Caratteristiche personali e identità dell’analista

Caratteristiche personali e identità dell’analista

di Gabriella Mariotti

Diventare psicoanalista richiede una lunga e impegnativa formazione, imprescindibile per poter gestire con adeguata capacità le profonde implicazioni che comporta la relazione terapeutica con i pazienti.

Come sappiamo, tale formazione va ben oltre la preparazione teorica, peraltro necessaria, e si basa sostanzialmente su alcune caratteristiche specifiche che riguardano il rapporto tra l’analista e il proprio mondo interno: “l’interdipendenza tra formazione e sviluppo psichico” è testimoniata infatti dalla necessità di una “continua elaborazione dell’esperienza, mirata a sviluppare una buona competenza della consapevolezza e dell’autoanalisi” (Fina 2019, p.150).

Per questo, l’analisi personale/didattica è francamente l’elemento fondante per poter esercitare la psicoanalisi e la psicoterapia. È in questa esperienza che si articola la capacità di conoscere se stessi, gestire e maneggiare le proprie emozioni, aprire la mente alle significazioni possibili degli enunciati e del non detto.

È in questa esperienza che si deposita la fiducia nel metodo, fiducia che sosterrà l’analista e lo psicoterapeuta nei passaggi più difficili o frustranti del suo lavoro. È in questa esperienza che si sviluppa la cosiddetta sensibilità analitica e l’affinamento della capacità di sentire “visceralmente” i momenti vivi di una seduta.

Padroneggiare il proprio mondo interno e il ventaglio reattivo che si origina nell’incontro con i pazienti mette al riparo dal rischio di ciò che Davide Lopez (1992) indicava come reazioni personalistiche, quelle reazioni cioè che si collocano nel novero delle risposte soggettivamente idiosincratiche, e rende al contrario possibile mantenere simultaneamente il contatto con sè, quello con il paziente e la posizione terza equidistante, rende cioè possibile declinare il proprio vissuto soggettivo in funzione dell’interesse della relazione terapeutica (Mariotti 2019).

Appare evidente che le dinamiche transfert-controtransfert e quelle relative all’incontro più liberamente personale tra paziente e analista, possono esprimersi adeguatamente e terapeuticamente solo se l’analista sa ascoltare i movimenti di entrambi i membri della coppia terapeutica, ascoltare nel senso di accogliere, risuonare e tradurne il senso profondo, progettuale e ovviamente relazionale. Tutto ciò implica il lasciarsene modificare, come scrive Mitchell (1993), e questo espone l’analista ad una ulteriore “prova”: la solidità armoniosa del sé è necessaria per poter accettare di sentire che il proprio stato d’animo cambierà nel corso della seduta, e che tali cambiamenti sono tra le chiavi più importanti per comprendere ciò che sta accadendo nel qui e ora dell’incontro.

Il costante modificarsi degli assetti relazionali e l’attenzione a questi ultimi implica un buon rapporto con il proprio preconscio, quella funzione straordinaria che permette di “intuire”, cogliere e organizzare i significati sottesi alla comunicazione verbale e soprattutto non verbale. Per lungo tempo, il pensiero preconscio è rimasto un “concetto ombra, sempre che sia stato preso in considerazione” (Bush 2015, p. 441), pur essendo una funzione che ogni psicoanalista sperimenta e alla quale fa, più o meno consapevolmente,

ricorso, concetto che invece ha trovato ampia sistematizzazione nella teorizzazione della clinica psicoanalitica soprattutto per merito di Davide Lopez (1983) che ne ha fatto il centro e la base della consapevolezza terapeutica, ma anche, per citare solo alcuni autori, di Agostino Racalbuto (2005), che gli attribuisce una funzione trasformativa, di Stefano Bolognini (2018), che ne sottolinea la funzione euristica e creativa, di Carlo Zucca (2016), che anche recentemente ha sottolineato come la povertà del preconscio generi regressione, debolezza del sé e mancanza di pensiero personale e critico, e per merito altresì di altri psicoanalisti, in particolare di coloro che si riconoscono nell’approccio clinico-teorico rappresentato da Polaris.

La centralità della funzione preconscia, peraltro, è condivisa ed esplicitamente affermata ad esempio anche da Kernberg (2016) che parla di intuizione come forma di rapida elaborazione delle componenti consce e preconsce, da Bush (2015,2016) che ne descrive l’importanza rispetto al timing, o da Mitchell (1993) che sottolinea come sia la bussola preconscia a guidare le scelte continue che costituiscono la partecipazione psicoanalitica.

Ecco un piccolo esempio di come lo psicoanalista può utilizzare questa bussola:
Franca arriva e mi saluta sorridente, come sempre. Ma per la prima volta avverto un lieve fastidio, come una sorta di nota stonata. Nel corso della seduta emergono riferimenti alla sua irritazione per le pressanti richieste sessuali del partner, tema peraltro ricorrente. Quando le faccio notare che, per quanto appunto la infastidiscano, ella vi si oppone raramente, risponde che non vuole ferirlo o farlo arrabbiare. La mia mente, o per meglio dire il mio preconscio, recupera il lieve fastidio che avevo provato aprendole la porta: sorridere per non far arrabbiare, ecco la nota falsa. Le chiedo se oggi fosse stata disturbata da qualcosa rispetto al venire in seduta, a fatica mi risponde che non aveva avuto voglia di venire, contrariamente al solito. Passando attraverso il suo timore di ferirmi confessando la fatica di venire (collegata al timore che anch’io, come il partner, mi aspettassi troppo da lei) si apre la via per l’analisi del suo falso sé, sorridente e disponibile, posto al servizio di un disperato bisogno di ingraziarsi l’altro, cercando di riparare il trauma di un padre che l’aveva abbandonata e di un patrigno da, appunto, “ingraziarsi”.

Sorridere e manifestare sempre una disposizione d’animo positiva era la sua difesa, utile a ben disporre a sua volta l’altro nei suoi confronti e a nascondere i sentimenti negativi che avrebbero potuto rivelare la sua fragilità e la sua rabbia.

Ciò che ha rappresentato un giro di boa non è stata soltanto l’analisi delle sue difese, bensì il fatto che siano state agite e riconosciute nel qui e ora della seduta, nella relazione con me, il fatto cioè che quella “sensazione” provata aprendo la porta alla paziente sia rimasta disponibile nella mia mente per un utilizzo connettivo e costruttivo. Ma perché ciò possa accadere, è necessario che vi sia, nell’analista, la disposizione ad accogliere i suggerimenti del preconscio in modo libero e al contempo riflessivamente autoanalitico, ad accogliere dunque i sottili movimenti sottesi alla verbalizzazione, i segnali subliminali che accompagnano le più svariate evidenze, i messaggi veicolati dal corpo e soprattutto quelli che ineriscono le modificazioni del clima relazionale.

Una mente vuota e al contempo pienamente consapevole di chi sia la persona che giace sul lettino, una memoria aperta a ritrovare, senza alcuno sforzo, collegamenti con elementi apparsi magari anni prima, una disposizione a focalizzare il nucleo sano del paziente più che a limitarsi ad interrogarne le difese, una capacità di correlare e integrare la sua storia con le attuali distorsioni caratteriali, una mente in definitiva capace di stare in ascolto del preconscio e di vagliarne attentamente i messaggi alla luce della consapevolezza.
Stare in ascolto del paziente e di sé, come sa ogni psicoanalista, è quindi faccenda piuttosto impegnativa poiché bisogna che l’attenzione sia fluttuante e al contempo, al momento giusto, capace

di concentrazione e approfondimento. In questo senso, e non solo, appare chiaro come la posizione analitica del terapeuta sia, come scriveva Zucconi (1982), una posizione che, per quanto molte ore della nostra giornata trascorrano in poltrona, non è decisamente adatta ai sedentari della psiche. Diventiamo, nella funzione attoriale del transfert, ciò che il paziente ha bisogno che siamo per poter ripetere, riparare, sperimentare. Nella stessa giornata saremo un oggetto ideale, un nemico implacabile, una madre amorevole, una fidanzata perfetta, un padre persecutorio, un oggetto d’amore omosessuale e quant’altro. Eppure, rimarremo noi stessi, con il nostro stile e le nostre inimitabili peculiarità. Non ci trasformeremo in un mutacico Moloch e neppure lasceremo che i nostri personalismi invadano l’area della relazione, che siano sotto forma di rêverie incontrollate o sotto forma di inconsapevoli enactment. È in questo equilibrio mai statico che si crea lo spazio analitico, che la dinamica relazionale prende vita e si offre alla possibile ri-scrittura.

Tutto ciò prescinde dalla personalità dell’analista? Ovviamente no, visto che lo stile personale del terapeuta è intrecciato alla sua autenticità: l’autenticità, ben lungi da quel labile confine che non separa spontaneità e impulsività, implica il mettersi in gioco consapevolmente, ascoltando e riflettendo sui sentimenti che il paziente ci genera, interrogandoci su quanto ci appartengano soggettivisticamente e quanto relazionalmente. Ma pur attenti a tutto ciò, peraltro base ineludibile di una buona posizione analitica, pur preparati dall’analisi personale e da quella didattica, pur “confrontati” con le necessarie supervisioni, ritengo che vi siano caratteristiche personali che quantomeno facilitano il lavoro dell’analista, che glielo rendono piacevole e gli consentono di stare seduto per molte ore al giorno ad ascoltare le vite degli altri, che rendono cioè “confortevole” la nostra identità professionale (Eisold 2015).

Mi sono lungamente soffermata sul ruolo del preconscio proprio per questo motivo: intuitività e perspicacia sono altri modi per indicare la funzione del preconscio e molto dipendono dalla nostra disposizione personale a lasciarci stupire e talvolta destabilizzare nonché, come vedremo in seguito, ad avere confidenza con l’inesauribilità del nostro mondo interno. Non intendo dunque addentrarmi nelle caratteristiche professionali dell’analista al lavoro, quanto piuttosto occuparmi di alcuni aspetti della personalità, alcune propensioni e disposizioni personali che ci rendono particolarmente dotati di quella che Ferenczi definiva come attitudine psicoanalitica (in Balsamo, p.443) e che si intersecano e si accavallano con gli strumenti che si acquisiscono con la formazione e l’esperienza.

La prima di queste caratteristiche è la curiosità. Sono stata davvero colpita dal fatto che recentemente alcuni autori che hanno scritto a proposito delle caratteristiche del “buon analista” abbiano fatto riferimento alla curiosità (ad esempio, Kernberg 2016, Wulf-Volker Lindner 2016, Marzi 2017).

Non è però faccenda facile questa della curiosità, perché può scivolare facilmente nell’intrusione e nell’ossessione del particolare: perdersi nei dettagli, indagare il particolare proprio in quanto tale, sono tentazioni alle quali può essere facile cedere quando ci si trova in difficoltà, tentazioni che rappresentano talora sia una risposta difensiva alle situazioni in cui si ha l’impressione di non comprendere che cosa stia accadendo in seduta, sia una via di fuga da momenti troppo angosciosi (Mariotti 2018).

L’uso difensivo della curiosità è facilmente osservabile soprattutto in supervisione, quando una brusca regressione del paziente, o una sua reazione aggressiva, o comunque un moto imprevisto, appaiono inspiegabili. L’ansia di non comprendere, di sentirsi disorientati e senza parole, può spingere i giovani psicoterapeuti a cercare nel dettaglio eccessivo un appiglio per tornare in controllo della dinamica relazionale in atto o quantomeno per cambiare la direzione associativa e diluirne la tensione.

Inoltre, può verificarsi un’altra forma di curiosità “a rischio” perché, e questo è un lato affascinante del nostro mestiere, i pazienti ci conducono spesso in dimensioni di vita con le quali non entreremmo mai in contatto se non facessimo, appunto, i terapeuti, e che ci sono ignote: il corridore automobilistico, con gli avvenimenti che accadono ai box, l’economista, con le teorie opposte che regolano i mercati, il nobile, con le anacronistiche convinzioni famigliari, per fare qualche esempio, sono ovviamente comunque pazienti e le loro dinamiche interne e relazionali non li distinguono certo da tutti gli altri pazienti, ma tuttavia ci descrivono in modo diretto e vivo mondi che non conosciamo e che possono quindi divenire oggetto di un interesse curioso. Tutto bene, se tale interesse è funzionale alla relazione, se viene percepito da noi e dal paziente come qualcosa che fa parte del “prendersi cura” di lui e dunque anche delle sue appartenenze, ma assai meno bene se la fascinazione porta il terapeuta a lasciarsi sedurre dai propri moti magari invidiosi o narcisisticamente gratificati, o, come sottolinea Kernberg (2016), se lo porta a vivere vicariamente attraverso i pazienti.

Se parliamo di interesse e di curiosità dobbiamo chiederci anche se ci sia differenza tra i due termini e se sia lecito accomunarne i significati. Dal punto di vista etimologico, in realtà li vediamo convergere: un ponte (inter-esse) e un progetto attento (cura come radice del vocabolo curiosità). Avere cura, avere interesse di/per qualcosa o qualcuno sono in un certo senso sinonimi, e possiamo quindi sottrarre la curiosità al significato corrente, deformato nel senso negativo di invadenza irrispettosa. La curiosità di cui parlo invece in senso positivo ha a che vedere, appunto, con l’interesse per l’altro nello specifico e, più complessivamente, per il funzionamento della sua mente in senso soggettivo e nella dimensione relazionale, nonché con l’interesse per ciò che ci consente considerazioni teorico-cliniche più generali. È dunque una curiosità intrisa di profonda umanità (Ogden 2005), dal momento che l’apertura al dialogo dipende molto dalla curiosità che abbiamo nei confronti dell’altro, dell’estraneo e dei suoi pensieri (Wulf-Volker Lindner 2016), una curiosità dunque che ha da essere improntata alla sana gestione della cosiddetta pulsione epistemofilica.

Come giustamente suggerisce Balsamo (2017), questa particolare “disponibilità verso l’enigma” ha una ulteriore caratteristica: quella di porsi senza fare ricorso al già noto, alla rimozione o alla banalizzazione. Implica cioè la capacità di accettare di non comprender, subito e chiaramente, quanto sta accadendo, la capacità di restare sospesi e tollerare la frustrazione che ciò può comportare, anche in termini di crisi di assunti fondativi, certezze o personalistiche fissazioni.

L’interesse “curioso” per il mondo interno e relazionale del paziente è inoltre la base e lo stimolo affinché egli stesso possa provare analoghe spinte a cercare, accogliere e comprendere i propri moti interni. È un momento significativo in ogni analisi quello in cui il pz con tono meravigliato commenta l’interpretazione che correla un’affermazione, un tono di voce o un sentimento dichiarato, a qualcosa che è accaduto in seduta, qualcosa che a sua volta, col tempo, potrà essere ulteriormente collegato ad elementi significativi della sua storia. In questi frangenti la meraviglia del paziente rappresenta il primo segno di reazione alla donazione di senso e spesso ciò attiva anche in lui l’interesse curioso per le possibilità associative che si aprono alla sua mente. È talvolta, addirittura, la prima consapevolezza che esiste una mente e che essa può disvelare sia la sua presenza che i suoi contenuti. Ma tutto ciò può aver luogo soltanto quando nell’analista la peculiare curiosità nei confronti della realtà psichica si estende al funzionamento psichico dell’analista stesso.

L’ascolto e la disponibilità nei confronti dei propri moti interni è la base ineludibile per una buona, e dunque attenta e consapevole, analisi del controtransfert, cioè di quel cocktail composto da sofferenze indicibili e identificazioni proiettive da parte del paziente, reazioni personalistiche dell’analista, segnali relazionali reciproci e quant’altro. È talvolta proprio nell’analisi di controtransfert (non a caso, Kernberg (2016) ritiene che la capacità di autoanalisi sia l’indicatore più importante del consolidamento dell’identità dello psicoanalista) che l’analista “scopre” o ritrova aspetti di sé insospettati o rimossi, rigidità o dolore, ma anche tenerezza e capacità di sorridere di sé laddove nel passato c’era sofferenza o frustrazione. Ed è questa personale trasformazione che permea la seduta di speranza realistica, insita nella fiducia nel metodo analitico e nella possibilità che anche il paziente possa giungere alla medesima meta. A proposito di questa disponibilità-disposizione, ovviamente non circoscritta ai soli pazienti, Corbella (2018) racconta che, a seguito di alcune lezioni da lei condotte con studenti Coirag, una serie di tasselli della sua “vita personale e professionale improvvisamente e per la prima volta hanno acquisito un significato.

È stata, aggiunge “una esperienza perturbante, inaspettata, ma anche bellissima e profondamente arricchente”, tant’è che conclude con il riferimento “alla magia e alla ricchezza della nostra professione”: “uno degli elementi affascinanti della psicoanalisi consiste” infatti “nella sua quasi unica capacità di riaprire giochi costitutivi” (Bolognini 2018), sia per il paziente che per l’analista.

Se però l’analista non è a sua volta “curioso”, se non riesce a trovare qualcosa che gli susciti “interesse” a comprendere, più che a capire, e ad approfondire i propri stessi moti psichici, se non è disposto ad accogliere il perturbante, allora non solo può confondersi su e con quanto sta accadendo in seduta, ma altresì si espone al venir meno di un secondo, non per importanza, elemento che facilita la vita professionale (e non) dell’analista: la passione. Anche questa parola ricorre frequentemente negli scritti di autori che si sono occupati dell’identità dell’analista (ad es. Mitchell 1993, Bush 2015, Kernberg 2016, Russo 2017, Anastasia 2014): la passione colora la curiosità di una spinta, di una energia che attiva la mente dell’analista e lo sostiene anche in momenti di noia o di confusione. La capacità di appassionarsi al proprio lavoro non è certo caratteristica peculiare dell’analista, poiché attiene a qualsiasi dimensione professionale di qualsivoglia tipo.

Ma per l’analista, la passione spinge ad approfondire, a studiare, a scrivere, a riflettere con continuità, continuità che, questa sì, è a mio parere una caratteristica che ci riguarda specificatamente dal momento che, come sappiamo, “dimorare nell’attitudine dello spirito analitico non è obiettivo raggiunto una volta per tutte. È piuttosto un conflitto e una sfida permanente per mantenere questa posizione, minacciata tanto dai pazienti quanto da noi stessi” (Erlich-Ginor, 2016, p.47): nella nostra professione infatti, la competenza, per intenderci, non è intessuta soltanto di sapere teorico ed esperienza, ma di una profonda e il più possibile serena apertura alla comprensione dell’altro da sé e alle risonanze che ci ingenera, prima fra tutte lo “sconosciuto”, il perturbante appunto, che è in noi. E questo richiede davvero una buona dose di costante e appassionata curiosità, utile soprattutto a non dare nulla per scontato e ad accogliere sentimenti ed emozioni che albergano in noi sorprendendoci e alterando la nostra stessa abituale autorappresentazione.

Molto dunque si può apprendere nel corso della formazione al mestiere dell’analista, ma se distinguiamo con Ferenczi tra “competenza psicoanalitica” e “attitudine psicoanalitica” (in Balsamo, p. 443), allora possiamo comprendere come passione e curiosità, intese nei modi che ho descritto, non siano aspetti che rientrano tout court nell’apprendimento: la disposizione interna verso ciò che Balsamo definisce “l’enigma”, in questo caso il mondo interno, è una caratteristica personale (per quanto affinata dall’analisi) che senza dubbio aiuta l’analista e gli facilita il tollerare i nodi relazionali angosciosi o/e frustranti che ogni trattamento, prima o poi, presenta.

Ho però parlato anche di “giusta distanza”, e in primo luogo mi riferisco non tanto a quella modulazione che percorre l’intera relazione analitica, quella sensibilità preconscia che in un certo senso si intreccia con la capacità di empatizzare e che consente di sentire quando la relazione necessita di calore e vicinanza e quando di separatezza e, appunto, distanza, bensì mi riferisco alla “giusta distanza” dalla psicoanalisi stessa. Se Kernberg (2016), a questo proposito, giustamente sottolinea come confinarsi nella sola pratica clinica della psicoanalisi possa chiudere possibilità terapeutiche e mentali che sono invece stimolate dall’ingaggiarsi nell’approccio psicoterapeutico, nelle terapie dei conflitti coniugali o dei fenomeni gruppali, ancora più interessante è il riferimento che fa al campo extra analitico come elemento che permette di mantenere un contatto attivo e arricchente con la vita, fattore questo che Ogden amplia ulteriormente nell’ affermare l’importanza di essere responsivi e ricettivi anche nei confronti di ciò che sta succedendo nel mondo esterno. L’attenzione al cosiddetto mondo esterno (in realtà molto introiettato come ambiente inevitabilmente influenzante) (Mariotti, 2019) ci aiuta a mantenere lucidamente la barra di ciò che accade a noi e al nostro paziente sulla spinta degli avvenimenti sociali, culturali, economici, evitando di arroccarci nello “splendido isolamento”, al quale per tanto tempo si è orientata la psicoanalisi e che ormai appare concetto piuttosto obsoleto (Mariotti 2012, Fina, Mariotti 2019).

Ciò vale ancor di più per chi si avvia alla nostra professione, dal momento che gli sconvolgimenti identitari della contemporaneità spingono verso due scorciatoie: la prima consiste nell’abbandonarsi a una sorta di improvvisazione libera, in realtà impulsiva e insofferente alle regole fondamentali del setting, spesso venata dall’onnipotenza di chi pensa di poter fare questo lavoro senza sottoporsi a un’analisi rigorosa, e la seconda consiste all’opposto nell’abbarbicarsi all’identità professionale come ancoraggio rigido ed esaustivo rispetto alle crisi di appartenenza (Fina, Mariotti 2019). Che cosa determini la scelta di non percorrere nessuna delle due scorciatoie o di percorrerne l’una o l’altra, è qualcosa di assolutamente soggettivo, dettato dalla propria storia, dalle proprie paure e non ultimo dalle proprie problematiche narcisistiche più o meno risolte.

Appare evidente quindi che, se consideriamo la “partecipazione al mondo” (e la sua influenza su di noi) sia alla luce di un arricchente contatto con la vita sia alla luce di suggestioni inconsce vincolanti, dobbiamo altresì considerarlo come fattore che ci implica soggettivamente e dobbiamo quindi entrare nel merito anche di aspetti personali dell’analista, aspetti, intendo, della sua vita personale.

Come appare sempre più evidente, infatti, tali aspetti, “legati alla struttura profonda dell’analista, si intrecciano con l’idoneità psicoanalitica, dal momento che lavoriamo con il nostro assetto emotivo e mentale” e quindi “non dovrebbe sussistere una rigida separazione tra aspetti personologici e competenza psicoanalitica” (Fiorentini 2015, p.360). Senza confondere l’inevitabile e irriducibile soggettività dell’analista con il pregiudizio soggettivo (Eagle 2011, p. 226), dobbiamo affrontare, a questo proposito, una questione piuttosto spinosa: la soggettività, appunto, dell’analista. Poiché non è questa la sede per approfondire una tematica così centrale e ampia, mi limito a sottolineare che, se è vero che nel nostro lavoro è basilare la capacità di percepire e ospitare dentro di noi l’estraneo, quindi il “farci concavi” (Bolognini, in Foresti 2017), è basilare lasciar andare certezze rassicuranti e svuotare la propria mente da ancoraggi teorici difensivi e da convinzioni personali che potrebbero impedire la sospensione del giudizio nei confronti del paziente, è basilare “liberarsi dunque da una conoscenza compulsiva e da un controllo vincolante” (Mitchell 1993), se è basilare altresì “accettare il parziale lutto della propria persona affinché il paziente possa scoprire e riconoscere i suoi interlocutori interni” (Chianese 2003,p. 29), d’altro canto, è altrettanto vero che non pare tout court condivisibile l’affermazione che “la psicologia della persona dell’analista è bene sia messa tra parentesi nel lavoro analitico” (Russo 2017).

Personalmente, ritengo che ciò non sia possibile e che nel nostro lavoro ciascun analista metta in atto una sintesi personale di modelli e concetti, una propria appartenenza alla comunità psicoterapeutica e/o psicoanalitica prescelta, un riferimento alla sua cittadinanza teorico-clinica “condita con la sua esperienza di vita, le sue dinamiche interne e il suo carattere” (Mitchell 1993, p.173). Poiché “l’identità professionale dell’analista dipende in definitiva dal funzionamento della sua identità personale” (Foresti 2017, p.397) penso quindi che tale identità personale debba essere ben utilizzata, cioè che debba essere flessibile e al contempo baricentrata su un nucleo sano e costitutivo del sé, aperta dunque al nuovo, all’estraneo, all’altro, all’autoanalisi, in modo duttile e resiliente, permeabile e solido.

La soggettività dell’analista è quindi in “libertà vigilata”, contenuta consapevolmente e al contempo ineludibilmente presente. Ed è proprio in questa presenza ineludibile che troviamo l’aspetto più spinoso, perché entriamo nel merito della storia dell’analista, di come abbia vissuto la sua analisi personale/didattica e le sue supervisioni e, last but not least, anche nel merito della sua vita privata. “Il metodo analitico”, infatti, “si incarna in uno stile, un essere, in un corpo, in una storia, in una vita”, “ciò che permette a questa procedura di essere ogni volta singolare” (Balsamo, p.442), di comprendere, come scrisse Winnicott, “nel mio modo” (in Balsamo, p.443) ciò che accade in seduta: l’identità (lo stile) dell’analista è dunque “il filtro vivente, personale, necessario”, attraverso cui si definisce l’impersonale del dispositivo analitico (Balsamo, p.443).

“Nel mio modo” implica anche una certa inclinazione all’esercizio dello spirito critico, necessario ad elaborare in modo personale l’eredità dei padri e delle madri, e a non ideologizzare le acquisizioni teorico-cliniche che via via si presentano sulla scena della riflessione psicoanalitica, a non farne reificazioni feticistiche quanto piuttosto a rapportarvisi con “rispettoso disincanto” (Bolognini 2013).“Nel mio modo” sfiora quindi qualcosa di irripetibilmente personale, qualcosa che ha a che fare con idoneità e attitudine psicoanalitiche, aspetti questi che integrano, supportano e arricchiscono la competenza, ma contemporaneamente ne superano i confini e dipendono molto dalla personalità dell’analista stesso e dalla sua storia personale. Ecco dunque che torniamo a quelle caratteristiche soggettive che, ammesso che non ne costituiscano parte integrante, quantomeno aiutano l’analista nella sua pratica clinica.

Oltre alla curiosità verso il mondo interno proprio e dell’altro, oltre alla passione, oltre a una funzionale distanza dalla psicoanalisi stessa (che peraltro serve anche a bilanciare eventuali eccessi di passione) e a un equilibrato spirito critico (che peraltro modula e include il proprio modello di riferimento), oltre all’interesse verso il mondo fuori dalla stanza d’analisi, vanno annoverate anche una vita privata piacevole, relazioni professionali soddisfacenti e stimolanti (il terzo professionale di Eisold, 2015), interessi diffusi verso temi che non necessariamente siano di pertinenza analitica: penso che queste siano importanti componenti dell’equilibrio psichico necessario ad affrontare il nostro piuttosto impegnativo lavoro.

Ovviamente, non intendo pensare alla vita dell’analista come a un roseo e sempre sereno percorso, penso però che il piacere e lo spazio per altro dalla psicoanalisi siano ingredienti che vanno ricercati e coltivati, vissuti con partecipazione, al di là delle inevitabili sofferenze alle quali la vita, nostra come quella di chiunque altro, ci espone. In definitiva, non va dimenticato che anche la mente e il mondo interno dell’analista hanno bisogno di manutenzione, sia all’interno di un gruppo di colleghi (Berlincioni et al., 2018), sia in senso più complessivo: le attività “più ampie (sublimatorie e creative), professionali e personali, ci allontanano dall’immediatezza della relazione terapeutica per trovare un momento di ristoro, vivificati da qualcosa che va oltre il rapporto con il paziente” (Caldwell 2017, p. 763). Il rischio che l’impegno emotivo di disponibilità che viene richiesto dalla cura dei pazienti esaurisca le nostre energie non è infatti rischio da sottovalutarsi, sicchè può accadere che alla propria vita privata, alle relazioni e alle attività che la abitano, si dedichi meno apertura e partecipazione rispetto a quelle che si dedicano ai nostri pazienti, utilizzandole più che altro come una sorta di ricarica energetica per il giorno dopo.

Come possiamo comunicare ai pazienti il piacere della vita, se noi per primi non ne sappiamo godere?

Ho parlato del piacere in riferimento alla vita privata dell’analista, ma mi pare necessario pensare anche al piacere che percorre il nostro lavoro. Che cosa può spingere sanamente un’analista, in questo caso io stessa, a utilizzare molte ore delle proprie vacanze per scrivere un lavoro di psicoanalisi? Passione, curiosità, desiderio di condividere e confrontare il proprio pensiero con i colleghi, e ancor di più, piacere di articolare e comporre in modo armonioso le intuizioni che nel corso dell’attività professionale si sono presentate in modo magari sporadico, come lampi che hanno illuminato improvvisamente la mente ma che non hanno potuto trovare spazio di sistematizzazione e approfondimento. Marzi (2017, p.406) scrive che “le spinte inconsce profonde comuni a tutti gli psicoanalisti possono essere ricondotte a riparare, dare significato e trasformare”: senza addentrarmi nei significati che la scrittura rappresenta per l’analista e lo psicoterapeuta, mi pare però utile sottolinearne il valore proprio in relazione a ciò che indica Marzi. Dare significato al proprio stesso sentire e trasformare l’intuizione in pensiero organico, non è anche una forma di auto-riparazione, una forma di ritrovamento della propria identità elaborativa, un ritorno a sé in modo squisitamente personale? Non è forse anche un piacere tutto ciò? Pontalis, dopo una giornata di lavoro, usava mettersi a scrivere “per ritornare in sé”, per facilitare il ricomporsi della propria soggettività (in Balsamo 2017, p. 442), per “poter dire”, aggiungerei io, in modo più ampio e articolato sul piano della teoria di quanto sia lecito fare con i pazienti. Non c’è forse del piacere nell’armonizzare il proprio stile personale con il pensiero più condivisibile?

C’è del piacere dunque nello scrivere e quindi nel dedicare parte del proprio tempo di vacanza a questo, c’è del piacere anche nella relazione con i pazienti, non solo il piacere “alto” del condividere l’esperienza di una mente che si apre, del benessere che si fa strada, dell’emancipazione dai viluppi della sofferenza, ma c’è anche il piacere che spesso si verifica in un dialogo libero e intelligente, non raramente costellato da una certa dose di humor. Un buon senso dell’umorismo, come ha sottolineato Petrella (2018), è una qualità molto utile all’analista, sia per sé sia per la relazione terapeutica: più volte, mi è capitato di sottrarre un paziente all’involuzione identificatoria con la propria angoscia grazie a una “battuta” più lieve, a uno “scherzoso” che proponga un’alternativa alla fossilizzazione del trauma. Come “il buon riso della musica sembra presentarsi non come una droga euforizzante né come un sistema di negazione maniacale del dolore, ma come uno dei migliori antidoti al veleno dell’odio, dell’ira, della superbia, della rinuncia dolorosa e della vendetta” (Petrella,p.174), così la capacità di cogliere l’aspetto umoristico di certi irrigidimenti caratteriali salva talvolta l’analista dalla noia e dall’impazienza, salva il paziente dal compiacimento della sofferenza nobilitante, salva la relazione terapeutica dal ristagnare nel circolo vizioso della ripetizione senza sbocco: è, quello dello scherzo/gioco/umorismo, “un rimedio salutare, che merita di essere riconosciuto come tale, coltivato e conquistato, nella musica e nella vita”.

A questo proposito, vale la pena raccontare una vignetta clinica: Luigi è un uomo eterosessuale di quarant’anni che non aveva rapporti sessuali con una donna da sei anni, tema questo che lo aveva portato in analisi ma dal quale rifuggiva costantemente. A seguito di una lunga serie di sedute durante le quali più volte gli avevo mostrato come i suoi sogni e i suoi lapsus riportassero proprio alla riluttanza nei confronti delle donne (me inclusa) senza peraltro scalfire minimamente la sua litania di lamenti su tutt’altri argomenti, e dopo che per l’ennesima volta mi stava ribadendo che si sentiva senza scopo, gli dissi che più che altro mi sembrava senza “scòpo”, giocando sul doppio senso dei verbi “avere uno scopo” e “scopare” inteso in riferimento colloquiale all’attività sessuale.

Luigi tace per qualche secondo e poi scoppia a ridere (evento rarissimo), mi rimprovera affermando che un’analista non dovrebbe dire certe cose, ma che ho “assolutamente” ragione. L’attività sessuale e l’incontro con il femminile si sono spogliati in quel momento della coloritura cupa e terrifica della quale si erano ammantati. Ovviamente, ciò ha potuto avvenire grazie a ben altri fattori terapeutici, ma la mia battuta non ha avuto un ruolo del tutto secondario: dopo poco tempo, Luigi mi racconta che ha invitato a uscire una collega e che, mentre glielo proponeva, gli veniva da ridere perché pensava alla mia battuta. La collega, stupefatta, accettò l’invito dicendogli “ma allora sai anche ridere!”. L’incontro si concluse felicemente, coronando il suo scopo.

Luigi ha imparato a giocare, come direbbe Winnicott, anche grazie al fatto che un “gioco”, in questo caso di parole, si è reso possibile a partire dalla disponibilità della mia mente, e di quella del paziente, a cogliere gli aspetti vitali che venivano negati e a riaffermarli fuori “dall’abitudine dell’ordine quotidiano” (Petrella 2018), fuori dal rischio di uno stile stereotipato e spento della pratica clinica. In definitiva, non dobbiamo dimenticare, come ricorda Bush (2015), che “tutti abbiamo sentito parlare delle prospettive deprimenti della nostra professione: la professione impossibile, il dolore di essere analisti, la professione morente”, sottovalutando talvolta che invece la nostra è una professione di natura vitale, che implica essere vivi e umani dal momento che “ci sforziamo di restituire ai nostri pazienti quella componente indispensabile dell’essere umano…la loro mente…insieme con la libertà e la creatività che la accompagnano”, dal momento cioè che ci sforziamo di aiutarli a ”catturare la gioia di vivere”.

Infine, un’ulteriore caratteristica personale non pare da sottovalutarsi: la facilità a tollerare l’inattività fisica. Quando invitiamo un paziente a trovare la sua posizione sul lettino, in modo che possa sentirsi comodo e a proprio agio, siamo certi di saper fare la stessa cosa? Non è facile restare inattivi per molte ore al giorno, tant’è che diversi colleghi utilizzano strumenti ginnici per consentire al proprio corpo di muoversi liberamente negli intervalli tra una seduta e l’altra. Una personale propensione all’apprezzamento per il piacere di acciambellarsi sulla propria poltrona è comunque d’aiuto, il piacere cioè di passivizzarsi fisicamente per lasciar spazio non solo alla propria mente e al proprio mondo interno, ma altresì per lasciar spazio ai segnali somatici propriocettivi che ci indicano come stiamo rispondendo all’andamento della seduta e a ciò che ci comunica il paziente.

Per concludere, direi che tutto ciò che ci fa sentire “comodi”, psichicamente e fisicamente (anche economicamente, cfr. Laghi, Pezzani 2019), nell’esercizio della nostra professione, ovviamente nel rispetto delle regole costitutive della psicoanalisi e ancor di più nel rispetto per il nostro paziente, è al servizio di una buona identità professionale e personale. Credo dunque che ognuno di noi debba seguire le proprie inclinazioni per costruire uno stile personale, teoricamente attrezzato, adeguato al compito e al contempo in grado di esprimere le capacità di ciascuno in modo sintono e il più liberamente possibile, senza sottovalutare il fatto che curiosità, passione, capacità critica e piacere sono tra gli elementi personali che delineano l’attitudine psicoanalitica e, spesso a monte, indirizzano la nostra scelta professionale e ne facilitano l’esercizio.

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Riassunto

Diventare psicoanalista richiede una lunga e impegnativa formazione. Come sappiamo, tale formazione va oltre la preparazione teorica, peraltro necessaria, e si basa sul rapporto che l’analista intrattiene con il proprio mondo interno e con la sua funzione preconscia: per questo, l’analisi personale/didattica è elemento fondante per poter esercitare la psicoanalisi e la psicoterapia. All’interno di questo quadro, si possono altresì annoverare alcune caratteristiche personali che facilitano il lavoro dell’analista. La disamina di tali caratteristiche attraversa la recente letteratura psicoanalitica e conduce ad evidenziare l’importanza della curiosità verso il mondo interno e della passione per il nostro mestiere unite a una buona capacità critica, una certa dose di humor e di capacità di apprezzare i piaceri della vita.

PAROLE CHIAVE: identità dell’analista, preconscio, curiosità, passione, humor, capacità critica, piacere della vita.

Gabriella Mariotti

mariottiga@gmail.com

Questo articolo è apparso in Polaris. Psicoanalisi e mondo contemporaneo N.6 dicembre 2019

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