti, piantandoli dopo pochi mesi. Con due di essi R.G. dice di aver avuto anche rapporti sessuali.
E’ in psicoterapia da me da oltre 2 anni.
Il suo investimento è sempre stato molto alto in questo lavoro.
Ad una prima fase di grandi pianti e disperazioni ne è seguita un’altra tesa più a raccontarsi.
Sia pure con parecchie difficoltà, nei primi 2 anni sono riuscito a rimanere interrogante e comprensivo dei vari stati d’animo che emergevano man mano.
Mi imbarazzavano sempre più invece le fantasie erotiche che faceva su di me. Il momento di panico l’ho avuto quando ha tentato fisicamente di abbracciarmi.
Ero talmente sconcertato e frastornato che le ho violentemente stretto i polsi e costretta a stare seduta sulla sedia.
Ho allentato la presa solo quando mi sono sentito sicuro che non ci avrebbe ritentato (dopo quasi 5 minuti).
Nella fase attuale (siamo al 3° anno) manifesta verbalmente ancora intense fantasie erotiche ma non ha mai più tentato di agire ed anch’io mi sento molto più tranquillo di poterla controllare fisicamente in un’eventuale manifestazione del genere.
Mi è rimasto comunque impresso tutto lo stato di panico e di violenza che ho sentito in quel momento.

SEDUTE CON R.G

Puntuale come sempre. Si abbandona sulla poltrona e mi guarda smarrita. Silenzio per 5 minuti.” Non so cosa dire. Prima di entrare qui ero lucidissima,mi era tutto chiaro,adesso non mi vengono le parole”. Un altro lungo silenzio, un silenzio che sento ostile, accusatorio. Dopo mezzora “non mi viene niente”,dice R.G. “ Io sono qui, dico, però se lei non vuole esprimere con un modo più verbale quell’emozione che la tormenta io non posso fargliela dire con la forza”. Comincia a parlare” In questi giorni ho riflettuto e ho capito che in questi anni ho capito che in questi anni non ho fatto altro che imbrogliarmi e imbrogliarla. In effetti non le ho mai detto le cose per come le sentivo, ma ho sempre cercato il modo di dire le cose che mi consentisse di tenere dentro l’emozione che c’era dietro. Mi vergogno a mettermi così a nudo…..”
Questo è il passaggio centrale di uno scambio con R.G,paziente che è con me da 4 anni,2 sedute la settimana, vis a vis.
Dopo le ultime parole espresse dalla paziente ho avuto un senso di liberazione ,ho capito che una nuova verità, più sana e vitale, si stava facendo strada dentro di lei.
Nelle sedute successive quest’apertura si è rinchiusa, e , a tutt’oggi, la paziente ha ripreso le modalità distruttive che caratterizzano il suo porsi in relazione con me.
Ad ogni incontro le ripropongo il tema “ dell’imbroglio” che mi ha detto, ma non intende più parlarne.

CONTINUA……

Scrivo queste brevi note ai primi di Ottobre del 99.
In questo momento la paziente si trova all’estero, in cerca di una struttura comunitaria adeguata al percorso di vita che si è scelta.
Non so se la troverà, ma ci sta provando con determinazione, convinta che sarà la strada migliore per affrancarsi moralmente dall’ambiente della famiglia di origine.
La terapia è continuata ininterrottamente, anche nel periodo in cui la paziente era stata inserita in una struttura comunitaria lontana da Milano oltre 200 Km.
Ogni settimana prendeva un paio di pulman e il treno per continuare il lavoro con me.
Rispetto al problema dei soldi, ho concordato con la paziente di riprendere questo tema in un altro momento, visto che del costo delle sedute svoltesi si era fatto carico un Ente istituzionale.
Dopo quest’evoluzione del problema mi sono sentito più a mio agio nel lavoro con lei, il rapporto terapeutico è nettamente migliorato, ho potuto sempre di più dire anch’io delle cose che succedevano fra di noi.
Siamo andati avanti fino a pochi mesi fa, quando la paziente ha deciso di tentare un inserimento sociale e lavorativo all’estero, visti anche i precari tentativi comunitari che ha fatto in Italia dopo l’uscita dalla famiglia di origine.
Il T.M ha deciso l’adottabilità del figlio, situazione che ha messo la paziente a contatto con estenuanti confronti psicologici e istituzionali.
Essa ha accettato (per ora) la cosa come il male minore per il bambino, rendendosi conto che in quella fase non era in condizioni mentali e materiali per poter essere una madre adeguata.
Come possa continuare questo rapporto terapeutico non saprei dirlo ora. Ci siamo lasciati col mio impegno a riaccoglierla se e quando lo richiedesse. Credo che un filo sia rimasto, visto che mi ha fatto sapere che sta cercando la sua strada.

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