Siamo opachi e diversi.

 

La trasparenza, parola chiave della nostra retorica politica, non è affatto una bella cosa (al di fuori della moda femminile).

Prima tutto non ha niente a che vedere con la luminosità, al contrario di quanto il suo uso nella comunicazione politically correct vorrebbe far credere.

Trasparente, infatti, definisce qualcosa che lascia passare lo sguardo e la luce.

Ammesso però che luce ci sia.

Perché altrimenti la cosa o persona, pur trasparente, viene attraversata solo dalla tenebra: è buia. Anche nella fisica è sempre una condensazione di sostanze che emana la luce, non la trasparenza, che corrisponde piuttosto a una inconsistenza.

I vari «assessorati alla trasparenza», via via diffusi in tutta Italia col politicamente corretto, sono così monumenti all’inconsistenza.

Fondati necessariamente sulla falsità che dicono di voler smascherare.

Infatti, siccome poi oltre ad essere trasparenti devono pur fare qualcosa, tutto ciò che concretamente fanno, attraverso esseri umani e non solo robot, ha una sua inesorabile opacità, come tutto il mondo vivente.

Solo la personalità ossessiva (profondamente malata) è convinta di poter controllare al millimetro le conseguenze di ciò che fa.

Ma ciò che accade dopo non lo conosce.

È opaco.

E il giudice che sostiene «lei non poteva non sapere» o è altrettanto ossessivo, o è in malafede.

Tutto ciò, croce e delizia di chi vive nel mondo di oggi, è l’oggetto principale dei recenti lavori del filosofo sud coreano Byung-Chul Han, professore di Scienza delle culture all’Università delle arti di Berlino.

Il più noto è proprio La società della trasparenza.

Sono librini veloci, pubblicati da Nottetempo e continuamente ristampati per la loro chiarezza e attualità.

A chi gli chiede perché scriva soprattutto libri di poche decine di pagine (come fa la sua traduttrice Federica Bongiorno, in un’intervista pubblicata in www.la macchinasognante.com), Han risponde che è inutile scrivere libri voluminosi quando con poche frasi si possono «mettere in questione gli edifici di pensiero che sorreggono la nostra quotidianità.

Questa laconicità può sviluppare una forza enorme». Vero.

La società della trasparenza, intanto, malgrado il suo grande parlar di sesso, non è affatto erotica. Non solo perché il corpo vivente non è trasparente.

Ma perché in essa le relazioni si svolgono soprattutto via internet, e quindi a grande distanza tra i corpi delle persone, le cui immagini vengono però avvicinate, anche con videate molto intime, diventando così per nulla erotiche ma direttamente pornografiche e quindi depresse.

L’Eros infatti, per nutrirsi e rafforzarsi, ha bisogno che accada proprio il contrario: una distanza rispettosa dell’intimità, e una grande vicinanza affettiva.

Ecco perché nella società trasparente, che si vanta di essere ipersessualizzata, di sesso se ne fa poi in realtà pochissimo, e con un valore erotico prossimo allo zero.

Nella modernità occidentale Eros è dunque malato, e Han racconta il perché in Eros in agonia.

Ad ammalare l’amore non è tanto «l’eccessiva offerta di altri (come spesso si sostiene), bensì l’erosione dell’altro, che ha luogo in ogni ambito della vita, e si accompagna al crescente narcisismo del sé».

Come anche qualsiasi analista sperimenta quotidianamente, il narcisista (oggi quasi tutti) non è infatti interessato ai contenuti dell’altro che incontra: vuole soltanto che il suo Io venga apprezzato.

Non regge il confronto critico e quindi non arriva neppure a vedere quello che Martin Buber chiama il Tu, l’altro.

È prigioniero di una perpetua autocontemplazione, fino allo sfinimento e all’inedia, come appunto Narciso.

La società poi, prigioniera del mito dell’assimilazione perpetua, conferma questo narcisismo individuale, annullando la diversità.

«In fondo nessuno è un altro» ci assicura, perché siamo tutti uguali.

Il che è del tutto falso, proprio come l’asserita luminosità della trasparenza, ma anche in filosofia (come nella scienza, e nelle merende), una bugia tira l’altra, come le ciliege.

Il guaio è però che a furia di frottole si costruiscono delle «società-castelli di carte», che poi un ragionamento con un capo e una coda butta facilmente in aria, malgrado vengano molto incensate.

È appunto quello che fa Han, con i suoi librini, scritti invece che con faticosi ragionamenti con veloci e fulminanti aforismi.

Con l’eliminazione dell’altro, o meglio dell’idea che l’altro esista in quanto tale, diverso da noi, sparisce nella società contemporanea anche il contagio, grande flagello nei secolo precedenti, constata Han.

Come risulta anche alle terapia psicologica (oltre che alle statistiche): le malattie di cui si soffre (e si muore) oggi non sono virali ma neurali, si fabbricano interamente dentro di noi.

Depressione, sindrome da deficit di attenzione e iperattività, disturbo borderline di personalità, sindrome da burnout e (aggiungiamoci pure tutte le altre NCD, Non Communicable Disease) sono fra queste.

Il tanto apprezzato «soggetto debole» della società trasparente, perso tra «eguali» immaginari, dopo aver tolto di mezzo l’altro con le sue problematicità e risorse si ammala.

Su questi aspetti patologici della società di oggi Han ha scritto la sua Società della stanchezza. Già dalle prime pagine cita Jean Baudrillard, un altro sociologo della cultura che come lui pensava: «Chi vive dell’uguale, muore dell’uguale», segnalando già alla fine del secolo scorso il carattere mortifero della società della finta uguaglianza.

Sul fatto che la società dei consumi e di Internet, proprio per aver abolito il valore della privazione e della mancanza, sia anche una società della stanchezza, Han non ha dubbi, e nel libro dimostra il perché.

Sostiene però che mentre la stanchezza dell’io narcisistico, isolato e atomizzato ci chiude e debilita, la stanchezza del noi, di più persone insieme, ci unisce e ci dà forza.

Qui, all’interno della sua analisi finora apparentemente senza via di uscita, nei suoi ultimi lavori sembrano aprirsi possibilità di cambiamento.

Alla fine di Psicopolitica, appena pubblicata, Han confida nella capacità dell’uomo (già illustrata da Nietzsche) di «diventare natura», che gli consente di essere «pronto a casi assolutamente imprevisti».

Producendo così eventi completamente nuovi, «improvvisi quanto eventi naturali».

Il mondo chiuso di Han, dove fino a poco fa il cambiamento sembrava impossibile, sembra ora aprirsi.

Protagonista di queste nuove possibilità è una figura inaspettata, come spesso nei sogni.

Si tratta di un outsider, un folle nei nostri tempi dove tutti dovrebbero invece essere come gli altri se li aspettano: l’idiota.

Quello che non si conforma. «Il moderno eretico.

Il termine eresia significa, in origine, scelta.

L’eretico, dunque è qualcuno che ricorre a una scelta libera».

Finalmente!

Dunque si può.

Dai libri precedenti, chiarissimi ma di certo non ottimisti, non ne eravamo sicuri.

In effetti però ultimamente sembra che di qua e di là dell’oceano di eretici comincino a girarne più d’uno.

Che anche Eros possa magari uscire dal coma?

 

Claudio Risè

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