LA MORTE È UN RISVEGLIO

Da Tolstoj a Čechov

Erica Klein

Erica Klein è laureata in Lingua e Letteratura Russa. Traduttrice dal russo di classici. Saggista e autrice di numerosi lavori di critica letteraria. Docente presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia del Ruolo Terapeutico.

La prossimità della morte come ultima fase di realizzazione di sé, come occasione estrema per illuminare qualcosa ch’era rimasto nascosto nel corso della vita è un tema che ha sempre affascinato Tolstoj dagli esordi e per tutta la durata della sua inchiesta esistenziale.

Ha la consuetudine, infatti, di accompagnare molti suoi personaggi, quelli predestinati, fin oltre la soglia dell’umano, quasi a tastare, attraverso di loro, cosa ci sia dall’altra parte e a scoprire che tipo di adattamento psichico intervenga a mediare nello scontro fra la morte che esige abbandono e la vita che vuole restare.

Ho dato come titolo a queste pagine “La morte è un risveglio” pensando all’avventura spirituale di Ivan Il’ič, di cui voglio parlare, al doppio romanzo del corpo che muore e dell’anima che si risveglia, ma la frase è tratta da Guerra e pace, più precisamente da una riflessione del principe Andrej che osserva se stesso mentre scivola nel paese della morte.

Quando la forza sconosciuta che nel suo sogno-delirio preme dietro la porta e irrompe, nonostante la sua accanita resistenza per fermarla, egli è costretto a svegliarsi e questo risveglio gli si rivela come una chiamata verso un altrove lontano, staccato da ogni cosa conosciuta, ma niente affatto pauroso.

La sua lotta per restare vivo e amare Nataša ritrovata sbiadisce e si spegne. Qualcos’altro si annuncia e Andrej accetta di non tirarsi indietro.

Tolstoj la dice così: “Il velo che finora aveva nascosto l’ignoto si sollevò dinanzi allo sguardo della sua mente.

Ebbe la sensazione che dentro di lui si liberasse una forza che finora era stata violentemente costretta e per la prima volta avvertì uno strano senso di leggerezza”, leggerezza resa possibile dalla pacificazione raggiunta, dall’aver trovato in extremis quel punto di accordo che gli era sfuggito mentre aveva la vita a disposizione.

Con ben altro stato d’animo si preparava ad affrontare la morte in battaglia, due settimane prima, quando pieno di sgomento e di tensione cercava di capire dall’acutezza del sibilo, quale direzione avrebbe preso la pallottola in arrivo.

Su quella maledetta postazione che doveva presidiare allo scoperto non avevano scampo, né lui, né le sue truppe.

I suoi soldati cadevano in silenzio come birilli sotto il fuoco dell’artiglieria di Napoleone, ognuno aspettava il proprio turno e anche Andrej il suo.

E intanto si congedava dal mondo, dalle betulle intorno e dall’erba che invidiava e strofinava nervosamente fra le mani, chiedendosi come sarebbe stato il bosco senza di lui e più direttamente: dove sarò quando non ci sarò più.

Ma ciò che più di tutto lo faceva soffrire era la mancanza di significato dell’intera sua esistenza a cui guardava come attraverso una lanterna: una serie ininterrotta di fallimenti, la famiglia, la carriera, la gloria e, peggio di tutto, l’amore, il tradimento, il rancore, la frustrazione, l’odio.

Possibile che non ci fosse altro, o forse c’era e gli era sfuggito qualcosa. Come faceva ad andarsene con questo groppo?

La granata che alla fine lo colpisce interrompe la catena di pensieri cattivi e buca la corazza di orgoglio che lo teneva prigioniero.

Cade ferito, sviene, si ritrova in un campo d’infermeria.

Quando apre gli occhi il suo paesaggio interno è totalmente cambiato, è finita la tensione, una debolezza nuova lo pervade non solo nel fisico, ma in tutto il suo essere.

Si abbandona fiducioso e grato nelle mani di chi gli toglie la camicia insanguinata, lo cura e lo adagia cautamente.

Dal profondo dell’infanzia emerge una sensazione dimenticata e benefica, quella delle mani buone della tata che lo metteva a dormire.

Lì accanto, nell’infermeria ci sono altri feriti, urla, gemiti, corpi straziati fra cui riconosce quello del suo antico rivale cui viene amputata una gamba. Scopre, inatteso, il dolore degli altri, la loro fragilità a cui non aveva mai pensato, tutto preso dalla propria; è colto da una gran voglia di piangere per loro, per tutti, per se stesso, e di perdonare.

Torna improvvisamente l’intenerimento per Nataša, non per quella colpevole della sua infelicità, ma per il suo volto di fanciulla che immagina ora anch’esso infelice, schiacciato dai troppi rimorsi.

Sogna d’incontrarla e naturalmente il dio del romanzo glielo concede.

Nello spazio che intercorre fra la sua ferita mortale e la sua morte effettiva Andrej avrà tutto il tempo di rimediare, di tornare ad amare, di ricongiungersi con la sua parte migliore. Tolstoj gli ha fatto il dono e la grazia di arrivare in fondo alla sua breve vita riconciliato con se stesso, guarito dalla collera e dalla paura, liberato dall’oppressione di doversene andare senza portare con sé il senso di ciò che aveva vissuto.

La ricerca di questo “senso” tanto necessario che l’anima esige per chiudere in pace una vita e placare l’angoscia di morte è stata variamente esplorata da Tolstoj e non solo da lui.

L’opera più mirata a questa indagine e la più drammatica è di sicuro La morte di Ivan Il’ič, dove Ivan Il’ič è un uomo normale, ma anche un archetipo, non a caso citato un po’ dappertutto in testi di psicologia, antropologia, filosofia. Archetipo di che cosa?

Dell’uomo che muore e dell’Io interiore che si risveglia, che chiede improvvisamente udienza, che vuole chiarimenti, verità non addomesticate, che vuole saperne di più.

Quando la grande Ombra si avvicina e sussurra che è tempo di prepararsi, di scendere dal palcoscenico, che lo spettacolo è finito, che non si può più rimandare, succede qualcosa alla psiche umana.

Le parole malattia e morte cominciano a risuonare in modo nuovo, non sono più vuote e straniere, ma si riempiono di carica emotiva e arrivano direttamente al cuore.

La morte, infatti, non è per nulla un evento naturale, è sempre prematura, non si è mai pronti per lasciare tutto, senza sapere dove si va e perché.

La nostra testa sa, ha sempre saputo che dobbiamo morire, ma la nostra psiche non lo sente, non ci crede, occulta in vario modo il problema, se ne accorge davvero solo quando se lo trova davanti.

E allora capita che si apra una porticina verso l’interno (fuori non c’è più niente da vedere), che quell’altra nostra personalità che ospitiamo, magari senza saperlo, si faccia inaspettatamente viva e chieda conto di come la vita è stata vissuta e se è stata vissuta, o “consumata” come dice Nietzsche. Perché questo è il punto.

Il romanzo s’intitola La morte di Ivan Il’ič, ma è della vita che si parla “la più semplice, la più comune, la più terribile”.

Perché? Perché la sua unica ambizione, aspirazione era essere come tutti (quelli della sua cerchia sociale, naturalmente, che tanto ammirava), la sua unica preoccupazione: calibrare i propri gusti, opinioni, comportamenti sul loro giudizio.

E così aveva sempre scelto la mediocrità, optato per la superficie, le convenzioni, il ristagno creativo, senza mai cercare qualcosa di suo, senza immaginare che le cose avessero una qualche profondità.

La sua colpa? Essere rimasto indietro rispetto alle proprie possibilità, bloccato in un atteggiamento irriflessivo, da sempliciotto, con tutte le idee prese a prestito, mentre aveva i doni per essere tutt’altro.

Aveva commesso un crimine contro se stesso – tuona Tolstoj – evangelicamente si direbbe che aveva sotterrato il proprio tesoro nascosto per garantirsi una vita piacevole, comoda, piena di decoro.

Solo che quella non era una vera vita, ma una nebbia che schermava la patologia di un vivere impersonale e anonimo che non registrava nulla emotivamente.

Ed ecco che un bel giorno la sua anima si ribella a tanta trascuratezza e, guarda caso, proprio nel momento in cui immaginava di essere all’apice della sua piramide.

Ivan Il’ič a questo punto ha 45 anni, tutto era filato abbastanza liscio fino allora: nascita dalla parte giusta della società, studi di giurisprudenza, carriera da procuratore.

E tutto questo, passo dopo passo, senza neanche sgomitare, non era uno sciacallo, né un opportunista, sapeva stare al suo posto senza eccedere, si muoveva bene nei suoi ambienti. Gli piacevano le aule giudiziarie e tutto ciò che vi ruotava intorno. Passando nei corridoi e nelle sale d’attesa assumeva un atteggiamento di fredda professionalità, ignorava gli sguardi supplici degli imputati e delle loro famiglie, lui era la Legge.

Nelle aule dei tribunali, quando entrava la Corte, e lui era la Corte, assaporava compiaciuto la forza della propria posizione.

Gli piaceva anche sentirsi magnanimo, sapeva di poter facilmente rovinare i colleghi subalterni o farli trasferire per piccole negligenze, bastava una sua lettera, non lo faceva, ma il solo fatto di poterlo fare lo riempiva di autostima. Peccati veniali. Aveva anche una vita familiare, due figli e una moglie da cui fuggiva per via delle consuete scenate. Lei non voleva che uscisse la sera, mentre lui adorava andare al club a giocare a carte e con gli amici, al ristorante. Poi c’erano anche le eterne lamentele per questioni economiche. L’aveva sposata per amore o quasi, veniva dalla buona società e aveva anche un discreto patrimonio, il che non guastava, ma non l’aveva sposata per questo, era carina e gli piaceva. Ecco che dal cielo piove la fortuna: una promozione inaspettata sul lavoro, il trasferimento nella capitale con un grosso stipendio. Gli sembra di volare, la moglie diventa entusiasta di lui, i figli anche, si procura un appartamento adeguato alla nuova posizione, grande, pieno di quadri, bronzi, ebani, vasi cinesi, di ogni segno di rispettabilità che testimoniasse l’appartenenza alla migliore società. Tutto parte proprio da qui, da questo culmine di felicità raggiunta. Gli sembrava di essere arrivato in cima alla montagna, invece comincia a rotolare, tirandosi dietro una valanga. Si direbbe che il suo inconscio, urtato da quella compiaciuta soddisfazione, gli tenda un agguato per rimetterlo in riga. Mancava giusto l’ultimo ritocco alla perfezione della nuova casa: il panneggio di una tenda non scendeva come doveva. Sale allora sulla scala per mostrare al tappezziere quello che intendeva, ma scivola e va a sbattere contro una maniglia, niente di grave, si riprende subito e la vita continua. Dopo un po’ di tempo però succede qualcosa che comincia a rovinargli la piacevolezza delle giornate: “Non si poteva certo chiamare malattia quello strano gusto che Ivan Il’ič diceva di sentirsi in bocca e quel certo fastidio che sentiva a destra del ventre. Ma accadde che quel fastidio cominciò a crescere, non un vero e proprio dolore, ma una sensazione di costante pesantezza e di malumore”. A tavola non gli va bene niente, tutto è troppo salato o troppo qualcos’altro e i pasti finiscono in litigi con la moglie. Nell’ordine si affaccia il disordine. Il racconto si sviluppa lucido, impietoso, notarile. Tolstoj registra quasi meccanicamente tutti i passaggi della malattia e tutte le reazioni psicologiche alle varie tappe, dalla negazione alla rabbia, alla rivolta, alla disperazione e noi restiamo ipnotizzati a seguire gli eventi con un crescendo di ansia. Ci diviene infatti chiaro a un certo punto che è la nostra normalità a essere tirata in causa e ci assale il sospetto di essere noi sotto accusa: non è che io, come sonnambulo, sto attraversando la vita dormendo e lascio che le cose mi passino accanto senza vederle? Come sempre Tolstoj parla di noi anche quando parla d’altro. Comincia il pellegrinaggio dai medici, gli danno delle pastiglie, funzionano e per qualche giorno sta meglio, torna a sperare, ma sì, niente di grave, passerà, tutto tornerà come prima. Poi nel bel mezzo di una partita a carte o di un dibattimento, rieccolo quel dolore sordo, insistente, silenzioso come un’oscura minaccia a ricordargli che non può far finta di niente. Peggiora rapidamente, dimagrisce. I medici, severi, cattedratici prescrivono analisi su analisi, ipotizzano una cosa, poi un’altra, sempre distaccati, proprio com’era lui con i suoi imputati, quando impersonava la Legge. Ora loro sono la Scienza. Si tenevano lontani dall’unica cosa che gli premeva sapere: era grave oppure no? A confermargli la gravità del suo stato ci pensa il cognato arrivato dalla provincia. Capita all’improvviso e resta a bocca aperta davanti al suo aspetto. Lo smarrimento dura una frazione di secondo, quanto basta a Ivan Il’ič per fargli capire ogni cosa. Qui non si tratta di sistemare l’intestino cieco o il rene, come gli facevano credere, qui si tratta della sua vita che se ne va e lui non riesce a trattenerla. “C’era la luce e adesso c’è il buio. Ero di qua e adesso devo passare di là. Ma di là dove? Un soffio gelido lo investì”. Si sente disperato e solo, unica consolazione il servo Grigorij che lo accudisce giorno e notte ed è l’unico a non mentire, a capire la situazione e a compatirlo con affetto. Per il resto, la società da cui era stato indivisibile non lo aiuta, gli gira le spalle, vede bene che lui sta morendo, ma si protegge da quello scandalo che è la morte. Come del resto aveva sempre fatto lui. Aveva sempre saputo, dai tempi della scuola, del sillogismo: “Caio è un uomo, l’uomo è mortale, Caio è mortale”. Niente da eccepire, solo che ora è diverso, non si tratta di Caio, ma della sua singolarissima persona, di lui Vanja, il piccolo Vanička che giocava con i fratellini e rubava la marmellata di ciliegie. Non è possibile, c’è qualcosa che non torna. Cerca di restaurare l’antico sistema di pensieri legati a Caio, che così bene gli aveva nascosto la morte, ma gli sembra assurdamente primitivo e non funziona più. E poi la morte non è già più un pensiero ma una realtà, la prima cosa seria della sua vita, vuole essere guardata negli occhi, lo attira pur terrorizzandolo. E se avesse sbagliato qualcosa? – prova a chiedersi. Non è possibile, però permette al dubbio di insinuarsi, si mette in ascolto. E qui assistiamo a quell’evento sconvolgente per l’uomo che è l’incontro con l’altro se stesso, la scoperta di non essere disabitato, ma di ospitare qualcuno di poco conosciuto che chiede attenzione e vuole dire la sua. La sua anima si fa viva sotto forma di obiezione: “Ah sì, hai fatto tutto giusto, e allora com’è che passando in rassegna la tua vita non trovi un solo giorno che valga la pena di ricordare? Per trovare qualcosa di autentico devi tornare fino all’infanzia”. Ivan Il’ič prova a difendersi e sul suo letto di moribondo si apre un dibattito: l’Io diventa contemporaneamente giudice e accusato, prende coscienza di essere in due. L’anima lo rimprovera di aver vissuto senza coscienza e senza stupore, di aver scambiato la maschera con il volto, di essersi assentato dalla sua vera identità, in definitiva di aver sprecato la sua grande occasione. Ivan Il’ič ribatte di essere stato eticamente corretto, di aver rispettato tutte le regole. L’ospite non è d’accordo e lo scontro continua. Pare quasi un Giudizio Universale oltre che un processo, l’uomo al cospetto di se stesso che deve rendere conto di quello che ha fatto. Ciò che da secoli era stato proiettato nei cieli rientra ora nel cuore dell’uomo, perché è lì che tutto succede, come hanno scoperto i grandi scrittori russi prima di Freud. Non sappiamo se ci sia un aldilà, ma di sicuro c’è un “al di qua” altrettanto esigente e rigoroso a cui rispondere. Tolstoj propone una versione moderna e laica del concetto di anima, lontana da diatribe teologico-metafisiche, anima come seme spirituale, come potenzialità che può svilupparsi o restare inerte. In definitiva esiste se le permettiamo di esserci, se invece pensiamo di essere vuoti, se diciamo che l’uomo “non è nient’altro che” abbiamo perso la partita, chiuso con la zona sacra che è in noi e che corrisponde alla nostra individualità più profonda. In Tolstoj, come in altri scrittori russi, risuona una reminiscenza gnostica di antichissima derivazione cristiano-ereticale che non parla mai di peccato originale, né di salvezza da procurarsi con le opere morali, ma di anima sprofondata nella materia da cui è necessario differenziarsi per guarire e risalire al mistero delle proprie origini divine. Ma cosa succede a Ivan Il’ič? Nella sua controversia con l’anima cerca di resistere ma si accorge che, quando insiste a giustificarsi, i suoi dolori aumentano, quando lascia spazio al dubbio si sente meglio. Alla fine compare un sacco nero dove una forza sconosciuta lo spinge, lui s’impunta, non vuole entrare, urla; da fuori i familiari pensano si tratti di sofferenze fisiche, ma non è così, lui urla – dice Tolstoj – perché non vuole ammettere che la sua vita è stata finta. Quando alla fine cede, riconosce che tutto è stato vacuo entra nel sacco e dopo il primo momento di buio e di spavento vede in fondo una luce. Cerca la morte, la sua solita paura di lei, ma non la trova. Dov’è? La morte non c’è più, è finita. È arrivata la verità e con essa il senso e lui è salvo. Quest’ultima parte può essere facilmente letta come metafora di una fase dell’analisi, quando il paziente rifiuta di ammettere che il suo punto di vista era sbagliato, se lo tiene stretto, anche se lo fa star male. E si capisce. Divenire consapevoli anche solo di un pezzetto di vita rimasto oscuro comporta una faticosa, dolorosa ridefinizione di tutti i parametri. Ma la sostanza è che per rinascere in forme più mature occorre lasciar morire ciò che è superato.

Se la morte di Ivan Il’ič inonda la sua esistenza di significato, non succede altrettanto al protagonista di un racconto di Čechov sullo stesso tema. Curioso questo tornare dopo solo tre anni da quello di Tolstoj (che fra l’altro aveva ottenuto un successo strepitoso sia in patria che all’estero) alla medesima situazione psicologica (quella dell’approssimarsi della morte e di catastrofe emotiva). Ma il racconto, che non a caso s’intitola Una storia noiosa,ha tutta l’aria di essere una risposta alla drammatizzazione di Tolstoj. Qui è tutto più chiuso, normalizzato, senza via d’uscita, quasi a dire: non è così che le cose succedono. Čechov è lo scrittore delle non risposte, delle mancate soluzioni, della paralisi delle volontà come destino. Al suo Nikolaj Stepanovič, professore emerito, medico scienziato di fama internazionale, pluridecorato da varie accademie non accade nulla di simile a un risveglio, nessun incontro con se stesso. Quando viene a sapere che gli rimangono sei mesi di vita, dopo un iniziale smarrimento, gli monta una rabbia sconfinata con cui rimane fino in fondo. Rabbia perché un altro salirà sulla sua cattedra, perché delle sue lezioni così avvincenti non resterà traccia, perché tutto sarà dimenticato. Come Ivan Il’ič ripercorre la sua storia in un lungo monologo, vero flusso della coscienza, come lui fa la scoperta di una serie di menzogne a cui non aveva fatto caso, gli si affina la vista, con nuova sensibilità nota cose che prima non vedeva, e tutte brutte: mai la moglie gli era parsa tanto stupida e goffa e non capiva cosa c’entrasse quella vecchia assurda con la bionda, leggiadra fanciulla che aveva amato in gioventù. I figli li vede egoisti, il fidanzato della figlia gli pare un citrullo, un lacchè saccente con occhi sporgenti da gambero. Si spaventa di quei suoi pensieri maligni. Non sopporta l’idea di abbandonare la vita, cioè il suo lavoro, ma non sopporta neanche se stesso con tutti quei giudizi velenosi. È un uomo autoanalitico, raffinato, sottile, trova irragionevole quella sua improvvisa intolleranza verso tutti, i suoi studenti compresi. Cerca di capire: era cieco prima o è successo dopo qualcosa che ha tolto il velo alle cose? Possibile che la sola notizia della malattia abbia rovesciato totalmente la sua personalità? Il fatto è che la ferita della mortalità, quando diventa tangibile capovolge il mondo, mette in moto a cascata pensieri inconsci che provano ad approdare da qualche parte. Soffre d’insonnia, si mette anche lui in ascolto, cerca di entrare in dialogo con se stesso, ma non trova la strada. Gli viene in mente il“conosci te stesso”degli antichi, ma non sa da dove cominciare. Prova a far scaturire da sé tre desideri per entrare in contatto col suo interno, ma dopo averli formulati li trova strampalati: 1) essere amato per se stesso e non per i suoi meriti, poco originale, 2) vivere un’altra decina d’anni, già, e poi? 3) fra 100 anni mettere il naso nella scienza e vedere come si è evoluta. È deluso e insoddisfatto. Fa però una scoperta, questa sì interessante: ciò che gli manca davvero è un centro che tenga insieme tutto. Aveva approfondito tanti settori, era competente di scienza, medicina, architettura, arte, musica, ma erano tutte zone scollegate che non producevano una visione d’insieme, vivevano ciascuna per proprio conto. La sua tragedia era in realtà legata, per gran parte, allo spirito del tempo impregnato di positivismo esasperato che, con la forza di una religione assoluta, impediva all’uomo di accedere al proprio circuito irrazionale. Solo ciò che era scientificamente dimostrabile aveva licenza di essere ammesso alla realtà, tutto il resto rientrava tranquillamente nel regno delle fandonie. Il principio spirituale, la cosiddetta “anima” su cui avevano spadroneggiato i secoli oscuri, ora lo si sapeva con certezza, non era altro che materiale da biologi, secrezione ghiandolare. Una vera trappola per gli uomini di pensiero, costretti a rincantucciarsi in un credo troppo limitato e a patirne le angustie. Uno di loro era appunto il nostro Nikolaj Stepanovič, persona per bene, dignitosa, intellettualmente onesta che non poteva permettersi di tradire le convinzioni su cui si era costruito solo perché ora era ammalato, né uscire, anche solo temporaneamente dalla scienza per cercare conforto in altri lidi non abilitati. Ne andava della sua autostima. Preferiva restare fedele al proprio Io monolitico e razionale o non essere nulla, anche se dell’altro suo pezzo sconosciuto provava grande nostalgia. La fine del racconto è, come tutti i racconti di Čechov, senza fine. Quando Katja, una giovane donna rimasta orfana da bambina, alla quale il professore aveva fatto da tutore, (l’unica persona cui egli fosse sinceramente affezionato) gli si rivolge angosciata per avere un consiglio dopo una serie di sconfitte: “Nikolaj Stepanovič, per l’amor di Dio, voi siete intelligente, istruito, esperto della vita, vi supplico, ditemi cosa devo fare”, la risposta che arriva è lapidaria e gelata di disperazione: “Io mia cara, in coscienza non lo so. Su, andiamo a far colazione!”. Tradotto: non solo non ti posso aiutare, ma dichiaro davanti a te il mio totale fallimento personale. Al di là di un buon pasto io non ho niente da offrire, né da dire. La vita, per quello che ho capito, è tutta qua, nient’altro che la beffarda, effimera, inutile manifestazione di un caso insensato e senza scrupoli.

Lascia un commento