Camminiamo come medicanti in mezzo a una ricchezza che è inesauribile.
- Jünger
I.I Lo svanimento dei luoghi, ridotti a spazi
Affinché si possa parlare di “luogo”, è necessario siano presenti “i termini di stabilità e continuità,
che si manifestano secondo i caratteri di unitarietà e differenza”1.
Costitutivo del concetto di luogo è il concetto di limite, dove, con limite, non si intende “il punto in cui una cosa finisce, ma, come sapevano i greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza (Wesen)”2.
Il luogo è un insieme identitario dotato di confini, in cui è sempre presente un nesso tra i soggetti e lo spazio.
È dunque, qualcosa di specifico, con un proprio carattere, che lo identifica e, al contempo, lo rende unico.
Non acaso, Heidegger fa notare come il termine Ort, che in tedesco significa “luogo”, fosse
originariamente utilizzato per indicare la punta della lancia.
Luogo, dunque, come punto di convergenza, come “spazio qualificato, singolare e unico, in quanto in esso convergono uno spazio e un tempo ogni volta determinati”3.
A differenza dello spazio indefinito, esso non è un concetto meramente dimensionale, ma qualcosa che appartiene ad altri registri.
L’avvento del paradigma razionalista, che pensa ai luoghi in modo geometrico e quantitativo,
rappresenta il momento iniziale di un processo di dissoluzione dei luoghi nello spazio indefinito.
Quest’ultimo si configura come un concetto generale, appartenente al lessico della scienza moderna.
Lo spazio è un’estensione fisica, che mette in relazione luoghi diversi.
Con la modernità, però, la diversità dei luoghi si perde, poiché essi tendono a disgregarsi nello spazio omogeneo. Per questa ragione si usa dire che la modernità è “utopica”, poiché nega i luoghi.
Può essere utile, ai fini della comprensione di questo processo, riprendere Michel Foucault che, nel saggio Eterotopie, distingue tre modalità con cui le diverse epoche si sono approcciate allo spazio.
Nel Medioevo, scrive Foucault, lo spazio era “un insieme gerarchizzato di luoghi”4 che si
intrecciavano o si opponevano, ma in ogni caso rappresentavano le coordinate che conferivano
senso alle azioni umane e consentivano una loro stabile valutazione.
Lo spazio medievale era costituito da una pluralità di luoghi che si collocavano all’interno di una riconosciuta gerarchia, a cui si faceva comune riferimento.
Per questa ragione, esso è definito “uno spazio di localizzazione”5.
Galileo Galilei è colui che rompe con questa modalità tradizionale di pensare lo spazio.
La sua vera rivoluzione non consiste, secondo Foucault, nell’aver sostenuto le teorie copernicane, dando un
autorevole contributo all’affermazione del sistema eliocentrico, ma “nell’aver costituito uno spazio
infinito e infinitamente aperto; così, il luogo medievale si trovò, in un certo senso dissolto, il luogo di
una cosa non era altro che un punto nel suo movimento”6.
Galileo, così facendo, inaugura la modalità moderna di rapportarsi allo spazio7.
Dal XVII secolo, infatti, allo “spazio della localizzazione”, orizzonte di vita dell’umanità medievale, si sostituisce uno spazio misurabile e neutro, lo “spazio dell’estensione”.
“Oggi l’estensione, che aveva sostituito la localizzazione, è, a sua volta, sostituita dalla
dislocazione”8.
La dislocazione rappresenta il totale smarrimento di quella concretezza e densità che
erano conferite allo spazio per il solo fatto di essere “riempito” da un sistema gerarchizzato di luoghi.
Lo spazio è divenuto il mero mezzo attraverso cui si intrattengono relazioni che “possono essere
descritte come delle serie, degli alberi o dei reticoli”9.
Quest’ultimo termine richiama inevitabilmente alla memoria Jünger, che, proprio nel “carattere reticolare”, aveva riconosciuto uno dei tratti distintivi con cui la tecnica moderna imprimeva il proprio conio sul mondo contemporaneo.
I.II Genius Loci e Identità dell’uomo
“Un luogo è un fenomeno totale qualitativo, che non può essere ridotto a nessuna delle sue
caratteristiche, come ad esempio quella delle relazioni spaziali, senza perdere di vista la sua
concreta natura”10.
Così Christian Norberg-Schulz, nel suo testo più celebre, Genius Loci, definisce il luogo.
Egli riprende il pensiero di Georg Simmel che, nel saggio Filosofia del paesaggio, scritto agli
inizi del ‘900, introduce e codifica la distinzione tra “paesaggio” e “natura”.
Se dovessimo impostare una semplice proporzione, potremmo dire che il paesaggio “sta” alla natura, come il luogo “sta” allo spazio.
Questo perché la natura, essendo l’infinita concatenazione delle cose, la dimensione olistica,
non può essere scomposta in parti, né avere un inizio o una fine11.
Il paesaggio, al contrario, è, come il luogo, una singolarità che ha bisogno di un rilievo caratteristico rispetto all’unità indivisibile della natura12.
Il paesaggio è una visione compiuta e distinta, anche se intrecciata con la dimensione infinita della totalità naturale.
La distinzione tra natura e paesaggio è fondamentale, argomenta Simmel, anche per evitare di
incorrere nell’errore di ritenere che il senso della natura si sia sviluppato solo con la modernità.
Tale affermazione è legata ad una confusione dei due piani: ciò che mancava all’antichità e al medioevo
non era il senso della natura, ma quello del paesaggio.
Quest’ultimo, infatti, per essere scoperto, come “indipendente struttura formale”13, richiedeva “una lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale”14.
Tale rottura non si verifica nelle epoche passate, quando si viveva immersi nella natura, ma solo con la modernità, che, perdendo la connessione immediata con essa e avvertendo lo strappo lacerante prodotto dal distacco, ha bisogno del paesaggio.
Questa logica “compensativa” sarà discussa diffusamente nei prossimi paragrafi; qui, ciò che più
interessa, è comprendere quale elemento conferisca al paesaggio la sua compiutezza.
In altre parole: ci preme identificare il fondamento che consente di raccogliere elementi naturali diversi in
quell’unità conchiusa e armoniosa che costituisce il paesaggio.
La risposta di Simmel è esplicita: Il più rilevante fondamento di questa unità è certo ciò che chiamiamo “Stimmung” del paesaggio.
Infatti, come intendiamo per Stimmung di un uomo il quid unitario, che continuamente o
provvisoriamente tinge la tonalità dei suoi singoli contenuti spirituali, senza essere in se stesso
qualcosa di singolo, quel quid che, pur non essendo collegato in modo preciso al particolare, è
tuttavia l’universale in cui tutti i particolari si incontrano – così la Stimmung del paesaggio pervade
tutti i suoi singoli elementi, spesso senza che si possa stabilire quale di essi ne sia la causa, in un
modo difficilmente definibile ciascuno ne fa parte – ma essa non esiste al di fuori di questi apporti,
né è composta da essi15.
Subito dopo aver enunciato la definizione di Stimmung, Simmel formula un quesito che darà origine
a importanti riflessioni.
Egli si chiede se “la tonalità spirituale del paesaggio” sia solo la proiezione di uno stato d’animo del soggetto oppure se abbia un fondamento oggettivo.
Non possiamo, in questa sede, soffermarci sul lungo dibattito che tale interrogativo ha generato, ma è rilevante segnalare che la soluzione più significativa al problema posto da Simmel arriverà nel 1950, quando un geografo
tedesco, Herbert Lehmann, in un articolo dal titolo pregnante, La fisionomia del paesaggio16,
riprenderà la domanda di Simmel e darà ad essa una risposta convincente.
Per Lehmann, in un paesaggio, come in un volto umano, è possibile ritrovare una componente oggettiva, “il potenziale espressivo” cui deve, però, corrispondere, lo sguardo del soggetto, che è sempre “carico di teoria” e
ciò fa sì che, nella natura, veda solo ciò che ha imparato a riconoscere.
Nel loro insieme, queste due indispensabili componenti costituiscono la “fisionomia del paesaggio”.
L’apporto di Lehmann, anche se solo accennato, è significativo per il nostro discorso, poiché ci aiuta a comprendere il motivo per cui la Stimmung, la tonalità spirituale di un paesaggio, non può mai essere qualcosa di generico (triste, allegro, malinconico).
Come il volto di un uomo può anche somigliare a quello di un altro, ma esprimerà sempre un suo carattere precipuo ed esclusivo, così la fisionomia di un paesaggio sarà sempre e solo singolare.
Arricchiti dai contributi di Simmel e Lehmann, possiamo ora tornare a Norberg-Schulz e soffermarci
sul tema classico che egli rinvigorisce, il tema del genius loci.
Non deve stupire la disinvoltura con cui siamo passati dal piano del “paesaggio” a quello del “luogo”: tra i due concetti c’è una certa analogia.
In entrambi i casi, infatti, ci si riferisce ad un territorio che presenta un rilievo singolare, che si distingue per la sua specificità, concretezza e completezza, da uno sfondo più generale17.
Il paesaggio è, di per sé, un luogo: esso implica che una spazialità sia stata “aperta” e configurata.
Genius è una parola latina il cui significato ricorda ciò che i greci chiamavano daimon.
Il genius èinfatti lo spirito che anima e protegge ciascun essere indipendente.
Presso le civiltà antiche, prive di una cultura paesaggistica, anche i luoghi avevano un proprio “spirito guardiano”, il genius loci, che conferiva sacralità al legame intercorrente tra le popolazioni e i propri luoghi d’appartenenza.
Per gli antichi era “di vitale importanza il venire a patti con il genius della località in cui doveva avere luogo
la loro esistenza: nei tempi passati la sopravvivenza dipendeva da un buon rapporto con il luogo, in
senso fisico e psichico”18.
Nel ‘700 tale espressione perde la connotazione religiosa e viene utilizzata per indicare l’aspetto caratterizzante, specifico di un luogo.
Nonostante ciò, si potrebbe dire che un’aura magica permane, poiché, come nel caso della Stimmung di cui parlava Simmel, lo spirito del luogo non è il semplice risultato di una somma di fattori, ma qualcosa di più: è un fenomeno irripetibile, la cui delicatezza induce Jünger ad affermare, agli inizi del secondo conflitto mondiale:
“come fa presto ad andarsene il genius loci”19.
L’espressione genius loci, ripresa da Norberg-Schulz, designa dunque, in epoca moderna, il carattere
unico che rende un determinato luogo, al di là dei cambiamenti che, nel corso del tempo, possono
verificarsi, una singolarità dotata di una propria identità inconfondibile.
Nel caso della città, luogo principale in cui si svolge la vita oggigiorno, Norberg-Schulz sostiene che, affinché si possa parlare di identità, è necessario siano presenti tre elementi fondamentali: collocazione, configurazione spaziale e articolazione caratteristica20.
I mutamenti dettati dalle necessità storiche non sono, realisticamente, ricusati, ma “tutti questi aspetti vanno parzialmente conservati, in quanto oggetti dell’orientamento e dell’identificazione umana”21.
Orientamento e identificazione sono le funzioni psicologiche che stanno alla base del senso di appartenenza ad un luogo, che non può svilupparsi in un ambiente soggetto alle continue trasformazioni delle sue proprietà strutturali e dei suoi motivi caratteristici.
Giunti a questo punto, dovrebbe essere piuttosto evidente la presenza di un nesso che lega l’identità
umana e l’identità del luogo, ma Norberg-Schulz si spinge oltre, sostenendo che tra le due non solo
c’è uno stretto legame, ma che “l’identità dell’uomo presuppone l’identità del luogo e che la
stabilitas loci è quindi una necessità fondamentale”.
“Stabilità” non vuol certo dire “imbalsamazione”.
A tal proposito Norberg-Schulz introduce il concetto di “tema con variazioni”: “il tema è la forma simbolica che incarna i significati esistenziali”22.
Ciò significa che l’individuazione e il rispetto di questo nucleo essenziale consentono di apportare cambiamenti e di rispondere alle esigenze del presente, preservando lo spirito del luogo, senza che esso si trasformi in una
“inanimata camicia di forza”23.
Rispettare il genius loci non significa ricopiare i modelli antichi, ma mettere in luce l’identità del
luogo e interpretarla in modo nuovo.
Solo così si può parlare di una tradizione viva che giustifica i cambiamenti riferendoli ad una serie di parametri locali.
Una tradizione viva giova alla vita appunto perché soddisfa questi precetti; la “libertà” non deve essere intesa come gioco arbitrario, ma come partecipazione creativa24.
A partire dalla seconda guerra mondiale, si assiste, secondo Norberg-Schulz, ad un crescente
processo di “perdita dei luoghi”.
Da un punto di vista “spaziale” ai nuovi insediamenti mancano due tratti essenziali: chiusura e densità.
Gli edifici vengono collocati liberamente nello spazio, senza preoccuparsi del rapporto figura-sfondo, della continuità del paesaggio o del rispetto delle piazze e delle strade tradizionali.
Oltre allo spazio, un altro concetto utile ai fini di valutare luoghi naturali e artificiali è il “carattere”.
A tal proposito, si può sostenere che sia la costituzione materiale sia quella formale del luogo moderno concorrono a produrre un’atmosfera monotona e ripetitiva, interrotta
solo da sparute tracce del passato o da nuove costruzioni, che spesso esprimono le velleità arbitrarie
dell’architetto che le ha progettate, più che la comprensione e il rispetto del senso del luogo.
Il risultato è che quest’ultimo sta svanendo e, con esso, anche le nostre possibilità di orientarci e di identificarci.
Abbiamo già accennato al nesso che lega l’identità del luogo e l’identità dell’uomo; ciò, ovviamente,
vale anche in negativo: la perdita, la crisi dei luoghi comporta una crisi umana.
Possiamo aggiungere che quest’ultima ha, a sua volta, una ricaduta negativa sui luoghi.
A nostro avviso l’alienazione è dovuta innanzitutto alla perdita di identificazione con le cose naturali
e artificiali che costituiscono l’ambiente dell’uomo.
Questa perdita impedisce altresì il processo di raduno, ed è quindi responsabile dell’attuale “perdita del luogo”. Le cose si sono ridotte a meri oggetti di consumo, da gettar via dopo l’uso, e la natura è considerata in genere come una “risorsa”.
Solo riguadagnando le capacità di identificazione e di raduno, l’uomo potrà porre fine al processo
distruttivo suddetto25.
Si configura così un “circolo vizioso”: il luogo sta alla base dell’identità di coloro che scelgono di viverci, ma esso a sua volta, come il paesaggio, non può esistere di per sé, necessita di un partner, di un soggetto che lo mantenga “aperto” e riconoscibile nello spazio indefinito.
Nell’ultimo capitolo di Genius loci Norberg-Schulz fa un breve riassunto della “parabola” del
movimento moderno che, nelle intenzioni dei suoi avanguardisti, tra cui Frank Lloyd Wright, Le
Corbusier e Mies van der Rohe, voleva aiutare “l’essere alienato contemporaneo ad entrare
nuovamente in possesso di un’esistenza autentica e significativa”26.
Ai fini di realizzare tale proposito, i suddetti pionieri dell’esprit nouveau assunsero come punti cardine della loro impresa i concetti di “libertà” e di “identità” e propugnarono l’esigenza di avviare l’opera architettonica a
partire dalla vita quotidiana, in particolare dall’abitazione, che costituisce il suo centro27.
Con queste illuminate intenzioni si voleva “affrancare l’individuo dai sistemi, sanare la spaccatura tra pensiero e
sentimento, che è un prodotto caratteristico della società borghese”28 e favorire un ricongiungimento con la natura.
Ci si potrebbe chiedere per quale motivo il movimento moderno che, con tali premesse, sembrava
destinato a favorire un ritorno ai luoghi, all’atto pratico si riveli, invece, tra le cause della loro
dissoluzione, sfociando nella costruzione di “città giardino” e di forme standardizzate sempre più
ripetitive e monotone.
Norberg-Schulz tenta di rendere conto di questo scarto tra teoria e prassi individuando due ragioni, che si rifanno ai sopracitati criteri di “spazio” e di “carattere”, su cui vale la pena di soffermarci brevemente.
Innanzitutto, dal punto di vista spaziale, si assiste a un fraintendimento o, meglio, ad una
“confusione di scale”29: la libertà e l’attenuazione della distinzione tra interno ed esterno, che
dovevano caratterizzare la pianta della moderna abitazione, vengono considerati motivi validi anche
per progettare la pianta di quartieri e città, sulla base dell’ideale a cui abbiamo fatto cenno, secondo
cui la casa deve essere assunta come punto di avvio dell’opera architettonica in generale.
Tali principi, però, non potevano funzionare a livello urbano, poiché “in città diventa necessaria una netta
distinzione tra dominio pubblico e dominio privato, e lo spazio non può fluire liberamente”30.
La seconda ragione ha a che fare con il carattere ed indica nell’esigenza di adeguarsi allo “stile
internazionale”, eliminando dagli edifici le peculiarità locali, il motivo principale dell’uniformità e del
livellamento che dominano le forme architettoniche risalenti agli anni venti e trenta.
L’idea corrente di quel periodo interpretava le varietà e le differenze regionali non come una ricchezza da
salvaguardare, bensì come la causa principale del caos architettonico diffuso.
Lo “stile internazionale” prescriveva come rimedio a tale disordine il ricorso a forme semplici e minimali che
fossero in primis funzionali.
Nonostante tale tendenza sia stata comprensibilmente criticata e superata, non mancò, tuttavia, di dare origine a opere pregevoli anche dal punto di vista estetico.
Questo vale soprattutto per i singoli edifici progettati dai celebri architetti dell’epoca, ma “quando il carattere ascetico del primo modernismo viene trasferito a livello urbano, si verifica un fatto inaspettato.
Quel che era un gioco ingegnoso di forme, diviene monotonia sterile”31.
Norberg-Schulz non manca di ricordare che tali errori di prospettiva vennero compiuti durante una
fase precisa del movimento moderno, in cui le idee dei capostipiti furono fraintese e volgarizzate e
che la “terza generazione” degli architetti moderni riuscì, almeno parzialmente, a sanare lo scarto
tra teoria e prassi, portando a compimento i propositi dei pionieri32.
Tra i fautori del rinnovamento citiamo, a titolo esemplificativo, l’architetto finlandese Alvar Aalto, che fu tra i primi ad avvertire l’esigenza di trasmettere alle proprie opere un carattere marcatamente locale, liberando così
l’architettura europea dalle astrazioni e dalle smanie di internazionalità che l’avevano allontanata
dalla concretezza.
È proprio attraverso il recupero del genius loci scandinavo che Alvar Aalto “perviene a soddisfare la fame di realtà di Wright”33.
Molti altri architetti, dopo di lui, dimostrarono di aver colto l’importanza di tale recupero, senza il quale non è possibile appagare la “fame d’identità”, che sembra essere una delle principali esigenze del mondo occidentale contemporaneo.
Questa nota positiva non deve indurre ad abbassare il livello di guardia: i rischi di degenerazione e di
irrigidimento formalistico sono sempre in agguato, come testimoniano, per proseguire con il
riferimento all’architettura nordica, le opere di coloro che interpretarono il “romanticismo” di Aalto in
termini sentimentalistici, sfociando in una sterile commemorazione nostalgica del passato.
La breve digressione sul movimento moderno proposta da Norberg-Schulz arricchisce la nostra
analisi dei fattori che hanno condotto allo “svanimento” dei luoghi, ma ancor più rivela la necessità
esistenziale che gli spazi dove la vita si svolge siano dotati di un carattere distintivo, di un genius loci
che permetta loro di essere luoghi nel vero senso della parola:
Oggi l’individuo è educato soprattutto al pensiero pseudo-analitico e le sue cognizioni si limitano ai
cosiddetti “fatti”, e mentre la vita gradualmente si impoverisce di significati, egli arriva a comprendere che se è incapace di “abitare poeticamente” i suoi meriti non contano34.
I.III Luoghi antropologici e non luoghi
L’antropologo Marc Augé, in un saggio di grande successo intitolato Nonluoghi, individua tre
“trasformazioni accelerate”, tipiche della postmodernità, o meglio, della surmodernité, come scrive
Augé, cercando di suggerire, già dal nome, il tratto caratterizzante di tale condizione: l’eccesso. Le
tre “figure dell’eccesso” riguardano il tempo, lo spazio e l’ego, ossia “le grandi categorie attraverso
cui gli uomini pensano la propria identità e le proprie relazioni reciproche”35.
Non possiamo soffermarci sulle trasformazioni riguardanti il tempo e l’ego, poiché rischieremmo di allontanarci dal nostro tema che concerne, invece, la seconda figura, lo spazio.
L’eccesso, in tal caso, si manifesta in una “sovrabbondanza spaziale”.
“Questa si esprime in mutamenti di scala, nella moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari e nelle spettacolari accelerazioni dei mezzi di trasporto”36.
La sovrabbondanza spaziale rappresenta “l’altra faccia” dalla scomparsa del genius loci, che, come
abbiamo visto, in epoca attuale si dissolve in uno spazio isotropo, omogeneo, privo di differenze
qualitative.
Tutto ciò comporta la progressiva eclissi dei luoghi antropologici e il proliferare di quelli
che Augé definisce nonluoghi, poiché la nozione di spazio “sembra poter essere utilmente applicata,
anche a causa di una assenza di caratterizzazione, alle superfici non simbolizzate del pianeta”37.
Il luogo antropologico, a cui abbiamo accennato, è, al contrario, una “costruzione concreta e
simbolica dello spazio alla quale si riferiscono tutti coloro ai quali essa assegna un posto, per quanto
umile o modesto questo possa essere”38 e, per questa ragione, “è simultaneamente principio di
senso per coloro che l’abitano e principio d’intelligibilità per colui che l’osserva”39.
Affinché si possa parlare di luogo antropologico è però necessario che esso presenti tre caratteri fondamentale: deve essere identitario, relazionale e storico.
Il carattere “storico”, “coniugando identità e relazione”40, occupa una posizione privilegiata ed è forse proprio tale aspetto che più viene a mancare con la surmodernità.
Ci occuperemo della questione tra poco; prima, però, cerchiamo di comprendere cosa significhi il termine non luogo.
Un non luogo è uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico.
Per un’idea intuitiva di cosa Augé intenda con questa espressione, si pensi allo “spazio del viaggiatore”, che
rappresenta, non a caso, “l’archetipo del non luogo”41.
Il viaggiatore è l’utente delle infrastrutture finalizzate allo spostamento veloce (stazioni ferroviarie, autostrade, aeroporti) e dei mezzi con cui tale trasporto viene effettuato.
Avvalendosi del loro comfort e delle loro prestazioni, egli, come il passeggero del Titanic, cede una consistente parte di sé, in primis la sua identità, che ritrova solo “al controllo della dogana, al casello autostradale o alla cassa”42.
Tale cessione può, al momento, recare una sensazione di sollievo e di libertà, ma, come ha mostrato magistralmente Jünger, essa è solo illusoria e il prezzo da pagare per un biglietto last minute o low cost, si rivela, inaspettatamente, molto alto.
Se il viaggio è poi finalizzato al turismo di massa, la possibilità di entrare in relazione con un luogo è
del tutto assente.
Non solo: il turismo di massa è tra i principali responsabili della sostituzione dei luoghi antropologici con spazi effimeri.
A questo fenomeno si riferisce la nota espressione “sindrome di Bali”43.
L’isola indonesiana è assunta come modello, poiché essa disponeva di una cultura millenaria molto raffinata, che l’avvento del turismo di massa degrada a una patetica caricatura di se stessa, a una “noncultura”.
Il disadattamento diffuso e l’altissima percentuale di suicidi che ne conseguono corroborano la tesi di Norberg-Schulz circa le ripercussioni drammatiche che la profanazione dello spirito di un luogo comporta sull’identità umana.
Un altro aspetto che connota gli spazi del viaggiatore e, in generale, i nonluoghi della surmodernità,
è “l’invasione dello spazio da parte del testo”44.
Cartelli, insegne, didascalie ed indicazioni segnalano i luoghi d’interesse disseminati lungo il percorso, dispensando il viaggiatore di passaggio dalla sosta e dalla contemplazione diretta, che comporterebbero dispersione di tempo e di energie45.
È forse la sensazione di trovarsi in un nonluogo che infastidisce Jünger quando, a Parigi, annota sul
suo diario: Mi muovevo in città come in un giardino una volta familiare, che ora giaccia incolto, ma nel quale,
tuttavia, si riconoscono le strade e i sentieri.
Antipatiche le tabelle bianche che l’esercito ha seminate in tutta la città per indicare le strade: quasi una sorta di incisioni operate su un organismo antico46.
Certamente l’introduzione in un luogo familiare di elementi estranei ed artificiali, come possono
essere i cartelli apposti dai militari per fornire indicazioni, per quanto possano agevolare
l’orientamento, rende comunque difficile l’identificazione, poiché mina il senso di appartenenza.
C’è, però, forse, di più: il richiamo all’“organismo antico” sembra suggerire la pregnanza storica dei
luoghi e la perdita esistenziale che deriva dalla loro profanazione.
La storia di un popolo è inscritta nel luogo antropologico, che pertanto è necessariamente storico.
“Lo è nella misura in cui coloro che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di conoscenza”47.
La tesi sostenuta da Augé, e che ci appare molto interessante, è che “la surmodernità è produttrice
di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità, non integra in sé i luoghi antichi:
questi, repertoriati, classificati e promossi a «luoghi della memoria», vi occupano un posto
circoscritto e specifico”48.
I luoghi della memoria per eccellenza sono i musei: in essi noi fruiamo dello “spettacolo del passato”.
D’altronde è questa una delle caratteristiche precipue della surmodernità: “essa fa dell’antico, (della storia) uno spettacolo specifico – così come fa di tutti gli esotismi e dei particolarismi locali.
La storia e l’esotismo svolgono lo stesso ruolo delle «citazioni» nel testo scritto, ruolo espresso a meraviglia nei depliant delle agenzie di viaggio”49.
Si può aggiungere che, spesso, i frequentatori assidui di nonluoghi, considerano la fruizione agostana
o domenicale di questi spettacoli, siano essi storici, naturali o culturali, come un avvicinamento a
realtà “più autentiche”.
Non sembrano accorgersi che, così facendo, aderiscono ad una logica compensativa, funzionale alla proliferazione di nuovi nonluoghi e quindi responsabile del crescentesenso di sradicamento e di vuoto.
I.V Cantiere e museo: i due poli della modernità
Già ne L’operaio, la sua opera forse più nota, Ernst Jünger aveva messo in luce, con la consueta
lungimiranza, una delle contraddizioni della modernità: se da un lato tutto diviene un gigantesco
“cantiere”, e dominano quindi i tratti della provvisorietà e dell’incompiutezza, dall’altro si conservano le forme del passato in modo “museale” e ci si approccia ad esse con un interesse che assume carattere necrofilo.
Questa dinamica “compensativa” è solidale al “cantiere”: funzionale alla
sistematica degradazione e distruzione di tutto ciò che non rientra nel “museo”:
Viviamo in un mondo simile per un verso a un’officina, per l’altro verso a un museo.
La distinzione tra le esigenze poste da questi due aspetti del paesaggio terrestre è la seguente: nessuno, vedendo
un’officina, è obbligato a vivere proprio nell’officina, mentre nel paesaggio da museo regna un clima
generale di opere e di edifici che ha assunto forme grottesche.
Abbiamo raggiunto una sorta di feticismo storico che è direttamente proporzionale alla mancanza di energie produttive.
È davvero confortante pensare che, in forza di chissà quale segreta corrispondenza, il perfezionamento di
grandiosi mezzi distruttivi vada di pari passo con l’accumulo e la conservazione di cosiddetti beni
culturali50.
Il paesaggio da officina ferisce indubbiamente l’occhio e mortifica lo spirito, ma, nell’ottica dello
Jünger de L’operaio, è destinato ad essere superato. Il sacrificio che richiede è dunque solo
temporaneo.
Anche quando, nella seconda fase del suo pensiero, abbandona le speranze di un imminente superamento della “fase transitoria”, continua a riconoscergli il pregio di una certa “onestà”: un simile paesaggio reca dolore, e il dolore è uno stimolo per il rinnovamento.
Il “museo” è, al contrario, subdolo e ipocrita51, poiché, pur limitandosi a denotare la mancanza di creatività
tipica dell’era tecnica, dà l’illusione di una presa sulla bellezza, ritardando e allontanando il risveglio
della coscienza a cui il “cantiere” sembrerebbe approssimarci.
Sono essenzialmente due gli aspetti che connotano molto negativamente la logica museale: in
primis, conservando “pezzi” irrelati a cui si riconosce valore storico, etnografico o culturale in senso
lato, favorisce lo scadimento di tutto il resto a terra di nessuno, facile preda delle molteplici esigenze
annientatrici che la tecnica avanza. In altre parole essa agevola la diffusione della cosiddetta
“ideologia del monumento”, che consiste proprio nel preservare elementi isolati perdendo di vista
l’importanza delle corrispondenze, delle relazioni e del contesto.
In secundis, la logica museale si rivela un’alleata indispensabile della tecnica non solo sul piano
pratico, ma anche su quello psicologico, poiché alleggerisce la sensazione di oppressione che
altrimenti i suoi abusi indurrebbero a provare.
La gita domenicale al parco, allo zoo, in un museo che raccoglie oggetti antichi ed esotici o in qualsiasi altra “isola compensativa” gentilmente proposta dai palinsesti delle nostre città, permette una fuga, un’evasione dalla realtà infrasettimanale, che placa i disagi e consente di tornare docilmente a inserirci nel “pezzetto lavorativo” che ci è stato assegnato.
Non è difficile scorgere in queste attrattive una rivisitazione in chiave contemporanea degli spettacoli dei gladiatori o delle fiere che si scontravano nella antiche arene romane per dimostrare la generosità dell’imperatore di turno e per far scordare agli spettatori presenti i morsi della fame,
almeno per tutta la durata dello show.
Sono ovviamente cambiate le modalità per divertire e per distogliere l’attenzione dalle matrici reali della sofferenza; ora esse hanno assunto l’uniforme propria del “mondo della sensibilità”52, ma, alla base, restano gli stessi meccanismi che animavano i cruenti spettacoli dell’antica Roma.
Come auspicato per i processi del nichilismo, anche la presa di coscienza della disumanità e
dell’alienazione che il trionfo della tecnica ha comportato, va compiuta fino in fondo.
Aggrapparsi a forme nostalgiche e passatiste, spesso spettacolarizzate e ridotte a mere distrazioni esteriori, “a
buon mercato”, di cui beneficiare nel tempo libero, significa ergere “argini artificiali” che, lungi dal
preservare l’umanità attuale dal dolore, lo prolungheranno senza fine, trasformandolo da potenziale
forza costruttiva a una snervante tortura: Periodi come il nostro una volta erano chiamati interregni, mentre oggi si presentano come il paesaggio industriale.
La loro caratteristica è quella di mancare di certezze ultime.
E sarebbe già molto riconoscere che così deve essere: e che è meglio, comunque, che reintrodurre o conservare
elementi logori attribuendogli un valore di certezza53.
La ricerca di un “punto fermo” in cui sostare, la necessità che caratterizza l’umano incedere di
trovare un perno, non devono dunque indurre ad ancorarsi a riproduzioni artificiali di un passato che
ridotto a forme museali è svigorito di ogni forza vitale.
Il soggetto moderno dovrebbe invece scoprire dentro di sé il coraggio di affrontare il dolore, poiché solo “la sofferenza genera forze più alte, risanatrici”54.
Da questa mutata prospettiva sarà possibile tornare a rivolgerci alla storia, non come rifugio per sfuggire alle problematiche attuali, ma per porre ad essa domande che riguardano il presente.
Il tema della mentalità museale che irrigidisce il passato, mina l’adesione al presente e pone una
pesante ipoteca sul futuro non può non richiamare alla mente Nietzsche che, nella seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, smaschera gli elementi potenzialmente dannosi contenuti in ciò di cui l’epoca presente si fa vanto: la formazione e la conoscenza storica.
Come è noto, in questo scritto polemico giovanile, Nietzsche distingue tre tipi di storia: “monumentale”, “antiquaria” e “critica”.
Tutte e tre le specie presentano vantaggi e svantaggi. Il criterio per formulare questa valutazione è fornito dalla vita stessa.
È infatti convinzione dell’autore che “solo in quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia”55, e se si verifica il contrario, come avviene in epoca moderna, dobbiamo ammettere di avere a che fare con una
patologia, una vera e propria “febbre storica”56.
Torneremo su questo tema tra poco, prima però vale la pena soffermarsi sulla seconda specie di
storia, la “storia antiquaria”.
Essa giova alla vita dell’uomo moderno, che ha la tendenza a identificare la libertà con lo sradicamento dal suo passato e soprattutto dalla sua heimat, poiché fa sorgere in lui il “sentimento opposto, il benessere dell’albero per le sue radici”57.
Di questo tipo di storia ha bisogno soprattutto “colui che custodisce e venera – colui che guarda indietro con fedeltà ed amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa pietà egli per così dire paga il
debito di riconoscenza per la sua esistenza.
Coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità, egli vuole preservare le condizioni nelle quali è nato per coloro che verranno dopo di lui – e così serve la vita”58.
Senza questo tipo di approccio storico è impensabile che si formi un’identità collettiva.
C’è dunque un aspetto molto nobile e vitale nel coltivare la “storia antiquaria”: essa può suscitare nell’individuo
odierno che spesso si sente, come abbiamo avuto modo di notare, disorientato e privo di identità, un senso di appartenenza e continuità, ma se non è limitata dalle altre due specie di storia può causare danni perniciosi.
Tale forma di approccio storico presenta infatti il rischio di degenerazione in un atteggiamento feticistico nei confronti di tutto ciò che appartiene al passato, il che conduce, inesorabilmente, al “ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che è una volta esistito”59.
Quando ciò si verifica, “quando il senso storico non conserva più, ma mummifica la vita, allora l’albero muore, innaturalmente, disseccandosi a poco a poco verso la radice – e da ultimo generalmente perisce la radice stessa. La storia antiquaria degenera nel momento stesso in cui la fresca vita del presente non la anima e ravviva più”60.
Ciascun tipo di storia ha pieno diritto di esistere e svolge una funzione positiva se rimane sul proprio
terreno, in caso contrario rischia di dare origine ad erbacce, cioè ad atteggiamenti unilaterali dannosi
per la vita.
Nel caso della “storia antiquaria”, il pericolo si verifica in massimo grado nel momento in
cui colui che si rivolge al passato con questo tipo di approccio dimostra di non avere amore per il
presente e per il futuro.
Il problema principale di oggi consiste proprio nel fatto che la storia ha perso il contatto con la vita:
la storia è diventata scienza oggettiva e disinteressata che risponde ad un unico motto: “fiat veritas
pereat vita”61.
Essa, come la cultura moderna in generale, non è viva, è solo una forma di sapere che riflette su se stesso maturando la presunzione di potersi ergere al di sopra delle epoche precedenti e giudicarle in modo imparziale, ritenendo di avere a disposizione il sapere oggettivo.
Ma credere di essere il trionfatore al culmine del processo storico non conferisce ai moderni il diritto di un simile
giudizio, anche perché solo chi si prodiga e investe le proprie energie per costruire il futuro può
rivolgersi al passato con uno sguardo critico, non chi, paralizzato nelle sue forze vitali, si adagia nel
presente.
E ora subito uno sguardo sul nostro tempo! Inorridiamo, fuggiamo indietro: dov’è andata tutta la
chiarezza, tutta la naturalezza e purezza di quel rapporto tra vita e storia, quanto confusamente,
quanto esageratamente, quanto inquietantemente fluttua oggi questo problema davanti ai nostri
occhi!
È colpa di noi che guardiamo?
O la costellazione di vita e storia è realmente cambiata, per il fatto che un astro fondamentalmente ostile si è inserito fra loro?
Un tale astro, un astro fulgido e magnifico si è veramente frapposto, la costellazione è realmente mutata – a causa della scienza, a causa dell’esigenza che la storia sia scienza62.
L’accumulo indiscriminato di tutto ciò che riguarda il passato e il trionfo di una scienza storica
onnipotente rappresentano un fardello pesante, che mina la possibilità per la memoria culturale di
svolgere una funzione molto importante: porsi al centro del processo di fondazione dell’identità
collettiva.
La contrapposizione tra storia intesa come “scienza storica” e memoria63, nell’accezione di tradizione
viva che, con le sue radici profonde, non affossa l’albero, ma lo nutre consentendogli di crescere e
svilupparsi, non è proposta solo da Nietzsche.
Altri autori, riconoscendo l’interdipendenza di memoria e identità, hanno sostenuto la necessità di limitare l’analisi storiografica, lo studio scientifico e neutrale del passato che, con la modernità è divenuto dominante, in favore della memoria vivente, del “passato che si ricorda”.
Pierre Nora, ad esempio, nell’imponente opera da lui diretta, Les lieux de mémoire, ha sostenuto la
celebre tesi secondo cui “Il y a des lieux de mémoire parce qu’il n’y a plus de milieux de mémoire”64.
È convinzione dello storico francese che memoria e storia, lungi dall’essere sinonimi, si collochino in
una contrapposizione che vede, attualmente, la netta supremazia della seconda.
La storia è, per Nora, la ricostruzione sempre problematica e incompleta del passato, un’operazione intellettuale che si basa sull’analisi critica di ciò che non è più.
La memoria, in quanto fenomeno in perenne evoluzione è, al contrario, sempre attuale.
Essa è la vita.
La nostra epoca ha assistito all’erosione della memoria, che è stata letteralmente sequestrata
(saisie) dalla storia.
Quest’ultima “est devenue une science sociale; et la mémoire un phénomène purement privé”65.
Questo processo ha come conseguenza precipua, secondo Nora, una proliferazione inedita di “lieux de mémoire”66, che sono la manifestazione materiale e tangibile dell’avvenuta liquidazione della memoria da parte della scienza storica.
Una sterminata raccolta di materiale è accumulato e repertoriato con cura religiosa, ma ad esso manca la capacità di collocarsi al centro del processo di fondazione dell’identità collettiva, poiché scevro di qualsiasi valenza simbolica: Aucune époque n’a été aussi volontairement productrice d’archives que la nôtre, non seulement par le volume que sécrète spontanément la société moderne , mais par la superstition et le respect de la trace.
À mesure même que disparaît la mémoire traditionnelle, nous nous sentons tenus d’accumuler
religieusement vestiges, témoignages, documents, images, discours, signes visible de ce qui fut,
comme si ce dossier de plus en plus proliférant devait devenir on ne sait quelle preuve à l’on ne sait
quel tribunal de l’histoire. Le sacré s’est investi dans la trace qui en est la négation67.
La tesi sostenuta da Nora è decisamente forte e può anche non essere condivisa, ma aiuta a
illuminare l’apparente contraddizione per cui, proprio la modernità, nonostante sia l’epoca che ha
sviluppato il più alto e raffinato senso della storia, non si sia rivelata capace di tenere viva la
memoria del suo passato e sconti, per questa ragione, una perenne fame di identità.
Se Nietzsche e Nora, seppur con impostazioni molto diverse, sono accumunati dalla credenza in una
contrapposizione fra storia e memoria, Aleida Assmann rifiuta una visione dicotomica e conflittuale,
proponendone una “prospettica” che è volta a intendere il funzionamento di storia e memoria, cioè
di “memoria astratta” e “memoria vivente” nel lessico dell’autrice tedesca, “come due diverse
modalità del ricordo che non devono necessariamente escludersi a vicenda, né costituire una
vicendevole minaccia”68.
Tale soluzione merita considerazione poiché, pur non negando la diversità delle prerogative che caratterizzano le due forme del ricordo e lungi dal proporre una loro identificazione, mostra la ricchezza che consegue da una loro proficua interazione.
Assmann non indugia a riconoscere l’impossibilità per la “memoria astratta” di porsi a fondamento dell’identità
collettiva, ma non per questo destituisce in toto di valore questo tipo di memoria e i luoghi in cui
essa è depositata: Propongo di definire “memoria funzionale” la memoria vivente.
Le sue caratteristiche peculiari sono: l’essere inerente al gruppo, la selettività, l’eticità e l’orientamento verso il futuro.
Le discipline storiche si interessano invece a un secondo tipo di memoria: una sorta di memoria delle memorie
che include tutto quanto abbia già perduto un relazione vitale con il presente.
Propongo di definire “memoria-archivio” questa memoria delle memorie69.
Per esplicare la sua tesi, l’autrice tedesca ricorre a un’analogia con l’approccio psicanalitico, che si
basa sulla possibilità di far riaffiorare attraverso l’analisi ricordi di cui non si è più consapevoli,
poiché dimenticati o rimossi.
Tali vissuti, tuttavia, non si sono dissolti e, se riportati in superficie, possono contribuire a rivedere criticamente l’idea che il soggetto ha di sé, che è stata elaborata a partire dal primo livello della memoria individuale, la memoria “vigile”.
Quest’ultima è dunque molto importante, poiché è responsabile della consapevolezza che un individuo ha di se stesso e quindi del suo senso identitario, ma è parziale poiché si riferisce solo ad una parte della storia di ciascuno.
Per questo la psicanalisi sollecita il recupero di ricordi obliati, al fine di favorire la caduta di barriere,
sorte ad esempio in seguito a un trauma, che potrebbero precludere al soggetto sviluppi futuri
alternativi.
Se ciò può avvenire è solo perché vi è un secondo livello di memoria che “in parte latente
e in parte inconscia, non è l’opposto della memoria funzionale, ma piuttosto il suo sfondo”70.
Ecco cosa Assmann intende con “visione prospettica”: la memoria-archivio costituisce lo “sfondo” della
memoria funzionale, nonché la sua possibilità di revisione.
Se quest’ultima si colloca in primo piano, essendo portatrice di senso e responsabile del processo di formazione dell’identità personale, la memoria-archivio non si configura come una zavorra, bensì come una possibilità cui attingere, che “come memoria delle memorie, può fare in modo che le memorie funzionali realmente esistenti
possano essere relativizzate criticamente”71.
Ciò non vale solo a livello individuale, ma anche sul piano della memoria comune.
Da questo punto di vista, rimane corretta la considerazione circa l’impossibilità per la memoria-archivio di fondare l’identità di soggetti collettivi, quali stati o nazioni, ma resta altrettanto vero che tale considerazione
non destituisce questa seconda forma del ricordo di funzioni diverse, ma altrettanto importanti.
Affinché sia possibile giovare delle possibilità offerte dalla memoria-archivio è però indispensabile
che vi siano istituzioni che la mantengono in vita.
Questo tipo di memoria non è, infatti, un fenomeno naturale che “si produce spontaneamente quando si cessi di manipolarla o di eliminarla”72.
Musei, mausolei, archivi, istituti di ricerca, tutti i luoghi concepiti da Nietzsche e da Nora come sterili
depositi di cui la modernità si avvale, più di qualsiasi altra epoca, per sopperire alla perdita di
memoria, sono, nell’analisi di Assmann, rivalutati e legittimati, poiché organismi indispensabili al fine
di custodire e divulgare la memoria-archivio.
Essi sono accumunati da due caratteristiche: la distanza e il fatto di “non essere sottoposte a immediate esigenze di utilizzazione sociale”73.
Questi tratti rendono impossibile “il movimento identificatorio”74, ma tale impedimento, lungi dall’essere un
limite, consente alla memoria-archivio di adempiere al suo peculiare compito.
Essa, infatti, è fondamentale per la società, poiché “costituisce l’orizzonte esterno delle diverse memorie funzionali che permette di criticare, relativizzare ed anche modificare prospettive limitative sul passato”75.
Non a caso, fa notare Assmann, i regimi totalitari, consapevoli del fatto che solo la memoria-archivio può
svolgere la “funzione di correttivo della memoria culturale vigente”76, sono in genere molto zelanti
nel distruggere la documentazione che la custodisce.
Senza arrivare a casi estremi, si può comunque affermare, in termini generali, che se un soggetto collettivo non dispone della memoria-archivio si espone al rischio di un “congelamento della memoria”77, perdendo in questo modo la possibilità di rivedere criticamente il proprio vissuto e quindi la propria idea di sé.
L’analisi di Assmann è di grande interesse, poiché suggerisce la possibilità di una via diversa, sia
rispetto alla visione dicotomica che individua nel dominio della scienza storica la causa principale del
dissolvimento della memoria, sia rispetto alla teoria che propone una sostanziale identificazione dei
due termini.
Onde evitare distinzioni manichee, può non essere superfluo precisare che gli autori,
che hanno sostenuto la presenza di una certa conflittualità tra questi due piani, non hanno negato
l’importanza delle istituzioni atte a salvaguardare la memoria.
Costoro si sono limitati a denunciare lo strapotere che la modernità assegna a tali organismi e il loro uso compensativo e funzionale.
In altri termini: criticare la “mentalità museale”, come modalità tipicamente attuale di sfuggire ai
problemi posti dal presente, non equivale necessariamente a non affermare il valore di musei,
biblioteche, archivi e di tutti gli altri depositi della memoria culturale comune.
Abbiamo già avuto modo di notare come Nietzsche giudicasse l’approccio antiquario alla storia, se
opportunamente limitato, indispensabile ai fini di favorire un senso di appartenenza e continuità con
il passato.
Nonostante l’esplicita avversione nei confronti dello spirito museale, molte annotazioni
contenute nei diari di guerra, rivelano la dedizione con cui anche Jünger, pur in situazioni di pericolo
e di sofferenza estremi, si sia occupato della salvaguardia di musei, archivi, biblioteche78,
consapevole dell’importanza che, a guerra conclusa, i documenti in essi conservati avrebbero avuto
per la ricostruzione di un comune senso identitario.
Jünger mostra altresì grande interesse per le botteghe antiquarie parigine, davanti alle cui vetrine indugia spesso per una breve sosta risanatrice, come se il contatto visivo con oggetti appartenenti al passato riuscisse a riconciliarlo con il presente, seppur solo per un istante79.
Questo spunto jüngeriano può aiutarci, dopo la digressione sulla storia e sulla memoria, a tornare al
nostro principale interesse: i luoghi.
È giunto il momento di esplicitare e scandagliare il legame che intercorre tra i luoghi, la memoria e l’identità. Fino ad ora il nostro discorso si è concentrato sul rapporto tra gli ultimi due elementi della triade, memoria e identità.
La tesi che si proverà a sostenere ora, tenendo come testo di riferimento il già citato Ricordare di Aleida Assmann, è che i luoghi sono indispensabili sia ai fini della memoria funzionale che ai fini della memoria astratta e quindi sia per il processo di formazione dell’identità che per garantire la possibilità di ripensare
criticamente quest’ultima.
I.VI Luoghi, memoria e identità
Anche ammettendo che la tesi di Nora sull’attuale scomparsa della memoria, causata principalmente
dalla dialettica della storicizzazione e della modernizzazione, non sia scorretta, secondo Assmann,
tale considerazione vale solo per alcuni tipi di memoria.
Altre forme, al contrario, acquistano terreno.
Tra queste i mediatori che “fondano e facilitano la memoria culturale offrendole un supporto concreto e interagiscono con la memoria umana”80.
I mediatori, di cui Assmann si occupa nel secondo capitolo del suo testo, sono la scrittura, le immagini, il corpo e i luoghi.
Senza il loro ausilio non è possibile dar vita ad alcuna memoria generazionale o epocale e ciò
significa che poiché il loro stadio di sviluppo può variare in conformità ad esso varia anche la
capacità della memoria81.
La connessione memoriale e identitaria tra soggetti e luoghi è particolarmente evidente nel caso dei
cosiddetti “luoghi generazionali” o “familiari”.
Essi, infatti, legano “gli uomini a un preciso pezzo di terra”82.
L’importanza del luogo natio è ancora molto presente presso culture che la mentalità moderna tende a giudicare arretrate.
Non a caso l’antropologo Marc Augé, che si è a lungo occupato dell’Africa, ha mostrato come presso alcune tribù africane il luogo di nascita sia ancora considerato costitutivo dell’identità individuale, al punto che “il bambino nato per accidente al di fuori del villaggio si vede attribuire un nome particolare ispirato ad un elemento del paesaggio che lo ha visto nascere”83.
Con la modernità, in Occidente, “l’ideale dell’ostrica” è stato ampiamente superato, anzi, si potrebbe
dire, rovesciato.
Al fine di conseguire il modello di libertà in auge assurgono a valori primari la mobilità e lo sradicamento, e l’appartenenza ad un luogo diventa un vincolo, un fardello insostenibile84.
Assmann pare suggerire che al discredito dell’“ideale dell’ostrica” abbia contribuito la mentalità americana che, in tale operazione, trova il modo di elaborare la mancanza di un legame identitario con la propria terra.
Legame che era molto forte presso le popolazioni che abitavano quei luoghi prima della colonizzazione.
Questa ipotesi sembrerebbe trovare un certo riscontro nel fatto che, notoriamente, un simile ideale di libertà, basato sullo sradicamento e sulla mobilità, perseguito “on the road”, si associ alla mentalità americana, per poi assurgere ad una delle tante bandiere della modernità.
Nonostante ciò, non si può negare che i luoghi familiari continuino ad emanare una peculiare forza
rassicurante e consolatrice.
Per comprendere meglio questa tesi, si può far riferimento ad una lettera85 del 16 agosto 1797, nella quale Goethe, scrivendo a Schiller, espone un primo abbozzo di quella che diverrà la sua celebre teoria del simbolo. L’obiettivo è individuare un modo per ricomporre la dolorosa scissione, tipicamente moderna, tra uomo-natura, soggetto-oggetto.
Occorre a tal fine trovare un “ponte”, qualcosa che ricolleghi queste due facce di una medesima medaglia,
separate arbitrariamente dalla logica razionalistica.
Goethe individua nel simbolo il mezzo per superare la tragica dissociazione.
Simbolici sono, in primis, gli oggetti, oggetti significativi, “felici”.
Ciò che appare per noi molto interessante è che gli oggetti simbolici, a cui Goethe ricorre per
esemplificare la sua teoria, si rivelano, inaspettatamente, essere luoghi.
Il luogo, nella concezione del pensatore tedesco, può dunque acquisire la funzione di ponte, in grado di avvicinare i lembi della ferita che la modernità ha inflitto all’uomo, separandolo dalla sua heimat.
Nella lettera a Schiller, Goethe fa riferimento a luoghi generazionali, impregnati di ricordi domestici,
luoghi che hanno a che fare con la memoria familiare e la cui capacità di collegamento sembra
derivare proprio da tale pregnanza mnesica intima, ma allude alla possibilità di estendere la carica
simbolica anche a luoghi estranei, “in cui la parte di ricordi privati viene meno e l’aura specifica del
luogo si fa sempre più forte”86.
Luoghi, dunque, come ponti, che “non si limitano a fissare i ricordi e a certificarli, ancorandoli a una
localizzazione territoriale, ma incarnano anche una continuità nel tempo, che va oltre quella
memoria a breve termine degli individui, delle epoche e delle culture che si concretizza nei
prodotti”87.
Giunti a questo punto il pensiero va nuovamente a Jünger e alla cura con cui, durante la guerra, egli
pone sotto la sua personale vigilanza edifici e luoghi di cui comprende, con la consueta perspicacia,
tutto il valore simbolico e umano. In particolare in merito alla cattedrale di Laon, luogo privilegiato, a
cui fa ritorno più volte, scrive: coglievo l’unità tra quei tempi lontani e il nostro tempo.
Sentivo che proprio questa unità non deve sfuggirmi, e ho giurato a me stesso di non dimenticare mai il mio debito verso gli avi88.
O ancora: oggi mi ha assalito il presentimento che queste cattedrali siano opere, opere della vita, estranee alle
morte misure del mondo dei musei.
Aveva un suo peso anche il pensiero che questa chiesa è posta sotto la mia protezione; me la sono stretta al cuore come se all’improvviso fosse diventata minuscola89.
Non si respira in queste parole la semplice preoccupazione per i danni che la guerra potrebbe
arrecare alla cattedrale, concepita come patrimonio artistico, sembra esserci molto di più: essa deve
essere tutelata poiché ha un significato memoriale ed identitario.
La cattedrale avvicina epoche lontane che, grazie ad essa, possono ancora dialogare.
Soprattutto dopo un’esperienza scardinante, come può essere la guerra, i luoghi diventano fonti cui attingere il senso di continuità con il passato, divengono ponti in grado di sanare la cesura e restituire agli uomini, disorientati e persi, la consistenza delle proprie radici, come fili d’Arianna che permettono di ritrovarsi nel caotico labirinto prodotto dalla foga della ricostruzione.
Luoghi dunque come punti di riferimento memoriali, ancore vive da cui ricominciare.
Anche i “luoghi della commemorazione”, i “luoghi della memoria” possono svolgere una funzione
importante a fini identitari.
Ma il rischio della mummificazione è sempre in agguato e, affinché non scadano a muti monumenti dell’oblio, a testimoni inermi di ciò che è stato, privi di qualsiasi forza vitale, è necessario restituire loro la parola.
I luoghi della commemorazione, infatti, a differenza di quelli generazionali, non esprimono direttamente una continuità con il passato, bensì, una discontinuità; segnalano che qualcosa è andato perduto e sono la dimostrazione materiale e tangibile dello scorrere inesorabile del tempo90.
Abbiamo già avuto modo di soffermarci sulla tesi di Nora secondo cui con la modernità si verifica un
passaggio dal milieu de mémoire al lieu de mémoire.
Affinché quest’ultimo perda la connotazione negativa di elemento residuale e sterile, privo di valore memoriale e identitario, “è necessario raccontare una storia che supplisca al milieu andato perduto”91.
I luoghi della memoria sono esposti al rischio di divenire “pittoreschi”, scorci stereotipati per turisti e avventori che, intenti a catturare con il proprio obbiettivo fotografico le prospettive messe in forma e sdoganate dalle guide turistiche e dai depliant pubblicitari, ignorano deliberatamente la carica memoriale e storica di cui tali luoghi
sono portatori.
A tal proposito Jünger, in Giardini e strade, scrive: “Si potrebbe dire che gli uomini di oggi vedono simili opere come un sordo vede le forme di trombe e violini”92.
Si è persa la melodia, l’elemento vivo e si assiste passivi allo spettacolo di gusci vuoti, che, incapaci di favorire una rinascita della memoria, non sono certo in grado di placare la fame d’identità che tormenta i
moderni.
Ma questa non è l’unica via percorribile, è sempre possibile, in linea teorica, “riattivare la memoria”
dei luoghi, poiché “la storia di un luogo non finisce con il suo abbandono o la distruzione; esso
conserva i relitti materiali che diventano elementi della narrazione, a loro volta punti di riferimento di
una nuova memoria culturale.
Questi luoghi necessitano comunque di spiegazioni: il loro valore deve essere attestato anche dalla tradizione orale”.93
Solo una proficua interazione tra ambiti diversi, che troppo spesso pensano di non avere nulla da
dirsi, può portare i luoghi a svolgere appieno la funzione di “mediatori”, che corroborano la memoria
e contribuiscono a fondare l’identità collettiva.
Ma i luoghi non sono importanti da un punto di vista memoriale solo per fini identitari, o meglio, non
lo sono solo in modo diretto.
Rifacendoci alla già citata distinzione proposta da Assmann tra “memoria funzionale” e “memoria-archivio”, si potrebbe dire che i luoghi svolgono una funzione fondamentale anche come “archivi naturali”, pronti, se interrogati, a fornire risposte e a mettere in discussione certezze.
Il luogo, infatti, si differenzia dagli altri “mediatori di trasmissione mobili”, quali il corpo, l’immagine e la scrittura, per la sua “inalterabile fissità: è un supporto sensibile e permanente dei ricordi fugaci, un hic senza nunc, un qui senza ora, che nulla presenta o rappresenta, ma che rileva in modo più o meno marcato la traccia di un’assenza”94.
Ogni luogo conserva “strati di memoria” che possono essere in qualsiasi momento portati in superficie e offrire
un nuovo tassello per corroborare o sconfessare l’idea che un popolo, una nazione ha di sé.
Non a caso, tornando al parallelismo già abbozzato con la psicanalisi, Freud paragona il lavoro dello
psicanalista a quello dell’archeologo: entrambi, attraverso un accorto e ponderato lavoro di “scavo”,
possono riportare alla luce ricordi obliati o rimossi, strati sommersi, ma non perduti, poiché incisi, a
livello individuale, nella “memoria archivio” e, a livello collettivo, nei luoghi che “custodiscono un
immenso bacino di memorie che ci interpellano e che si offrono a noi sperando di trovare il loro
momento di intelligibilità”95.
I luoghi non impongono di ricordare: soprattutto dopo un trauma collettivo è assai probabile che ci sia una certa riluttanza a riconoscere e a metabolizzare l’accaduto.
Quando, però, la coscienza comune è pronta ad elaborare il proprio passato e ad integrarlo al proprio
vissuto, alla propria story, allora essi divengono un punto di riferimento essenziale poiché, proprio
grazie alla loro “inalterabile fissità”, “hanno la capacità di conservare e garantire la memoria anche
dopo una fase di oblio collettivo”96.
Sono state utilizzate molte metafore per indicare la possibilità di trattenere un ricordo di cui,
tuttavia, non si è coscienti.
Si è fatto ricorso all’immagine della soffitta, dove sono accatastati in
modo caotico e disorganizzato, oggetti disparati, che, spesso, non vengono eliminati poiché
posseggono una vaga e remota aura mnesica, ma di cui non ci interessiamo per anni, fino ad
arrivare al punto di dimenticarcene.
Capita però di sentire la necessità di recuperare da quel contesto indistinto un oggetto specifico, rimuovere la polvere che si è sedimentata su di esso e riportarlo a rivestire un ruolo nella nostra quotidianità, nella nostra vita.
Non di rado tale operazione, in sé banale, acquista un significato simbolico importante per un individuo che, attraverso questo recupero, sente di aver ricomposto un tassello del puzzle della propria esistenza.
Tutto ciò è possibile solo perché l’oggetto in questione era stato riposto in soffitta dove, anche se lontano dagli
occhi e dalla coscienza, era sempre presente.
Anche il pozzo è un’immagine spesso associata a simili processi: ciò che non si vede, poiché si trova ad una profondità inaccessibile allo sguardo può sempre, in linea teorica, essere recuperato con l’ausilio di un secchio e di una catena.
Per condensare tutte queste metafore spaziali, si può ricorrere ad una espressione coniata da Friedrich Georg Jünger, fratello del più celebre Ernst.
Friedrich Georg Jünger parla di “oblio conservativo” (Verwahrensvergessen), proprio per indicare la possibilità di conservare, trattenere, seppur ad un livello non consapevole, i vissuti.
Tale espressione sembra essere particolarmente calzante per i luoghi, i quali rappresentano un
supporto stabile sul quale gli avvenimenti storici lasciano tracce indelebili.
Non sempre tali segni sono organizzati in un’interpretazione sensata e coerente, spesso, come in una immensa
soffitta, essi si trovano gli uni accanto agli altri, si sovrappongono e si seppelliscono, rimanendo a
lungo obliati.
Ciò che conta, però, è che sono inscritti nei luoghi dove sono accaduti e che, quando la collettività si trova a un punto di maturità tale da poterli recepire, essi sono disponibili a fornire il proprio contributo per ricomporre la memoria e l’identità del popolo che li ha interrogati.
A tal proposito sovviene un esempio pratico ed attuale che riguarda la Sicilia.
Nei pressi di Enna, alla soglia degli anni ’90, è stato istituito l’Ente Parco Minerario Floristella-Grottacalda, che si estende su un vasto territorio, di circa quattrocento ettari, e accorpa le due omonime miniere di zolfo dismesse.
Il parco testimonia l’attività estrattiva che si è svolta in quell’area dal 1700 al 1986, anno in cui le
miniere furono chiuse.
Dal 1986 il sito venne ignorato fino al 1991, quando fu creato il Parco Minerario. Ancora ben visibili, e dolorosamente evocative, sono le apparecchiature utilizzate per estrarre lo zolfo: i “calcaroni”, le “discenderie”, i “castelletti”, gli impianti dei pozzi verticali, i forni.
Tutte queste strutture, che costellano il paesaggio locale e che richiamano alla memoria un trascorso
di fatiche disumane e tragiche umiliazioni, potevano essere abbandonate, obliate o abbattute, ma la
decisione di recuperarle e renderle accessibili al pubblico, prova l’esigenza, da parte degli abitanti
della zona, di riappropriarsi in senso identitario di un passato doloroso che vede protagonisti molti
loro antenati.
Tale volontà è esplicitata dalle numerose proposte che l’Ente Parco rivolge alle scuole
e a tutti coloro che desiderano comprendere la storia locale.
Tra le diverse iniziative spicca la realizzazione di un documentario intitolato Il paesaggio della Zolfatara: la storia e gli uomini di Floristella, il cui intento principale è quello di mettere in connessione le nuove generazioni con un
passato drammatico e ormai lontano che, però, grazie ai luoghi che lo hanno trattenuto e grazie alla
scelta di dare senso e voce alle tracce in essi sedimentate, può fornire ai nuovi abitanti di quei luoghi
una tessera in più per comporre il complesso mosaico della propria identità.
Un altro esempio che mostra l’importanza memoriale e identitaria dei luoghi ci porta sul lato
sud-occidentale dei monti di Scicli, sempre in Sicilia, ma in provincia di Ragusa, dove si trovano le
grotte di Chiafura, nei cui antri, fino agli anni ’60, vivevano oltre seimila persone. Nel secondo dopo
guerra alcuni abitanti delle grotte iniziarono a manifestare insofferenza per la situazione disagiata e
ormai anacronistica nella quale si trovavano e cominciarono a lasciare quei luoghi per trasferirsi
altrove.
Non molto più tardi una legge locale stabilì che, per ragioni di sicurezza, le grotte dovessero
essere sgomberate e coloro che ancora in esse vivevano traslocati in case popolari di recente costruzione.
Micol Cossali e Valentina Morandi, registe del cortometraggio Le Grotte di Chiafura, vincitore della sezione I luoghi del cuore al Milano Film Festival 2010, hanno raccontato, traducendo in immagini i ricordi degli abitanti delle grotte, il senso di sradicamento e di disorientamento provato da questi ultimi in seguito allo spostamento nella case popolari.
Le grotte di Chiafura, in questo breve film, divengono un simbolo pregnante, capace di condensare ed evocare le
trasformazioni e le contraddizioni che la spinta verso la modernizzazione, tipica del dopoguerra, ha
portato con sé. Il documentario si concentra sulla percezione soggettiva delle persone riguardo al
passaggio dalla vita nelle grotte a quella nelle nuove abitazioni e mostra come molte di loro, per
ritrovare un vago senso di appartenenza, abbiano sentito la necessità di riprodurre lo stile che
contraddistingueva la loro faticosa esistenza a Chiafura.
I nuovi alloggi erano, ovviamente, molto più sicuri e confortevoli, forniti di luce, gas e tutto ciò che mancava nelle loro precedenti dimore, ma, come testimonia, con linguaggio tanto semplice quanto chiaro e significativo, un ex residente delle grotte: “nelle case popolari c’è l’acqua, c’è la luce e si pensava si potesse stare bene, ma un locus
non è soltanto l’habitat dove ci si trasferisce, è impregnato di sapori, colori, memorie, ricordi, affetti
che non si possono sostituire con una casa nuova”.
La quotidianità nelle grotte di Chiafura appartiene al passato e l’intento delle due giovani registe non
è quello di suggerire un impensabile ripopolamento del sito, ma neppure, meramente, quello di
mostrare il suo seppur innegabile fascino estetico.
C’è piuttosto la volontà di rivelare quanto sia importante rendere accessibili tali luoghi e valorizzarli, non solo per fini turistici, ma, soprattutto, come patrimonio fruibile dalle nuove generazioni, affinché possano riallacciare i legami con questa poco conosciuta parte di storia di Scicli e dell’Italia intera.
1 D. Poli, Il cartografo-biografo come attore della rappresentazione dello spazio in comune, in P. Castelnovi (a cura di), Il senso del paesaggio, IRES, Torino 2000, p. 206.
2 M. Heidegger, Bauen, Wohnen Denken (1951) in Idem Vortäge und Aufsätze, cit.; tr. it. di G.
Vattimo, Costruire abitare pensare, in Idem, Saggi e discorsi, cit., p. 103.
3 L. Bonesio – C. Resta, Intervista sulla Geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Diabasis, Reggio Emilia
2010, p. 21.
4 M. Foucault, Des espaces autres (1967) in Architecture Mouvement Continuité, n. 5, ottobre 1984;
- it. di S. Loriga, Eterotopie, in Idem, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol 3 (1978-
- Estetica dell’esistenza, etica, politica), a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 308.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 “E la nozione di spazio, così come è utilizzata oggi sembra poter essere utilmente applicata, anche
a causa di una assenza di caratterizzazione, alle superfici non simbolizzate del pianeta” (M. Augé,
Non-Lieux. Introduction à une antropologie de la surmodernité, Paris 1992; tr. it. di D. Rolland,
Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità , Eleuthera, Milano 1993, p. 77).
8 M. Foucault, Eterotopie, cit., p. 308.
9 Ibidem.
10 Ch. Norberg Schulz, Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura, tr. it. di A. M. Norberg-Schulz,
Electa, Milano 1979, p. 8.
11 “Per natura intendiamo l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante
dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale” (G. Simmel,
Filosofia del paesaggio (1912), in Idem, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, ediz. it. a cura di L.
Perucchi, Il Mulino, Bologna 1985, p. 71).
12 “Per il paesaggio, invece, è assolutamente essenziale la delimitazione, l’esser compreso in un
orizzonte momentaneo o durevole; la sua base materiale o le sue singole parti possono avere
semplicemente il valore di natura, ma rappresentate come paesaggio, richiedono un essere-per-sé
che può essere ottico, estetico, legato ad uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e
caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura, nella quale ogni pezzo può essere
soltanto il punto di passaggio delle forze universali dell’esistenza” (ivi, p. 72).
13 Ivi, p. 73.
14 Ibidem.
15 Ivi, p. 79.
16 H. Lehmann, La fisionomia del paesaggio, in AA. VV, L’anima del paesaggio tra estetica e
geografia, a cura di L. Bonesio e M. Schmidt di Friedberg, Mimesis, Milano 1999.
17 A tal proposito, L. Bonesio mostra la somiglianza etimologica tra i termini latini pagus, (da cui ha
origine la parola “paesaggio”) e locus, (da cui ha origine la parola “luogo”): “I caratteri che
contrassegnano il pagus e il locus sono del tutto simili: delimitazione, riconoscibilità e individuabilità,
qualificazione spaziale, intervento umano, appartenenza, differenzialità.
Come si evince dai rispettivi significati, almeno a livello concettuale, il rimando è all’idea di definizione di una forma, che può essumere grandezze e funzioni diverse (dalla stanza alla regione, dalla sepoltura al rango sociale), che, in quanto tale è de-finita da limiti che la individuano e perciò ne consentono riconoscibilità e
articolazione rispetto alle altre” (L. Bonesio, Ermeneutica del paesaggio, in Id., Paesaggio, identità e
comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2009, p. 158).
18 Ch. Norberg-Schulz, Genius loci, cit., p. 18.
19 E. Jünger, Giardini e strade, cit., p. 75.
20 “L’identità di un luogo è determinata dalla collocazione, dalla configurazione spaziale generale e
dalle caratteristiche dell’articolazione”. (Ch. Norberg-Schulz, Genius loci, cit., p. 179).
21 Ivi, p. 180.
22 Ivi, p. 184.
23 Ivi, p. 180.
24 Ivi, p. 182.
25 Ivi, p. 168.
26 Ivi, p. 192.
27 “L’architettura moderna prende l’avvio dall’abitazione, così che tutti gli altri compiti edilizi sono
considerati estensioni delle abitazioni per usare la definizione di Le Corbusier” (ivi, p. 194).
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 Ibidem.
32 “Lo scopo principale della seconda fase dell’architettura moderna è quello di trasmettere
individualità a edifici e luoghi, tenendo conto dello spazio e del carattere; si cerca di prendere in
considerazione la situazione congiunturale della località e del compito edilizio, invece di limitarsi a
progetti basati su tipologie e progetti generali” (ivi, p. 195).
33 Ivi, p. 196.
34 Ivi, p. 201.
35 M. Augé, Nonluoghi, cit., p. 41.
36 Ivi, p. 36.
37 Ivi, p. 77.
38 Ivi, p. 51.
39 Ibidem.
40 Ivi, p. 53.
41 Ivi, p. 81.
42 Ivi, p. 95.
43 Cfr: C. Minca, Spazi effimeri. Geografia e turismo tra moderno e postmoderno, CEDAM, Padova
1996.
44 Ivi, p. 91.
45 “Il paesaggio prende le sue distanze e i suoi dettagli architettonici o naturali costituiscono
l’occasione per un testo, a volte ornato da un disegno schematico allorché il viaggiatore di passaggio
non è in grado di vedere il punto importante segnalato alla sua attenzione e si trova perciò
condannato a gioire per il solo fatto di saperlo vicino. Il percorso autostradale è doppiamente
significativo: esso evita, per necessità funzionale, tutti i luoghi importanti cui si avvicina, ma li
commenta” (ivi, p. 89).
46 E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, cit., p. 20.
47 M. Augé, Nonluoghi, cit., p. 53.
48 Ivi, p. 73.
49 Ivi, p. 100.
50 E. Jünger, L’operaio, cit., p. 183.
51 Non a caso Jünger ritiene che “l’attività da museo rappresenta semplicemente una delle ultime
oasi di sicurezza borghese” (ivi, p. 184).
52 E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 152.
53 E. Jünger, Trattato del ribelle, cit., p. 112.
54 E. Jünger, Giardini e strade, cit., p. 152.
55 F. Nietzsche, Unzeitgemäβe Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie
für das Leben, in Sämtliche Werke, tr. it. di S. Giametta, Dell’utilità e il danno della storia per la vita,
Adelphi, Milano 1973, p. 3.
56 Ivi, p. 4.
57 Ivi, p. 26.
58 Ivi, p. 24.
59 Ivi, p. 27.
60 Ibidem.
61 Ivi, p. 31.
62 Ibidem.
63 A. Assmann, a proposito di Nietzsche, fa notare che nella sua terminologia però storia equivale a
“ricordo” e memoria ad “oblio” (A. Assmann , Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des
kulturellen Gedächtnisses, München 1999; tr. it. di S. Paparelli, Ricordare. Forme e mutamenti della
memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002, p. 145).
64 P. Nora, Entre mémoire et histoire. La problématique des lieux, in Id., Les lieux de mémoire,
Gallimard, Paris 1984, vol. I, p. 23.
65 Ivi, p. 28.
66 “C’est le moment des lieux de mémoire. On ne célèbre plus la nation, mais on étudie ses
célébrations” (ivi, p. 29).
67 Ivi, p. 31.
68 A. Assmann, Ricordare, cit., p. 149.
69 Ibidem.
70 Ivi, p. 152.
71 Ibidem.
72 Ivi, p. 157.
73 Ibidem.
74 Ibidem.
75 Ibidem.
76 Ivi, p. 156.
77 Ibidem.
78 Cfr. : E. Jünger, Giardini e strade, cit., p. 149 e p. 154.
79 Cfr. : E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 84.
80 A. Assmann, Ricordare, cit., p. 21.
81 Ivi, pp. 20-21.
82 Ivi, p. 335.
83 M. Augé, Nonluoghi, cit., p. 52.
84 “È un dato distintivo dell’uomo moderno di avere per lungo tempo esaltato la condizione di
nomade ; voleva essere «libero» e conquistare il mondo. Oggi invece si comincia a comprendere che
la vera libertà presuppone l’appartenenza, e che «abitare» significa appartenere ad un luogo
concreto” (N. Schulz, Genius loci, cit., p. 22).
85 J. W. Goethe – F. Schiller, Briefwechsel zwischen Sciller und Goethe, Jena 1905; ediz. it. a cura di
- Santangelo, Carteggio Goethe-Schiller, Einaudi, Torino 1936, pp. 175-177. (In A. Assmann,
Ricordare, cit., p. 332).
86 A. Assmann, Ricordare, cit., p. 333.
87 Ivi, p. 332.
88 E. Jünger, Giardini e strade, cit., p. 150.
89 Ivi, p. 151.
90 “I luoghi della commemorazione sono profondamente diversi, perché si caratterizzano per
un’eclatante differenza tra passato e presente. In un luogo della commemorazione la storia non
continua a svolgersi ma è più o meno violentemente interrotta. Tale interruzione si materializza in
relitti e rovine, che si stagliano nel paesaggio come residui stranianti” (A. Assmann, Ricordare, cit., p.
343).
91 Ibidem.
92 E. Jünger, Giardini e strade, cit., p. 27.
93 A. Assmann, Ricordare, cit., p. 343.
94 Ivi, p. 448.
95 L. Bonesio – C. Resta, Intervista sulla geofilosofia, cit., p. 20.
96 A. Assman, Ricordare, cit., p. 22.
Giovanna Maffoni