Luigi Ballerini

 

La psicologia è chiamata a confrontarsi sempre più di frequente – sia sul versante teorico sia nella clinica quotidiana – con la dimensione del “potere”, nelle sue accezioni positive e in quelle più problematiche o patologiche.

Numerosi sono i fatti di cronaca che mettono in evidenza come la dinamica del potere possa degenerare in violenza e sopraffazione; eppure, nel contempo, assistiamo di continuo alla difficoltà per molte persone di stimarsi e percepirsi come esseri che possono essere, pensare, costruire legami e interagire con il mondo.

Abbiamo chiesto al dott. Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore per bambini/ragazzi (ma autore anche di alcuni testi per adulti), di fornirci alcune chiavi di lettura su questa tematica.

La speranza è che, anche grazie agli spunti più significativi delle sue parole, il “potere” che ognuno di noi è chiamato ad esercitare (nella propria vita e nelle proprie relazioni) rappresenti sempre più una possibilità positiva e non una criticità o una limitazione.

Dottor Ballerini, in questo numero di Dialoghi viene affrontato il tema del potere secondo diverse prospettive.

Quali significati e quali valenze offre la psicologia sulla dimensione del potere?

Sebbene sia riluttante ad ammetterlo, fino alla sua negazione, la psicologia è debitrice di Freud per quanto riguarda il tema del potere.

Tutti gli autori classici della psicologia sono suoi debitori, quasi sempre diretti.

È stato lui infatti il primo a parlare del bambino come pensante e pensatore riconoscendo il potere del pensiero, anzi il pensiero come potere.

Ha saputo poi operare la distinzione fra potere come comando e potere come facoltà di agire. Possiamo ben dire, quindi, che Freud ha rivoluzionato il concetto di potere proprio in quanto ha riconosciuto per primo al bambino il compito, che nessuno gli prescrive, di provvedere ai propri mezzi per governare la realtà.

Ha inoltre descritto il tracollo della sovranità individuale sotto il peso di un contro–potere che si impone come rappresentante della realtà e che ha chiamato Super-io.

Esercitare un potere, rivendicare un potere, affermare un potere: spesso nella narrazione delle persone si ritrovano queste espressioni, soprattutto quando cercano di spiegare alcune dinamiche nelle relazioni affettive.

A volte sembrano assumere una connotazione positiva, altre volte portano con sé una valenza negativa e/o patologica.

Dalla sua esperienza clinica, come si esplica oggi il potere all’interno dei legami affettivi?
Quello della clinica è un osservatorio particolare, è il campo dove sono presenti, più o meno manifesti e conclamati, i sintomi e i segni della patologia comune.

È il campo in cui si ha a che fare con il potere malandato, andato male, fino alle sue accezioni peggiori.

Tutte accezioni in cui il potere viene sempre considerato come sostantivo.

Così inteso, il potere riesce a manifestare nella società il suo inevitabile volto violento, malefico, oppressivo, manipolatore e soggiogatore.

Il potere… ci sarebbe chi ce l’ha e chi non ce l’ha.

La fonte, sempre esterna al soggetto, ravvisabile di volta in volta nella Natura (genetica), nel Lignaggio (genealogia), in Dio (investitura) o nello Stato (elezione), taglierebbe distintamente l’umanità in due fazioni contrapposte: una dotata di potere che non deve rendere conto di nulla o a nessuno, tranne che alle proprie regole interne e alla feroce angoscia di perderlo; e un’altra, priva di potere, che può solo lamentarsi, invidiare ed in qualche raro caso ribellarsi per sovvertire l’ordine costituito nel tentativo di passare dall’altra parte della barricata.

Un soggetto che nei propri rapporti si muova all’interno di una tale concezione di potere, alla lunga ha o crea problemi.

Potrebbe ad esempio cercarsi un compagno che abbia come requisito l’appartenenza ad una delle due fazioni.

Alla fazione opposta, se si tratta di un impotente su cui comandare e sentirsi forte, o un potente da adorare e da cui farsi dominare.

Oppure alla stessa: un compagno alla pari per rafforzarsi nell’offesa, in un caso, o rinchiudersi nella difesa, nell’altro.

Tutte situazioni, comunque, in cui non si dà reale partnership e di conseguenza non si danno profitto, costruzione e produzione.

Potere, anziché un sostantivo, è invece un verbo per l’uomo che sta bene.

È io posso.

Che sa diventare posso con te, fino a possiamo insieme.

Non si tratta più di esercitare o subire il potere nei legami affettivi, si tratta di poter creare legami. In quanto legami, poi, questi sono sempre affettivi, implicanti l’affetto inteso come passione pensata e pensiero appassionato, senza più alcuna scissione tra passione e pensiero.

Affetto quindi ben distinto da emozione, che per sua natura si consuma presto e tutt’al più può essere rinnovata in una nuova vampata.

La fonte di tale potere, inteso come facoltà, è tutta interna al soggetto.

Io posso costituire legami sociali, partnership, appuntamenti.

Appuntamenti: ecco la parola chiave del soggetto che sta bene, il cui potere consiste proprio nella sua facoltà di porli e promuoverli, nella più vasta accezione del termine.

Se la vita in casa fosse fatta di appuntamenti cui aderire, piuttosto che di astratte regole cui sottostare, sarebbe più facile e serena di quanto non lo sia di solito.

Il rapporto uomo–donna, fra sposi, l’educazione stessa dei figli potrebbero essere rivoluzionati dal riconoscimento della facoltà individuale di porre e rispondere ad appuntamenti, con profitto reciproco e costruzione di un “di più” inesistente in partenza.

Anche nel mondo giovanile il senso del potere è presente, a partire dalla necessità basilare di poter essere se stessi, di poter costruire la propria identità.

Non è un percorso semplice, e spesso i ragazzi si ritrovano a muoversi velocemente su un continuum, che vede ad un estremo un vissuto di impotenza inaccettabile e all’altro un tentativo di onnipotenza, di fatto insostenibile.

Come aiutare i ragazzi a viversi e a vivere le relazioni in modo da non identificarsi in uno di questi estremi e ad uscire da una posizione narcisistica, che nasconde al suo interno una profonda fragilità?

I ragazzi vivono le stesse difficoltà degli adulti, non costituiscono un mondo a parte.

Respirano la stessa aria di tutti, ne condividono gli errori comuni.

Anche loro rischiano di restare invischiati nella cattiva alternativa tra prepotenza e impotenza.

Entrambe queste condizioni difettano di potere, quello che può e sa valutare, giudicare, agire.

Esempio classico è il bullismo, fenomeno di cui si parla molto e che preoccupa genitori ed educatori: la disastrata coppia bullo-vittima vede due soggetti privi di potere.

In essa non esistono infatti un vinto e un vincitore, ma due perdenti; così come non esiste un potente che schiaccia da una parte e un debole oppresso dall’altra, ma due impotenti semplicemente di segno opposto.

Il bullismo è un buon esempio di dis-economia, assenza di vantaggio, rovina, macerie, ferite.

È il regime della guerra militata, avverso a quello della pace nel rapporto che si permette solo chi può.

Ritengo che un aiuto ai più giovani sia recuperare per loro e con loro il concetto del lavoro.

Intendo dire che i risultati si ottengono via lavoro e non via espedienti.

I soldi si guadagnano e non si vincono, ad esempio (si pensi solo alla diffusione dei “gratta e vinci”), i risultati sportivi arrivano con l’allenamento e non con il puro talento, i successi scolastici con lo studio e la dedizione e non solo dall’essere intelligenti o geniali.

Questo può essere in grado di scardinare la fallace idea di onnipotenza e impotenza come stati dell’essere, per riportarli nel più sano terra-terra della logica: se questo allora quello, se lavoro allora risultato.

Al bambino invece va riconosciuta quella facoltà di potere che è il pensiero stesso, perché pensiero e potere sono sinonimi.

Un potere mite, capace di porre condizioni soddisfacenti per sé e per i propri partner, un potere che non disgiunge la soddisfazione personale da quella altrui, un potere che, almeno per un po’, sa difendersi dagli attacchi che lo vogliono ridurre o eliminare.

Tra questi attacchi possiamo annoverare quelli di una certa pedagogia che vede con orrore l’iniziativa individuale, innanzitutto di pensiero del bambino, e ritiene l’educazione una forma di contenimento e controllo.

Il bambino, come una fiera da domare, andrebbe ricondotto all’obbedienza incondizionata alle teorie dell’adulto, che “sa” proprio in quanto adulto.

Nel rapporto con il bambino, al principio ereditario di trasmissibilità di beni, non necessariamente o innanzitutto materiali, viene così sostituito un principio di comando: l’educazione diventa condizionamento, le case si trasformano in caserme, gli inviti in ordini, il piacere viene scisso dal dovere e messo in sua antitesi.

L’educazione tende a vedere il bambino come debole e incapace, confonde l’inabilità temporanea con la debilità; fatica a riconoscere in lui quel potere che già a due anni, ad esempio, gli permette di costruire la lingua con cui comunicare con i suoi simili e fare legame sociale, quel potere che già anche da prima gli permette di porre atti di compiacimento dell’altro in favore del rapporto.

Bisogna stare attenti a parlare bene di educazione se non se ne conosce il senso, ossia la direzione da cui arriva e soprattutto dove porta.

Educazione non è un lemma neutro, buono per tutte le stagioni.

Soprattutto non è un lemma sempre buono.

La cronaca continuamente ci rimanda a situazioni drammatiche in cui, all’interno della famiglia e delle relazioni affettive, si scatenano atti di violenza, comportamenti persecutori, strategie di controllo, che, più che legami solidi, caratterizzati da empatia e alterità, lasciano intravvedere legami caratterizzati da logiche di affermazione di sé attraverso o a scapito dell’altro.

Secondo lei, da cosa dipende tutto questo e quali attenzioni si dovrebbero mettere in campo per evitare che si ripetano ancora?

La difficoltà nei rapporti è sotto gli occhi di tutti e non risparmia alcun ambito: lavoro, famiglia, conoscenze.

Nei casi più conclamati, da cronaca nei telegiornali, così come in quelli più comuni e quotidiani, assistiamo al venir meno di una forma di rapporto fra gli uomini che renda pensabile e possibile la partnership, ossia assistiamo al venir meno del legame sociale, al suo disgregarsi.

Non c’è amicizia per il pensiero, proprio e altrui.

È questa amicizia che rende sociale e comune la possibilità della soddisfazione, sottraendola al territorio esclusivo di alcuni presunti più dotati o più fortunati.

L’amicizia per il pensiero rende apprezzabile l’iniziativa altrui, al contrario dell’invidia che la vorrebbe annientare; considera l’altro un potenziale compagno fino a prova contraria; senza ingenuità orienta nella distinzione fra chi è amico e chi è nemico, ossia fra chi ci fa stare bene e chi opera a nostro svantaggio, di là delle sue dichiarazioni.

L’attenzione che potrebbe tornarci più utile credo stia proprio nella scelta dei nostri soci, dei nostri partner, delle persone con cui condividiamo il tempo e su cui contiamo.

Tutto questo ha a che fare con la nostra concezione dell’amore che, quando va, non è mai a due, ma sempre a tre come minimo, perché include l’universo di tutti gli altri, uno per uno.

L’amore, incluso quello cosiddetto di coppia, non è un paso doble, un tête-à-tête in cui rinchiudersi per proteggersi o “ricaricarsi”, ma un luogo e fattore di rilancio, di costruzione, di produzione di ricchezza a disposizione di chiunque desideri parteciparvi senza invidia, per un ulteriore incremento.

Rivedere la nostra concezione dell’amore, di là da una ingenua oblatività e da una sospetta disponibilità al sacrificio, ci potrebbe evitare di entrare, e restare, in relazioni tossiche, dannose, la cui cifra caratteristica è quella di un impoverimento progressivo e comune.

Il prodursi di ricchezza, nell’accezione più ampia possibile, inclusa anche quella monetaria senza pericolosi spiritualismi, è la cifra dell’amore, la cartina di tornasole che ne rileva e documenta la presenza.

Un’ultima domanda. Nel Vangelo si trova scritto: «Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve.

Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?

Non è forse colui che sta a tavola?

Eppure Io sto in mezzo a voi come Colui che serve» (Lc 22, 26-27).

Questo invito può suggerire una chiave di lettura del potere anche dal punto di vista psicologico e pedagogico?

Servire non è servile.

Servire non è essere schiavi.

C’è regalità nel servizio.

Un re, se è un buon re e non un tiranno o un despota, serve il suo popolo, serve al suo popolo, regge il regno in modo che possa prosperare e crescere ed espandersi.

Servire coincide col non avere obiezione all’iniziativa dell’altro, acconsentire al suo volere; ma non si pensi qui ad un altro qualsiasi, piuttosto ad un altro riconosciuto e giudicato nei suoi atti, e non ontologicamente, come benefico.

Solo un soggetto libero può servire così, non uno schiavo.

Un soggetto così può occuparsi anche di uno sconosciuto, come ad esempio ha fatto il Samaritano della parabola.

Nient’affatto un professionista dell’aiuto sociale, non è rimasto indifferente alla difficoltà incontrata, si è posto come chi interviene in soccorso immediato e dispone perché vi sia una continuità della sua azione benefica nella speranza di una ripartenza individuale dell’uomo in difficoltà.

Uomo accorto il Samaritano, non certo un buonista della prima ora, faccio fatica a pensare che possa essere facilmente ingannato o raggirato.

Lo immagino anche come uno che sa occuparsi bene dei propri affari, e quindi, occasionalmente, anche di quelli degli altri.

La frase di Gesù citata, pronunciata nel momento dell’istituzione dell’Eucaristia, non a caso il segno più povero e al contempo potente della sua permanenza tra gli uomini, è successiva alla discussione degli Apostoli su chi fosse il più grande fra loro.

Interviene a dirimere un dibattito sul potere nato male, proprio perché basato sulla dicotomia avere/non avere potere inteso come oggetto di possesso.

Gesù sposta il confronto su un altro piano.

Io sto in mezzo a voi come Colui che serve scardina la vecchia concezione di potere, in cui siamo immersi ancora oggi, per porne una nuova, inedita: io posso, servire a tavola e farmi servire, parlare e ascoltare, fare e lasciar fare.

Una non obiezione all’altro di principio, una rinuncia a ruoli o formule precostituite e sovraindividuali, un nuovo modo di costituire e costruire il legame sociale, senza presupposti o investiture, ma a partire dalla facoltà individuale di pensiero che Gesù ha dimostrato di avere in ogni Suo atto.

Il Suo parlare con tutti, visitare la casa di tutti, ascoltare tutti, che tanto ha destato scandalo nei Suoi contemporanei e anche negli odierni farisei, è stata la più grande dimostrazione di questo nuovo potere mai data nella storia.

Lo stesso potere mite del bambino, cui non a caso siamo stati invitati a tornare.

Tornare come bambini, non tornare bambini.

Senza infantilismi e puerilità di ritorno, si tratta per noi di recuperare oggi lo stesso pensiero sul reale, lo stesso potere innestato sull’altro che permette ad un bambino che si è perso di stringere la mano anche di un adulto sconosciuto che lo sappia ricondurre a casa.

Un pensiero pacifico che si faccia forma dei nostri atti quotidiani.

Luigi Ballerini è medico e psicoanalista, opera a Milano dove vive con la moglie e i suoi quattro figli. È membro del Consiglio della Società Amici del Pensiero Sigmund Freud, il cui Presidente è Giacomo Contri, alla cui scuola si è formato e al cui pensiero è debitore. Scrittore per ragazzi, per il libro Zia Dorothy (Giunti) è stato insignito del White Raven Award 2009; con La signorina Euforbia (San Paolo) nel 2014 ha vinto il Premio Andersen per il miglior libro età 9/12 anni e nel 2016, con Io sono zero, ha vinto il Premio Bancarellino. Tra le sue pubblicazioni per adulti 120 giorni che ti cambiano la vita (Rizzoli 2008), E adesso cosa faccio? Ripensare il rapporto fra genitori e figli (Lindau 2012), I bravi manager cenano a casa (EMI 2015). Conoscitore del mondo dei bambini e dei ragazzi, svolge anche azione di supervisione presso numerose scuole italiane così come incontri con genitori, insegnanti e ragazzi sulle tematiche educative. Giornalista pubblicista (Ordine dei Giornalisti di Milano) è editorialista per Avvenire e prepara articoli per IlSussidiario.net sulle tematiche scuola/educazione/giovani. Collabora con Il Sole 24Ore (Job24.it) per la tematica lavoro. Nel 2009 ha co–condotto con Claretta Muci alcune puntate di DueDiNotte, programma   notturno di RAIRadio2. Ha partecipato spesso come ospite opinionista ed esperto in numerose trasmissioni televisive (TGcom24, RAIGulp, Canale5) e radiofoniche (Radio24, RAIRadio3).

Intervista al Dott. Luigi Ballerini a cura di Sandra De Carli

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