Le diversità possibili

 

 

(Relazione del 9 maggio 2017 a Villacidro)

 

 

Porgo i saluti miei e della mia Associazione a tutte le persone e a tutti i partecipanti istituzionali che ci hanno aiutato a promuovere questo incontro.

Come Associazione siamo nati e vogliamo andare avanti con preciso intento di affrontare, sia dal punto di vista clinico che da quello della ricerca sul campo, i problemi psicologici ed esistenziali delle persone che si rivolgono a noi perché vivono in modo infelice la loro esistenza, in solitudine e spesso costretti ad affrontare con emarginazione la loro quotidianità.

Oggi, purtroppo, la maggioranza delle persone è immersa in questa condizione di infelicità.

Non sono sempre i soli problemi fisici o materiali che fanno stare male.

Certo, la mancata soddisfazione di una buona condizione della propria salute fisica e la mancanza dei beni materiali di primaria necessità generano insoddisfazione e preoccupazioni di varia gravità.

Le questioni materiali sono però un campo di intervento fuori dalla nostra possibilità di aiuto, anche se agli associati che si iscrivono con noi offriamo una possibilità di cura che è certamente alla portata economica anche di chi non ha molti mezzi materiali da spendere.

Abbiamo un’altra ambizione, più lungimirante.

Io e le mie compagne di viaggio, che compongono questo gruppo associativo, contiamo sul fatto che le difficoltà, le paure, le traversie che viviamo come esseri umani dovrebbero essere affrontate, potrebbero essere condivise, è possibile trattarle e capirle.

In molti casi questi problemi possono essere anche oltrepassati, dandoci la possibilità di una vita umana più degna di essere vissuta.

Insisto molto su questo punto: una teoria piuttosto radicata nel comune sentire afferma che dobbiamo imparare a capire tutto, controllare tutto, imparare a risolvere ogni problema.

Non la penso così. Ci sono problemi che sono fuori dalla portata umana, ad esempio il nascere e il morire, questioni che avvengono senza che la nostra cosciente volontà li determini.

Di tante questioni dobbiamo imparare ad accettare che esistono, indipendentemente dal piacere o dal dispiacere che possiamo avere per solo fatto che ci siano.

 

Il Convegno di oggi pone la domanda su un tema ricco e articolato, sul quale ogni civiltà periodicamente s’interroga.

Per rimanere solo in ambito umano la domanda è: siamo tutti uguali oppure siamo tutti diversi?

Su questa questione, nominalmente semplice ma sostanzialmente complessissima, si generano confusioni e fraintendimenti di ogni genere, al punto che spesso si assiste a duelli, non solo a parole, purtroppo, tra il partito degli uguali e il partito dei diversi.

 

In che cosa siamo uguali? In che cosa siamo diversi?

Chi ha ragione tra chi sostiene che siamo tutti uguali e quelli che sostengono il contrario?

 

Provo a fare un esempio.

Il nostro mondo cambia e continua a cambiare, come nel passato d’altronde.

Se c’è una differenza rispetto al passato è che oggi i cambiamenti sembrano più accelerati, al punto che si crea spesso una frattura tra i saperi di ieri e quelli di oggi.

Ma anche i saperi di oggi sappiamo che sono presto destinati ad essere superati da nuovi saperi, per cui domani quello che sappiamo oggi forse non serve più a niente.

Ciò è potuto accadere e continuerà ad accadere perché prima la scienza e poi la tecnologia si sono imposte come il motore di funzionamento del mondo, ormai universalmente diffuso, e non solo nella produzione di beni e di servizi, ma anche nel modo di relazionarsi con gli umani.

Larga parte degli scambi umani sono oggi una funzione d’uso, d’interesse, piuttosto che un valore in se.

Questo è particolarmente evidente nel mondo del lavoro, dove i parametri di riferimento per dare un giudizio su qualcuno o qualcosa si riferiscono all’efficienza ed all’efficacia.

Sono i parametri dell’economia a dominare la scena, con tutte le conseguenze che esso genera. Le scelte oggi si fanno su basi econometriche.

Perfino la nostra Costituzione alcuni anni fa è stata adeguata a questo parametro, imponendo la parità nel bilancio pubblico quando si formulano le leggi di spesa.

Eppure, non dovrebbe esistere solo l’economia a determinare la vita degli umani, anzi.

Per quello che ne sappiamo fino a questo momento l’evoluzione della coscienza umana è andata avanti perché si è sempre proiettata oltre l’invisibile che è chiamato Dio dalle persone religiose oppure natura umana dalle persone atee.

Non è questa la sede per addentrarci su queste visioni apparentemente divergenti, perché alla fine credo che tutti dovremmo ammettere che non esistono esseri umani che non credano in qualcosa. Anche quelli che sostengono di non credere in niente credono in qualcosa, che loro chiamano niente.

E’ già una credenza!

 

Se l’economia è la legge della competizione, del capitale, della sopraffazione del più forte, esiste anche, ed è molto più antica, la legge della biologia.

La differenza fondamentale con l’economia è che la biologia ha bisogno di cooperazione, non di competizione.

Un corpo umano funziona se tutti gli organi di cui è composto cooperano, altrimenti il corpo si ammala e muore.

Se è vero che oggi si riesce anche a sostituire organi malandati per continuare a far funzionare il corpo, questo non intacca il principio della cooperazione come ingrediente necessario al mantenimento della vita.

Chi detiene il potere di indirizzo nella formazione delle coscienze continua imperterrito a proporre modelli e mentalità che erano funzionali nei mondi arcaici dove la diversità tra i generi era funzionale e strumentale rispetto alla divisione del lavoro e, soprattutto, rispetto alla subordinazione della donna all’uomo sul piano del potere rappresentativo.

Naturalmente questa subordinazione è stata culturale, non organica né necessaria.

E’ una subordinazione che ha risposto e risponde ancora oggi a criteri di riproduzione del potere da parte di chi lo ha sempre detenuto, a governare la complessità della vita in modo direttivo, normativo e sostanzialmente burocratico.

Posso esemplificare il tutto dicendo che viviamo immersi nel potere patriarcale, dove imperi economici e finanziari, ideologie materialiste e violenza diffusa hanno creato e fatto crescere un potere coercitivo, oggi ancor più subdolo del passato perché è ammantato da un’ideologia consumista che annienta da subito il desiderio umano.

 

Non vorrei trasmettere l’idea che siccome il patriarcato ha fallito è meglio instaurare un potere matriarcale.

A parte che non è vero che il patriarcato lo rappresentano solo gli uomini, anzi, basta vedere con quale ferocia tante donne lo riproducono e lo gestiscono, non auspico nemmeno il passaggio delle consegne alle donne, perché significherebbe creare un‘altra classe dominante, questa volta al femminile.

E’ proprio il concetto di dominio che dobbiamo cancellare.

I conflitti di genere vanno risolti dando il potere a chi il potere lo ha, cioè a tutti noi che nasciamo biologicamente uomini, donne, maschi, femmine, con orientamenti eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali, indifferentemente, tenendo conto delle capacità e delle attitudini di ognuno.

Quello che dovremo idealmente e culturalmente fondare è una formazione alla vita orientata a promuovere il potere di se stessi e la cooperazione tra tutti gli altri umani.

Cooperazione, non competizione.

Un essere umano non sopravvive nemmeno se tutte le sue parti, compreso tutto l’ambiente che lo circonda, non cooperano per la sua maturazione e sviluppo.

Lo sanno molto meglio di tutti i genitori, non ha caso dediti più degli altri alla nascita e alla crescita dei piccoli.

Possiamo dire che nella dicotomia tra biologia ed economia il femminile tende verso la biologia e il maschile verso l’economia?

Possiamo dirlo.

In che direzione stiamo andando l’ho già accennato prima.

Eppure, malgrado la forza ferrea del potere patriarcale incida profondamente nelle coscienze e nella vita, cercando di creare e produrre cloni uguali a se stessi e funzionali solo alla riproduzione del loro stesso potere, gli esseri umani continuano in modo irriducibile e dimostrarsi tutti diversi tra loro.

Detto in modo più semplice possibile: siamo tutti diversi!

Unici e irripetibili, senza nessun altro che sia esattamente come noi.

Solo nei romanzi esiste un nostro clone.

Questa irreducibile diversità comincia già a livello di gestazione, dove gli stati d’animo materni, le voci e i suoni ambientali, il cibo mangiato e tutto quello che la diade madre-feto costruisce regola la trasmissione, sia in quantità che in qualità, degli aminoacidi che alimentano il feto.

Una giovane donna che conosco e che si prepara a partorire mi raccontava di come il suo piccolo diventi estremamente vivace quando lei mangia un poco di cioccolato!

Nascita e caregivar, cioè le cure primarie ricevute dei primi tre- quattro anni sono già decisivi per la strutturazione del carattere.

Dei dati iniziali rimane probabilmente solo il temperamento, che pare l’unico a rimanere stabile per tutta la vita.

Per tutta la prima fase di vita la socializzazione e il gioco svolgono le funzioni strutturanti del nostro comprendere il mondo.

Successivamente parte la fase in cui si comincia delineare la nostra identità sessuata, tarda infanzia, prima preadolescenza.

Vi sono almeno tre livelli in cui si può articolare questa identità sessuata:

  1. il livello biologico;
  2. il livello psicologico;
  3. il livello del desiderio.

Il livello biologico è estremamente ricco e complesso, dal momento che già a livello cromosomico esistono non solo le coppie “xx” e “xy” ma anche persone con cromosomi “xxy” e “x0”.

Queste due coppie sono più note come “sindrome di Klinefelter” e “ sindrome di Turner”.

Il fatto che la stragrande maggioranza di noi nasca con le prime due coppie cromosomiche non autorizza nessuno a ritenere che questa maggioranza sia la normalità.

E’ solo la maggioranza, nientaltro.

Anche a livello gonadico sono molti i casi in cui non è così chiaro se sono testicoli od ovaie quelle che abbiamo.

Ci sono parecchi casi in cui le gonadi hanno contestualmente tessuto ovarico e testicolare.

Anche a livello genitale non è sempre chiaro se si nasce con un pene o una vagina.

Nell’incertezza una volta molti medici usavano tagliare il pene del piccolo se questo era tra uno e due centimetri.

Meglio farlo diventare subito una femmina, dal punto di vista genitale s’intende, perché si pensava che sarebbe stato un maschio infelice se avesse avuto un pene piccolo.

Naturalmente la cosa non ha mai funzionato ed ha fatto crescere solo degli esseri handicappati.

Anche dal punto di vista psicologico non c’è nessun automatismo nel definirci maschi o femmine.

Anche se dal punto di vista biologico e gonadico tutto appare chiaro, una persona con parvenze maschili si può sentire psicologicamente una femmina.

Vale anche l’opposto, cioè femmine biologiche che si sentono maschi.

Questo caso è più noto col termine di transessualismo.

Esistono, e sono tuttaltro che pochi, anche le persone bisessuali, cioè persone che sono sessualmente attratte dall’altro sia in modo omosessuale che eterosessuale.

Qualcuno continua ostinatamente a voler far rientrare gli esseri umani in categorie.

Teresa Forcades, la più grande teologa che io conosca, sostiene che va rivendicato il carattere unico e originale di ciascuna persona.

Quindi è impossibile utilizzare qualsiasi categoria, che sia di genere, di classe, di razza.

Ogni categorizzazione toglie l’originalità di ognuno, rendendolo opaco.

Per la Forcades, ma io mi associo al suo pensiero, la creazione non è mai conclusa una volta per tutte e non è Dio a doverla portare a termine, bensì noi: si tratta di una nostra responsabilità.

Non a caso in questi tempi è impegnata nella costruzione di una teologia queer, che significa che nell’esistenza bisogna continuamente riorientare, riscoprire.

In questo cammino teologico parte dall’assunto che la persona è un essere pellegrino, l’homo viator di teologica descrizione.

Probabilmente le nostre fonti normative non sono nemmeno più adeguate a far fronte alle crescenti richieste di riconoscimento delle identità.

Simone Weil, ad esempio, critica le Costituzioni fondate sui diritti perché per affermarli bisogna disporre della forza e anche della violenza per imporli e difenderli.

Le costituzioni dovrebbero essere fondate sulle necessità, perché queste veicolano l’identità personale a qualcosa di più reale del diritto.

Una necessità ignorata non cessa di esistere in quanto tale.

La necessità può fare a meno anche del riconoscimento dell’altro.

Il diritto, invece, necessita sempre del riconoscimento altrui.

Non solo; il diritto anche assoluto può essere tranquillamente ignorato (pensiamo a quanta gente muore di fame nel mondo pur esistendo il diritto universale al cibo), mentre le necessità impongono una naturale scala di priorità.

Non esiste solo il desiderio e l’amore complementare, l’amore cioè che ci completa e ci fa riprodurre la specie con l’altro da noi.

L’amore umano esiste perché siamo in grado di sentire l’esigenza di vita dell’altro, il suo bisogno di appartenenza e di vicinanza.

L’uguaglianza è un mito che vale solo e unicamente nel perseguire l’uguaglianza delle opportunità nella vita.

Tutti, indipendentemente dal nostro sesso, dovremo avere un’uguale opportunità di realizzarci. Solo culturalmente e politicamente sarà possibile correggere le disuguaglianze che sono presenti già alla nascita.

Che sia o meno del nostro stesso sesso non cambia la qualità dell’amore che proviamo.

Noi nasciamo come potenzialità .

Non siamo mai definiti per sempre, tocca a noi la responsabilità di completare la creazione originaria che ci ha fatto apparire al mondo.

L’amore vero e duraturo che il mondo dei grandi ci dovrebbe trasmettere è quello di realizzare le potenzialità inscritte in ognuno di noi.

Tutta nostra è la responsabilità delle persone che diventiamo.

E’ questa la risposta etica che dobbiamo alla vita.

Ci rivolgiamo al mondo adulto, familiare e sociale, perché non ci rendano oltremodo difficile vivere le nostre individualità.

Solo vivendo con armonia le nostre persone potremo dare il nostro giusto contributo a un mondo e una società più giusta e più sana.

 

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