Il perché di una scelta

Pierluigi Ciritella.

Circa ventitré secoli or sono in un’isola del Dodecanneso, Kos, operava un medico rivoluzionario. Il medico si chiamava Ippocrate e da allora il modo di fare medicina cambiò in maniera definitiva e irreversibile. Nasceva con Ippocrate la medicina scientifica e con essa la medicina occidentale.
Ippocrate, come scrisse il filosofo francese Emile Littrè, vide per primo “in ogni malattia non più una successione di fenomeni bizzarri, disordinati e senza legge, ma una concatenazione in cui ogni fatto aveva la sua ragione nel fatto precedente”. La rivoluzione consisteva, dunque, nel riconoscere i segni e i sintomi, concatenarli e alla fine emettere una diagnosi:
“se una donna incinta ha le mestruazioni, è impossibile che il feto sia sano”.
“la schiuma dell’orina grassa e ammassata indica una malattia acuta dei reni”.
(IPPOCRATE, AFORISMI E GIURAMENTO, TASCABILI ECONOMICI NEWTON, ROMA, 1994)
In medicina la diagnosi è di fondamentale importanza per individuare prima e inquadrare poi, correttamente, la patologia dalla quale è affetto il paziente.
La capacità diagnostica di un medico viene acquisita con il tempo e richiede studi lunghi e approfonditi, di allenamento nell’effettuare collegamenti, nell’escludere ipotesi che potrebbero essere pericolosamente fuorvianti, nel porre attenzione a non farsi abbagliare da segni e sintomi che potrebbero nascondere ben altre patologie. Occorre anche una certa dose di intuito, il cosiddetto “occhio clinico”, per scoprire di quale malattia si tratta. Si racconta che l’insigne medico napoletano dei primi del ‘900 Antonio Cardarelli, avesse la capacità di diagnosticare malattie al passeggero che gli sedeva di fronte nello scompartimento di una carrozza ferroviaria mentre era in viaggio, solo osservandolo.
Fare diagnosi è un compito difficile, per nulla scontato, ed è una sfida continua per il medico che si avvale della sua esperienza, potendo contare su una sorta di database interno, un grosso archivio di nozioni ed esperienze cui accedere continuamente e che continuamente si arricchisce durante l’esercizio della professione. Non di rado medici che parlano fra loro si vantano di una diagnosi “brillante” a proposito di quella tale difficile condizione patologica che sfuggiva a tutte le classificazioni. Così come, non di rado, quegli stessi medici si confrontano su segni e sintomi sfumati, complessi, contraddittori e che portano fuori strada: dei veri rebus che talora, per essere risolti, richiedono approfondite e sofisticate indagini strumentali e di laboratorio.
La diagnosi in medicina è la medicina stessa! Non c’è medicina senza diagnosi! La diagnosi è l’anima e il cuore pulsante della medicina!
La diagnosi è un tema così basilare e determinante che è diventata addirittura argomento di una serie televisiva americana di successo: Dr. House – Medical Division, in cui il protagonista, Dr. G. House, dotato di grandi capacità, esperienza e, appunto, intuito, è a capo di una sorta di task force di medicina diagnostica presso un ospedale universitario. La serie trae spunto, e questo la dice lunga sui modi e le difficoltà di fare diagnosi, dai gialli di Sherlock Holmes, mentre i casi clinici particolarmente ardui sono ispirati da una rubrica del New York Times.
Per fare diagnosi corrette occorre conoscere molto bene la semeiotica.
La semeiotica è la disciplina che ha per oggetto il rilievo e lo studio dei segni che orientano verso la diagnosi. Diagnosi che etimologicamente vuol dire, appunto, conoscenza (gnosis) attraverso (dia).
Conoscenza della malattia, dunque, attraverso i segni e i sintomi con i quali essa si manifesta. Un’epifania, un mostrarsi della patologia, agli occhi del medico, che dovrà essere bravo a cogliere, leggere, interpretare qualsiasi cosa egli ritenga utile per giungere, proprio come un arguto ed esperto detective, a individuare il colpevole della stato morboso: la malattia.
A trent’anni dal conseguimento della mia laurea in medicina mi risuonano ancora nelle orecchie gli ammonimenti di qualcuno dei miei docenti dell’università, che, quasi con solennità sentenziavano affermazioni, del tipo “la febbre è la tomba del medico!” Già! Perché il sintomo febbre è talmente tanto ubiquitario e insidioso che si trova in un numero incredibile di malattie, dalla banale influenza al cancro, dalla leucemia all’ascesso dentario, accomunando malattie virali e malattie batteriche, ecc., ecc…. E allora la sfida è aperta: da una parte il medico armato del suo bagaglio di nozioni, di esperienze di “sapere” faticosamente acquisiti nell’arco dei lunghi anni di professione, di mestiere, dall’altro lei, la malattia da individuare, snidare, combattere, sconfiggere. Una lotta tra medico e malattia in cui la persona porta se stessa perché “malata”, acquisisce lo status di paziente e quindi diventa un’altra cosa, diversa da quello che era prima. Il medico si batterà contro la malattia e il “paziente” si aspetterà la restitutio ad integrum, il ritorno a come era prima di ammalarsi. In tutto questo la persona ammalata sembra quasi non esserci, è sullo sfondo; qualche volta, se non segue alla lettera le prescrizioni è addirittura un ostacolo che s’interpone tra il medico e la malattia. Anche negli slogans il paziente non c’è quasi mai. “Dobbiamo sconfiggere il cancro”, e quindi ancora una volta viene evocata la lotta tra il medico-salvatore e la malattia che uccide.
Da una corretta (e talora tempestiva) diagnosi dipende spesso la vita del paziente e comunque sempre la sua salute (intesa in senso medico e riduttivo come assenza di malattia). E da una corretta diagnosi scaturiscono altri due elementi importantissimi: la prognosi e la terapia, come ancora una volta insegnò Ippocrate:
“una ferita della vescica, cervello, cuore, diaframma e parte dell’intestino tenue, ventre, o fegato è mortale”
“coloro che sopravvivono all’angina, se la malattia si sposta ai polmoni, muoiono entro sette giorni, o se sopravvivono si forma un empiema”
“in caso di dolore agli occhi, dare a bere vino puro, bagnare con molta acqua calda e salassare”
(IPPOCRATE, OP.CIT.)
Prognosi: dal greco prò prima e gnosis conoscenza. La prognosi è quindi la pre-visione dell’andamento della malattia.
Non solo il medico è un operatore capace di sconfiggere la malattia ma è anche un tecnico che è capace di dire come andrà a finire la storia. Grazie alle sue conoscenze e abilità – diagnostiche – il medico conosce già l’esito della malattia che verrà definito eufemisticamente fausto o infausto. Ovviamente una diagnosi esatta condurrà ad una terapia efficace (si spera), perché calibrata su quella particolare malattia. In presenza di una febbre di origine virale, poniamo un’influenza, non occorrerà somministrare antibiotici (in quanto inefficaci sui virus) mentre bisognerà prescriverne in una febbre di origine batterica (poniamo una bronchite). Ma attenzione: l’antibiotico dovrà essere prescritto possibilmente sulla scorta di un antibiogramma (un’ulteriore e più fine diagnosi) che definirà il tipo di batterio responsabile dell’infezione. Infatti non basta somministrare un antibiotico qualsiasi, ma l’antibiotico giusto, altrimenti anche l’antibiotico potrebbe essere inutile e il paziente subire gravi conseguenze.
La medicina scientifica è dunque priva di possibilità terapeutiche senza diagnosi. Non solo, ma allo stato attuale, la medicina è proiettata verso traguardi diagnostici sempre più arditi per porre in essere terapie maggiormente mirate ed efficaci. In questo contesto il paziente è sempre più lontano e sempre più sullo sfondo. Egli stesso spettatore di quanto gli succede.
Il successo della tecnica diagnostica inventata 2300 anni fa da Ippocrate, è stato talmente grande che ha oltrepassato i confini della medicina per diventare trasversale a molte discipline e ad un modo di pensare ormai diffuso anche alle relazioni umane condizionandole con forza ed ancorandosi al pregiudizio che così assurge a forza scientifica.
Clamoroso il caso di Cesare Lombroso, medico positivista riconosciuto come pioniere della criminologia, che, nella seconda metà dell’800 propose e sviluppò un metodo “scientifico” per riconoscere con un solo colpo d’occhio, scrutando il volto del soggetto, l’anima criminale che si nascondeva in quel corpo!
La diagnosi si è impadronita prepotentemente anche della psicologia scientifica, e forse non avrebbe potuto essere diversamente, visto che i corsi di laurea di Psicologia in Italia, fin dal primo dopoguerra, furono istituiti nell’ambito delle facoltà di Medicina o in quelle di Lettere e Filosofia (abbandonando ben presto questo alveo a seguito delle varie riforme e dell’istituzione della professione di psicologo). Negli ultimi quarant’anni la Psicologia ha trovato un’autonomia didattica che però è oggi pesantemente dominata dal recente sorprendente sviluppo del pensiero neuroscientifico fin troppo spesso utilizzato in modo pericolosamente errato. L’ampio insegnamento ed utilizzo delle tecniche psico-diagnostiche, attraverso la miriade di test che possono essere somministrati per pazienti di qualsiasi età e tipologia, è un esempio ben evidente di quanto la “necessità” di una diagnosi abbia ormai un consolidato diritto di domicilio nel bagaglio di nozioni dello psicologo sia nella sua formazione universitaria che post-universitaria.
Ma a questo punto occorre porsi una domanda: che uso si fa della diagnosi? Quali sono, e se ce ne sono, i suoi possibili “effetti collaterali”? Abbiamo visto che un medico senza diagnosi è come un soldato senza fucile. In medicina non è possibile non fare diagnosi. Ma in altri contesti l’uso della diagnosi, anche se fatto a fin di bene e nella maniera più seria possibile, è a dir poco inquietante. In alcuni casi la diagnosi diventa addirittura strumento di repressione politica. A questo proposito penso al bel film storico di M. Bellocchio “Vincere” in cui la giovane protagonista Ida Dalser, si professa non solo moglie del Duce ma addirittura madre di un bambino, Benito Albino, il cui padre è proprio Mussolini. Naturalmente, viene sottoposta a perizie psichiatriche, anche collegiali, e la diagnosi unanime (forse anche in parte in buona fede) emessa come una sentenza di tribunale da parte degli illustri psichiatri all’uopo convocati condannerà la povera Ida ad indossare la camicia di forza e rinchiusa per il resto della sua vita in un manicomio. Stessa diagnosi e stessa sorte toccarono a Benito Albino, colpevole di dichiararsi figlio del Duce!
In medicina quando si fa una diagnosi si dirà che quel tale paziente è affetto da un’ulcera, quell’altro ha l’influenza, quell’altro ancora ha un tumore, ecc. Espressioni che stanno a significare che la persona, che rimane tale, e che per un periodo più o meno lungo cambia il suo status in quello di paziente, “possiede” un qualcosa che davvero non vorrebbe avere e di cui deve/vuole sbarazzarsi al più presto.
In ambito psicologico e psichiatrico la diagnosi, invece, attribuisce ad una persona non uno status temporaneo di paziente che ha la malattia, ma una connotazione che sembra essere sentenza definitiva. Paradossalmente Giovanni ha gli occhi chiari, ma è schizofrenico. Sembrerebbe che questa seconda categoria, quella della schizofrenia, definisca meglio Giovanni più di quanto non facciano i suoi occhi chiari e magari i suoi capelli biondi. Schiere di persone si auto-diagnosticano, magari con l’aiuto del web o di un medico di base un tantino frettoloso – e quindi si auto-definiscono – depressi, ansiosi, fobici, ossessivi, ecc.
La diagnosi è dunque definitoria e definitiva. Cioè definisce una persona per quello che è e non per quello che ha. Una persona è fobica, non ha la fobia, è ossessiva, non ha l’ossessione….
Il medico e/o lo psicologo si pongono, da questa prospettiva, come coloro che attraverso la diagnosi agiscono una forma di potere immenso, forse senza nemmeno rendersi conto fino in fondo della potenza delle loro affermazioni. Forti della loro posizione “scientifica” essi determinano ciò che una persona é. E quella persona diventa, per il solo fatto di essere stata diagnosticata in un certo modo, un depresso, un fobico, un ansioso, un autistico…. Ma mentre nella medicina ufficiale, scientifica, fare diagnosi di polmonite o di influenza è di fondamentale importanza per instaurare una terapia adeguata, in psicologia non è detto che fare diagnosi di ansia o di depressione conduca ad una terapia univoca, condivisa ed efficace, sempre. La terapia della tubercolosi è una ed una soltanto, la terapia di una condizione socialmente diffusa definita ansia è estremamente variabile, sia dal punto di vista farmacologico, ma anche delle diverse psicoterapie che spaziano su un orizzonte estremamente ampio di cui non provo nemmeno a fare un breve elenco ma che comprende, al limite, anche la possibilità di un percorso di fede religiosa che ben si concilia con la meditazione così efficace nel contenere i sintomi.
Per bene che vada, qualche operatore più attento alle dinamiche relazionali col suo paziente potrà avere una particolare attenzione a quel particolare paziente depresso. Quel paziente è però pur sempre definito depresso, quel paziente è schizofrenico, quel paziente è autistico, e quindi non se ne esce.
Inoltre la diagnosi si pone come terzo tra l’operatore e la persona resa “paziente” proprio dalla diagnosi. Un muro che, una volta eretto, diventa difficile scavalcare. Lei, la diagnosi, è sempre lì: l’operatore che è costantemente tentato di definirla, ed il paziente che non aspetta altro che di sentirsi definito, dire che cos’ha (ma a questo punto, forse, sentirsi dire che cosa è). Però la diagnosi è utile sia per l’operatore sia per il paziente. L’operatore si sentirà rassicurato, avrà un appiglio forte, scientifico, validato da test sulla cui interpretazione non si discute. Anche un test proiettivo, forse il test più popolare nell’immaginario collettivo, il test di Rorschach, non si sottrae ad una stringente e puntuale analisi statistica delle risposte. Risposte, che, e qui il paradosso è proprio grande, devono essere quanto più libere possibile ed il paziente è invitato da chi somministra il test a sentirsi libero di fare associazioni, di capovolgere e ruotare la tavola, di non censurarsi… ma intanto vedere in una determinata tavola una locomotiva, un elefante, un serpente o due tizi che si baciano fa una differenza enorme. Saranno risposte banali o risposte che nascondono gravi alterazioni di personalità? La siglatura e la successiva analisi statistica, evidentemente rigorosissima e quindi “scientifica”, potranno esprimere una diagnosi. E si badi bene si parla di test dove la fantasia dovrebbe essere la protagonista e costituire la porta principale d’ingresso ad un approccio relazionale, non di test dove si tratta di mettere crocette su una serie di domande come nelle rubriche estive delle riviste da sfogliare sotto l’ombrellone o di test degni dei migliori risolutori di giochi enigmistici dai quali si evincerà, scientificamente, il livello di intelligenza o di abilità o di competenze e prassie raggiunte dalla persona che si sta testando. Alla fine di tutto il percorso diagnostico l’operatore saprà finalmente cosa fare (e cosa dire?) se avrà scoperto che la patologia è depressione o ansia, se saprà che quel bambino è autistico o, come impone una recente moda importata dall’altra sponda dell’Atlantico affetto dalla misteriosa sindrome ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) che autorizza i medici già dalla più tenera infanzia alla somministrazione di analoghi delle anfetamine.
Un altro aspetto non marginale della diagnosi in ambito psicologico è la “volatilità” della diagnosi stessa. Chi parlerebbe ancor oggi, con la stessa convinzione di J. Breur o di S. Freud, di isteria, magari descrivendone accuratamente i sintomi? E a quei tempi esistevano forse condizioni come la bulimia o l’anoressia? E ancora: come mai l’omosessualità era patologia schedata e ben definita (e quindi da curare!!) fino alla terza edizione del DSM e poi è scomparsa dalle successive edizioni? E perché la prima edizione del DSM edita dall’APA nel 1952, era un manualetto di poco più di un centinaio di pagine, mentre il DSM-5 che uscirà a marzo 2013 (da questa edizione in poi si abbandonerà l’utilizzo dei numeri romani sostituendoli con quelli arabi) ha una consistenza cinque volte maggiore?
La diagnosi in medicina, invece, è una diagnosi inalterata nei tempi. Le malattie che affliggono gli uomini vengono descritta nella Bibbia, nei Codici Babilonesi, in quelli dei Faraoni egiziani nello stesso modo da millenni. E se alcune malattie vengono dichiarate scomparse, come il vaiolo ad esempio, è perché è stato debellato il relativo agente patogeno (ma il virus del vaiolo è però ben conservato vivo e vegeto in provette che lo contengono in siti più sorvegliati dei caveaux delle banche). Certo la ricerca dello “schizococco”, il supposto agente patogeno della schizofrenia ricercato dagli scienziati positivisti di fine ‘800, non è stato mai individuato. Né esistono evidenti lesioni anatomo-patologiche nei cervelli di pazienti ansiosi, fobici, depressi o schizofrenici, come invece si osservano nei tessuti devastati da un cancro. Si invocheranno le neuroscienze a testimoniare delle alterazioni, biochimiche, evidenti solo con indagini estremamente sofisticate, ma anche questa prospettiva può essere opinabile e si potrà a lungo argomentare.
La diagnosi è come la coperta di Linus: rassicura, copre, riscalda. Una sorta di oggetto transizionale (al pari dell’utilizzo dei farmaci che chissà perché si chiamano psicofarmaci, mentre non esiste la categoria dei gastrofarmaci!!).
Come può un terapeuta sentirsi veramente libero (nella concezione di psicoterapia del Ruolo Terapeutico) di lavorare ed essere se stesso se ha una diagnosi in testa? Proprio le diagnosi costituiscono delle zavorre pesantissime. Si pensi a quanto spaventi, ad esempio, la diagnosi di psicosi. Sarò in grado di trattare quel paziente? E se mi aggredisce mentre sto da solo con lui?… ecc. Magari questi pensieri prenderebbero altra forma se quel paziente venisse da me senza diagnosi o se io stesso non ne facessi alcuna.
Ma la diagnosi è molto utile anche al paziente. Questi, infatti, troverà una risposta chiara e scientifica alla sua sofferenza: se è depresso non è più sua la responsabilità di stare meglio. C’è qualcosa di alterato nel suo cervello (meglio ancora se poi esiste un’alterazione genetica nel suo organismo: a quel punto lui e la sua responsabilità non c’entrano proprio nulla) e forse le medicine potranno guarirlo, cioè riportarlo a come era prima che diventasse depresso, e il suo psicologo/psicoterapeuta, sapranno dirgli come fare e cosa fare per stare meglio. Ma se attraverso un lavoro di psicoterapia si dovrebbe giungere ad un cambiamento (piccolo ma significativo, per dirla con Balint), non è contraddittoria l’aspettativa del paziente di tornare ad essere “come prima”? Ed il terapeuta che fa diagnosi (partendo dall’acquisizione di una realtà biologica) non collude in un certo senso con questa possibile fantasia? Ma pone anche un altro paradosso: se sei depresso e se il tuo problema è di origine biochimica o genetica come farai a tornare come prima o a cambiare? Basta invocare la plasticità del cervello? Non credo! Altrimenti devo dar ragione ad una mia paziente afflitta da alcuni decenni da una lacerante sofferenza e dalla paura della morte, che quasi mi implorava di farle il “lavaggio del cervello”…. La diagnosi dichiara il fallimento stesso dell’idea di psicoterapia (almeno secondo la Teoria del Ruolo Terapeutico)!
Non di rado le persone sono in cerca di un’identità e, fosse anche un’identità malata, è pur sempre un’identità. Ricordo di una mia paziente poco più che quarantenne, intelligente e attenta, ben disposta all’introspezione e alla riflessione che parlava di se stessa definendosi fobica. La sua diagnosi di fobia, fatta da un illustre psichiatra cattedratico di Bari, le stava a pennello come uno dei suoi attillati abiti che era solita indossare. E la sua diagnosi la faceva addirittura sentire appartenente ad una sorta di club esclusivo, quando non senza una punta di sottile compiacimento (o almeno questo mi sembrava di cogliere) affermava: “Perché come sa, dottore, noi fobici non possiamo….”. C’è voluto molto tempo perché si convincesse del mio strano modo di lavorare: le proponevo di lasciare sullo sfondo i suoi sintomi, che in maniera molto dettagliata tentava di descrivermi ogni volta (e se no come avrei potuto fare a confermare la “diagnosi”: più il paziente è bravo a descrivere i suoi sintomi, più il medico avrà elementi/indizi utili per fare la diagnosi giusta), per far emergere lei come persona, come donna, e quindi i suoi sentimenti, le sue emozioni, i suoi pensieri, i sogni le paure (non le fobie!!).
Mantenere questa posizione, per me fondamentale, strutturale essa stessa, non è semplice e non viene quasi mai immediatamente compresa dalla persona sofferente che chiede aiuto. E questo è comprensibile in quanto quella persona è espressione del momento socio-culturale del nostro tempo che privilegia risposte precise, nette, scientifiche (e la diagnosi va in questa direzione) da cui consegue un agire altrettanto efficace e rapido, scevro dalle lungaggini dell’introspezione e della ricerca interiore per tentare di ricostruire la propria storia sotto una luce diversa. Meno comprensibile è invece la posizione di quei colleghi che, pur dichiarando lo stesso modo di pensare circa la centralità della Persona, hanno un atteggiamento ambivalente verso la diagnosi o ne affermano palesemente l’utilità (pur con tanti distinguo, precisazioni ed eccezioni).
Mi sembra un atteggiamento contraddittorio che nasconde qualcos’altro. Forse si è stati abituati per troppo tempo a pensare e parlare in termini di diagnosi. Un po’ come chi pur ormai avendo imparato a nuotare, non riesce ad abbandonare il salvagente. Forse si teme di uscire dalla comunità “scientifica” psicoterapeutica e psicoanalitica paventando isolamento ed ostracismo se non addirittura derisione. Forse l’utilizzo della diagnosi può essere rassicurante e, quando non si sa a che santo votarsi, ecco che la diagnosi viene in aiuto collocando la persona-paziente in una casella ben definita, dando una spiegazione alla difficoltà di procedere di quella relazione terapeutica.
Il Ruolo Terapeutico “rifiuta l’insegnamento mistificante di teorie che pretendano di spiegare ciò che avviene nella mente umana, e mette in evidenza, quali dati insegnabili, gli elementi costitutivi delle relazioni d’aiuto (principi, ruoli). Ciò fornisce all’operatore non l’apprendimento di teorie oggettivanti, ma la conoscenza di sé e del suo modo di ricevere e rispondere alla domanda d’aiuto del paziente”. Da questa prospettiva anche la diagnosi è mistificante proprio perché è oggettivante, e pretende di spiegare cosa e perché accade nella mente di una Persona e quindi è in netta, totale, palese, contraddizione con i principi della Teoria del Ruolo. L’orientamento di questi ultimi anni (almeno una decina) del Ruolo Terapeutico è ben evidente. La centralità della Persona nella relazione terapeutica coinvolge profondissimi aspetti etici e filosofici. Il Ruolo si sta interrogando (non senza le ben comprensibili difficoltà dovute anche alla meravigliosa pluralità di voci che lo costituiscono) sull’essenza della Persona come essere relazionale. Si sta interrogando su quella quota di mistero che è caratterizzante per ognuno di noi, respingendo una possibilità che sia solo assurdamente e riduzionisticamente biologica. E la diagnosi è inevitabilmente riduzionistica. Altrimenti come si spiegherebbero i contributi proposti da persone di altissimo spessore come Pietro Barcellona, Luciano Manicardi, Roberto Mancini, tanto per citarne qualcuno? Cos’ha a che fare la riflessione di costoro con la diagnosi? E come si colloca il suggerimento della lettura, ad esempio, di un Florenskij nella formazione dei terapeuti del Ruolo? E poi, quale sarebbe il posto della diagnosi nella relazione con la persona sofferente? Sarebbe inevitabilmente un dato strutturale! E non si può nemmeno giocare con le parole, arrampicandosi sugli specchi, distorcendone il significato semantico per adattarle ai propri bisogni: diagnosi è sì “conoscere attraverso”, ma è conoscere attraverso i segni e i sintomi. E quando si parla di diagnosi si vuole alludere sempre alla diagnosi clinica anche se annacquata dalla distorsione semantica dell’etimologia. L’unica possibilità che ho di “conoscere attraverso” è che posso conoscere una Persona (Tutta. Nella sua interezza) attraverso la relazione che quella persona ha con me e viceversa quella persona conoscerà me terapeuta-persona attraverso la nostra relazione, e allora perché chiamarla diagnosi?
Il tema della diagnosi, pertanto, alla luce della Teoria del Ruolo non sarebbe un argomento trattabile. Non sarebbe nemmeno un argomento! Il Ruolo Terapeutico ha fatto ad esempio, sin dall’inizio, la scelta di non prescrivere preliminarmente ed obbligatoriamente l’analisi ai propri allievi. Questo è un elemento costitutivo della Teoria del Ruolo, per cui non se ne parla. Non è nemmeno un argomento!
D’altra parte uno dei più efficaci punti di forza, e direi dei più caratterizzanti e nobili (nell’accezione più ampia del termine) del Ruolo è quello di considerare capaci di trattare condizioni di sofferenza psicologica non psicologi e non medici. Se così non fosse perché i gruppi di formazione e di supervisione dovrebbero essere aperti ad assistenti sociali, infermieri, insegnanti, educatori….? Queste categorie hanno forse il bagaglio tecnico e culturale per fare il benché minimo straccio di diagnosi? E la loro “conoscenza attraverso” non è forse esclusivamente un conoscere quella persona attraverso quella relazione? Queste categorie, non sono forse capaci di lavorare in maniera più che valida, senza diagnosi? O esistono terapeuti di serie A capaci di fare diagnosi e terapeuti di serie B che non ne sono capaci?
Se tutto questo è vero, com’è vero, io sento che devo, con coraggio, fare una scelta. Io incontro una Persona che a vario titolo e con varie modalità, tutte sue, soffre. (Anche il termine paziente, ormai ineliminabile dal nostro lessico, è connotante: se c’è un paziente c’è una malattia). Alle persone che si rivolgono a me sono solito dire fin dai primi colloqui che mi occupo di sofferenze e non di malattie, né di sintomi. Sulla base dell’incontro, dell’osservazione, della riflessione sulla e per mezzo della relazione, si dipana una storia unica e irripetibile. Posso avere dieci persone, cento, mille persone “ansiose” ma ognuna starà esprimendo il suo star male a modo suo, magari con qualche sintomo inserito nel prossimo DSM.
Incontrare Persone che soffrono, non pazienti malati, è cosa ben diversa. Anche la persona che sta malissimo ha la dignità di essere incontrata per quello che è: appunto una persona che soffre.
Durante la conduzione di un gruppo clinico del sabato della Scuola, una giovane collega del primo anno parla di una situazione che le crea difficoltà. Si tratta del suo lavoro alle dipendenze di una cooperativa che si occupa di pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica. L’allieva espone non senza emozione, in un clima di gruppo caldo e accogliente, la sua difficoltà a stare con un paziente poco più che trentenne, completamente paralizzato, tracheostomizzato, che respira attraverso un respiratore artificiale e che comunica col movimento degli occhi tramite lo schermo di un computer progettato ad hoc. Bene. Cosa fa quella volenterosa collega al capezzale di quello sventurato? Probabilmente quel paziente sarà “depresso”. E’ possibile in quelle condizioni. Ma il punto è un altro. Dopo aver lavorato sulla definizione di una struttura, di un setting anche in quelle condizioni estreme, rimane tutta la parte processuale che appare intensa e grondante di emozioni che coinvolgono il gruppo che si commuove. Si pensa alla possibilità di “esserci” della collega col paziente, anche incrociando il suo sguardo, o tenendogli una mano. Comunicazione non verbale, ma sicuramente comunicazione. Il paziente racconta, come può, alla terapeuta di una storia affettiva prima di ammalarsi: era innamorato di una ragazza che ormai, da quando si è ammalato, non c’è più nella sua vita. Il paziente è solo, imprigionato in un corpo che l’ha tradito, ma la terapeuta c’è, a differenza della ragazza che non c’è più, e questa è un’esperienza insostituibile e ineguagliabile, di per se stessa terapeutica.
Ecco, io voglio incontrare Persone e le loro sofferenze indipendentemente da che nome abbiano queste sofferenze. Io non faccio diagnosi, non mi serve per incontrare quelle sofferenze. Io faccio un’altra cosa, anche se ci vuole coraggio a dirlo.
Non si tratta di buttare il bambino con l’acqua sporca. Io faccio un’altra cosa: al bambino faccio fare la doccia. Con l’acqua calda!

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