Nizza, l’Isis e il neoliberalismo

Nizza, l’Isis e il neoliberalismo

Riteniamo urgente, come psicoanalisti, incominciare a dire qualcosa sulla questione degli atti terroristici e sui loro presupposti sociali, epocali, politici. L’epoca del “disagio della civiltà” sembra oggi approdare a un “terrorismo della civiltà”.
Per avviare un dibattito pubblichiamo, in prima battuta (grazie alla traduzione di Elena De Silvestri) l’intervento dello psicoanalista Roland Gori (Marsiglia, Membro di Espace Analytique). In Italia è uscito nel 2015 il suo libro La dignità di pensare (Alpes, Roma).

La dignità di pensare. L’intervista ha come titolo:
“l’Isis ci impedisce di vedere che la questione è principalmente politica”
E’ tratta dal sito POLITIS (che ringraziamo) è del 21 luglio 2016, pochi giorni dopo i tragici fatti di Nizza. Per ll sito vai a : http://www.politis.fr/articles/2016/07/daesh-nous-empeche-de-voir-que-la-question-majeure-est-politique-35183/
Roland Gori è psicoanalista e Professore emerito di Psicopatologia clinica all’Università di Aix-Marseille.

Nel gennaio 2009 ha dato avvio all’Appel des appels – un coordinamento di movimenti e associazioni relativi all’ambito della cura, della ricerca, dell’educazione, del lavoro sociale, della cultura – il cui scopo è federare una pluralità di istanze che criticano l’ideologia neoliberale e le sue conseguenze, in particolare sui servizi pubblici.

Gori è autore di numerosi saggi e libri tra cui segnaliamo: L’Appel des appels. Pour une insurrection des consciences (Paris, Mille et Une Nuits-Fayard, 2009) ; La Fabrique des imposteurs (Les Liens qui Libèrent, 2013) e, più recentemente L’Individu ingovernabile (Les Liens qui Libèrent, 2015).

Secondo lo psicoanalista Roland Gori, gli autori dei recenti attentati sono i mostri generati dal neoliberalismo.

Egli considera Daesh un fenomeno alle cui spalle si nasconde una profonda crisi politica, senza via d’uscita immediata, ma che sarà necessario risolvere per sradicare il terrorismo.

Politis: Quale è la sua analisi di ciò che è accaduto a Nizza la scorsa settimana?

Roland Gori. Sarebbe prudente dire che ancora non si sa nulla.                    Che c’è bisogno di tempo per selezionare, attraverso delle indagini, i dati da raccogliere, il tempo per un’analisi multidimensionale, che mobiliti il pensiero. Abbiamo bisogno di tempo per pensare ciò sta accadendo e in quale modo siamo arrivati sin qui.

Abbiamo bisogno di comprendere ciò che accomuna ciascuna di questi stragi e ciò che invece le differenzia le une dalle altre.

Nel complesso reagiamo troppo alla svelta.

Cosa che può essere giustificabile in materia di protezione, sicurezza, o assistenza, ma non lo è in termini d’informazione o di analisi.

Ora, gli stessi dispositivi d’informazione e d’analisi sono stati raggiunti e corrotti dalle derive della “società dello spettacolo” e dei “fatti di cronaca”, che permettono la mercificazione delle emozioni e dei concetti.

Questo non è accettabile, né moralmente né politicamente, perché distrugge le basi su cui si fondano le nostre società e contribuisce a generare le tragedie di oggi. È la risorsa economica dei nostri nemici, tanto dei loro alleati effettivi quanto delle loro comparse involontarie.

Qual è la responsabilità dei media?

G. I media hanno una grande responsabilità in questo caso: essi contribuiscono alla celebrazione mediatica, da Star Academy, dei passaggi all’atto criminale, passaggi talvolta immotivati –nel senso quasi-psichiatrico del termine commessi– da personalità più o meno patologiche, che non hanno alcun rapporto personale con le loro vittime.

Ciò non significa che tutti questi omicidi rispondano ad una stessa logica, che siano tutti opera di psicopatici o di psicotici. Alcuni sono autenticamente politici, altri appartengono al fanatismo “religioso”, altri ancora a reti “mafiose” che hanno trovato nel terrorismo una nuova fonte di guadagno.
La maschera ideologica o religiosa può essere più o meno decisiva, un fattore determinante a seconda dei casi: il massacro di Charlie, quello dell’hypercasher, quello del Bataclan, di Nizza, o l’aggressione dei passeggeri di un treno in Baviera non hanno affatto le medesime motivazioni.

Daesh “raccatta” tutto, e ciò favorisce la sua impresa di destabilizzazione dell’Occidente, colpendo il “ventre molle” dell’Europa, nella speranza di favorire gli attriti tra le diverse comunità. È l’appello alla guerra civile lanciato da Musad Al Suri nel 2005: un appello rivolto alla resistenza islamista mondiale, che mobilita tutte le popolazioni musulmane, al fine di colpire gli ebrei, gli occidentali, gli apostati, proprio là dove si trovano.
A partire da quel momento ogni crimine, ogni omicidio che si possa “marchiare” con un segno di appartenenza comunitaria, viene riciclato come “combustibile” made in Daesh.

Fa parte della strategia del gruppo e della sua propaganda. Attribuendo un’unità e una consistenza a una miriade di azioni più o meno ispirate dal terrorismo djihadista, rischiamo di confermare esattamente la loro campagna terroristica.
Dichiarando immediatamente che l’assassino di Nizza era legato a Daesh, Francois Holland ha dunque commesso un errore?
G. Le dichiarazioni di Hollande (e del suo seguito) al momento dell’orrore di Nizza mi sono sembrate premature e pericolose.

Hollande rischia di cascare in pieno nella trappola tesa da Daesh: in primo luogo sostenendo e confermando una propaganda per cui ogni strage sarebbe frutto di un’opera di reclutamento dell’organizzazione terroristica.

La radicalizzazione di una personalità apparentemente così problematica come quella dell’assassino di Nizza, le sue dipendenze e le sue violenze, la sua bisessualità e il suo alcolismo, riducibili sbrigativamente al “radicalismo religioso” al servizio di un “terrorismo di prossimità”, mi lasciano perplesso.
In secondo luogo, annunciando che gli attacchi in territorio straniero sarebbero raddoppiati, Hollande fornisce un pretesto a tutti coloro che vogliano vendicarsi dell’arroganza occidentale e delle strategie di mantenimento dell’ordine dei vecchi colonizzatori.

Così facendo conferma la propaganda dei salafiti, sostenitori della linea della djihad. Il fatto che un presidente, nel suo animo e nella sua coscienza politica, senta la necessità di ordinare delle operazioni militari, non ha nulla di scandaloso… dovrà rendere conto della sua decisione davanti al parlamento e al popolo. Ma che lo annunci così, con una dichiarazione ad effetto come risposta a delle stragi, non mi sembra un atto politico e tantomeno produttivo.
Cosa ha pensato della reazione degli (altri) politici?

G. È normale per noi, come vittime, parenti delle vittime, vox popoli, essere travolti dall’odio, dal desiderio di vendetta, dal dolore e dalla violenza di un’infinita tristezza che ha accresciuto la nostra sete di morte e di vendetta. Altra cosa è che i politici si lascino trascinare in ugual modo dall’emozione immediata.
Né i politici, né le dichiarazioni dell’opposizione –salvo rare eccezioni– si sono dimostrati all’altezza della situazione. I morti, le vittime e i loro familiari, meritavano di meglio. Ancora una volta è tra il popolo, tra coloro che sono stati là, anomini, discreti, umani, che essi hanno trovato il linguaggio, la presenza, l’amore di cui avevano bisogno.

La celebrazione mediatica dei criminali (sono d’accordo con la proposta lanciata dal collega e amico Fethi Benslama su Le Monde di “anonimizzare” maggiormente gli autori delle stragi, o almeno di evitare di renderli “celebri”), così come ogni spettacolarizzazione, risulta inopportuna.

Fanno l’interesse del nemico, se nemico vi è dietro ognuna di queste stragi.
Dunque, siamo prudenti: Daesh tenterà di fare propri tutti gli omicidi che potrebbero contribuire, più o meno indirettamente, al suo progetto, e alimentare la sua propaganda, chi l’ha organizzata, chi l’ha ispirata… e gli altri. Non facciamogli trovare la pappa pronta.
Mi viene in mente un’analogia che vorrei condividere con voi: nel decorso della schizofrenia, talvolta, si assiste alla comparsa di un particolare delirio, quello della “macchina influenzante”.

Si tratta della convinzione delirante, nel paziente, che quello che accade al suo corpo (sensazioni, eruzioni, dolori, erezioni… ) sia “fabbricato” da una macchina manovrata dai suoi persecutori per farlo soffrire.

La comparsa di questo tipo di delirio è spesso amplificata dalle scoperte tecnologiche, alle volte contemporanee ad essa.

In questo caso va accusata la macchina o la malattia mentale?
L’ideologia è molto spesso un “macchinario” che permette a tanti di “funzionare”, e di colmare il vuoto dell’esistenza. Non basta eliminare le “macchine” per cancellare l’uso che ne facciamo.

Ma vi sono alcune macchine più pericolose di altre, quelle di cui dobbiamo prioritariamente preoccuparci, per sapere quali bisogni esse facciano nascere e perché, proprio oggi, trovino il “personale” necessario a farle funzionare.

Cosa fare allora?

G. Trattare politicamente il problema, e non reagire immediatamente all’emozione. Lasciandosi trascinare dall’emozione, dalla vox populi, Hollande firma le dimissioni della politica: è un fatto molto grave.

Fare politica non significa lasciarsi trasportare dall’onda di un’opinione pubblica terrorizzata, piuttosto illuminarla, aiutarla a pensare queste tragedie.
Per questo è necessario lasciare tempo ad un’indagine e tentare di comprendere ciò che sta accadendo. Anche se Daesh rivendica gli attentati – a Nizza, oppure in baviera, con questo ragazzo di 17 anni che ha aggredito i passeggeri di un treno con un ascia–, nulla ci porta ad escludere che si tratti di una rivendicazione opportunista.

Daesh ha tutto l’interesse a “raccattare” ogni crimine in cui si possano ravvisare, anche in minima parte, delle tensioni tra comunità, poichè questa lotta djihadista, di genere del tutto nuovo, auspica una sorta di guerra civile interna all’Occidente, in particolar modo in Europa.

È la sua principale risorsa economica.

Daesh sfrutta le armi dell’avversario: i media, i video, i siti dei giovani…

E’ la sua forza, ma anche la sua debolezza, perché spinge i terroristi a rivendicare azioni compiute da personalità poco “ortodosse” e che agiscono in contraddizione con i valori da loro sostenuti.
L’arcipelago “terrorista” trae forza dal suo sparpagliamento, dalla sua mobilità, dal suo carattere proteiforme e opportunista, ma con il tempo questa potrebbe diventare la sua debolezza.

Come tutti gli arcipelaghi rischia la dispersione, la frammentazione, l’erosione. Spieghiamolo alle popolazioni martirizzate da Daesh – a volte amministrate con rigore e abilità, ma sempre con opportunismo affarista ed estrema crudeltà – che a Mossoul si gettano gli omossessuali dal balcone-tetto, e che a Nizza li si trasforma invece in “soldati” del “califfato”!

Che ascoltare musica è sacrilego a Raqqa, ma necessario ai soldati per la propaganda finalizzata al reclutamento dei giovani!
Tutte le ideologie finiscono per screditarsi nel momento in cui i loro più entusiasti funzionari non agiscono come predicano e non predicano come agiscono. Inutile richiamarsi alla ragione per “de-radicalizzare” (detesto questa parola, un falso-amico, decisamente!)…

E’ necessario mostrare, e mostrare una volta ancora, queste contraddizioni. E non dimenticare, come scriveva Marx, che “essere radicali significa afferrare le cose alla radice”. Dunque: siamo radicali!

Lei ha parlato di “teofascismo” per designare Daesh, che cosa intendeva dire?

G. È la tesi che difendo con forza: io credo che i teofascismi siano mostri creati da noi. In questo momento il nostro modello di civiltà è in panne.

La notizia buona è che la visione neoliberale dell’umano è agonizzante, moralmente in rovina, non più credibile.

Quella cattiva è che questa sua agonia perdura. È esattamente la definizione che Gramsci dà della “crisi”: “è quando il vecchio mondo sta per morire, e il nuovo mondo tarda a nascere. In questo chiaroscuro nascono i mostri”.

Ci troviamo proprio lì.
L’ideologia neoliberale di un universale uomo “imprenditoriale”, guidato dalla ragione tecnica e dall’interesse economico, orientato dal mercato e da un diritto occidentale globalizzato, non ha più presa fra le masse.

Questo vecchio mondo le ha impoverite, le ha fatte soffrire ogni giorno di più. Il neoliberalismo si sostiene unicamente su strutture istituzionali di potere, su attività interconnesse in maniera sistemica, e politiche di governo allineate alla medesima causa. Ma i popoli non ne possono più.
Come alla fine del XIX secolo, come nel periodo tra le due guerre, oggi rinascono dei “movimenti” di massa, nazionalisti, populisti, razzisti… che cercano disperatamente un’alternativa al mondo “liberal-universale dei diritti dell’uomo-del progresso-della ragione” di questa “religione di mercato” ai cui riti vengono sottomessi i cittadini e i popoli.

Ma non ne possono più.
Oggi siamo governati, lo diceva anche Camus, da macchine e fantasmi.

È in questo chiaroscuro che nasce ogni forma d’angoscia.

Angoscia del caos, dell’annientamento reciproco, di roghi universali.

Così nasce anche ogni genere di miseria, economica, simbolica, di declassamento, d’invisibilità. In sintesi, tutte le passioni generate dall’odio e dalla paura. Hollande ha ragione sul fatto che vi è un rischio di smembramento. Non soltanto della società francese, ma di molte regioni del mondo, in particolare d’Europa. E’ da queste faglie sismiche che emerge Daesh, così come così come i populismi, i razzismi, FN e così via…

Li mette dunque sullo stesso piano?

G. Si vedono sorgere movimenti violenti, camuffati da religioni o da etichette comunitarie o etniche, che intercettano la rabbia e la disperazione delle masse di fronte alla crisi della gestione neoliberale del mondo.

Si tratta a un tempo di una crisi delle pratiche neoliberali, che si fondano su un’economia subprime, e del sistema valoriale, ormai in caduta libera, del capitalismo felice. Non ci sono più “credenti” in questa “religione di mercato”, ma si domanda comunque alla gente di continuare ad essere “praticante”, di accettare di subirne l’austerità per meritare il paradiso promesso dalla tecnocrazia. Risultato: avrete la Brexit, di cui non sanno più che farsene nemmeno coloro che l’hanno promossa!
Spesso dico che questa comparsa di teofascismi può essere paragonata a ciò che è accaduto alla fine del XIX secolo e tra gli anni 1920-1930, con la comparsa dei fascismi, del nazismo e dei totalitarismi, quando, di fronte alla crisi dei valori e delle pratiche liberali, le masse si sono trovate a confrontarsi con una situazione politica senza soluzione politica possibile.
A quel punto, a fronte di queste masse senza scopo ed abbandonate, sono sorti dei movimenti di massa, sostenuti da minoranze audaci, violente, organizzate, capaci, in nome del nazionalismo, del razzismo, e dei valori populisti più sfrenati, di controllare ed inquadrare individui confusi, individui di massa. In ciò che Hanna Arendt chiama il “deserto”, tutto quello che poteva istituire un legame tra gli esseri umani – la religione, la politica, la cultura, l’amicizia -, veniva minacciato da una crisi economica e simbolica.
In questo vuoto, relativo e variabile in relazione alle epoche, senza dubbio, l’angoscia dell’avvenire e del divenire spingeva a cercare dei punti di riferimento e delle identificazioni fusionali nei compagni di partito che gli apparati organizzavano in maniera abile e drastica.
Questo genere di rivoluzioni conservatrici sono nate dalle contraddizioni tra le belle idee liberali, eredità dei Lumi, (la fede nella ragione critica e nel progresso, l’emancipazione attraverso il commercio, l’abbattimento della povertà grazie alla tecnica e l’industria…) e le pratiche dei governi “liberali” borghesi (le disuguaglianze sociali, l’asservimento al commercio, la disoccupazione di massa, la disaffezione degli individui ai loro legami famigliari…).La dignità di pensare

Lo si è visto in maniera eclatante all’epoca di Sarkozy!

G. È stata proprio la logica securitaria neoliberale, incentivata in particolar modo da Nicolas Sarkozy – a cui oramai fa gioco criticare la politica di sicurezza attuale! – a demolire l’apparato di sicurezza (gendarmeria, esercito, polizia). Ecco le lacrime di coccodrillo dei nostri conservatori, che hanno voluto lo sgretolamento di quegli stessi servizi pubblici che, in realtà, garantivano la sicurezza in maniera tutt’altro che securitaria.
Mantenendo e rafforzando il legame sociale, quel legame che genera un sentimento di sicurezza molto importante – si vede bene come giocando sulle emozioni e la paura si rischi di far precipitare la democrazia verso chissà quale ordine autoritario e totalitario – si produce una sicurezza reale.

È dal momento in cui le persone si sentono unite, ben assistite, educate, accolte, in breve, da quando le si aiuta a vivere assieme grazie ai servizi pubblici, che si crea un terreno fertile per la sicurezza, quel terreno che il paradigma della logica d’austerità e del modello dell’uomo economico avevano distrutto negli anni passati.
Bisognerà quindi fare un bilancio, capire quale spreco di vite abbia comportato quest’austerità di cui l’Europa non vuol più saperne.

Ostinandosi a sostenere una tecnocrazia che sottomette i cittadini e i popoli ad un’amministrazione tecnico-finanziaria, i politici attuano la politica del peggio, quella di Daesh, così come quella dell’estrema destra, e finiranno per essere essi stessi travolti dai mostri che hanno creato.

Una possibile soluzione sarebbe dunque quella di cambiare il sistema economico-politico?

G. Sì, se non fosse che non esiste soluzione immediata.

Non esiste un kit per cambiare una civiltà. Anche in questo caso cerchiamo costantemente di trovare soluzioni sbrigative a problemi multidimensionali, che possiedono una temporalità complessa.

Bisogna considerare misure con temporalità distinte: forse le misure securitarie sono necessarie, non lo so, non mi assumerei mai il rischio di giudicarle inutili semplicemente per scelta ideologica.
La situazione è grave, molto più di quel che ci viene detto.

Ma di una cosa sono sicuro: che le attuali misure di sorveglianza sono insufficienti. Non basteranno, a meno che a queste misure non si affianchino altre cose, misure autenticamente politiche, sociali e culturali.

Se ci fermiamo al solo livello di vigilanza e protezione securitaria, finiremo per cadere nella trappola del nostro nemico, modificando insidiosamente la nostra civiltà e il nostro modo di vivere.
E poi non bisogna che Daesh ci nasconda altri pericoli: la scalata di FN, la tentazione degli estremi, il timoroso ripiegamento su noi stessi.

E che il problema Daesh ci impedisca di vedere la questione principale, ossia che non siamo in grado di trovare delle alternative politiche che ci permettano di trasformare le frustrazioni e la rabbia dei cittadini in forza politica.

Crede che la sinistra oggi ne sia in grado?

G. Per il momento no. Non è capace di offrire un progetto politico credibile a delle masse arrabbiate e senza speranza.

Ci troviamo di nuovo davanti a una crisi politica che, paradossalmente, le nostre istituzioni e i nostri politici si rifiutano di trattare con misure politiche, che essi affrontano come una serie di problemi tecnici, senza cambiare l’impostazione di fondo. Risultato di questo approccio: impedendo il trattamento politico di una crisi politica, si getta il popolo tra le braccia di chi somiglia a qualcosa di politico solo perché appare anti-sistema!
Comparare non significa automaticamente comprendere, ma questa situazione la si potrebbe facilmente confondere con quella descritta da Simone Weil nella Germania del 1932-33.

Le masse cercano fuori dai partiti tradizionali delle democrazie liberali un punto d’appoggio per uscire dalla loro disperazione.

Che si tratti della nozione di comunità religiosa, etnica, o altro, la rinascita politica di queste nozioni è dovuta a quelle faglie di sistema che, alla fine, condurranno al suo smembramento.
La questione politica ritorna dunque paradossalmente attraverso quella religiosa…
G. Sì, per quanto in alcuni periodi della nostra storia ne sia stata l’antitesi.

È sulle rovine dei nazionalismi del mondo arabo-musulmano che rinascono gli islamismi politici e terroristici, ed è necessario, innanzitutto, non confonderli e amalgamarli. C’è tutto un lavoro genealogico ed archeologico da fare in questa direzione, che, lo preciso ancora una volta, non saprebbe comunque estirpare le radici degli attuali terrorismi.
Ma ciò che mi sembra interessante è sottolineare il fatto che, in mancanza di ideologie politiche identificabili, la motivazione religiosa fa gli interessi di molte propagande solo “con i fatti”, cosa che si diceva degli anarchici fino a non molto tempo fa. Allora le ideologie tendevano a rimpiazzare le religioni, oggi, invece, le motivazioni religiose tendono a mascherare le ideologie.

Ma tende a mantenersi una stessa prassi, è sempre violenza contro coscienza, umanismo contro barbarie, Lumi contro tenebre… ma il chiaroscuro confonde le tracce. Cerchiamo il sole disperatamente!
Il nostro compito consiste dunque nel rivelare la questione politica che si nasconde dietro quelle religiosa e comunitaria.

E poi nell’affrontarla di petto. Voglio dire che bisogna firmare l’atto di decesso del neoliberalismo, urgentemente, decretando lo stato d’emergenza.

Bisogna assolutamente, ad esempio, riconsiderare la funzione sociale dell’arte, come della cura, dell’educazione o della giustizia, e la funzione politica della cultura e dell’informazione.

C’è stato il “patto di stabilità”, poi il “patto di sicurezza”, ora abbiamo bisogno del “patto d’umanità”, e, come suggerito da Zweig, di pensare la libertà più come ad un “bene sacro” che come ad un abitudine.
Concretamente questo implica, ad esempio, che si favorisca la “fratellanza europea”, rompendo con la tecnocrazia di Bruxelles e i suoi trattati, che mettono i popoli in competizione e in stato di servitù.

C’è bisogno di una “disintossicazione morale dell’Europa”, dice Zweig. Anche a rischio di far perdere le speranze ai popoli che vi appartengono.

Se i nostri governi non sono capaci di mettere fine a questa tecnocrazia, si vedranno crescere l’estrema destra in Europa, e le teocrazie nel resto del mondo.
Com’è potuto accadere che i politici siano diventati così inefficenti?
G. Oggi la politica ha abbandonato la specificità del proprio campo.

Ieri l’ha fatto a beneficio della religione di mercato.

Oggi lo fa a beneficio di una società dello spettacolo. Gli uomini politici, nei loro discorsi, cercano di vendere dei prodotti che gli permettano di ottenere la fetta più grossa possibile del mercato dell’opinione pubblica.

Così facendo aggravano la crisi. Non sono affatto credibili. “Amministrano” le opinioni mantenendo, senza controbilanciarli, i poteri degli oligarchi dell’economia.
Dopo le terribili emozioni di questa settimana, come pensate che possiamo credere tanto al governo quanto alla sua opposizione? Ciò che ci manca è una parola politica autentica, che possa offrire un progetto alternativo a questa miriade di movimenti autoritari, estremistici, terroristici.

Manca, in breve, una parola politica consistente, che possa contrastare la propaganda dei mostri nati dalla crisi. Abbiamo bisogno di un discorso vero, del fuoco sacro della politica, che entusiasmi e faccia venir voglia di battersi quanto di sognare, di amarsi quanto di opporsi, senza autodistruggersi.

E se così non fosse?

G. Il seguito ha già avuto luogo: nella storia si è già assistito, alla fine del XIX secolo, tra il 1885 e il 1914, alla comparsa in Francia e in Europa di movimenti nazionalisti, populisti, antisemiti.

Crescevano sul riflusso dei valori dei Lumi, del progresso, del razionalismo.

Il declino di questi valori del liberalismo filosofico favorisce sempre la comparsa di mostri politici, come i fascismi e il nazismo.
La filosofa Simone Weil spiega come nel 1932-33 la Germania si sia trovata di fronte a una terribile crisi politica, e come alla popolazione sia stato vietato di risolvere questa crisi. Oggi è più un impedimento che un divieto.

La censura è indiretta, subdola, ma esiste: la nostra mentalità inibisce la capacità politica di elaborare delle alternative. Durante gli anni ‘30 le mostruose alternative politiche sono state Hitler e i fascismi… oggi si ha qualcosa di simile con Daesh: una propaganda incoerente, un “pigliatutto” ideologico, sentimenti confusi, una rapsodia che risuona in ogni partitura in cui s’inscrivano frustrazione e malcontento.

Si può davvero istituire un’analogia tra Hitler e Daesh?

G. Ciò che Hitler ha fatto, inquadrando le masse, offrendo al loro sentimento di rabbia e umiliazione un capro espiatorio, fu di dargli delle ragioni fallaci per vivere e morire al servizio d’illusioni da quattro soldi.

Questo non significa che delle forze sorte dalla tenebre, anche minoritarie, possano portare violenza e distruzione. Nessuna, o quasi, delle misure sociali promesse dai nazisti è stata messa in atto, il diritto di proprietà e le oligarchie industriali e finanziarie si sono mantenute ed accresciute.

Le classi sociali che avevano creduto di evitare il declino sono state tradite.

Ci sono stati milioni di morti e una nuova industria del terrore, che ha reso più che mai superfluo e obsolescente l’umano, ridotto a materia prima dei sistemi di produzione. Dopo la guerra si è sollevata una ventata di umanismo.

Poi si è nuovamente placata. Oggi si percepiscono ancora la rabbia e la disperazione degli oppressi. Finiremo per spegnere il sole e le stelle perché non ci versano i dividendi, come amava ripetere il mio amico Bernard Maris citando John Keynes. Fino a quando lasceremo che accada?

Da che cosa possiamo partire per configurare un’altra politica?

G. Non si può che partire da una reinvenzione dell’umanismo. Una postura etico-politica che miri a fare quella che Foucault definiva “l’ontologia del presente”, per tentare di vedere ciò che in questo presente risalta come un pericolo su cui la storia può fare luce.

È questa la sfida della modernità che noi dobbiamo raccogliere: riposizionare l’umano al centro, in modo concreto, particolare, né in modo universale, ridotto alla monotonia, né in modo omogeneizzato.
Bisogna rileggere oggi Stefan Zweig, in particolare il suo libro Brasile.

Terra del futuro, in cui egli spiega come la creazione di una cultura possa nascere dalla creolizzazione dell’insieme delle particolarità culturali che la compongono. E’ l’eterogeneo che rende forti.

La creazione di una vera identità culturale passa dal crogiolo di una cultura che fonde assieme – con accorti processi di amalgama – molte componenti umane.
È con questa pluralità che la politica deve confrontarsi, non perché essa abbia bisogno di sfruttarla come “forza lavoro”, ma perché solo così si crea un popolo, la sua forza e la sua storia. Bisogna far passare il messaggio di una disintossicazione morale dell’Europa, che passi attraverso la Repubblica delle Lettere, la fratellanza tra le culture, l’esperienza sensibile.
Zweig sostiene che si dovrebbe insegnare ad ogni nazione la sua storia, non tanto quella dei suoi conflitti con le altre nazioni, quanto ciò che ciascuna di esse deve alle altre per poter essere, oggi, quella che è. Si tratterebbe di insegnare non tanto la storia delle nostre vittorie e delle nostre sconfitte, quanto ciò per cui siamo debitori alle altre culture. È appropriandoci a nostro modo di ciò che queste ci hanno apportato che abbiamo plasmato noi stessi, che abbiamo, come scrive Camus, “dato forma al nostro destino”. (Traduzione di Elena De Silvestri).

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