La via del Silenzio e la via delle Parole

               

Faccio parte di quelle persone che credono che le cose ci accadano perché noi siamo semplicemente lì in quel particolare momento. 

Lo credo anche per quanto riguarda le letture dei libri, nel senso che difficilmente sono io che scelgo i libri ma sono i libri che scelgono me. 

Così è accaduto anche per questo testo di Claudio Naranjo, che avevo letto vent’anni fa per la prima volta.

Dovendo portarne uno come proposta di lettura per il resto del gruppo, l’occhio si è depositato in una parte della libreria piena di testi già letti precedentemente.

Un libro da discutere insieme rappresenta inesorabilmente una sfida non solo intellettuale e pratica, ma mette in circolo qualcosa che nel tempo hai percorso, maturato ed anche non hai capito.

Ti costringe a prendere atto che c’è uno scarto non solo temporale importante tra la prima lettura ed oggi, che sei cambiato e hai una consapevolezza dei problemi che prima non avevi. 

Ancor di più in un piccolo gruppo di lettori come il nostro, dove sono presenti una pluralità di approcci esistenziali ed esperienze pratiche di vita diverse in tutti i campi.

Se per qualcuno di noi la pratica terapeutica e mistica sono una prassi, per altri l’esperienza meditativa si è rivelata indicibile con una terminologia appropriata rispetto all’esperienza vissuta. 

Quando parliamo di meditazione quasi sempre intendiamo l‘esecuzione di una particolare tecnica, ma la meditazione propriamente detta potrebbe essere uno stato che non sempre è la diretta conseguenza di un atto? 

Certamente sì, basti pensare ad una serie di mestieri che consentono, durante la loro esecuzione, di essere totalmente centrati su se stessi.

Si ritiene spesso che la meditazione sia una “pratica” o uno “stato” introspettivo, ma se pensiamo al motto benedettino “ora et labora”, 

o al fatto che nello Zen il lavoro manuale è considerato di pari importanza 

(se non addirittura superiore) alla pratica stessa della meditazione, ci rendiamo conto che “stato” e “pratica” sono compenetrati.

Possiamo cogliere pienamente come lo stato meditativo sia in effetti un punto di confluenza tra introspezione e azione che si raggiunge solo con la pratica costante.

Con la lettura del libro di Naranjo abbiamo potuto apprendere quanto ogni tecnica abbia un significato e una funzione specifica, ma oltre al fare occorre ammettere il “lasciar fare”.

Così il libro è stato sottoposto a una serie incrociate di visioni e di letture. 

Questo testo propone un programma di crescita e di sviluppo personale chiamato SAT, che tradotto vuol dire “cercatori di verità”, termine che si presta bene nel definirci.

Dagli anni 60 in poi dello scorso secolo Naranjo è stato uno dei primissimi psicoterapeuti a formare in discipline meditative gli stessi psicoterapeuti impegnati nella pratica clinica.

Ha insegnato soprattutto la tradizione buddista, introducendo i suoi allievi alla pratica Vipassana, Zazen e NYingma tibetano.

Le riflessioni presenti in questo testo ci hanno consentito di scoprire gli enneatipi, e di comprendere almeno intellettualmente le nove vie di meditazione, rendendo congruenti sia la  meditazione che 

l’enneagramma.

Una delle riflessioni che ci è apparsa più originale e la sua distinzione tra una meditazione “apollinea”, basata soprattutto sulla concentrazione, e una via “dionisiaca”, che implica una disciplina della resa. 

C’è anche un’ ulteriore via di mezzo “negativa”, neti neti (non questo, non quello) che comporta un distacco e una completa disidentificazione con il contenuto mentale che appare in quel momento.

Benevolenza, compassione, gioia, equanimità. 

Le quattro virtù incommensurabili del buddismo si rincorrono nella pratica spirituale della vita quotidiana, insieme all’attenzione e al distacco delle motivazioni egoistiche. 

Se possiamo affermare di essere stati progettati come creature per essere in armonia con qualcosa che va al di là di noi, rimane irrisolto come percorrere e raggiungere correttamente un funzionamento ottimale.

Non certo con il primato dell’Io, che rappresenta il falso sé,  come sostiene Naranjo. 

Quando desideriamo di essere qualcuno diventiamo il nostro “Io”, assumendo quindi una personalità apparente.

Ma questo falso sé che appare al mondo non è la nostra essenza, se è vero che la realtà ultima sono un “non essere” di cui non si può dire verbalmente nulla.

Buttato a mare ogni desiderio di essere e di apparire in maniera falsa, non solo la psicoterapia ma anche la meditazione rinunciano a rendere in parole la realtà suprema, o cosmica come preferisce dire qualcuno.  

Non si può dire nulla verbalmente sulla coscienza cosmica proprio perché rappresenta proprio il non essere. Anche se è la Realtà ultima

Meditazione, trance, possessione, tutti stati che portano a qualcosa di transpersonale. 

La guida interiore che ogni meditante impara col tempo consente il risveglio e l’unificazione della mente istintuale arcaica, in cui neocorteccia, mesencefalo e cervello emotivo si equilibrano.

Come nella pratica psicoterapeutica, in cui si finisce per imparare che qualsiasi azione virtuosa nella vita è influenzata sia dalla relazioni interpersonali, sia dalla meditazione che dall’esperienza mistica.

Così com’è talvolta la risoluzione e la guarigione da un disagio psichico: il percorso verso la cura è esso stesso la cura.

La psicoterapia intende il degrado della coscienza come una perdita della consapevolezza del qui ed ora, di come ci sentiamo, di quello che pensiamo e di cosa stiamo facendo della nostra vita.

La guarigione dalla nevrosi, ad esempio, deve comportare una certa trascendenza del corpo e, in parte, la morte del passato.

Per Naranjo la meditazione rappresenta il metodo più importante della psicologia transpersonale.

Non abbiamo potuto discutere (non ci sentiamo ancora così preparati) la fisiologia della meditazione, quindi la trasformazione che avviene nel corpo nel corso dell’evoluzione spirituale.

Particolarmente suggestiva ed emozionante ci è parsa il panorama delle forme classiche di meditazione nelle diverse tradizioni spirituali sia occidentali sia orientali, quindi cristianesimo, ebraismo, islam, induismo, buddismo, taoismo e sciamanesimo. 

La testimonianza di Barbara sugli effetti che ha su di lei la preghiera cristiana ha consentito a noi tutti una più chiara comprensione, non solo mentale e intellettuale, di cosa sia la meditazione cristiana.

La meditazione infatti non riguarda esclusivamente il momento in cui “meditiamo”, ma come ci ha fatto capire in modo autentico e semplice la nostra Barbara, è qualcosa che avviene più spesso in modo spontaneo e quasi mai per forzatura. 

Meditare quindi è regredire oltre il pensiero analitico dell’autocoscienza.
La consapevolezza e la concentrazione sono mezzi per ripulire una mente che allo stato normale è dissipata in mille rivoletti spesso in conflitto tra loro.

La pratica della meditazione non “cura” i problemi della personalità, bensì erode le certezze  difensive delle chiusure stagnanti.

In altre parole, è come se ci dimenticassimo per un attimo chi siamo oppure la persona che ci ha fatto un dispetto, il padre che ci ha cresciuto infelicemente, il coniuge con il quale abbiamo appena litigato: l’idea di essere qualcuno o qualcosa di rigido e statico si affievolisce fin quasi a sparire, ci si libera dal condizionamento di un sé che spesso è esso stesso frutto di condizionamenti esterni.

Il libro di Naranjo ha permesso al nostro piccolo gruppo di attraversare la via delle parole per arrivare a quella del silenzio. 

Una via nella quale si procede imparando a fermarsi e ad occhi chiusi regalarsi la visione ditutta la bellezza che ancora c’è in noi e nel mondo.

Il libro rappresenta un testo di straordinaria originalità sia per la parte spirituale sia clinica, dimostrando che la dimensione psicologica e quella spirituale della crescita interiore sono sostanzialmente una stessa cosa nel viaggio verso la conoscenza e la realizzazione di sé.

Ci ritorneremo.

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