Il Sapere della Psiche

 

 di Pietro Barcellona

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Testo non rivisto delle lezioni

di filosofia della scienza

tenute all’IIPG

 


Indice

 

  1. Le vie del sapere e la critica al riduzionismo scientifico

 

  1. Discorso scientifico e discorsi “alternativi”

 

III. Lo spazio delle pratiche attive nella comprensione del mondo (e dell’Altro)

 

  1. Il sapere dell’anima: il sogno e il preconscio

 

  1. Il preconscio e il linguaggio dell’opera d’arte

 

  1. Il linguaggio metaforico: l’insorgenza della coscienza e il sapere metafisico

VII.   Il soggetto della conoscenza tra necessità e volontà

 

 

 


  1. Le vie del sapere e la critica al riduzionismo scientifico

 

La ricerca della verità, proprio per la consapevolezza di non poterla mai raggiungere e possedere, è da sempre l’obiettivo del pensiero degli esseri umani.

Nell’epoca attuale, sembra che la sola via per l’accesso ad una qualche verità sia garantita dal sapere scientifico, in quanto sapere efficace, la cui attendibilità è assicurata dalla sua idoneità a produrre atti, azioni, fatti, che corrispondano perfettamente alla rappresentazione mentale che gli “scienziati” hanno prospettato. Eppure, può apparire paradossale, ma se c’è un terreno dove emerge persino drammaticamente la fragilità delle basi sulle quali gli esseri umani costruiscono il proprio sapere del mondo, questo è il sapere scientifico.

Il sapere scientifico, su cui è costruita l’episteme contemporanea, si costruisce secondo un metodo rigoroso, che viene assunto come premessa condivisa e che assicura sia la comunicazione interna tra i detentori dei saperi specialistici, sia la verificabilità attraverso procedure predeterminate ed univoche. Il metodo consente di attribuire un privilegio veritativo alle proposizioni formulate dagli esperti (riconosciuti da apposite istituzioni, università, centri di ricerca, congressi, ecc.), attraverso principi “universali”: le rappresentazioni mentali, predittive di eventi, sono dichiarate “ipotesi”; la loro verificabilità va realizzata attraverso una sperimentazione, il cui successo consiste in un risultato pratico conforme alle previsioni delle ipotesi formulate.

Dunque, verificabilità empirica ed efficacia operativa conferiscono, alle proposizioni che vengono selezionate dalla comunità scientifica un’autorità privilegiata rispetto alle proposizioni del linguaggio comune. Naturalmente, al di fuori di tale contesto di istituzioni e procedure, qualsiasi altro discorso sulle questioni dell’esistenza umana e del mondo non può che essere giudicato come privo di attendibilità scientifica e tendenzialmente esposto al discredito in quanto soggettivismo illusorio.

La presunta superiorità del sistema scientifico ha segnato profondamente lo strutturarsi dell’identità di una tradizione occidentale fondata sull’autonomia del sapere scientifico rispetto ai saperi altri, sull’ oggettivazione del sapere ottenuto attraverso il metodo scientifico e su un tendenziale incremento del patrimonio scientifico che, accrescendo le capacità predittive, rendesse possibile l’ipotesi generale del “progresso dell’umanità”.

Ebbene, se tale struttura può aver comportato alcuni “vantaggi” per la sopravvivenza della specie umana, ma soprattutto per l’affermazione di una presunta “superiorità” della civiltà occidentale, credo di poter dire che, guardata più da vicino, l’episteme scientifica si presenti come un enorme castello di sabbia che, pur svolgendo una grande suggestione sugli esseri umani, non ha alcun privilegio da esibire sulle proposizioni che i “non esperti”, i “non scienziati” pronunciano in relazione ai fatti dell’esistenza umana.

Un vero e proprio paradosso è che il pensiero scientifico, contro le sue stesse premesse, sia fondato sulla pretesa metafisica della verificabilità empirica degli enunciati scientifici.

Se la scienza si fonda sulla premessa metafisica dell’esistenza di un’empiria e di una realtà accessibili senza alcuna mediazione culturale, è  persino banale chiedersi, una volta riconosciuta all’episteme scientifica la propria fondazione ipotetica, attraverso quali percorsi privilegiati l’ipotesi abbia accesso alla propria verifica, incontrando la realtà al di fuori dello stesso campo storico-sociale in cui viene formulata. Nessun protocollo e nessun metodo possono, nella prospettiva della scienza, avere una fondazione diversa dalla convenzione data.

Il sapere moderno è diventato, come sostiene Emanuele Severino, ipotetico, provvisorio, revisionabile: è diventato tecnica. La verità, sostiene il filosofo, è potenza della tecnica, potenza suprema di controllo della natura. Ma, proprio perché la tecnica è negazione di ogni verità ultima e non può fare a meno di negare ogni definitività per dominare i processi di trasformazione delle cose, la civiltà occidentale è destinata all’angoscia più radicale. Ogni felicità, ogni paradiso fondati sulla promessa scientifico-tecnologica sono insicuri; ogni logica che intende fondarsi su questa sicurezza, sarà inevitabilmente insicura, perché destinata ad essere ipotetica.

Nessuna logica ipotetica può fondare la verità, può assicurare la durata della potenza e del controllo sulla cosa. L’estrema potenza che l’Occidente ha realizzato, afferma Severino, riuscendo a costruire e a distruggere la cosa, è destinata ad essere essenzialmente insicura, è minacciata dalla possibilità dell’estremo naufragio, perché non esiste nessuna verità incontrovertibile nell’ambito della tecnica. Ci si avvia, così, verso una fase in cui i caratteri sociali e politici dell’organizzazione vengono soppiantati dal carattere tecnico dell’organizzazione della tecnica.

La crisi che colpisce ogni aspetto della civiltà, non solo europea, è una conseguenza del progetto scientifico-tecnologico del dominio illimitato su tutte le cose, secondo il quale è possibile una produzione e una distruzione continua dell’universo:

 

“Per questo progetto non esiste nessuna cosa che non sia distruttibile; nessuna cosa è eterna. Cadono tutti i limiti che in passato come inderogabili leggi hanno limitato l’azione dell’uomo sulla natura: la legge di Dio, la legge naturale, la legge morale, la norma giuridica. Il dominio della cosa impone il primato della tecnica e la tecnica oltrepassa ogni limite, diventa sempre più creazione di un mondo nuovo che si libera continuamente del vecchio. Non si limita più a produrre soltanto beni e strumenti, ma addirittura cammina verso la produzione dell’uomo stesso”[1].

 

In questo processo, il senso della realtà non è più qualcosa che si attinge con il pensiero e la riflessione, ma un prodotto della produzione scientifica. Nell’orizzonte dell’azione scientifica, una cosa è “assoluta disponibilità ad essere prodotta e ad essere distrutta”, una cosa che non è disponibile non è una cosa.

Il discorso scientifico tende ad ignorare la distinzione tra descrizione dei fatti e interpretazione del senso nell’esperienza della vita umana. Se, infatti, le descrizioni possono essere presentate come oggettive, le interpretazioni non possono che radicarsi nei vissuti, devono risultare comprensibili anche quando non sono oggettivamente descrivibili. Per tornare, ancora, al ragionamento di Severino, il compimento del progetto della disponibilità della cosa è l’autonomizzazione della tecnica da ogni problema di senso, la paradossale negazione delle sue stesse premesse:

 

“il dominio della tecnica porta con sé inevitabilmente la distruzione della civiltà tradizionale. Ma paradossalmente nella distruzione della civiltà tradizionale e in special modo della metafisica resta celebrato il suo trionfo, giacché altro non è se non la realizzazione del progetto originario di costruire un sapere capace di guidare le cose nella loro perpetua oscillazione tra l’essere e il niente. Nessuna critica alla tecnica può essere fatta, portata, in nome della tradizione della civiltà occidentale, giacché anch’essa è figlia del senso greco della cosa”[2].

 

Dunque, la civiltà della tecnica è la testimonianza e il compimento del progetto originario. Siamo arrivati, afferma Severino, al punto in cui la scelta di vivere nel tempo e di produrre storia sulla base della libertà, che ha consentito all’essere umano di creare e distruggere le cose, si viene compiendo, riproponendo il problema del destino e della necessità.

 

“Da che la cosa è disponibilità a essere e a non essere (al niente), l’essere è destinato alla manipolazione, alla violazione, allo sfruttamento. Cresce il deserto, il senso non sembra più afferrabile, il senso appare sempre più indicibile. Questo è il destino del dominio scientifico-tecnologico della terra”[3].

 

La tecnica sembra proporsi l’obiettivo impossibile di costruire una seconda natura senza radici. Una natura tutta fondata sulla capacità dell’essere umano di distruggere e di costruire; sull’infinita disponibilità della cosa ad essere costruita e distrutta, a venire dal nulla ed arrivare al nulla. Ma, proprio per questo, è necessario al progetto della tecnica giungere alla ricostruzione della struttura mentale dell’individuo, per conferirgli quelle qualità psicologiche richieste per l’efficace funzionamento degli strumenti.

Il cervello come computer, il corpo umano come macchina, i cui componenti possono essere sostituiti a piacere da microchip e dispositivi bioingegneristici: se si afferma questa visione, anche nel senso comune, vi è il rischio sempre più concreto di ridurre l’essere umano ad un mero ricettore e trasmettitore di impulsi elettrici e chimici.

Ma è pura ideologia neonaturalistica “immaginare” che gli esseri umani possano essere descritti scientificamente come automi pensanti. Qualsiasi affermazione in questo senso, sia che segua la via esplicita di Boncinelli o quella apparentemente più complessa di De Monticelli, oscilla tra un’arbitraria riduzione della realtà e un tentativo di costruire fonti di legittimazione del potere esplicativo sottratte alla competenza dei comuni mortali. Ancor più, se si riconduce ad un processo naturale la riduzione dell’essere umano a macchina, come tentano di fare i teorici del post-umanesimo introducendo formule accattivanti come  edonismo cognitivo, ovvero la possibilità di produrre il proprio piacere in maniera artificiale, senza alcuna mediazione.

Se, come ritengono i neuroscienziati, percezioni, idee, pensieri, altro non sono che una serie di immagini cerebrali, prodotte mediante una connessione sinaptica tra neuroni, l’inevitabile conseguenza è che tutto ciò che ogni individuo pensa e afferma, non sia manifestazione della propria soggettività e della propria coscienza, ma di un mero movimento neuronale. Questo passaggio comporta una evidente negazione della complessità della mente, sostenuta nella sovrabbondante produzione di saggistica dei teorici del post-umanesimo. Da ultimo, il neuropsicologo Chris Frith sostiene che il cervello, utilizzando tecniche di brain imaging,  “fotografando” il mondo esterno grazie alle sensazioni ricevute dagli organi di senso, è il creatore della mente: “dagli indizi forniti dai miei sensi, il mio cervello crea il modello di un mondo mentale fatto di credenze, desideri, intenzioni”[4]. Dunque, non ci sarebbe stato mentale, individuale o sociale, consapevole o meno, che non trovi nel cervello il proprio autore.

Di fronte a questo scenario, la questione da porsi è, allora, se sia pensabile che le descrizioni dei fatti e degli eventi, che la ricerca scientifica si propone di spiegare, siano indifferenti al problema del senso, come condizione insopprimibile della storia del mondo e dell’essere umano. Ciò che il discorso scientifico vuole imporre è, infatti, l’egemonia epistemologica del paradigma biologico, cui corrisponde un’egemonia della narrazione del post-umano, in cui tutto si valuta in termini di efficacia. In tal modo, l’efficacia diviene inesorabilmente la misura della verità: l’azione è vera se ha successo.

Se, apparentemente, l’approccio scientifico, può sembrare convincente, a ben vedere rischia di condurci in un cieco meccanicismo che lascerebbe fuori degli elementi, quali la felicità e il dolore, non spiegabili secondo il discorso scientifico. In questa progressiva disumanizzazione, l’essere umano perde la possibilità di costituire forme di rappresentazione delle proprie pulsioni profonde e strumenti di creazione dei significati incarnati, che permettano a ciascuno di organizzare la propria vita secondo un progetto.

Ragionando in termini di efficacia, la scienza vuole prepotentemente affermare il proprio discorso come unica verità, ed in tale ottica rientra anche l’attacco alla parola, che corrisponde all’attacco ad una forma di vita che da cinquemila anni costituisce lo specifico umano.

 

  1. Discorso scientifico e discorsi “alternativi”

 

Nell’epoca della disumanizzazione, la parola si è “desostanzializzata”, perdendo la sua originalità specifica per divenire uno strumento tecnico che serva a strutturare i comportamenti umani e, più in generale, la realtà. In un mondo di segni falsamente  neutri, l’interazione tra gli esseri umani diviene sempre più impersonale, in un tentativo, neppure troppo latente, di “emancipare” a tutti i costi le parole da ogni vincolo mitico.

Non c’è specifico umano senza spazio dell’interrogazione; come ha spiegato brillantemente Raimon Panikkar, non c’è parola senza pensiero. Pensare è anche pesare, come rivelano le due radici culturali indoeuropee men e med: da men derivano mens-mentis, mein, mensura, e, nelle lingue anglosassoni e germaniche, mind e moon, poiché la luna è anche misura. Ma, fa notare Panikkar,

 

“nella luna anche ci sono tante altre cose. Domandate ai cani quando c’è un’eclisse, domandate ai poeti o agli innamorati; ma noi ormai pensiamo che la luna sia un corpo fisico punto e basta e che le altre siano metafore belle per coloro che ancora non sono scienziati. Contro questo riduzionismo si esercita la mia critica, non contro ciò che la scienza può dire sul peso, la densità, l’atmosfera, i crateri e tutti gli altri aspetti della luna”[5].

 

Dalla radice med deriva la parola medicina, nel suo significato originario, come nota Panikkar, di mederi, arrivare alla salvezza, alla salus, soteria, in sanscrito sarvam: “tutto”. Ancora, ne derivano moderare, nel duplice significato di essere modesto e di guidare l’altro adattandosi alla realtà e cercando di comprenderla, e meditazione: il rientrare in armonia con la realtà senza forzarla.

La desostanzializzazione della parola coincide, quindi, con la riduzione della “salvezza” a “medicalizzazione” e della mente ad apparato neuronale. La reductio naturalistica delle parole a mere facoltà finalizzate alla sopravvivenza non è che la teorizzazione postumana del processo di scissione tra astrazione e concretezza dell’epoca della comunicazione informatica, che rende tutti paradossalmente connessi nello spazio virtuale, ma in realtà non comunicanti e sempre più afasici e solipsisti. Essere in rete, in continua connessione con un flusso di informazioni, non vuol dire parlare con gli altri, ma semplicemente essere inseriti in una catena di input e output che organizzano la vita in ogni sua fase. La rete – non luogo senza centro e senza confini – rappresenta il modo d’essere dell’interconnessione atemporale, simula un’interazione, eliminando però del tutto l’elemento della fisicità degli attori e della materialità dei luoghi. Ma questa forma di interazione non costruisce alcun universo simbolico, poiché alla relazione emotiva tra parola e cosa sostituisce l’uso “neutro” del segno, mero strumento di disciplinamento del reale.

La parola che perde il proprio spazio simbolico e si trasforma in segno, limitandosi a trasmettere informazioni atemporali e anonime, che non hanno nulla dell’incarnato, non realizza più comunicazione ma mera informazione, proprio come nello scambio informatico delle reti.

Raimon Panikkar mette radicalmente in discussione la presunta equivalenza tra parola e termine e rivendica, invece, il potere creativo della parola. Il linguaggio è, al tempo stesso, creatore e risultato di una forma di vita: ogni pratica della quotidianità umana – comportamento, alimentazione, ritualità, vestiario, ecc. – corrisponde ad un linguaggio e, viceversa, ogni linguaggio corrisponde ad un sistema di pratiche affettive.

Ecco perché possiamo intendere la parola in due diversi modi, come mezzo di comunicazione (parola-strumento) e, più propriamente, come modo di essere (parola gratuita). La parola gratuita, in una dimensione non statica e non esaustiva, si autocrea, non potendo essere racchiusa all’interno di saperi specialistici, si allontana dall’assoggettamento ad una logica, ad una legge del pensiero, perché precede tutte le leggi. La parola è, in altri termini, lo specificamente umano, che non si può catalogare e che sfugge alla logica puramente scientifica, poiché la scienza non usa parole, ma termini, adatti, come tali ad ostentare e non a significare.

Se il discorso scientifico fonda la propria verità sull’efficacia,  bisognerebbe tentare di spiegare l’esistenza di discorsi non verificabili in termini di efficacia operativa. Propongo di chiamare questi ultimi discorsi inutili e, a titolo esemplificativo, ne individuo alcuni, dal discorso filosofico, che non ha mai – o non dovrebbe avere – uno scopo pratico e si chiude – o dovrebbe chiudersi – sempre con un interrogativo aperto, al  discorso educativo tra madre e figli, che istituisce la soggettività dei figli ma non può avere alcun scopo di addomesticamento.

Un discorso inutile è senza dubbio quello psicoanalitico. Nella psicoanalisi l’individuo, con la propria irriducibilità, mette in scena una pratica irripetibile, poiché riguarda la ricostruzione della propria storia personale, che gli consentirà di realizzare la propria autonomia. Pertanto, a differenza dei saperi scientifici, in cui è possibile “catalogare” una serie di esperienze consolidate e riproducibili, la psicoanalisi non ha uno scopo esterno e non può neppure qualificarsi come scienza.

“Bisogna diffidare di quei terapeuti che usano i pazienti per assicurarsi che la propria malattia sia la salute – ha scritto Alejandro Jodorowsky – e bisogna diffidare anche di chi pensa che le proprie convinzioni siano la verità”[6].

Appare un discorso inutile anche il rapporto tra religione e storia umana, giacché nemmeno la “fede” può essere – o dovrebbe essere – uno strumento per realizzare uno scopo pratico e, se lo diventa, si degrada ad agire strumentale.

 

“Ogni demitizzazione porta con sé una rimitizzazione. Noi distruggiamo un mito – e giustamente, se quel mito non risponde più allo scopo – ma in un modo o nell’altro subentra sempre simultaneamente un nuovo mito. L’uomo non può vivere senza miti”[7].

 

Chi pensa che i miti siano retaggio di culture primitive, non si rende conto che, oggi, lo scientismo è un mito cui intere società rivolgono il proprio culto.

 

“Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; […] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro”[8].

 

Scorgere i segnali di questa adorazione fideistica non significa cadere nell’oscurantismo o nella demonizzazione della scienza, ma mettere in discussione l’indiscriminata ed arrogante affermazione dello statuto post-umano.

Per i teorici del post-umano, gli esseri umani sono immersi nel grande flusso dell’evoluzione naturale, che non ha inizio né fine e fa giustizia di ogni protagonista, riconducendolo alla propria natura. Così, l’esistenza si riduce ad un puntiforme susseguirsi di sensazioni, piacevoli o spiacevoli, senza alcuna connessione che permetta di pronunciare ancora la parola io, come durevole sostegno di una pluralità di stati d’animo. Se l’essere umano si riduce a serie di punti uguali senza discontinuità, perde la propria identità. Rispetto a questo triste commiato dall’essere umano, in nome della scienza, preferisco pensare che lo specifico umano possa essere ancora rappresentato da un’altra parola: vita.

 

  1. Lo spazio delle pratiche attive nella comprensione del mondo (e dell’Altro)

 

Un rapporto reale con l’Altro può essere instaurato soltanto a partire da significati vincolanti, fondati su una pratica affettiva.

La regista francese Coline Serreau riesce a trasmettere, nel suo bel film La crisi!, il senso reale di una solidarietà affettiva basata su una reciprocità concreta, in antitesi ad un’idea impersonale e astratta – destinata a rivelarsi ingannevole – della relazione con l’Altro da Sé. Un avvocato in crisi esistenziale, abbandonato dalla moglie, incontra un clochard e decide di ospitarlo in casa propria. Pochi giorni dopo, l’avvocato conduce l’ospite con sé ad una cena di intellettuali e politici di sinistra, a casa di un importante deputato socialista. Durante la serata, gli intellettuali chiedono al nuovo arrivato se sia antirazzista e cosa pensi dell’integrazione degli immigrati arabi in Francia. A dispetto di quanto si aspettino i commensali, l’uomo risponde di essere razzista e di provare un odio feroce nei confronti degli arabi. Il deputato socialista si infastidisce parecchio e lo mette alla porta. Nel giro di poco tempo, anche l’avvocato lo abbandona al suo destino e così il clochard è costretto a chiedere ospitalità al fratello. Ma, in seguito, l’avvocato, spinto dalla nostalgia verso l’“amico emarginato”, si avventura nel quartiere degradato in cui vive con il fratello e la cognata gravemente malata. Scopre così, con sorpresa, che il suo amico è cognato di una donna araba e che tutti il vicinato è composto da arabi. Stupito, gli  chiede spiegazioni sulle sue dichiarazioni razziste, per sentirsi rispondere: “Certo che sono razzista, ma questi non sono arabi, sono miei amici”. L’avvocato sembra non capire e continua ad incalzarlo, ma candidamente l’uomo ribadisce che quello è il suo quartiere e che tutti quelli che vi abitano sono suoi amici e fratelli.

Questa storia suggestiva ci parla di una pratica di solidarietà, un rapporto fattuale di comunicazione e rispetto reciproci, che mette in qualche modo in discussione pregiudizi ed affermazioni di principio. La figura del clochard ribalta le consuete chiavi di lettura, rivelandosi la concreta incarnazione della solidarietà; il rapporto di reciprocità e riconoscimento che riesce a costruire con gli arabi che vivono nel suo quartiere, lo rende, alla fine, più antirazzista del deputato socialista che fa i comizi contro le discriminazioni.

Se il rapporto con l’Altro non può instaurarsi in maniera aprioristica e teorica, ma è, invece, una pratica, dovremmo interrogarci su quali siano i primo punti di contatto reale con l’Altro. Sono convinto che uno di essi sia l’odore personale, che mette in scena una prima forma dell’identità corporea nell’incontro con l’Altro. Essere investiti da un forte odore, conosciuto o del tutto estraneo, scatena una sensazione immediata di piacere (profumo) o disgusto (puzza). Quella che sembra una reazione naturale, non è nient’altro una reazione sociale e culturalmente connotata: la percezione olfattiva non è innata, ma strutturata dall’educazione a riconoscere gli odori e classificarli, di conseguenza, in “buoni” o “cattivi”.

La stessa considerazione vale per tutto l’“universo sensoriale”, come spiega efficacemente l’antropologo David Le Breton: i sensi si attivano nel rapporto con il mondo e producono la percezione, intesa come stato riflessivo, mediato dal rapporto con le figure genitoriali.

La percezione non avviene in modo immediato, ma si struttura con l’approfondimento dell’uso e l’apprendimento di una “visione del mondo”, che elabori ciò che i sensi recepiscono caoticamente. Il sapore del mondo è un sapere totalmente differente dal sapere scientifico, poiché ha a che fare con l’effettività della pratica. Prima di riuscire a vedere le cose unitariamente, l’essere umano riceve frammenti indistinti e confusi: un bambino appena nato che si affaccia sul mondo non è capace di vederlo; anche se fosse capace di percezioni visive, non potrebbe assolutamente “vedere” senza l’educazione dei sensi, che avviene nella trasformazione continua delle percezioni in un ordinato sistema dello spazio e del tempo.

Lo sguardo è, allora, la capacità sintetica che permette di avere un colpo d’occhio sulle cose, in modo da ordinarle in una maniera selettiva, espressione della creazione sociale dei significati. Per questo, lo sguardo, il modo di vedere le cose, cambia a seconda delle civiltà; se le percezioni sensoriali sono valutazioni, non è possibile costruire un’unità di senso, riunificare i sensi attorno ad un’unica visione del mondo, senza una soggettività, irriducibile alla meccanica dell’apparato neuronale, chimico ed elettrico.

Se l’odore personale è uno dei primi messaggi che ci giungono nell’incontro con l’Altro, ciò diviene ancora più evidente nella più forte esperienza, anche olfattiva, l’amore, in cui si sperimentano gusto e dis/gusto. L’amore è, infatti, quella situazione in cui si incontra l’Altro e si realizza una forte sensazione di “comunione amorosa”, originale sintesi di unità dello spazio corporeo e di distinzione delle identità psichiche.

Sylvie Germain, ne Gli echi del silenzio, a partire da una rilettura del dramma shakespeariano Re Lear, giunge a sostenere che l’amore è creazione dal nulla. Con una sensibilità fuori dal comune, la scrittrice francese mette in evidenza la forza spirituale del personaggio di  Cordelia, figlia minore del re, che si rifiuta categoricamente di adularlo, come fanno in maniera interessata ed avida le sorelle Gonerilla e Regana, al momento della divisione del patrimonio.

Cordelia si chiude in un delicato silenzio, che il padre non riesce a capire, interpretandolo come un oltraggio. Re Lear continua ad incalzare Cordelia, ma la risposta sarà sempre la stessa: “non dirò nulla, signore. Nulla”. Il prezzo da pagare per lei sarà alto: la diseredazione e il disprezzo da parte del padre, che le risponde: “Nulla si ricava dal nulla”. Ma Cordelia, pur essendo quasi una bambina, non ha intenzione di monetizzare l’affetto per barattarlo con terre e ricchezze, e sceglie la via più dolorosa: amare e tacere. Neppure quando, dopo tanto tempo, errabonda, ritroverà il padre che vaga come un folle nella brughiera, manifesterà del risentimento o avanzerà delle critiche, restando, nonostante tutto, candida ed umile: “Guardatemi, sire. Stendetemi le mani sul capo e beneditemi. No, sire, voi non dovete inginocchiarvi”. Ciò che re Lear non aveva compreso è che nulla non significa ripugnanza o impudenza ma, al contrario, partire disarmati. La vocazione di Cordelia è amare in maniera assoluta, “fendendo i venti e le maree”. Non c’è un tentativo di dominio, ma un disarmo, una vera e propria comunione in cui nessuno può comandare l’Altro.

Forse questo potrebbe essere l’approccio al divino, si interroga Sylvie Germain: di fronte al difficile silenzio di Dio, si potrebbe azzardare un paragone ed insinuare il dubbio che non sia “sordo di cuore”, ma voglia invece mettere alla prova. Come Dio mette alla prova Giobbe, così farebbe re Lear con le proprie figlie, con lo stesso desiderio: il puro amore, ovvero essere amati in cambio di nulla, solo per la bellezza del gesto.

Essere “senza memoria e senza desiderio” nel rapporto con l’Altro. Con queste parole, Wilfred Bion esortava i propri colleghi psicoanalisti a trasformare radicalmente il proprio atteggiamento con i pazienti. Lo psicoanalista dovrebbe dimenticare tutto del paziente, per aprirsi davvero alla sua essenza, prendendo le distanze da qualunque tipo di desiderio, che possa riferirsi sia al paziente stesso – come il desiderio che guarisca rapidamente – che alla propria persona. Solo così il lavoro psicoanalitico può realmente trasformare, ovvero influire sull’atteggiamento del paziente e permettere la ricostruzione dell’autonomia e dell’identità, attraverso la presenza-assenza dello psicoanalista.

Dunque, il discorso dell’analisi non può che essere un discorso strumentalmente inefficace, in quanto non funzionale al risultato che vuole ottenere o dimostrare; al contrario del discorso scientifico, che si misura sull’efficacia, ovvero in base all’adeguatezza dei mezzi al raggiungimento del risultato atteso e prefigurato, ma non tocca il senso dell’esistenza. Solo i saperi non strumentali possono mettere in atto una trasformazione dei modi di essere, dell’autorappresentazione, della consapevolezza, che non sono risultati verificabile in termini funzionali, poiché non hanno alcun effetto “scientifico”.  Se la terapia farmacologica nella cura dei malati gravi è certo utile, l’amore parentale che circonda tali malati sarà, di converso, considerato, inutile per la guarigione dalla malattia in sé, ma la sua inefficacia funzionale lo rende, invece, trasformativo dell’atteggiamento del paziente.

 

“Per guarire, il malato deve convincersi che il più delle volte l’origine delle sue sofferenze è di natura psicologica. La malattia conferisce una sorta di identità, un senso di appartenenza al responsabile della sua malattia: in genere si tratta di un membro della famiglia. La malattia è l’unico vincolo che lo lega alle creature che lui ama, ma che non lo avevano amato nel modo giusto. Se riconosciamo di non essere mai stati amati, cominciamo a guarire. Eppure non vogliamo saperlo, perché il dolore sarebbe così grande che anche se guarissimo, moriremmo. Vogliamo aspirine, vogliamo soltanto sedare il dolore fisico, vogliamo essere calmati e vogliamo qualcuno che si prenda cura di noi a lungo. Insomma, desideriamo che il dottore ci accarezzi”[9].

 

  1. Il sapere dell’anima: il sogno e il preconscio

 

La riflessione sulle diverse modalità di accesso al “sapere della realtà” precipita in una contrapposizione persino drammatica fra sapere scientifico e credenze illusorie al momento di definire i termini anima, psiche, coscienza, mente. Proprio su questa ultima parola, che non considero particolarmente felice, si è sviluppata l’elaborazione dei neuroscienziati e, più in generale, di quegli studiosi, che guardano alle neuroscienze come solo campo di verifica delle loro teorizzazioni, secondo cui tutte le espressioni con cui sono state designate situazioni soggettive, distinte e irriducibili alla mera neurobiologia, dovrebbero potersi risolvere in descrizioni di funzioni cerebrali. In sintesi, la mente sarebbe “ciò che il cervello fa”[10], come sostiene Derek Denton, o, tutt’al più, “ciò che di più alto, cioè a noi più gradito, il cervello fa”[11], come commenta Boncinelli. In quest’ultima prospettiva, la coscienza, diverrebbe ciò che ci permette di sapere dove siamo e, contestualmente, di sapere che lo sappiamo, ovvero:

 

“il modo nel quale la percezione del mondo esterno, ma anche delle condizioni momentanee del mio proprio corpo, diviene una cosa «mia» interiore, omogenea a tutto ciò che già vi si trova”[12].

 

Nella prospettiva della filosofia della mente, sembra quasi inevitabile che tutte le tonalità affettive che strutturano la dimensione della soggettività della persona – come peculiarità irriducibili della singolarità di ciascun essere umano e al contempo portatrici di connotazioni che ne permettono la proiezione universale – finiscano per essere ridotte a corrispondenze descrittive fra stati interni ed esterni o ad irrilevanti sovrastrutture attribuite ad una insufficiente conoscenza della realtà del funzionamento mentale. La coscienza sarebbe, così, utilizzabile per agire, materialmente, mentalmente o verbalmente:

 

“Può darsi che tutta la magia del fenomeno coscienza si risolva nel portare alla ribalta del mio Io certi contenuti della percezione che siano «pronti all’azione» o addirittura già azione: cose che stanno a mezza via fra la constatazione e la progettazione, come dire «il progetto»”[13].

 

Per il sapere scientifico non può esserci una differenza qualitativa tra le procedure selettive del sistema neurobiologico dell’essere umano e lo spazio mentale del soggetto, così come non può esserci tra la logica “efficace” della razionalità scientifica e la logica che presiede alle diverse forme di messa in scena di quella realtà impalpabile e irriducibile, che già i greci chiamavano psiche: l’inconscio.

La negazione di questa differenza e l’implicita affermazione che tutto possa essere ricondotto ad un’unità di funzionamento, appare il risultato di una arbitraria ed ideologica amputazione dell’esperienza affettiva di ciascun essere umano. L’aspetto ideologico appare ancor più chiaro se si considera che alla base della visione delle neuroscienze, e della fenomenologia che vi si fonda in quanto teoria della mente, vi è una concezione del sapere come dominio della realtà, realizzato sia attraverso la simulazione di laboratorio che con l’illimitata riproducibilità tecnica.

Appropriabilità e riproducibilità illimitata sono le radici profonde del sapere scientifico, che si modella, come ha egregiamente dimostrato Aldo Gargani, sul rapporto della grammatica soggetto/oggetto[14], a partire dalle teorie newtoniane e dalla volontà di potenza hobbesiana. Tale dialettica tende a costruire il sapere sulla proprietà e la disponibilità dell’oggetto ad essere plasmato e manipolato, usato e riprodotto, in base ad un infondato potere ordinante dell’accadere caotico della realtà. Già Adorno e Horkheimer evidenziavano l’originaria volontà di potenza che anima il sapere della modernità[15]; oggi tale volontà si manifesta nel dominio e nella riproduzione del vivente umano, palesando come il dispositivo profondo della storia occidentale sia intriso della volontà di dominio della razionalità strumentale. Solo ciò che è interamente riproducibile è effettivamente conservabile all’infinito, ma ciò che è conservabile all’infinito perde, paradossalmente, ogni originale peculiarità che consenta di individuarne il proprium. L’appropriazione della natura finisce, così, con il dissolvere la stessa pretesa proprietaria dell’essere umano, che diventa una funzione del sistema di appropriabilità della vita priva di determinazioni storico-sociali, come pura energia che si dispiega nel flusso evolutivo dell’universo.

La critica di questi aspetti evidentemente espressivi di un progetto riduzionista non può, tuttavia, limitarsi ad una semplice riaffermazione dell’insopprimibilità soggettiva dell’esistenza di un mondo mentale che non coincida con le descrizioni scientifiche delle funzioni cerebrali: si tratta di interrogarsi sulla presenza di un’altra logica, non utilitaristica, che si manifesta nei discorsi sul mondo e si realizza attraverso pratiche riferibili a “fattori non espressivi della pura funzionalità del vivente”. Sotto questo profilo, la riflessione psicoanalitica apre a dimensioni del sapere e del discorso umano che appaiono comprensibili solo assumendo un paradigma radicalmente alternativo a quello del rapporto mezzo/fine.

Il paradigma della complementarità, dissolutivo della rigidità identitaria e suggeritore di altri percorsi per la comprensione della psiche, l’et-et, proposto da Davide Lopez e Loretta Zorzi, trova nel sogno il luogo in cui la realtà psichica si rappresenta in tutta la sua complessità. I due autori sviluppano un approccio al sapere differente da quello scientifico fondato sull’opposizione vero/falso e analizzano i saperi che viene dal mondo onirico, dalla realtà insopprimibile del sogno e dallo stato soggettivo in cui esso viene messo in scena in un linguaggio che non è del tutto estraneo al linguaggio della coscienza.

L’innovazione radicale dell’assunzione del paradigma dell’et-et, in contrapposizione al paradigma dall’aut-aut, dominante in gran parte della psicoanalisi, permette una rilettura e un oltrepassamento critico della visione freudiana, che considerava soltanto il contenuto latente del sogno, senza valorizzare il contenuto manifesto e il suo essere forma specifica d’esperienza: “il contenuto manifesto, in quanto espressione del preconscio, contiene tutto il sogno, è il sogno stesso”[16].

Il sogno incarna compiutamente il paradigma dell’et-et: il linguaggio figurativo onirico, che si caratterizza per la potenza plastica e la ricchezza di significati, che superano persino quelle del linguaggio logico-razionale della coscienza, e richiama inevitabilmente il linguaggio metaforico della poesia e dell’arte, è la materia prima di cui è costituito il preconscio, lo strato dello spazio mentale in cui il Sé incontra il mondo esterno e interno. Il Sé sognante, spogliatosi sia delle funzioni razionali che delle deformazioni dello stato di coscienza, è in grado di porsi

 

“in relazione con la realtà del mondo esterno, non autoplastico e solipsistico, ma quale mondo che  ha internalizzato gli oggetti essenziali della realtà esterna. Il rapporto tra sognante e preconscio, quale rapporto vero, è possibile, anche in questo caso, proprio grazie alla distinzione preconscia tra il sentimento di sé che il sé sognante conserva e la realtà virtuale nella quale si immerge.”[17]

 

Il preconscio parla nel sogno ed attraverso il sogno, con un linguaggio che “trova una analogia pregnante nelle parole di Eraclito: «Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice, né cela, ma accenna»”[18].

La figura del preconscio, come spazio mentale in cui emerge il linguaggio della “comprensione complementare”, che presiede alla conoscenza affettiva, rende l’impianto analitico di Lopez e Zorzi assolutamente innovativo; mentre per Freud il preconscio è una sorta di “magazzino” di ricordi e conoscenze e, al contempo, un “guardiano del sonno”, per gli autori è il reale organizzatore della vita psichica ed opera come forza motivazionale che presiede alla rappresentazione del desiderio, dell’appagamento, della gioia, ma anche della tensione e del conflitto, poiché la “consapevolezza” di se stessi implica, inevitabilmente, anche dolore.

Il preconscio è un Sé che raccoglie al proprio interno i significati essenziali dell’evoluzione del rapporto tra il Sé e la realtà del mondo esterno, in forma di sapere, e che mette in atto un’azione di temperamento delle alterazioni e persino delle distruzioni relazionali compiute durante lo stato cosciente. Se lo stato di veglia non ha saputo in maniera adeguata “preservare e sviluppare ulteriormente, in modo sano, la qualità di un rapporto estatico dell’io e del sé con la realtà”, il preconscio sarà il Sé “correttore, ripristinatore e costruttore sapienziale” di quel rapporto.

Le strutture psichiche dell’individuo si esprimono attraverso il sogno e parlano il linguaggio del preconscio, che presiede alla costruzione di un mondo, fatto di persone ed oggetti che, oltre ad avere un significato concreto, ne possiedono anche uno simbolico. Le immagini del preconscio vanno ben oltre l’allegoria, il simulacro, il segno: la potenza e il pathos del linguaggio onirico stanno nella potenzialità espressiva simbolica delle sue parole e delle sue immagini, che rivelano un significato essenziale e intenso.

 

“Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità. […] La involontarietà dell’immagine, del simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine o simbolo, tutto si offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice. Sembra veramente […] come se le cose si avvicinassero e si offrissero come simbolo […]. La più potente forza simbolica che ci sia stata finora è un povero giochetto di fronte a questo ritorno del linguaggio alla natura della figurazione”[19].

 

Soltanto il preconscio può costruire sogni “stravaganti ed evasivi: viaggi, stramberie, pazzie, perfino voli”[20], che risanano la mente dalle convenzioni della vita quotidiana e, al contempo, suggeriscono soluzioni a questioni esistenziali irrisolte, malgrado e a causa della coscienza razionale, nella vita diurna. Lo scrittore e regista Alejandro Jodorowsky descrive in maniera affascinante le straordinarie possibilità del sapere onirico, rileggendo da un vecchio diario gli appunti su un proprio sogno:

 

“Immediatamente mi dico: «È sicuramente un sogno». Provo a uscire dalla finestra volando ma non ci riesco. Ho l’impressione che le pareti siano spesse parecchi metri. Devo attraversarle. Mi sembra un’impresa impossibile. Mi obbligo a provarci, attraverso la parete senza difficoltà ed esco all’aperto: nel cielo azzurro, fluttuo tra le nuvole. Mentre mi lascio trasportare da una brezza leggera, dico tra me: «Sfrutterò questo sogno per vedere il mio Dio interiore»”[21].

 

La sapienza del preconscio si rivela, così, addirittura al di sopra della conoscenza del soggetto cosciente. Di fronte alla complessa enigmaticità del “dio preconscio”, animatore dei sogni, risulta evidente il riduzionismo di chi, da Freud in poi, ha insistito sulla funzione rimuovente del preconscio, che va concepito invece, come spiegano Lopez e Zorzi, in una dimensione molto più ampia ed intensa, come organizzatore creativo di un inconscio formato da diversi livelli, non sempre strutturati, che raccolgono le esperienze universali della vita. Il preconscio non ha la “necessità di dormire”, né di circoscriversi al ruolo di “guardiano del sonno” e all’attività negativa di mascheramento e vigilanza, è un Sé vivente:

 

“che organizza appunto, non solo la vita fantasmatica, base dei miti, della poesia e del pensiero innovativo, ma anche quella dei sogni e di quel contenuto di sapienza che in essi è possibile scoprire […]. La sua astuta sensibilità consiste anche nel non svelare troppo, e troppo subito, il suo sapere alla coscienza, la quale potrebbe venirne traumatizzata”[22].

 

Se si attribuisce al preconscio il ruolo di organizzatore di una conoscenza del mondo caratterizzata dall’ambivalenza e dall’oscillazione fra virtuale e reale, ci si può opporre alla semplificazione attuata dal paradigma scientifico/sperimentale, che comporta l’impoverimento e l’appiattimento del soggetto, annichilendo del tutto la reale potenzialità trasformativa della pratica analitica. L’analisi dovrebbe essere, invece:

 

“lo smantellamento, il dissolvimento delle sovrastrutture deformate e il recupero della qualità estatica, di sogno, del rapporto con la realtà. Possiamo stabilire un’ analogia tra il recupero di un rapporto estatico nel sogno e l’incontro estatico, ripristinato in analisi, tra il sé sano del paziente e la consapevolezza dell’analista”[23].

 

Il livello più profondo della psiche, quello sapienziale del sogno, e quello, organicamente più superficiale, della consapevolezza, sono equiparabili. Solo la consapevolezza dello psicoanalista, in un’analisi costruita sulle potenzialità di integrazione progressiva dei contenuti del preconscio, può consentire all’analizzando di recepire nella coscienza il sapere creato dal preconscio.

 

“Nell’organizzazione dei diversi livelli strutturali del preconscio il più elevato è quello sapienziale. Nel sogno la sapienza del preconscio trasmette all’io sognante che, come abbiamo mostrato, è il solo strutturalmente adatto a raccoglierlo, il messaggio rivolto allo stato di coscienza della veglia. Vi è quindi, negli anni, una trasmissione graduale dalla profondità preconscia alla coscienza razionale, la quale, in un percorso ideale nel tempo, può trasformarsi in consapevolezza”[24].

 

In questo senso, si potrebbe paragonare il ruolo dello psicoanalista a quello del preconscio, nel tenere conto delle differenti capacità per giungere alla coscienza dell’individuo, in un alternarsi fra preconscio e coscienza della veglia e del sogno che apra alle potenzialità creative e trasformative.

 

  1. Il preconscio e il linguaggio dell’opera d’arte

 

Il linguaggio del sogno è identificabile con il linguaggio simbolico: quanto più la realtà onirica si avvicina ad una espressione compiuta, tanto più acquisisce forza descrittiva e capacità sintetica. La peculiarità del linguaggio del preconscio è proprio la rilevanza della messa in scena, la pregnanza della rappresentazione e del momento figurativo, che danno immediatamente il senso di una comprensione capace di istituire simultaneamente relazioni significative tra una molteplicità di “oggetti”.

L’elemento sintetico conferisce al linguaggio onirico del preconscio una particolare tonalità e lo caratterizza per la non scomponibilità in elementi particolari, per essere una scena totale, non riducibile agli “oggetti” che la costituiscono come insieme significativo.

Si potrebbe dire che la forma di sapere che si realizza attraverso il linguaggio onirico del preconscio sia conoscenza di una verità allo stesso tempo ambigua e univoca, contraddittoria e coerente, poiché rappresenta, in un colpo d’occhio, la complessità e l’unicità del significato con cui il soggetto si relaziona. Nel linguaggio del preconscio stanno insieme figure, emozioni ed oggetti che non possono esprimersi attraverso una logica lineare e che sono uniti dal nesso profondo dell’affettività. È su questo punto che bisogna insistere per delineare la peculiarità di questa forma di conoscenza: l’impasto di rappresentazione e affettività che rende possibile la contestualità di emozioni differenti e persino contraddittorie, la comprensione di un significato affettivo che non è riducibile alla pura descrizione di differenti stati d’animo.

Per comprendere la rilevanza conoscitiva del linguaggio del sogno e del preconscio è significativo aprire la riflessione al linguaggio dell’opera d’arte. Che significa fermarsi ad osservare, ad esempio, un quadro di Van Gogh? E cos’è un quadro di Van Gogh? Se si potesse dare una risposta a queste domande, si troverebbe la chiave per oltrepassare i confini riduttivi del dibattito attuale, che mira a ricondurre a gli esseri umani alla sola dimensione neurobiologica.

Un quadro di Van Gogh è certamente un oggetto descrivibile analiticamente attraverso gli elementi che lo compongono, gli oggetti che sono rappresentati e persino il contesto in cui è collocato. Ma il problema non è trattare il quadro di Van Gogh come una “cosa”, bensì come una via per comprendere il mondo nelle sue dinamiche profonde, nelle sue tensioni e nei suoi significati apparentemente oscuri. Esprimendosi con il linguaggio del preconscio, l’opera d’arte organizza un processo conoscitivo che non è riducibile ai momenti cognitivi della descrizione dei suoi elementi. Un quadro di Van Gogh, come un quadro di Cézanne o di Münch, è l’insorgenza di un significato del mondo che lega chi lo guarda ad una verità assoluta: la coincidenza della messa in scena con l’affettività che si manifesta in chi, di volta in volta, osservandolo, ne viene assorbito.

Proprio da un celebre dipinto di Van Gogh, traeva spunto Heidegger nelle sue analisi della rappresentazione del mondo:

 

“Consideriamo, a titolo di esempio, un mezzo assai comune: un paio di scarpe da contadino. Per descriverle non occorre affatto averne un paio sotto gli occhi. Tutti sanno cosa sono. Ma poiché si tratta di una descrizione immediata, può essere utile facilitare la visione sensibile. A tale fine può bastare una rappresentazione figurativa. Scegliamo, ad esempio, un quadro di Van Gogh, che ha ripetutamente dipinto questo mezzo. Che c’è in esso da vedere? Ognuno sa come son fatte le scarpe. Se non si tratta di calzature di legno o di corda, hanno la suola di cuoio e la tomaia unita alla suola con cuciture e chiodi. Questo mezzo serve da calzatura. Col variare dell’uso – lavoro nei campi o danza – variano la forma e la materia. Queste considerazioni abbastanza banali non fanno che chiarire ciò che già sappiamo. L’essere-mezzo del mezzo consiste nella sua usabilità. Ma che ne è di quest’ultima? Con essa afferriamo anche l’essere-mezzo del mezzo? A tale fine non dovremmo considerare il mezzo usato nell’atto del suo impiego? La contadina calza le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Ed esse sono tanto più ciò che sono quanto meno la contadina, lavorando, pensa alle scarpe o le vede o le sente. Essa è in piedi e cammina in esse. Ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo. Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non-impiego, non saremo mai in grado di cogliere ciò che, in verità, è l’essere-mezzo del mezzo. Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccati, denunciandone almeno l’impiego. Un paio di scarpe da contadino e null’altro. Ma tuttavia…

Nell’orificio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesatore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dall’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso”[25].

 

Rileggendo le parole di Heidegger, non si può dire che un quadro sia soltanto una “cosa”: il quadro di Van Gogh è il mondo, in cui particolare e universale si tengono, non per effetto di un’astrazione o di una generalizzazione scientifica, ma per la comprensione di una singolarità istantanea che contiene simultaneamente le dimensioni della temporalità e del divenire universale.

Ma, nell’analisi heideggeriana, la questione dell’attribuzione delle scarpe ad un soggetto ben definito ed identificabile ed al suo mondo specifico emerge come fondamentale, ponendo dei limiti a quella comprensione. Da qui, la critica di Jacques Derrida, riassumibile nella nota frase “le scarpe potrebbero anche non essere di nessuno”[26], ovvero le scarpe sono di chi si proietta nell’opera d’arte; le scarpe non sono di nessuno e sono, al tempo stesso, di ogni soggetto che guarda e che aspira ad entrare, come attore vivente, in una sceneggiatura in continuo movimento, in un mondo appreso nella sua visceralità vitale, in un “pezzo della vita” conosciuto nella sua dimensione di verità esistenziale, che nessun testo di storia, economia agricola, costumi popolari, potrà mai offrire.

Come il quadro è una via per la conoscenza, così chi lo guarda non può che essere un soggetto mosso da un desiderio implacabile, che lo costringe a cercare la verità di se stesso e delle proprie relazioni affettive.

Mentre Heidegger colloca ogni “conflitto della mondificazione su di un fondamento resistente”[27] nei lineamenti dell’opera d’arte in quanto opera, la critica di Derrida muove proprio dalla differenza tra il linguaggio dell’opera d’arte e il linguaggio logico sistematico, a partire da quello filosofico. L’arte e la poesia, come il sogno, forniscono un’esperienza dell’impossibile; di fronte ad esse non si può non riconoscere che siano un percorso della conoscenza del mondo, una pausa dell’interrogazione su chi siamo e da dove veniamo, che ci consente di afferrare il senso particolare dell’accadere e la dimensione cosmica dell’essere immersi in un universo simbolico.

Messa in scena, simbolo e metafora. Tre dimensioni che non appartengono al linguaggio scientifico, ma al linguaggio del sentire, come mobilitazione simultanea dell’apparato sensoriale e dello spazio mentale in cui compaiono le figure e le immagini delle “cose”.

Antonin Artaud, proponendo al teatro contemporaneo un ritorno al linguaggio del preconscio, che si rivolgesse innanzitutto ai sensi, descriveva un antico dipinto e le idee suscitate dalla sua visione:

 

“la grandezza poetica di queste idee, la loro concreta efficacia nei nostri confronti, deriva dal fatto di essere metafisiche, e dall’essere la loro profondità spirituale inseparabile dall’armonia formale ed esteriore del quadro. C’è poi un’idea sul Divenire che in diversi particolari del paesaggio e il modo come sono dipinti – il modo cioè come i vari piani s’annullano o si corrispondono – introducono nel nostro spirito in forma assoluta, come lo farebbe una musica. Ce n’è un’altra sulla Fatalità, espressa, più che attraverso la comparsa di quel fuoco improvviso, attraverso il modo solenne in cui tutte le forme si compongono o si scompongono sotto di esso, alcune come piegate da un soffio di panico irresistibile, altre immobili e quasi ironiche, ma tutte sottomesse a una possente armonia intellettuale, che si direbbe l’esteriorizzazione dello spirito stesso della natura. C’è inoltre un’idea sul Caos, e altre sul Meraviglioso e sull’Equilibrio […]

Sostengo che questo linguaggio concreto, destinato ai sensi e indipendente dalla parola, deve anzitutto soddisfare i sensi, che esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, e che questo linguaggio fisico e concreto cui alludo non è veramente teatrale se non nella misura in cui i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato”[28].

 

La relazione tra l’opera d’arte e chi la guarda è sapere, ma non è riducibile a nessuna teoria cognitivista, poiché il terreno su cui si muove il soggetto dello sguardo non è quello del descrivere per spiegare, ma quello del comprendere per amare o respingere, per lasciarsi trascinare nell’aura dell’“estatica intuizione della verità della vita” e non già per possedere e dominare un segmento della natura reso inerte dalla scomposizione descrittiva. Tra l’opera e chi la guarda, lasciandosi coinvolgere nell’“aura”, c’è un rapporto di conoscenza del mondo che è, insieme, passivo e creativo, fatto di risonanze soggettive, di mobilitazione di memorie personali e di irriducibilità del mondo esterno a pura allucinazione fantasmatica: realtà arricchita dal soggetto, ma non negata nella sua consistenza autonoma; enigmatica compresenza di soggettività e oggettività, in cui ciò che proviene dal soggetto non è comprensibile senza le determinazioni dell’oggetto, e dove l’oggetto resta muto senza le determinazioni soggettive di chi guarda.

La soggettività che cerca il suo linguaggio nel preconscio non è una soggettività meramente deducibile dal processo evolutivo, ma è una soggettività che sceglie una forma d’essere irriducibile alla volontà di potenza del sopravvivere e non finalizzata al dominio della natura e all’uso strumentale dell’attitudine esplicativa degli esseri umani; che aspira alla possibilità di autoidentificarsi nel contesto di una relazione. È l’insorgenza di una frattura nella continuità apparentemente lineare del rapporto fra sé e mondo: l’insorgenza dell’autoriferirsi a sé come una soggettività autonoma e irripetibile, organizzatrice di un mondo umano non riducibile alla pura sequenza del vivente. L’oggetto della conoscenza, a sua volta, non è un inerte e passivo offrirsi di un dato alla manipolazione strumentale dell’agire umano, ma una trasmissione di significati, in un campo che li accomuna in una destinazione universale: comprendere per esistere, esistere per amare, amare per guardare e godere la scena della vita.

Le dinamiche del sapere affettivo attengono al campo della rappresentazione, allo spazio mentale; risulta quindi fondamentale aprire la riflessione alle modalità di costituzione di tale spazio, specifico degli esseri umani, che si pone in rapporto di discontinuità con lo spazio fisico e materiale.

Il sapere affettivo non è strumentale ma trasformativo. È per questo che la psicoanalisi non dovrebbe tendere alla cura, ad un immediato risultato pratico definibile mediante un comportamento, ma all’autocostituzione del soggetto dello sguardo sul mondo e ad una differente messa in scena della relazione fra sé e mondo. Il sintomo, come il sogno, non andrebbe scomposto nei suoi elementi per neutralizzarne il “potere malefico”, ma trasformato in uno dei linguaggi con cui realizzare un’autorappresentazione di sé, capace di integrare la complessità nella persistenza flessibile della propria identità e del proprio racconto.

Se la psicoanalisi è l’istituzione di uno sguardo che consente di collocare il sintomo in una messa in scena della propria vita, consentendo di non viverlo più come una coazione deprimente, il nuovo sguardo, acquisito attraverso il rapporto con l’analista, consentirà al soggetto di prendersi personalmente cura di sé e di trattare il sintomo non come un corpo estraneo, ma come una delle voci che esprimono la profondità ambivalente dei propri sentimenti, che può essere contenuta e trasformata in energia positiva, ampliando il contenitore della propria emotività.

 

  1. Il linguaggio metaforico: l’insorgenza della coscienza e il sapere metafisico

In verità, lo spazio mentale si colloca all’incrocio di tutte le questioni che riguardano le forme di conoscenza degli esseri umani. Cos’è lo spazio mentale? È possibile immaginare un luogo in cui esso prende consistenza e diventa, a sua volta, oggetto di un sapere che ha a che vedere con le dimensioni della psiche e delle sue multiformi manifestazioni? Lo spazio mentale è certamente il luogo in cui emergono le rappresentazioni e gli affetti, il luogo in cui le rappresentazioni, anzi, portano gli affetti sulla scena e permettono un qualche rapporto di visibilità degli “oggetti mentali”. Lo spazio mentale è la scena che pone in essere l’orizzonte di senso dentro il quale le figure e le immagini si riconnettono in un significato che fornisce al titolare  della rappresentazione una visione del mondo distinta, ma non estranea, da ciò che accade nella realtà. Nello spazio mentale prende corpo la figura dell’io che guarda e che, allo stesso tempo, si rappresenta come colui che vede la scena e le figure con cui prova a riferirsi contestualmente  a se stesso e al mondo esterno. E del resto sarebbe difficile immaginare uno schermo cinematografico sul quale si svolge una scena con personaggi, atmosfere e parole senza che ci sia un regista che raccoglie tutti questi materiali in una visione che gli conferma l’esistenza particolare del proprio io,  come “produttore” della scena e delle figure che compongono la visione del mondo di quell’io, in quanto persona determinata e concreta.

Il punto è che non si può immaginare un’attività rappresentativa senza un soggetto della rappresentazione e non si può immaginare una scena che accade in uno spazio diverso da quello reale che non sia riconducibile a una peculiare organizzazione dell’apparato rappresentativo, come riferibile all’attività di un soggetto che, a sua volta, riflessivamente rappresenta se stesso nella scena che accade nello spazio mentale. È evidente che l’autorappresentazione  del soggetto appartiene al campo delle rappresentazioni che si susseguono nello spazio mentale, ma è altrettanto evidente che non si può parlare dei contenuti di siffatte rappresentazioni, siano esse mobilitate dalle potenza della pulsione istintuale, siano esse l’effetto della pura organizzazione logica delle connessioni fra i diversi oggetti, senza ipotizzare un Contenitore che consenta di ridurre ad unità il magma delle tensioni emotive e del bisogno di una identità autoconsistente, capace di praticare i diversi linguaggi.

Come scrive Jaynes la coscienza opera per analogia con la costruzione di un analogo spazio, con un analogo io che è in grado di osservare tale spazio e di muoversi metaforicamente in esso. La coscienza opera su ogni forma di reattività, seleziona da un tutto apsetti pertinenti, che narratizza e concilia fra loro in uno spazio metaforico in cui tali significati possono essere manipolati come cose nello spazio. La mente cosciente è un analogo spaziale del mondo e gli atti mentali sono analoghi di atti corporei. La coscienza opera solo su cose osservabili oggettivamente.

Il problema che si pone è come e quando si produce questa insorgenza della coscienza e in che rapporto sta il sapere metaforico che le è proprio con le altre vie di accesso al sapere della psiche, che abbiamo preso in considerazione nei paragrafi precedenti. Assumiamo come punto di riferimento delle nostre riflessioni Jaynes perché, pur essendo paradossalmente un evoluzionista, sembra in grado di descrivere efficacemente il momento e il luogo dell’insorgenza della coscienza della rappresentazione dell’io, ripercorrendo una “storia” che sembrerebbe trovare riscontro nel passaggio dall’antropologia dei poemi omerici a quella che sarà inaugurata poi dalla filosofia socratica e proseguita da Platone. Il rapporto tra il formarsi della coscienza di sé e il comportamento che caratterizza gli eroi dei poemi omerici sembra offrire più di uno spunto per ragionare sui rapporti tra la coscienza e il preconscio e tra l’evoluzione biologica e l’insorgenza di forme originali del rapporto tra io e mondo. Secondo Jaynes, infatti, la conferma della sua ipotesi evoluzionista dal preconscio alla coscienza sarebbe costituita dal rapporto che sussiste tra l’antropologia dell’eroe omerico e l’antropologia filosofica inaugurata da Socrate.

 

Thumos, phrenes, noos, psiche, kradie, ker, etor: da queste parole greche prende avvio la controversa presa di posizione dello psicologo Julian Jaynes, che mira, però, a ricondurre la fenomenologia della vita umana ad un paradigma evolutivo.

La traduzione di queste sette parole con “mente”, “anima” o “cuore” è, secondo la lettura dei poemi omerici di Jaynes, erronea, in quanto “queste parole designano parti oggettive dell’ambiente o del corpo umano”[29]. Secondo Jaynes, la parola che dà il suo nome alla psicologia, come non può fare a meno di ammettere, sembrerebbe essere utilizzata nello stesso modo in cui i moderni usano la parola “vita”, ma nell’Iliade non avrebbe il senso di intervallo fra nascita e morte dell’individuo, pieno di eventi e di sviluppi:

 

“Quando una lancia colpisce il cuore di un guerriero, la sua psyche si dissolve (V, 296), è distrutta (XXII, 325) o semplicemente lo lascia (XVI, 453) o viene espulsa tossendo attraverso la bocca (IX, 409), o esce via col sangue da una ferita (XIV, 518; XVI, 505): non c’è alcuna indicazione concernente il tempo o la fine di qualcosa […] la psyche è, molto semplicemente, qualcosa di posseduto che può essere tolto, e sotto questo aspetto è simile al thumos o attività, parola cui è spesso associata”[30].

 

La psyche si ridurrebbe, dunque, alla più primitiva delle ipostasi preconsce, non sarebbe altro che la facoltà di respirare o di sanguinare di un corpo fisico, uomo o animale. Nei poemi omerici “nessuno mai in alcun modo vede, decide, pensa, sa, teme o ricorda qualcosa nella sua psyche”, grumo arcaico che, solo a causa di una metafora letteraria, ci farebbe accomunare gli eroi ad individui con qualità spaziali e comportamentali che, soltanto nello sviluppo di uno “spazio mentale unificato”, costituiranno la coscienza.

Da qui, Jaynes descrive gli eroi omerici come nobili automi, guidati da vere e proprie allucinazioni, da voci esterne indipendenti dalla loro volontà:

 

“il quadro che l’Iliade ci presenta è quindi caratterizzato da un senso di estraneità, di spietatezza e di vuoto. Non possiamo accostarci a questi eroi inventando dietro i loro occhi fieri spazi mentali come facciamo con ciascuno di noi. L’uomo dell’Iliade non ha soggettività come noi; non ha consapevolezza della sua consapevolezza del mondo, non ha uno spazio mentale interno su cui esercitare l’introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente cosciente soggettiva, chiamiamo la forma mentale dei micenei mente bicamerale”[31].

 

L’iniziativa e l’azione sarebbero organizzate senza alcuna coscienza e dettate all’eroe dal proprio linguaggio inconscio, che abbia l’aura di un amico o di un dio, cui bisogna necessariamente obbedire, perché non si può decidere da sé che cosa fare.

Per la verità, anche Giovanni Reale rappresenta in termini simili la cesura tra l’antropologia omerica e la narrazione successiva all’avvento della filosofia e della sofistica, atti inaugurali della metafisica del soggetto e della coscienza. Secondo Reale, nei poemi omerici non vi è distinzione, né contrapposizione, fra psiche e corpo: l’eroe agisce sotto la spinta di pulsioni e voci, che lo costringono all’azione, senza che possa minimamente immaginare una possibilità di scelta per esprimere una propria autonoma volontà.

Le denominazioni relative alla vita spirituale dell’eroe omerico, non si riferirebbero, dunque, all’“intero” dell’anima, ma solamente a frazioni di esperienze della vita interiore: aspirazioni, sentimenti, passioni, stimoli: “la vita dell’anima in senso unitario rimane quasi del tutto sconosciuta nei poemi omerici, in quanto non è ancora diventata oggetto di riflessione”[32].

 

“Alla rappresentazione omerica dell’anima umana risulta essere estraneo ogni concetto unitario e quindi anche ogni sistema di differenti concetti reciprocamente delimitatisi. Il punto di partenza per l’interpretazione dell’anima umana per quanto concerne l’uomo omerico consiste nell’esperienza concreta. Alla gran quantità e varietà  di queste esperienze corrisponde il gran numero di nomi concernenti il mondo dell’anima” [33].

 

Dunque, ogni tentativo di fissare una unità dell’anima sarebbe destinato a fallire, e i sentimenti e le pulsioni dei protagonisti omerici non potrebbero essere interpretati come espressioni dell’anima. L’eroe non conosce l’anima in senso unitario, ma una “molteplicità di anime vitali o anime funzionali, che corrispondono alle differenti forme di manifestazione della vita”[34], come notava Joachim Böhme nel suo studio classico sull’anima nella poesia omerica, in cui descrive la dimensione molteplice e la forza dirompente dei sentimenti, degli affetti e delle passioni negli eroi omerici, evidenziando, però, l’impossibilità della rappresentazione sinottica dei fenomeni psichici in una coscienza unitaria.

Il superamento di questo stadio avviene soltanto con l’insorgenza della coscienza, che rappresenta, anche per Jaynes, un salto di qualità nella comprensione che l’essere umano ha di se stesso, e che non può essere spiegata senza prendere in considerazione la novità assoluta che si presenta nell’esperienza della nascita dell’interrogazione filosofica: l’insorgenza del linguaggio metaforico, cui si accompagna l’istituzione di uno spazio mentale, analogo allo spazio reale.

Lo spazio mentale si costruisce su un vocabolario concettuale di  “metafore” del comportamento nello spazio reale e fisico, la cui realtà sarebbe, secondo la teoria evoluzionista di Jaynes, dello stesso ordine della matematica e consentirebbe di pervenire a decisioni soddisfacenti abbreviando i tempi di comportamento.

Se una tale idea matematica della mente, come “operatore” di volizione e decisione, apre alla sua totale “naturalizzazione”, la visione del linguaggio di Jaynes apre alcune contraddizioni e si rivela utile alla comprensione del rapporto tra sapere metaforico e concetti della scienza, in quanto concetti astratti generati da metafore concrete:

 

“In fisica abbiamo forza, accelerazione (aumentare il numero dei passi), inerzia (in origine la pigrizia di una persona indolente), impedenza, resistenza, campi, e oggi, nella fisica delle particelle, anche incanto. In fisiologia, al centro stesso della scoperta si è collocato il metaferente della macchina. Noi comprendiamo il cervello attraverso metafore riferentisi a un’infinità di dispositivi tecnici, dalle batterie e dalla telegrafia ai calcolatori e agli ologrammi. La pratica della medicina è talvolta comandata da metafore. Nel Settecento, negli attacchi febbrili il cuore era assimilato a una pentola in ebollizione, cosicché per ridurre il fuoco si prescrivevano salassi. Ancora oggi gran parte della medicina si fonda sulla metafora militare della difesa del corpo contro attacchi di questo o quel nemico. Il concetto stesso di legge deriva da nomos, parola che si usava per designare le fondamenta di un edificio. La parola obbligato deriva dal latino ligare, che significa legare con una fune […] All’alba dei tempi, il linguaggio e i suoi referenti salirono dal concreto all’astratto attraverso i gradini della metafora, o addirittura, potremmo dire, crearono l’astratto sulle basi della metafora”[35].

 

L’insorgenza del linguaggio metafisico e della coscienza contraddice, infatti, le premesse evoluzioniste e naturalistiche di Jaynes. Le parole astratte, sostiene lo studioso, utilizzando una metafora per descrivere il linguaggio metaforico, sono antiche monete, le cui concrete immagini si sono consumate per un continuo scambio. Se, paradossalmente, si riuscisse ad avere un linguaggio capace di esprimere ogni cosa, la metafora non sarebbe più possibile; non si potrebbe più affermare che l’amore è come “una rosa rossa, poiché la parola amore si sarà frantumata in migliaia di termini esprimenti le sue mille e mille sfumature, e l’applicazione ogni volta del termine corretto lascerà la rosa metaforicamente morta”[36].

Jaynes deve ammettere che, come non è possibile l’insorgere della coscienza senza istituzione del linguaggio e apertura dell’interrogazione, non è possibile neanche il discorso metaforico senza il discorso della consapevolezza. Come ha sostenuto Cornelius Castoriadis, il soggetto del linguaggio non è più il soggetto delle pulsioni, giacché attraverso il linguaggio accade lo straordinario evento dell’insorgenza della coscienza, della separazione del sé dal mondo esterno.

Ma, se l’istituzione della coscienza rappresenta un salto di qualità rispetto all’evoluzione naturale, è altrettanto contraddittorio ipotizzare che dalla coscienza dell’io si possa tornare ad uno stadio di innocente immediatezza.

Per molti pensatori contemporanei, come Umberto Galimberti, l’insorgenza dell’autonomia della coscienza non è che una conseguenza della “deviazione platonica” che ha istituito il primato dell’idea sulla materia, tanto da fargli sostenere che:

 

“se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell’alba greca in cui ha preso avvio l’autonomizzazione della psiche, la psicologia non solo non giungerà mai alla comprensione dell’espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l’errore che sta alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza”[37].

 

Ma la struttura logica del suo discorso presuppone l’irreversibile presenza dei concetti contro cui si dovrebbe procedere per eliminare la scissione fra anima e corpo. Tanto basterebbe a diffidare dal tentativo di ridurre il “sapere autentico” a una sorta di sapere originario che precede l’avvento della coscienza. Come nota Reale, infatti, il concetto di “ambivalenza” come “apertura di senso”, su cui fa leva Galimberti per mettere in gioco i significati che, prima della logica disgiuntiva platonica, erano simbolicamente con/fusi, non può più avere il suo significato “originario”, perché il concetto di ambi/valenza viene usato, in senso confutatorio, contro lo statuto antropologico istituito dal pensiero occidentale a partire dai greci, ma può essere utilizzato e approfondito soltanto proprio alla luce di quel pensiero:

 

“Senza la «bi-valenza» con la sua distinzione di senso, Galimberti non potrebbe nemmeno fare il discorso dettagliato e acuto che ha svolto sulla «ambi-valenza» come «ininterrotta circolazione di senso» e come capovolgimento delle alternanze delle strutture binarie, derivanti dalla «scissione» platonica”[38].

 

Per eccesso di zelo retrospettivo la valorizzazione assoluta ed esclusiva del linguaggio del preconscio finisce per sfociare nella critica della metafisica del soggetto, così come oggi tentano di fare le neuroscienze, nel tentativo di ricondurre tutta la fenomenologia della vita umana al paradigma evolutivo biologico. In realtà, in ogni prospettiva di riduzionismo delle forme di conoscenza, non può che riemergere il paradigma dell’immanenza radicale e la soppressione di ogni spazio di trascendenza.

È paradossale che la coscienza, riconoscendo il proprio carattere illusorio e sovrastrutturale, debba compiere un’operazione di soppressione della metafisica del soggetto e, dunque, della coscienza stessa. Una super coscienza in grado di negare se stessa – e di spiegare come mai l’uomo occidentale sia vissuto sin qui nella più totale alienazione – è una contraddizione che non aiuta a comprendere cosa sia e da dove nasca l’interrogazione sull’essere umano.

In questa visione, gli esseri umani, incatenati dalla coscienza alle razionalizzazioni repressive, potrebbero ritrovare nel preconscio la propria “memoria”, la propria innocenza perduta, liberandosi dall’“alienazione” metafisica che li ha sottratti all’incantesimo del mondo arcaico per soggiogarli al primato della “ragione”.

Anche Davide Lopez riparte dall’urlo panico di Nietzsche – “Dio è morto” – per leggervi il tentativo del filosofo di sviluppare un paradigma rivoluzionario, di “promulgare nuove tavole della legge”, di trascendere il cristianesimo, recuperando i semi fecondi della cultura classica, di spingersi, nella sua lotta contro la metafisica, fino alla rischiosa dichiarazione di voler eliminare perfino il concetto di “Essere”. Sul piano psicoanalitico, secondo Lopez, la lotta irriducibile contro Dio e l’Essere altro non è che il conflitto edipico, che rivela, nel suo significato ultimo, la  volontà di distruzione del Super Io e di ogni possibile modello, a partire da quello che guida il movimento della storia verso le sue più alte mete.

L’“uccisione” del padre, o del modello, conduce, secondo Lopez, al superomismo e alla megalomania, ma anche all’identificazione. Il modello, concepito come Dio, come altro, di altra natura e al di fuori da questo mondo, manteneva la trascendenza. Il modello della Persona, invece, incarna per Lopez, il superamento di ogni metafisica: ogni essere umano può diventare Persona.

 

 

Questo implica, per Lopez, il “coraggio della grande trasgressione”, attraverso il superamento di imperativi categorici e codici etici e filosofici superati, per costruire un nuovo paradigma, che sostituisca quello della scissione metafisica, nel tentativo di ritrovare nella memoria passata l’infanzia felice degli esseri umani. Nella spinta preconscia verso l’apparire e nell’aletheia di un nuovo paradigma, Lopez rappresenta un modello che superi la scissione, apparentemente irriducibile, tra essere umano e dio, Essere ed Esserci, noumeno e fenomeno, soggetto e oggetto, scienza ed ermeneutica:

 

“il modello della Persona è l’ulteriore sviluppo del modello nietzschiano del superuomo o dell’ultrauomo, comunque lo si voglia chiamare: la Persona che oltrepassa la scissione metafisica, il baratro ultramillenario tra finito e infinito, uomo e Dio, come modello mediano e mediatore, a un tempo di Dio, uomo e animale, sintesi di finito e infinito, di egoismo sano e altruismo, di forza selvaggia e amorevole consapevolezza”[39].

 

Anche in questa prospettiva si corre però il rischio della fantasia di  un ritorno totale al “tempo” del preconscio. Si tratterebbe di ritornare allo spazio confusivo originario; occorrerebbe immaginare – e riuscire a raggiungere –  un luogo a/spaziale ed a/temporale, in cui non esista più linguaggio né metafora, né  necessità, né libertà.

Lo spazio mentale viceversa non è configurabile, almeno secondo il mio giudizio, se non per distinzione e separazione, operazione insopprimibile attraverso cui si costruisce lo spazio di ogni sapere, così come ogni sapere deve cercare di collocarsi in uno spazio diverso, che consenta di “comprendere” le differenze senza negarle.

Persino l’individuazione di un sapere scientifico contrapposto al sapere metafisico e al sapere affettivo presuppone una distinzione fondata su uno “sguardo esterno”, poiché costringendosi all’interno di uno spazio definito da confini formali non si potrebbe immaginare uno spazio diverso e si resterebbe chiusi in una cieca autoreferenzialità.

 

“Qual è la dimensione del nostro mondo? Siamo capaci di vedere «la realtà» sotto diversi punti di vista oppure restiamo invischiati in uno solo convinti che gli altri non esistano? In questa società dove abbiamo perso il significato profondo della tradizione religiosa, dove Dio si limita a essere l’idea di un accessorio che ci è stata inculcata nell’infanzia, siamo in grado di descrivere la divinità di cui tanto si parla? Come la vediamo? Che cosa rappresenta per noi? Descrivendo Dio non faccio altro che descrivere la mia realtà. Se Dio esiste da qualche parte, è qui. Se l’inferno esiste, anch’esso è qui. Tutto ciò che è qui non è da nessun’altra parte. Tutto quello che è esiste soltanto in questo istante. Ma allora, se in questo istante tutto è presente, devo sentire che cos’è l’istante per me, con il suo tempo, il suo spazio e il suo possibile creatore! Se Dio non esiste, devo inventarlo. E se non sono capace di farlo, su quale principio si fonda la mia realtà?”[40].

 

Quando è stata inaugurata la distinzione fra sacro e profano su cui reggono gran parte delle strutture antropologiche? Nonostante le dotte ricerche, neppure Mircea Eliade è riuscito a dare una risposta. Il mistero di questo punto di fuga è, infatti, che in esso empirico e trascendentale si con/costituiscono, come accade in ogni fase di “creazione” di nuovi significati e di  nuovi orizzonti di senso.

 

  1. Il soggetto della conoscenza, tra necessità e volontà

 

La distinzione fra sacro e profano, come quella fra mondo divino e mondo umano, implica già la costituzione di una soggettività consapevole della distinzione tra necessità e libertà, che si istituisce in uno “spazio esterno”, che rinvia alla metafisica del soggetto, come rottura nella continuità biologica e come sapere non verificabile empiricamente, in quanto fondato su premesse che attengono alla sfera creativo-decisionale degli esseri umani.

Senza la costituzione dello “spazio profano”, non sarebbe possibile neppure il sapere scientifico che, da Ippocrate in poi, può indagare il corpo umano come materia animale. Senza distinzione fra sacro e profano non sarebbe possibile distinguere tra legge naturale e legge umana, tra statuto della necessità e statuto della libertà.

Nell’antropologia greca è possibile ripercorrere le tracce di questa distinzione, a partire dall’istituzione della coscienza dell’io, come agente specifico di eventi e fatti. Le figure tragiche incarnano il nesso indissolubile che lega, in una sorta di trinità costitutiva, il preconscio, l’inconscio più profondo della psiche e la coscienza del soggetto.

Nella Grecia dei presocratici, come nell’India delle Upanishad, Mircea Eliade ritrova le tracce dell’istituzione della coscienza in un processo culturale di “demitizzazione”. Per lo studioso, la mitologie greca – così come quella bramanica – non poteva più rappresentare per l’élite cittadina ciò che aveva rappresentato per i suoi antenati:

 

“Assistiamo ad uno sforzo per andare al di là della mitologia in quanto storia divina e per accedere alla fonte prima da cui era scaturito il reale, per identificare la matrice dell’Essere. […] In questo senso si potrebbe dire che le prime speculazioni filosofiche derivano dalle mitologie; il pensiero sistematico si sforza di identificare e di comprendere l’«inizio assoluto» di cui parlano le cosmogonie, di svelare il mistero della Creazione del Mondo, insomma, il mistero della comparsa dell’Essere”[41].

 

Eliade nota, però, come la “demitizzazione” della religione greca e l’affermarsi del pensiero filosofico sistematico non abbiano del tutto negato il pensiero mitico, presente tanto Platone che nella cosmologia di Aristotele: il “genio filosofico greco” accettava l’essenziale del pensiero mitico, la visione ciclica della vita. La metafisica greca sviluppa alcuni temi mitologici costitutivi: “l’importanza dell’origine, dell’arché; l’essenziale che precede l’esistenza umana; la funzione decisiva del ricordo”[42].

Ne discende che “il pensiero filosofico potesse utilizzare e prolungare la visione mitica della realtà cosmica e dell’esistenza umana”[43]: epica, tragedia e filosofia sono gli elementi che compongono la complessa antropologia dei Greci.

La filosofia greca, inaugurando la strategia dell’anima, come la definisce Carlo Sini, pone le condizioni perché l’essere umano possa guardare il mondo senza essere ingoiato dal nulla del divenire o dall’immobilità dell’essere. Sin dalla mossa strategica del porsi di fronte, le due strade del soggetto sono tracciate: la sophia lo guida verso il divino orizzonte del sapere, la techné lo definisce come capace di usare e trasformare la res.

Il rapporto fra sguardo e potere, fra occhio che contempla e mano che afferra è, però, un rapporto contraddittorio, che contiene già la contesa che struttura il rapporto fra mente e corpo, fra soggetto e mondo. La costituzione dello sguardo, l’ardimento di contemplare il mondo, ha un prezzo alto: deve subordinare l’autosufficienza istintuale della sopravvivenza alla supremazia dell’occhio pubblico impersonale – cultura, società, istituzioni –, deve liberarsi della “natura”, che diviene rappresentazione conforme al logos, pur avendone bisogno per corrispondere all’esigenza vitale del corpo.

 

“Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu non potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il tuo logos[44].

 

Ciò che è saggio non è altro che il logos comune, come sottolinea Sini, che abita nell’anima e governa la strategia dell’anima: la verità è, aristotelicamente, un fatto “sociale”. La tragedia attica è la messa in scena di quella verità e della contraddizione fra metafisica del soggetto e immediatezza spontanea della istintività irriflessa, ma anche eterodiretta.

Secondo Jean-Pierre Vernant, la tragedia corrisponde ad un particolare stato di elaborazione delle categorie di soggetto agente e di volontà, segnando una vera e propria svolta nella loro costruzione. Così, insieme alla sottomissione a potenze superiori, compare nella tragedia un altro piano decisionale dell’azione drammatica, che potrebbe apparire incompatibile col primo ma che, invece, vi si accompagna, come nel caso del sacrificio di Ifigenia:

 

“Ciò che Agamennone è costretto a fare sotto il giogo di Ananke è anche ciò che desidera di tutto cuore, se tale è il prezzo per essere vincitore. Il sacrificio che gli dei esigono riveste, nella decisione umana che ne comanda l’esecuzione, la forma di un crimine mostruoso di cui bisognerà pagare il prezzo”[45].

 

Agamennone non è, suo malgrado, costretto a compiere un atto terribile, ma afferma, sotto forma di necessità divina, il proprio desiderio di vincere, di abbattere ogni ostacolo alla propria vittoria:

 

“Se questo sacrificio, questo sangue verginale incatenano i venti, con ardore, con ardore profondo è lecito desiderarlo”[46].

 

Rispetto all’affermazione del proprio potere, la vita e l’amore della figlia non hanno più alcun valore per il re, che “sceglie” di interpretare l’oracolo di Artemide, trasmesso da Calcante, “se vuoi i venti, devi pagarli col sangue di tua figlia”, come imperativo categorico, senza metterne in discussione la mostruosità. Una volontà, dunque, non soltanto una necessità, che si ritrova nell’azione drammatica anche al momento della vendetta di Clitennestra:

 

“preteso dalle Erinni della stirpe, voluto da Zeus, l’assassinio del re dei Greci è preparato, deciso, eseguito dalla moglie per ragioni ben sue e che s’inscrivono nella più vera natura del suo carattere. Per quanto essa evochi Zeus o l’Erinni, è l’odio per lo sposo, la sua passione colpevole per Egisto, la sua volontà virile di potenza che l’hanno decisa ad agire”[47].

 

La volontà, ovvero l’io come agente, fonte di atti di cui sente la responsabilità di fronte agli altri e l’impegno morale verso se stesso, è stata configurata come una delle dimensioni essenziali dell’individuo moderno:

“Alla continuità del soggetto che si ricerca nel suo passato e si riconosce nei suoi ricordi, corrisponde la permanenza dell’agente, responsabile oggi di ciò che ha fatto ieri, e che avverte con tanta più forza il sentimento della propria esistenza e coesione interne in quanto le sue condotte successive si concatenano, s’inseriscono in uno stesso quadro per costituire, nella continuità della loro linea, una vocazione singolare”[48].

La categoria moderna della volontà non presuppone soltanto una valorizzazione dell’agire pratico, ma il riconoscimento del soggetto agente come causa, origine di ogni propria azione; come centro decisionale, nei rapporti con l’altro e la natura, detentore di un potere: il libero arbitrio cartesiano.

Il soggetto moderno ha il potere di scegliere, di acconsentire, di rifiutare; al contrario, il soggetto tragico non si trova a “scegliere” tra due possibilità, ma a “constatare” la sola possibilità che gli si offre, la “necessità” divina. Ma, come nota Vernant, mentre nella prosa omerica predomina l’utilizzo del verbo ethélō, che trasmette il senso della necessità, del “consentire a”, nella tragedia attica viene sostituito dall’uso di boùlomai, che “designa l’inclinazione propria del soggetto, il suo desiderio intimo, la sua preferenza personale”[49].

La figura di Agamennone è emblematica della tragicità del rapporto fra libertà e necessità, così come il personaggio di Ulisse, che rappresenta il conflitto del soggetto tra il mondo confusivo della seduzione di Circe e  Calipso e il mondo diurno del ritorno ad Itaca.

Attraverso il lungo viaggio verso Itaca, la cultura greca ha elaborato uno dei paradigmi più significativi della costruzione della cultura occidentale. Il viaggio di Ulisse si sviluppa all’infinito: non può darsi pace, non può fermarsi, deve continuamente prendere congedo per conoscere il dolore della separazione, rompendo una quiete provvisoriamente acquisita. Lo struggente desiderio di mortalità di Ulisse lo rende un personaggio straordinario, capace di rinunciare all’eterna giovinezza per rimanere uomo e tornare in patria. Non vuole diventare un dio, in una piatta immortalità senza vecchiaia, ma senza avvenimenti; preferisce tornare a casa, rivedere la moglie, il figlio e il padre.

“L’oblio, la cancellazione del ricordo della patria e del desiderio di farvi ritorno, rappresenta sempre il pericolo e il male. Essere nel mondo umano significa vivere alla luce del sole, vedere gli altri ed essere visto da loro, vivere in reciprocità, ricordarsi di sé e degli altri. Là, invece, Ulisse e il suo equipaggio entrano in un mondo su cui le potenze notturne, i figli della Notte, come li chiama Esiodo, stendono a poco a poco la loro ombra sinistra. Una nube di oscurità sta continuamente sospesa al di sopra dei naviganti, minaccia di farli smarrire se solo si lasciano andare all’oblio del ritorno”[50].

 

Ulisse viaggia sempre sul confine, vive la contraddizione. Tra morire per ascoltare il canto delle sirene e vivere senza averlo inteso, trova un’altra strada e sposta i confini della conoscenza. Le Sirene sono pura voce e il loro canto è così seduttivo da negare persino la morte, ma Ulisse si lascia coinvolgere, ma non annullare dalla conoscenza. Così, nella spelonca di Polifemo:

“Ulisse vuole restare perché vuole vedere. Vuole conoscere l’abitante di quello strano luogo. Ulisse non è soltanto l’uomo che deve ricordarsi, ma colui che vuole vedere, conoscere, sperimentare tutto ciò che può offrirgli il mondo, anche questo mondo subumano in cui si trova gettato”[51].

Guardare in faccia il mondo è anche guardare in faccia la morte: l’essere mortale non è fatto solo di destino, ma è anche il soggetto che può decidere di vedere, assumendosi la responsabilità delle conseguenze: “aver fatto calare le tenebre sull’occhio di Polifemo, l’averlo cacciato nella notte, accecato, comporta che Ulisse, a sua volta, trovi sulla sua strada il notturno, l’oscuro e il sinistro”[52].

Così, i suoi occhi si chiudono, come l’occhio del Ciclope, e Ulisse si addormenta, dimenticando di controllare la navigazione sulla nave che viaggia verso Itaca. Abbandonandosi al mondo del notturno, di Hypnos, Ulisse si ritrova al punto di partenza, in balia dei venti e del destino. Come nota Eliade, dal legame “fraterno” tra Hypnos e Thanatos si comprende il significato profondo, per la cultura greca come per quella indiana, del risveglio da un sonno che è insieme ignoranza, oblio e morte.

“Socrate sveglia i suoi interlocutori, talvolta contro il loro desiderio. «Come sei violento, Socrate!»[53], esclama Callide. Ma Socrate è perfettamente cosciente che la sua missione di risvegliare la gente è di ordine divino”[54]:

 

“Un simile compito dio sembra avermi affidato nella nostra città per cui io, senza sosta, vi sono da presso, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, ad uno ad uno, ogni giorno. Un altro come me, ateniesi, non lo troverete facilmente. Ecco perché se mi darete ascolto, voi mi risparmierete. O, forse, accadrà che voi, stizziti come chi nel sonno vien destato all’improvviso, ascolterete ad Anito e mi colpirete, mandandomi stupidamente a morte. Ma allora voi continuerete a vivere come dormendo, per il resto della vostra vita, se dio non avrà compassione di voi e non vi manderà qualcun altro”[55].

Di fronte ad una morte che viene proprio dal sonno dell’ignoranza, emerge la grandiosità della sfida dell’essere umano che si pone di fronte al mondo come soggetto. La vicenda umana ha, così, la dimensione di una tragedia, in cui l’individuo è diviso tra l’angoscia della morte, del nulla e dell’effetto distruttivo del tempo, e la volontà di “abitare” il proprio tempo. Da un lato, lo sguardo che trascende le cose, dall’altro il corpo destinato a perire.

In verità, il percorso che abbiamo sin qui posto in essere tende a costruire un rapporto di consapevolezza tra sé e il mondo, che non si lascia ridurre a una sola dimensione del sapere e che tende, invece, a mostrare come il rapporto tra mondo e sé sia, allo stesso tempo, unitario e molteplice, giacché non si riesce a immaginare la comprensione del mondo e di sé  riducendola a un’unica dimensione. In realtà, il preconscio, che è sicuramente il dominus della vita affettiva, non può operare le sue trasformazioni metaforiche senza entrare in rapporto dialettico con la grammatica della coscienza. Se da un lato, quindi, bisogna combattere le razionalizzazioni che tendono a occultare la complessità delle relazioni tra persona e mondo, non si può tuttavia prescindere dal fatto obiettivo che, se noi parliamo del preconscio, lo facciamo sempre a partire dalla coscienza.  Sciogliere quest’intreccio in una gerarchia delle fonti del sapere della psiche  è una vera e propria rimozione della complessità che ci costringe sempre alla coesistenza dell’unità e della molteplicità. È questa coesistenza che definisce il carattere tragico della condizione umana tra l’abbandonarsi al sogno di una innocenza perduta e il cinismo di una razionalità che pretende di ridurre tutto a spiegazioni scientifiche. Per fortuna lo statuto antropologico che si è definito nel corso dei secoli impone a ciascuno di noi di assumersi la responsabilità dei propri comportamenti, ma anche di non lasciarsi irretire dalle spiegazioni neuroscientifiche che ci vengono fornite dalla cultura dominante.

[1] Severino, E., Gli abitatori del tempo,

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Frith, C., Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, Raffaello Cortina, Milano 2009

[5] Panikkar, R., in Peacelink, 2005

[6] Jodorowsky, A., Cabaret Mistico, Feltrinelli, Milano 2008

[7] Panikkar, R., Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000

[8] Ibidem

[9] Jodorowsky, A., Cabaret Mistico, cit.

[10] Denton, D., Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2009

[11] Boncinelli, E.,

[12] Ibidem

[13] Ibidem

[14] cfr. Gargani, A., Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975

[15] cfr. Horkheimer, M., Adorno, T.W., La dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino

[16] Lopez, D., Zorzi, L., La sapienza del sogno, Dunod, Milano 1999

[17] Ibidem

[18] Ibidem

[19] Nietzsche, F., Ecce Homo,

[20] Lopez, D., Zorzi, L., La sapienza del sogno, cit.

[21] Jodorowsky, A., Psicomagia. Una terapia panica, Feltrinelli, Milano 1997

[22] Lopez, D., Zorzi, L., La sapienza del sogno, cit.

[23] Ibidem

[24] Ibidem

[25] Heidegger, M., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze

[26] Derrida, J., La verità in pittura,

[27] Spivak, G.C., Critica della ragione postcoloniale: verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi, Roma 2004

[28] Artaud, A., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968

[29] Jaynes, J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano 1996

[30] Ibidem

[31] Ibidem

[32] Reale, G., Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone. Raffaello Cortina, Milano 1999

[33] Böhme, J., Die Seele und das ich im homerischen Epos: Mit einem Anhang Vergleich mit dem Glauben der primitiven, B.G. Teubner, Leipzig 1929

[34] Ibidem

[35] Jaynes, J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, cit.

[36] Ibidem

[37] Galimberti, U., Il corpo, Feltrinelli, Milano 2005

[38] Reale, G., Corpo, anima e salute, cit.

[39] Ibidem

[40] Jodorowsky, A., Cabaret Mistico, Feltrinelli, Milano 2008

[41] Elide, M., Mito e realtà,

[42] Ibidem

[43] Ibidem

[44] Eraclito, frammento 45 B

[45] Vernant, J.P., Abbozzi della volontà nella tragedia greca, in Vernant, J.P., Vidal-Naquet, P., Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1976

[46] Eschilo, Agamennone, 214-18

[47] Vernant, J.P., Abbozzi della volontà nella tragedia greca, cit.

[48] Ibidem

[49] Ibidem

[50] Vernant, J.-P., Ulisse o l’avventura umana,

[51] Ibidem

[52] Ibidem

[53] Platone, Gorgia, 508 d

[54] Eliade, M., Mito e realtà, cit.

[55] Platone, Apologia di Socrate, 30 e

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