La fiaba intorno a noi

La fiaba intorno a noi
(Maria Angelica Pepe)
A Luigi, Federica, Paolo e Sara

Cari tutti, grandi e piccini,
le piccole storie che troverete qui sono tutte nate dal mio vivere ogni giorno mantenendo lo sguardo ed il cuore incantati.
In questa nostra unica, irripetibile e splendida avventura che è la vita, un mondo fatato ci circonda: dimenticarlo, non ci renderà più responsabili, solo molto più tristi.
Spero vi divertiate a leggere, almeno quanto mi sono divertita a scrivere.
Soprattutto spero che anche le storie un po’ tristi, che pure ci sono, riescano come e più delle altre a mostrarvi l’incanto del mondo.

INDICE
(la faccina è per segnalare le storie allegre e quelle tristi):
☺ Il Vento e la nuvoletta che non voleva piovere
☺ La piccola castagna
☺ Il capello d’oro.
☺ Il vaso di fiori e il secchio della spazzatura.
☺ La nascita dei colori.
☺ La banda dello scivolo ribelle.
☺ Il termometro ambizioso.
Una gioia per gli occhi (storia d’una pratolina)
☺ La gatta “Di-Luxia”
Storia del cane più felice del mondo

IL VENTO E LA NUVOLETTA CHE NON VOLEVA PIOVERE

Questa è una storia vera. Una storia che potrete sentire narrare tutte le volte che vi capiterà di assistere ad un temporale.
E’ la storia della Nuvoletta che aveva paura di piovere.
Povera Nuvoletta! Da quando si era formata, sorgendo dal Mare in una calda giornata estiva, viveva nel terrore che il Vento la soffiasse in un temporale.
Tanto grande era il suo timore, che finì col chiedere aiuto proprio al Vento.
“Fermati! – lo chiamò un giorno, mentre questo soffiava per radunare le nubi e spingerle verso le cime dei monti – Ascoltami! Vorrei stringere un patto con te!“
“Un patto? Che tipo di patto?“
Le chiese il Vento un po’ stupito, mentre con scarso successo cercava di spingerla verso le sorelle.
Di tutte le giovani nuvole che gli erano capitate, questa era decisamente la più ostinata!
“Se tu prometti di non soffiarmi dentro i temporali – propose lei continuando a resistere disperatamente alla sua spinta – in cambio io ti farò compagnia.
Ti racconterò tutte le cose meravigliose che ho visto da quassù!
E tutte quelle che vedrò! Insieme ne cercheremo sempre di nuove.
Ti prego! Io ho paura di piovere, la cosa che temo di più al mondo è proprio finire nella terra e non poter più galleggiare nel Cielo.
Vorrei continuare a vedere per sempre le Stelle, il Sole e la Terra colorata che scorre veloce sotto di me.
Se tu mi aiuterai…
Dai, tu sei sempre solo: in questo modo avresti compagnia!”
Al Vento venne da ridere.
Tu, pensò, che sei nata oggi, vorresti raccontare il Mondo proprio a me, che ne percorro i cieli fin dalla creazione?
Ma poiché, proprio per il fatto di essere molto antico, il Vento era molto saggio, non le rise in faccia (in verità, era anche sufficientemente educato da non ridere in faccia a nessuno!) e, dopo una breve riflessione, decise di assecondarla.
“Va bene – le rispose gentilmente, cessando immediatamente di soffiarla verso le sorelle – da ora in poi viaggeremo insieme intorno al mondo, dai poli all’equatore, ammireremo tutti i colori della Terra e ci specchieremo nelle onde di tutti i mari.
Ti prometto che non ti spingerò mai dentro i temporali. Di più, te ne terrò per sempre lontana.
Sono sicuro che insieme ci divertiremo moltissimo.
Ma una cosa proprio non te la posso promettere: che tutto questo basterà a non farti piovere.”
“Oh! Sì! Sì che basterà! –
Esclamò la Nuvoletta con entusiasmo, pregustando il galleggiare infinito che le si apriva davanti, spinta da un Vento non più nemico, finalmente libera di godere del terribile ed affascinante spettacolo dei temporali senza il terrore di dovervi partecipare direttamente.
Il Vento, da parte sua, si mantenne fedele al patto: da quel giorno in poi continuò a raccogliere le nubi per organizzare le piogge nei diversi luoghi della Terra avendo sempre cura di tenere la Nuvoletta che aveva paura di piovere a distanza di sicurezza dai temporali.
E così, per molte stagioni, viaggiarono insieme intorno al mondo.
A mano a mano che il tempo passava, però, la Nuvoletta cresceva e cresceva, senza che il Vento potesse fare nulla per impedirlo.
Lentamente, ma inesorabilmente, iniziò a farsi scura scura e, per quanto lui ci si mettesse d’impegno, non riusciva ad impedire che si gonfiasse di pioggia: pioggia che prima o poi, il Vento lo sapeva bene, non avrebbe potuto che cadere.
La Nuvoletta, ignara, continuava tranquilla e felice a galleggiare nel cielo, anche se cominciava a sentirsi stranamente pesante. Sperando di rimandare l’inevitabile, il Vento, che dopo tutto quel viaggiare insieme le si era affezionato ed era dispiaciuto di doverla lasciare, decise di portarla in posti molto caldi dove forse si sarebbe asciugata un poco.
E fu così che un giorno, mentre appunto la soffiava gentilmente verso Sud – la nuvoletta era ormai talmente carica di pioggia che galleggiava piuttosto in basso – in un piccolo prato inaridito scorsero una povera piantina solitaria, sfinita dalla sete, con le foglie basse lungo lo stelo ed i fiori rinchiusi nelle corolle che pendevano pesantemente verso terra.
La Nuvoletta provò una pietà infinita per quella sete disperata.
“Vento! – gridò impulsivamente – Lasciami libera. Ho deciso, pioverò qui.“
“D’accordo, come vuoi.
Mi sembra davvero un’ottima scelta.” Rispose lui e, dopo averla salutata vorticandole intorno ancora una volta, si allontanò.
Subito la Nuvoletta si sciolse in pioggia e, con molto stupore, si accorse che era una sensazione piacevole.
Tutto il peso del vapore trattenuto che negli ultimi tempi l’aveva affaticata, ora si stava lentamente ed allegramente tramutando in acqua che si riversava sulla piantina assetata.
Era divertente sentirsi cadere al suolo e nello stesso tempo galleggiare in cielo.
Infine, piovve anche l’ultima particella di vapore.
Distesa tra l’erba, tramutata in un gioiello splendente e prezioso, vide che la piantina si era miracolosamente ripresa: i fiori avevano riaperto le corolle e le foglie si erano raddrizzate sugli steli.

Che bella pianta! – pensò la nuvoletta – Sono proprio contenta di averla liberata dalla sete!
Intanto il terreno continuava ad assorbirla.
Tutto intorno a lei si fece buio.
Cosa mi succederà, ora?
Si chiese piena di timore mentre si sentiva trascinare in profondità.
Venne risucchiata giù, giù e giù, sempre più in basso, alla scoperta di un mondo insospettato.
La terra divenne via via più umida e calda fino a che… PLUFF!
Cadde dentro una Falda profonda che correva e correva trascinandola con sé in un vortice oscuro.
Ma non durò a lungo. D’improvviso… PLUFF! Si trovò a scorrere rapida in un Torrente di montagna che si precipitava a valle. Corri e corri, il Torrente divenne profondo, largo e placido. Ora faceva parte di un Fiume! Gli animali e gli
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uomini venivano a bere ed a bagnarsi in quelle acque, lungo le sue rive le piante erano rigogliose e splendenti. Avanti e avanti, il Fiume continuò il suo corso inarrestabile trascinandola con sé fino a quando… PLUFF!
Ancora una volta tutto cambiò: l’acqua del Fiume penetrò profondamente in quella del Mare e non fu più possibile distinguerle.
Dopo essere scesa negli abissi ed aver ammirato miriadi di piccoli pesci multicolori, meduse fluorescenti, morbide alghe, immense balene, delfini giocherelloni, superbi squali e poi ancora ogni sorta di esseri misteriosi che popolavano quelle profondità, la Nuvoletta tornò a galleggiare sulla superficie del Mare, per poter guardare il cielo dal basso, spettacolo per lei del tutto nuovo.
Spiava le sue ex compagne che correvano radunandosi e disperdendosi nel Vento, e intanto godeva del calore del Sole.
Ma all’improvviso, ecco che si sentì afferrare, sollevare… diventare leggera, vapore trasparente…

Lentamente si sollevò fino al cielo, di nuovo nuvola, di nuovo in alto, vicino al Sole ed alle Stelle.
“Ciao! – la salutò il Vento che l’aveva riconosciuta per la sua forma a punto esclamativo – Bentornata!
Ti è piaciuto il viaggio?”
“Oh! Ciao, Vento! – rispose allegramente lei, contenta di ritrovare il suo vecchio amico –
Ma come, tu sapevi?
Esclamò poi, arrotolandosi a punto interrogativo.
“Ma certo!” Rispose il Vento, sorridendo.
“E perché non mi hai mai detto nulla?“
“Non mi avresti creduto!
Non avresti neanche voluto ascoltarmi!
Eri troppo spaventata!
Succede sempre così con le nuvolette di primo vapore: hanno tutte il terrore di piovere!
Ma dopo la prima volta, diventa un gioco: ve ne andate a spasso nel cielo alla ricerca delle compagne, vi abbracciate strette strette e così abbracciate rotolate nelle mie spire fino a che, nere e pesanti, cariche da scoppiare, precipitate in pioggia e ripartite per il vostro viaggio sulla Terra dai mille colori.
E più viaggiate, più prendete confidenza con il vostro destino: e allora giocate a creare temporali sempre più grandi e spettacolari…
Se non ci fossi io, il Vento, allaghereste sempre le stesse zone con temporali sempre più esplosivi!
Ma questo non deve succedere, non troppo spesso per lo meno!
Così io vi vengo a prendere, vi soffio un po’ qua ed un po’ là, dividendovi o raggruppandovi in base alle necessità della Terra.
Forse ormai l’hai capito anche tu: senza di voi, il mondo sarebbe tutto grigio.
E’ un gioco antico – concluse il Vento soffiando gentilmente la Nuvoletta che si era ora completamente distesa nell’Aria – antico come la Terra, che coinvolge tutte le sue creature: è il gioco dell’Acqua.
“ E così soffiando la spinse in alto, sempre più su, dove ne galleggiavano già altre, tutte appena nate dal Mare, bianche e lucenti, sospese nel cielo infinito.
E se guardi in cielo, puoi vederla anche tu.

LA PICCOLA CASTAGNA
Era novembre, il mese dei Santi e delle caldarroste.
L’aria cominciava ad esser fredda e la gente per le strade, soprattutto la sera o presto al mattino, iniziava a camminare in fretta.
In quella città, oltre ai lussuosi palazzi del centro, le scuole, gli ospedali, gli alberghi, i mercati e i parchi per far giocare bambini e cani, c’erano delle piccole, povere case basse, lontane dal centro, con miseri cortili grigi affacciati su una grande strada veloce.
In fondo ad uno di questi cortili, in una di quelle casine che in tutto e per tutto era uguale a quelle che la circondavano – uguale il numero dei piani, due; uguale il cemento del tetto, uguale il numero di finestre, uguale la scala e la ringhiera davanti alla porta, uguale perfino il campanello e uguale anche la cucina, con l’identica finestra affacciata sull’uguale cortile – in una di quelle casine abitavano una giovane mamma, un giovane papà e la loro bambina.
In quella fredda sera di novembre, dentro quella cucina, dentro la fruttiera sopra al tavolino, c’era un mucchietto di castagne gonfie di polpa, già pronte per il fuoco, con la lucida livrea marrone incisa da un taglio a croce.
Ah! Com’erano ridenti gli occhi della piccola, mentre aiutava la sua mamma a stenderle sulla teglia!
E com’era dolce il sorriso della mamma, felice di preparare quella festa di caldarroste per la sua bambina!
E com’erano fiere le castagne, di essere responsabili di tanta gioia!
E già, tutte quelle castagne non vedevano l’ora di venir cotte e mangiate perché del loro destino andavano giustamente orgogliose.
Il loro solo cruccio era la presenza, nel centro del mucchietto, ben nascosta in fondo alla fruttiera, di una loro sorella rimasta piccolina, un po’ rachitica, non ben ripiena di polpa e con la buccia un po’ opaca.
Le grasse e belle castagne non sapevano perché quella loro sorella era venuta su così male, se perché avesse lasciato l’albero troppo in fretta così che non ne aveva assorbito a sufficienza la linfa, o per chissà quale altro motivo che ne aveva compromesso la crescita; quello che sapevano con certezza era che per il destino di quella sorella, piccola e grinzosa, si preoccupavano moltissimo.
Oltretutto, a conferma dei loro sentimenti, su quella castagna non era stata fatta l’incisione a croce: se l’avessero messa nel forno insieme alle altre sarebbe quindi scoppiata.
Ma probabilmente, non essendo stata preparata come le altre, sarebbe stata semplicemente gettata via e questo, pensavano le belle, grasse, lucide castagne, sarebbe stato molto, molto triste: quella loro infelice sorella non sarebbe mai stata capace di dare gioia alla bambina.
La piccola castagna, ben consapevole della sua inadeguatezza, se ne stava rannicchiata in sé stessa, in fondo alla fruttiera, desiderando solo di scomparire al più presto per non doversi più vergognare.
Ma le cose non andarono proprio così: le castagne furono arrostite, festeggiate, sbucciate e mangiate – e caspita, se erano buone! – ma la piccola castagna, quella che non aveva avuto la croce necessaria alla cottura e che per questo non era stata cotta con le altre, non fu gettata con le bucce. La giovane mamma la prese fra le mani e, sotto lo sguardo curioso della figlioletta, la adagiò in un caldo letto d’umida ovatta.
Il giorno dopo, quando il sole ormai alto addolciva l’aria, la mamma e la bimba scavarono una piccola buca nella terra, in un angolo del cortile, e vi nascosero la piccola castagna che di questa sistemazione fu oltremodo grata: lì sotto, al buio, sarebbe stata finalmente in pace, lontana per sempre dalla propria vergogna.
Sopra la piccola castagna addormentata nella culla della terra e che di nulla si accorse, uno dopo l’altro passarono i mesi: dicembre portò Natale, gennaio l’anno nuovo, febbraio carnevale, marzo la primavera… e già, perché con il passare dei mesi era passato anche il freddo freddo e la gente, per le strade, ricominciò a camminare lentamente, godendosi il sole.
E quel sole di primavera penetrò fin laggiù, nel silenzio della terra, cosicché in quell’angolo di cortile, notò la bimba un mattino, proprio dove lei e la mamma avevano messo a dormire la castagna che avevano giudicato troppo povera di polpa per essere mangiata, era spuntata una fogliolina.
Con il passare dei giorni, la fogliolina divenne un rametto, e il rametto un arbusto e così, quando dopo la primavera e l’estate tornò novembre, il mese delle castagne, l’arbusto era ormai un alberello: un piccolissimo castagno che a suo tempo, una volta cresciuto, avrebbe dato centinaia di castagne, lucide e panciute, forse non tutte destinate ad essere mangiate ma, ed è questo che più conta, tutte castagne, tutte capaci di far sorridere una bimba, una bimba proprio come quella di questa storia che allora, da dietro i vetri della cucina, sorrideva al suo alberello.
Da allora, grazie al piccolo castagno che giorno dopo giorno, anno dopo anno cresceva e cresceva, quella casina non fu più uguale alle altre: perché da allora quella casina, anziché un grigio cortile, ebbe un vero giardino.
E questo grazie ad una sola, piccola castagna, troppo piccola per essere mangiata.

Il capello d’oro

C’era una volta… un capello. Anzi, tanti capelli! Crescevano tutti sulla testolina di un bimbo di tre anni molto, molto bello, con le guance tonde e rosee, il nasino birichino, le manine morbide e indaffarate, i piedini mai stanchi e lo sguardo acceso di un celeste curioso e attento: un bimbo, insomma, proprio come ci si immagina dovrebbe essere il protagonista di una favola.
Il bimbo di questa favola si chiamava Edoardo e tutti, proprio tutti, lo chiamavano Dudù.
Ma questo bel bimbo Dudù, e ci dispiace tanto per lui, beh, non è lui il protagonista della favola!
Il protagonista è uno dei suoi capelli, uno solo tra tutti quei capelli biondi come l’oro, o come il sole di luglio, o il grano maturo, perché solo quello era così talmente biondo che di notte la stanza del piccolo Dudù non era mai completamente buia.
Questo fatto, che aveva i suoi indubbi vantaggi (per esempio Dudù non aveva bisogno di accendere la luce se doveva alzarsi per fare la pipì, o andare a bere, o infilarsi nel letto di mamma e papà) aveva anche un inconveniente non da poco: a volte, per via di quella luce, il piccolo Dudù stentava ad addormentarsi.
Naturalmente, più lunghi diventavano i capelli, più aumentava la luce e così, col trascorrere del tempo, crescevano anche i minuti di dormiveglia, minuti nei quali Dudù, in cerca del sonno, si girava e rigirava tra le dita proprio i capelli.
Intreccia e sbroglia, intreccia e sbroglia, al mattino la sua mamma aveva un bel da fare, quando lo pettinava!
Quel capello lì poi, quello che brillava più di tutti, si distingueva anche perché era un pochino più grosso, cresceva più in fretta di tutti gli altri (anche se nessuno se ne accorgeva perché era sempre tutto attorcigliato nei gran nodi che si divertiva a creare) e per di più, malgrado tutto questo, o forse proprio per questo, si annoiava da morire.
E come si lagnava!
E sbadigliava, e si attorcigliava, e si stirava, e non si stava mai fermo, né zitto: e cosa faccio, cosa non faccio, ma che noia, che pizza, che barba, (anzi, che capelli!), e via di questo passo finché, protesta che ti protesta, un bel mattino la mamma di Dudù non lo notò.
Ma tu guarda questo capello com’è strano! Era talmente attorcigliato dentro quel grosso nodo che per sbrogliarlo ho perso cinque minuti d’orologio…
E ora che lo guardo bene non sembra proprio come gli altri…
E’ più grosso e anche più l u n g o…
Sembra finto, guarda come brilla, come una pagliuzza d’oro…
Quasi quasi lo taglio.
Ma sì, io lo tiro via. Vuoi vedere che, senza di lui, al mattino non troverò più grovigli inestricabili sulla tua testolina?
Detto fatto, un colpo secco e, senza neanche un piccolo “Ahi!” da parte di Dudù, il capello biondo, proprio quello più biondo del biondo, venne tirato via.

Finalmente si cambia, pensò quello tutto contento, si va in giro per il mondo!
Per la verità il primo mondo che conobbe non gli piacque troppo: era finito dritto dritto nell’acqua – per fortuna pulita! – del gabinetto.
Ma il nostro eroe era entusiasta ugualmente: questa era vita, l’avventura!
Da lì il capello fu risucchiato giù giù giù, lungo le oscure e non proprio pulite vie delle fogne: corri, corri e corri sotto la città trascinato dalle acque di scarico, superò tutti i filtri dei depuratori (per quanto diverso dagli altri, era pur sempre sottile come un capello!) e finì in mare.
Il mare! Che meraviglia!
Certo, lui il mare lo conosceva perché quando era sulla testolina di Dudù l’aveva visto e vi si era anche tuffato. Ma ora, beh, ora che non era più prigioniero, era tutta un’altra storia: ora era libero di giocare, libero di lasciarsi dondolare dalle onde, di attorcigliarsi con le alghe, di nascondersi nella schiuma…
In poche parole, libero di divertirsi un mondo.
Ed era felice.
Talmente felice che dovunque giocasse luccicava e splendeva mandando rapidi bagliori di giorno e illuminando le notti molto più intensamente di quando si trovava sulla testolina di Dudù.
Passarono i giorni, passarono le notti, ed il capello sempre risplendeva tra le onde.
Ma non si può risplendere e non essere visti! Così un giorno (bello o brutto, lo deciderai tu, mio piccolo lettore) quel luccichio fu notato da una grossa spigola che passava di là, una spigola affamato per di più, che se lo mangiò.
Uh, com’era buio, nella bocca del pesce!
Meno male che il capello si faceva luce da sé, ma non era un bel vedere, quel che illuminava!
E poi che noia, che ristrettezza, dopo l’immenso blu del mare!
Per sua fortuna, il pesce aveva proprio una gran fame.
Talmente fame che, perduta ogni prudenza, abboccò all’amo di un pescatore che lo portò a casa e lo diede alla moglie perché lo cucinasse.
La moglie del pescatore lo sciacquò, lo pulì e lo squamò, tutte operazioni durante le quali il capello, che non aveva nessuna intenzione di ripassare dalle fogne per tornare al mare, se ne rimase ben nascosto nella bocca del pesce.
Dopo di che, spigola e capello furono infornati.
Ah, che brutta esperienza fu quella!
Il calore era davvero terribile, povero capello d’oro!
Rimpiangeva amaramente di non essersi tuffato nello scarico: mille volte meglio le fogne che almeno portavano al mare, piuttosto che quell’inferno!
Per sua fortuna, in poco tempo la spigola fu cotta: la moglie del pescatore la tolse dal forno, la adagiò su un piatto e la portò in tavola.
Il capello, in cerca di fresco dopo tutto quel calore, saltò fuori dalla bocca del pesce e cadde nel piatto, proprio accanto alle posate.
Ed era così provato dall’esperienza dell’essere stato prima mangiato dal pesce e poi cotto con lui nel forno, che aveva perduto un bel po’ della sua brillantezza: ora non appariva che un capello, un miserevole capello vagabondo, vagamente biondo e un bel po’ riccio, proprio come quelli della moglie del pescatore.
– Ma che schifo! – gridò subito quest’ultimo che, se era un buonissimo diavolo, affettuoso e gentile, era anche tanto, ma tanto schifiltoso
– Che porcheria!
Possibile che semini i tuoi capelli ovunque?
Guarda qui, nel piatto di portata, proprio attaccato alla mia bellissima spigola!
– Ma che dici?! –
Rispose la donna, un po’ esasperata per quella storia dei capelli che finché stavano sulla testa si poteva andarne fieri ma appena si staccavano diventavano disgustosi.
Sai benissimo che quando cucino metto una cuffia di lino proprio per evitare incidenti di questo tipo!
Povera moglie del pescatore!
Lei era assolutamente certa che quel capello non fosse suo!
Per di più era davvero stanca: benché fosse domenica, aveva lavorato tutto il giorno al banchetto di dolciumi che aveva allestito per la festa del patrono del paese, perciò tutto quel che ora desiderava era sedersi e gustarsi quel bel pesce in santa pace.
Purtroppo per lei il marito (che era completamente calvo da molti anni e forse proprio per questo era così suscettibile in fatto di capelli) non era disposto a far finta di nulla: lì, troppo vicino alla sua bellissima spigola, c’era indubbiamente un capello, un capello che, non potendo essere né suo, né del pesce, doveva per forza essere della moglie.
E fu così che presero a litigare, lei perché si sapeva innocente e stanca e affamata, lui perché non poteva fare a meno di vedere quel che vedeva. E avrebbero litigato chissà fino a quando se a un certo punto il pescatore non avesse giudicato un vero peccato mangiare freddo quel suo bel pesce.
– E va bene, disse alla moglie, visto che mio non può essere e tuo nemmeno, vorrà dire che l’ha portato il vento. Per piacere buttalo via e mangiamo.
In un silenzio glaciale, il capello venne preso e gettato nella pattumiera.
La spigola, anche se non proprio calda, venne finalmente gustata e, con la pancia piena, marito e moglie dimenticarono il capello.
Poco più tardi, il sacco della spazzatura fu chiuso e gettato nel cassonetto.
Per il nostro eroe iniziava un’altra avventura: durante la notte il cassonetto venne sollevato e svuotato nel ventre scuro e puzzolente di un grosso camion dove tutti i sacchi venivano sballottati tra loro per essere aperti, macinati e triturati.
Dopo un bel po’ di tempo di questa confusione, all’alba, sotto un forte temporale, il camion svuotò il suo carico nella discarica, su un’enorme montagna di rifiuti.

Santo cielo! – pensò il capello che intanto, entusiasta per tutti quegli avvenimenti, aveva ricominciato a splendere (anche se non proprio come quando si trovava nel mare).
Accidenti che razza di posto!
E ora che ne sarà di me?
Come fare per viaggiare ancora?
Soprattutto, come andare via di qui? Non è un granché, questo posto!
Non dovette attendere troppo: un gabbiano vanitoso e pigro, uno di quei gabbiani che si sono adattati a vivere in città perché qui riescono a sfamarsi senza la fatica di pescare, notò il capello che sembrava una pagliuzza d’oro in cima al cumulo di spazzatura e… zaf! Lo afferrò.
Se riesco a tenerlo in equilibrio sulla testa – pensava mentre volava verso la sua colonia stringendolo nel becco – sembrerà che abbia una corona d’oro: sarò il re dei gabbiani!
Poi, mentre si ammirava riflesso nel vetro di una finestra, decise che per essere re sul serio bisognava che tutti i gabbiani vedessero la corona; e siccome era molto più vanitoso che pigro, ripartì.
Volò e volò come non gli capitava da molto, molto tempo, scendendo il corso del fiume prima attraverso la città, poi la campagna, fino a raggiungere la costa perché voleva che tutti, ma proprio tutti i gabbiani lo ammirassero, a cominciare proprio da quelli che vivevano al mare.
Ora, finché il capello si mantenne un po’ umido di pioggia rimase attaccato alla testa del gabbiano che voleva essere re ma, vola che ti vola, il sole e il vento lo asciugarono cosicché, quando l’uccello atterrò sugli scogli in mezzo a molti altri gabbiani… la corona d’oro era sparita!
Vi lascio immaginare come rimase male, quel vanitoso!
Pigro com’era, tutta quel volare per niente!
Stanco e deluso, decise che per quel giorno non aveva nessuna voglia di tornare fino in città.
Ma rimanda la partenza oggi, rimandala domani, il gabbiano vanitoso e pigro ricominciò a pescare e scoprì che, anche se faticava un po’, quella vita gli piaceva molto più dell’altra e tuttora vive lì, al mare.
E che dici tu, mio piccolo lettore: ora che non è più pigro, sarà anche meno vanitoso?
Ma hai ragione: questa è la storia del capello, non del gabbiano.
Che ne è stato, del capello?
Il capello era scivolato giù dalla fronte del gabbiano quando questo volava ancora sul fiume e, mentre galleggiava nell’aria, era stato afferrato al volo da un passero, anche lui attirato da quell’insolito bagliore.
Il passero – che non era né vanitoso né pigro, ma solo innamorato – aveva in mente di portarlo in dono alla sua compagna che stava covando nel nido appena terminato.
– Intrecciato agli altri fili d’erba, luccicherà e rifletterà la luce del sole: avremo un nido splendente, il più bel nido del mondo!
Ma le cose, come spesso succede, non andarono per niente come lui aveva immaginato.
– Buttalo via! – gli ordinò la compagna – Buttalo subito il più lontano possibile da qui!
Un nido luccicante è l’ultima cosa che ci serve, un nido luccicante attirerà la curiosità di tutti gli animali: come pensi di difendere i nostri piccoli dalla fame di tutti i predatori del cielo e della terra? Per carità, vai subito via di qui con quella pagliuzza d’oro, và a buttarla lontano più in fretta che puoi!
Insomma, povero passerotto, il suo dono d’amore era stato accolto proprio male!
E il peggio per lui non era ancora venuto: infatti, mentre volava lontano per liberarsi del capello, ecco che fu notato da una gazza, una gazza ladra!
Beh, la gazza ladra, lo dice il nome stesso, è un uccello che non può fare a meno di rubare.
E lo sai cosa ruba?
Tutto, ma proprio tutto quello che luccica.
E la cosa più bella è che lo fa così, senza un motivo al mondo. Un attimo dopo aver visto il capello brillare, la gazza ladra si lanciò all’attacco e il passerotto, senza capire cosa gli fosse accaduto, si ritrovò stordito e dolorante a chiedersi dove fosse il sopra e dove il sotto, cercando di effettuare un atterraggio che non somigliasse troppo ad una caduta…
Atterrato che fu, si accorse di non aver più nulla nel becco e, visto che in un modo o nell’altro si era liberato del capello, se ne tornò a casa.
E il capello?
Il capello si trovava nel nido della gazza, in compagnia di una monetina di rame, un fermaglio d’acciaio, una scheggia di vetro, un tappo di birra, una puntina da disegno, un bottoncino d’avorio e tanti pezzettini di carta stagnola. La gazza guardava il suo tesoro e pensava: che buffo questo filo, brilla più di tutto il resto eppure è così sottile, così leggero!
E già, così leggero…
Così leggero era il capello – e un poco ce ne dispiace per la gazza che restò con un palmo di becco – che: spuf!
Il primo refolo di vento lo afferrò e se lo portò via…
Il capello riprese a viaggiare, ed è ancora lì, a spasso per il mondo, perché tutti, ma proprio tutti, continuano ad essere attirati ed incuriositi da quel suo luccicare cosicché acqua, vento, pesci e uccelli continuano a rubarselo uno con l’altro.
E se tu, mio piccolo lettore, nelle serate estive guarderai bene nell’aria intorno a te, potrebbe capitarti di vederlo, il capello biondo che voleva andare di qua e di là, fare questo e quello, per scoprire il mondo e anche qualcos’altro, per non annoiarsi mai più.
Guarda, lo vedi?
Luccica tra i cespugli confuso con le lucciole, o sulla superficie del mare nascosto nella scia di una barca, o in una goccia di rugiada tra l’erba.
E il piccolo Dudù, che di quel capello era il proprietario?
Ah, beh, da quando la mamma gliel’ha staccato, non ha più avuto sulla testa né nodi grandi, né piccoli e per di più, cosa di cui sia lui, sia mamma e papà sono felicissimi, la notte nessuna luce indiscreta viene più a disturbare i suoi bellissimi sogni.

IL VASO DA FIORI E IL SECCHIO DELLA SPAZZATURA

Lungo, basso e stretto, più o meno della misura del muretto di recinzione che lo sosteneva, il vaso di terracotta, decorato con grandi foglie in rilievo, era veramente molto bello.
Conteneva una buganvillea tutta viola acceso che di giorno in giorno, sotto il calore del sole, s’allargava in tutte le direzioni, arrampicandosi lungo le colonnine di sostegno della copertura di canne che ombreggiava i tavolini del bar, e spiovendo verso la sabbia.
Era impossibile, entrando nello stabilimento, dirigersi verso la spiaggia senza fermarsi almeno un momento ad ammirare quella stupefacente fioritura.
E la proprietaria della pianta, colei che l’aveva scelta tra tante e che dopo averla sistemata in quel vaso l’aveva collocata proprio lì, subito dopo l’arco di pietra dell’ingresso, ne andava talmente fiera che già dall’anno precedente aveva sostituito l’insegna in ferro battuto che annunciava lo storico nome dello stabilimento, “Lido Luisa”, con una che diceva: “Lido Buganvillea”.
Ma il più orgoglioso di tutti era certamente il bel vaso di terracotta che, per il semplice motivo di contenere la pianta, era convinto di esserne anche l’artefice.
E tanto era tronfio e pieno di sé da non riuscire a sopportare che sul lato opposto dell’ingresso allo stabilimento, accanto al bar e perciò troppo vicino a lui, ci fosse un grosso secchio di alluminio, un po’ ammaccato dal tempo e scrostato dalla salsedine, utilizzato per raccogliere i rifiuti.
Molto tempo prima, quando il vaso ospitava la buganvillea giovane ed esile, il secchio, che allora era nuovo nuovo, lucido e pulito, aveva tentato di fare amicizia con lui: lo aveva salutato gentilmente, ne aveva lodato le decorazioni ed infine aveva espresso la sua ammirazione per la pianta che ospitava; ma il vaso, non ritenendo opportuno dare confidenza ad una pattumiera, non gli aveva neanche risposto.
Quando poi con il trascorrere degli anni il secchio si era inevitabilmente rovinato, mentre la buganvillea era diventata oggetto della generale ammirazione, allora il vaso aveva preso a maltrattarlo e a farsi beffe di lui.
“Ma non ti vergogni? – lo apostrofava aspramente quando qualcuno, gettato l’involucro di un gelato o la busta di un pacchetto di patatine, dimenticava di richiudere bene il grande coperchio.
– Non ti vergogni a startene lì così, mostrando a tutti il tuo disgustoso contenuto?
Non hai nessuna decenza? Oltretutto il puzzo che lasci uscire finirà con l’intossicare la mia buganvillea!”
Il secchio non rispondeva.
E cosa avrebbe potuto dire?
Come si sarebbe potuto difendere?
Era l’unica pattumiera del Lido ed alla fine di giornate molto affollate gli capitava di essere talmente pieno che la gente non sollevava nemmeno più il coperchio, limitandosi a depositare i rifiuti sopra di esso.
Senza bisogno che il vaso dicesse nulla, capiva benissimo di non essere un bello spettacolo.
Tra sé e sé si ripeteva che non era colpa sua se ora era così ridotto e cercava di farsi coraggio ricordando come era bello e pulito quando era arrivato lì, appena uscito dal negozio; ma questi pensieri non riuscivano a cambiare la sua situazione e dunque nel suo intimo comprendeva le ragioni del vaso per il quale, anziché rancore, provava della sincera gratitudine perché, con la sua presenza, permetteva l’esistenza di quella pianta la cui bellezza era per lui motivo di gioia.
Una mattina d’estate, molto presto, mentre i bagnini pulivano e rastrellavano la sabbia, aprivano gli ombrelloni e sistemavano le sdraio, la padrona della stabilimento, che era intenta a ripulire la terrazza del bar, si accorse che la sua splendida buganvillea in alcuni punti sembrava ingiallire, anzi, alcuni rami erano già secchi.
Scostato delicatamente il fogliame guardò in basso, al cuore della pianta: nel vaso non c’era che pochissima terra e l’intricatissimo groviglio delle radici era quasi completamente allo scoperto.
La donna comprese che non aveva molto tempo da perdere se voleva salvare la sua amata, splendida, rigogliosa, incredibile buganvillea, così chiamò uno dei bagnini, gli parlò brevemente e lo congedò.
Dopo qualche ora, quando lo stabilimento era in piena attività, il ragazzo tornò e sistemò una decina di nuove pattumiere, di lucente plastica viola cupo, alle spalle degli ombrelloni, lungo tutta l’ampiezza dello stabilimento. Poi sollevò il grande secchio di alluminio e si diresse verso i cassonetti della spazzatura che si trovavano sulla strada.
“Finalmente! – esclamò il vaso a voce abbastanza alta da essere sicuro che quello l’udisse – Era ora che mi levassero quella schifezza da torno! Ma come hanno potuto non rendersi conto, in tutto questo tempo, che con la sua disgustosa presenza rovinava tutto? Ah! Ora qui sarà tutta un’altra cosa!
E guarda che belli quei secchi nuovi, proprio del colore dei miei fiori!
Sì, sì, ora che non sarò più costretto a sopportare la vista di tutta quella spazzatura, potrò godermi in pace i meritati complimenti e gli sguardi d’ammirazione.”
Come sempre il secchio non rispose. Pensava che il vaso avesse ragione, talmente ragione che a dimostrarlo c’erano altri secchi, nuovi e brillanti, che avrebbero svolto il lavoro che era stato il suo.
Ed era tanto, tanto triste, perché non avrebbe più potuto ammirare la buganvillea.
Giunse la sera, e con la sera un po’ di frescura.
La padrona dello stabilimento ed il bagnino si avvicinarono alla buganvillea: lei portava tra le braccia il grosso secchio di alluminio che era stato lavato, dipinto di verde ed aperto alla base con quattro fori circolari, mentre il ragazzo spingeva una carriola piena di sacchi di terra.
Dopo aver sistemato il grande secchio in corrispondenza della pianta (era alto appena un centimetro più del muretto) la donna iniziò a battere energicamente con un grosso martello sugli spigoli del vaso finché questo, rompendosi, non cadde in mille pezzi, all’interno del secchio.
La donna ed il ragazzo, allora, dopo aver recuperato i cocci, aiutarono delicatamente le radici a distendersi all’interno del grosso secchio e poi le ricoprirono con la terra.
“Ecco fatto – disse Luisa quando il lavoro fu completato – Era proprio ora di sostituire quel vecchio vaso!
Ancora un altro poco e, piccolo com’era, avrebbe ucciso la pianta, poveretta.
E questo vecchio secchio così sistemato fa davvero una bella figura, sembra fatto apposta!”
Il grande secchio di alluminio, emozionantissimo nella sua nuova livrea verde foglia, era felice di non dover più sopportare gli sguardi un po’ schifati di coloro che fino al giorno prima si erano serviti di lui e che ora lo osservavano invece con aperta ammirazione.
Ma soprattutto era contento di avere qualcuno con cui chiacchierare, perché la buganvillea, grata di poter distendere comodamente le radici in mezzo a tanta buona terra, gli raccontava del cielo che brillava azzurro sopra di lei, del sole che faceva luccicare il mare e che la riscaldava, rinvigorendola ed illuminando il suo fogliame, degli insetti che venivano a nascondersi nei suoi fiori e delle lucertole che, ben mimetizzate tra i rami, si godevano il calore dell’estate.
E il vaso?
Beh, il vaso era stato messo in un sacchetto di plastica e gettato dal bagnino dentro il cassonetto della spazzatura che era sulla strada, tra i sacchi pieni di avanzi di cucina, pannolini sporchi di neonati, bicchierini e bastoncini usati di gelati, tra tutta quella roba, insomma, che prima di arrivare lì era stata gettata nel secchio di alluminio da lui tanto disprezzato.
Il vaso, in una parola, era diventato nella forma quello che era sempre stato nell’animo: spazzatura.

LA NASCITA DEI COLORI

Tanti, tanti, tantissimi anni fa, il mondo non era come lo vediamo oggi.
A quei tempi, infatti, non c’erano i colori: il mare ricopriva tutta la Terra ma il mare, che è fatto di acqua, rifletteva come uno specchio o il bianco abbagliante del giorno, o il nero cupo e profondo della notte, quello che ancora oggi possiamo vedere quando la notte è proprio notte notte e le stelle non sanno, oggi come allora, risvegliare i colori specchiandosi nell’acqua nera.
Quando dunque, tantissimi anni fa, il mondo era sempre o bianco o nero, il Sole era molto, molto triste perché si era convinto che la Terra, sua giovane sposa, non lo amasse neanche un pochino: gli sembrava che lei fosse del tutto indifferente alle sue calde e luminose carezze, perché gliele restituiva sempre uguali, riflesse dallo specchio d’acqua che la rivestiva.
Ed anche la Terra era molto, molto triste, perché in realtà lei era innamoratissima del Sole ma, a causa della sua timidezza, non sapeva proprio come fare a dimostrarglielo.
Con il passare degli anni, quella timidezza che il Sole scambiava per indifferenza lo addolorò così profondamente che l’ardore per la sua sposa iniziò a raffreddarsi.
Il Sole cominciò anzi ad osservare con interesse gli altri pianeti che gli ruotavano attorno e, incantato dal caldo rosso con cui Marte rispondeva ai suoi messaggi, o dalle multicolori fluorescenze di Saturno, stava per dimenticare la sua indifferente giovane sposa.
E fu proprio per questo che molti, moltissimi anni fa, la superficie d’acqua della Terra ghiacciò completamente.
E quei ghiacci ci sarebbero ancora oggi, se di quel malinteso d’amore non si fosse accorto il testimone delle loro nozze, il Tempo.
– Tu pensi che la Terra non ti ami più – disse il Tempo al Sole – eppure, guarda: da quando non la riscaldi più con i tuoi abbracci, il suo cuore s’è raffreddato al punto che persino il suo vestito s’è tutto ghiacciato.
E il Sole, che in fondo non desiderava altro, tornò ad infiammarsi per la sua sposa.
Allora il Tempo corse dalla Terra e le rivelò le pene d’amore del suo sposo.
E mentre questa, un po’ per le sue parole, ma soprattutto per il rinnovato calore del Sole, si lasciava commuovere e scioglieva i suoi ghiacci, il Tempo le suggerì di vincere la timidezza e di liberarsi almeno un poco dall’acqua che la rivestiva tutta.
“Permettendo al Sole di conoscerti intimamente – le sussurrò – ti sarà facile trovare il modo di dimostrargli tutto il tuo amore.”
La Terra ascoltò il consiglio del Tempo e sollevò un poco l’orlo dei mari, lasciando che i suoi segreti affiorassero: fu così che tanti, tantissimi anni fa, emersero dal mare le montagne, le pianure, le valli e le colline, tutte di un deciso, caldo color terra.
Poi, seguendo i consigli del Tempo, la Terra rivestì le montagne, le colline, le pianure e le valli con boschi e prati che, allora come oggi, alla luce del Sole brillano tutti delle più diverse tonalità di verde, rosso, giallo, arancione e violetto.
Poi tinse le sue acquatiche vesti di blu, indaco, azzurro, turchese e grigio, in un gioco senza sosta che ancora prosegue. Infine, vinta del tutto la timidezza, si adornò con miriadi di gioielli dalle forme ed i colori più diversi: i fiori.
Da allora il Sole non è mai più stato triste né ha smesso di indorare la sua sposa con i suoi radiosi abbracci. Alcuni di questi abbracci, quelli più caldi ed appassionati, la Terra li conserva molto in profondità, vicino vicino al suo cuore, dove si trasformano in pietre lucenti di neri, grigi, marroni, viola, gialli, azzurri, rossi e bianchi: le pietre preziose, che risplendono di quella luce particolarissima proprio perché sono fatte di Sole.
Ma tu non credi che questa storia sia vera.
Eppure, guarda il mappamondo: ancora oggi ci sono dei punti sulla Terra dove il ghiaccio non si scioglie mai.
Quel ghiaccio è lì da quei tempi molto, molto lontani.
Puoi chiedere a chi vuoi.
E sai perché c’è ancora?
Quei ghiacci eterni ricordano alla Terra e al Sole che neanche un giorno deve passare senza che si siano dimostrati l’amore che provano uno per l’altra, perché è quell’amore che ha reso colorata, viva e fertile la Terra.
Ed è in virtù di quell’amore che oggi tutti noi siamo qui. Anche tu.

LA BANDA DELLO SCIVOLO RIBELLE

“Guarda, mamma! Hanno rimontato i giochi!” esclamò la mia bimba che, liberatasi dalla mia mano, corse verso lo scivolo.
Tutti i bambini del “Parco dei Glicini” erano felici ed eccitati: i nuovi giochi erano talmente belli che avevano già dimenticato quella lunga settimana durante la quale lo spiazzo era rimasto desolatamente deserto.
Per tutta quella settimana noi mamme avevamo telefonato ogni giorno, più volte al giorno, all’Ufficio Giardini del Comune; prima per sapere per quale motivo improvvisamente erano stati portati via scivolo, altalene e tutto il resto, e poi per chiedere che ne venissero montati altri al più presto.
Eravamo state terribilmente insistenti ed ora ci facevamo i complimenti per il successo ottenuto: eravamo quasi più contente dei nostri figli!
“Ti diverti, vero? – dissi alla mia bimba che saliva per la decima volta sullo scivolo – Questi giochi sono veramente molto più belli degli altri!”
“Sì, sono più belli, ma sono gli stessi”, mi rispose lei seria seria mentre, arrivata in cima, si preparava alla discesa.
“Ma no che non sono gli stessi! – le dissi prendendola in braccio alla fine della corsa – Non vedi che sono completamente diversi?
Quelli erano vecchi e anche un po’ pericolosi, ed è per questo che li hanno tolti. Guarda, vedi questa piastrina dorata, rotonda, con questi numeri sopra? Ce l’hanno tutti quanti: è il bollino di garanzia,
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significa proprio che sono nuovi e che sono stati costruiti in modo che voi bambini non possiate farvi male, giocando.”
Lei si mise un ditino sulla bocca e sorrise, poi si accostò al mio orecchio e sussurrò: “Non sono nuovi. Sono loro, quelli di prima. Solo che ora si sono messi il bollino.”
“Ma se sono completamente diversi! – insistetti, deponendola a terra – Perché credi che siano gli stessi?”
“Perché lo so: me l’ha detto lo scivolo poco fa, mentre giocavo con lui.”
“Ah, davvero?” replicai un po’ stupita e un po’ divertita e poi, facendo finta di crederle, aggiunsi: “E cosa ti avrebbe detto, lo racconti anche a me?”
Ma lei era già corsa via, di nuovo sullo scivolo.
Solo più tardi, mentre tornavamo a casa, mi raccontò una storia fantastica.
Questa.
All’inizio del mese, un bambino era caduto dallo scivolo e si era rialzato con un brutto taglio sulla fronte che era stato curato al pronto soccorso.
In seguito a questo incidente, l’Ufficio Giardini aveva mandato i suoi esperti a controllare le attrezzature del parco.
“Mamma mia! – aveva esclamato l’ispettore capo non appena giunto sul posto – ma questo scivolo avrà almeno dieci anni! No, non può assolutamente essere lasciato qui, è troppo pericoloso!”
“Hai ragione, è troppo vecchio ormai!” si era trovato d’accordo un collega.
“Tutti questi giochi vanno tolti, nessuno di loro è in regola con le norme di sicurezza!
Infatti, guardate: niente bollini. – Aveva aggiunto un altro.
“Ed anche in fretta, prima che ci sia un incidente serio: domani stesso farò venire la squadra degli operai. – Concluse l’ispettore capo scrutando le altalene con aria di grande disapprovazione.
Poiché l’Ufficio Giardini non aveva a disposizione un camion sufficientemente grande, l’Ispettore Capo decise inoltre che l’operazione sarebbe stata completata in due giornate consecutive.
Lo scivolo in questione, offesissimo nel suo amor proprio, era furibondo con gli esperti dell’Ufficio Giardini.
“Ma cosa vogliono quelli là? – protestava cercando la solidarietà dei compagni quando, giunta la sera, tutti i bambini se ne furono andati – Io mi trovo qui da più di dieci anni, è vero: e con questo?
E’ da quando il parco è stato inaugurato che faccio giocare i bambini.
Ne ho fatti scivolare migliaia ed ora, solo perché uno di loro è caduto (non certo per colpa mia) io dovrei essere eliminato?
Silenzio.
Nessuno gli rispose.
Le altalene oscillavano indifferenti spinte dal vento, il cane e la motociclettina a molla rimanevano immobili e muti, mentre l’asta bilanciere con le teste di coccodrillo sembrava addirittura addormentata.
“Non è colpa mia se è caduto! – riprese quello sempre più ostinato nel respingere ogni responsabilità – Per dirla tutta non è neanche colpa sua: io sono uno scivolo e lui è un bambino.
Io dovrei essere usato con un minimo di prudenza mentre a lui andrebbe insegnata questa stessa prudenza.
Non esiste scivolo al mondo in grado di impedire ad un bambino che gli volteggi sulla pedana di cadere e farsi male. E’ per questo che i bambini vengono qua con i genitori o le tate: cosa c’entro io se quel povero bimbo in quel momento non era sorvegliato?
Silenzio. Ora anche le altalene stavano immobili.
Lo scivolo si spazientì.
“E va bene, fate pure finta di non sentire.
Vi illudete che la demolizione riguardi solamente me, vero? Statemi a sentire: vi sbagliate.
Siamo stati portati qui tutti insieme, proveniamo tutti dalla stessa fabbrica e nessuno di noi possiede quel bollino di sicurezza di cui cianciavano oggi i signori tecnici! Se hanno condannato me, lo stesso accadrà per voi!
Anzi, se proprio volete saperlo, se fossi in quei tecnici per prima cosa smonterei voi altalene: siete belle, certo, con la seduta completamente aperta e leggera, sospesa a due semplici catene, ma proprio per questo siete terribilmente pericolose.
Mi meraviglio che in tutto questo tempo non vi sia successo alcun incidente!”
Questa volta, dopo qualche minuto, la motociclettina a molla chiese timidamente, dando voce ai pensieri di tutti gli altri:
“Cosa dovremmo fare, secondo te?”
“Già – intervenne l’altalena grande, la più alta di tutte, quella che aveva sempre fatto da guida ai compagni ed ora aveva paura, più che di venire demolita, di dover prendere ordini dallo scivolo o addirittura da un giochino a molla – Se, come dici, hanno deciso di smontarci tutti, come possiamo impedirglielo?
“Ah! Bene! Allora non state dormendo!
Come possiamo fare, dite? Possiamo obbligarli a servirsi ancora di noi!“
“Ma come? – chiesero insieme le due teste di coccodrillo dell’asta bilanciere che, evidentemente, non dormiva per niente. “Andandocene noi, subito, questa notte stessa, prima che vengano a portarci via.
In fondo, tutto quello che ci serve è quel benedetto bollino, no? Non dobbiamo fare altro che procurarcelo!”
Nessuno rispose a questa straordinaria proposta. Le altalene bisbigliavano tra loro, ancora poco convinte; tutti gli altri riflettevano in silenzio.
“Non mi credete?
Non vi fidate?
Allora tanto peggio per voi.
Vorrà dire che me ne andrò da solo.
Non ho nessuna intenzione di farmi distruggere.
Voglio continuare ad essere quello che sono: il loro scivolo.
Desidero sentire per sempre le risate dei bimbi che si arrampicano stringendo le manine attorno ai pioli della mia
scaletta, e voglio che continuino ad accarezzarmi il parapetto mentre sempre ridendo scivolano giù…
Io ho deciso, voi fate come vi pare.”
Detto questo, iniziò a tremare in tutta la struttura fino a che, liberatosi dalla grossa pietra immersa nel terreno che ve lo teneva ancorato, si incamminò verso il cancello.
“Aspettami! – gli gridò la motociclettina che aveva iniziato a scuotersi energicamente sulla molla e si stava liberando anch’essa – Vengo con te!
“Anch’io! Vengo anche io! – intervenne l’asta a bilanciere parlando con le sue due bocche di coccodrillo.
E così lo scivolo, la motociclettina a molla ed i coccodrilli bilanciere abbandonarono il parco per il quale erano stati costruiti e scomparvero nella notte.
Gli altri giochi, le cinque altalene, il cane a molla e la casetta di legno, rimasero immobili e silenziosi nello spiazzo illuminato dalla luna di primavera.
Le altalene erano troppo presuntuose per poter credere di essere realmente in pericolo, mentre il cane a molla era sempre stato un indeciso ed ora se ne stava lì tutto solo, senza più la compagna motociclettina accanto, che si chiedeva se non avesse fatto meglio a dar retta allo scivolo.
La casetta dal canto suo non aveva proprio preso parte alla discussione perché credeva di non aver proprio nulla da temere: dopotutto il suo unico compito era di fare un po’ d’ombra!
La notte finì e giunse il mattino.
Il sole non era ancora sorto quando il cancello si aprì per fare entrare quattro operai dell’Ufficio Giardini. Avevano un foglio su cui era stampato:
LAVORO DEL GIORNO
Smontare:
n. 1 scivolo;
n.1 motociclettina a molla;
n. 1 asta bilanciere.
Gli operai si guardarono interdetti: sullo spiazzo ricoperto di ghiaia dove avrebbero dovuto trovarsi gli oggetti elencati, c’erano 5 altalene, un cagnolino a molla ed una casetta di legno.
“Deve esserci un errore – disse alla fine il responsabile della squadra – o è sbagliato l’indirizzo, oppure è sbagliata la descrizione del lavoro da fare.
Pazienza. Torniamo in ufficio a chiedere spiegazioni.
E se ne andarono.
Le due altalene più piccole, decisamente spaventate, iniziarono a pensare seriamente alla fuga e lo bisbigliarono alla sorella grande che invece, ferita nel suo amor proprio, si ostinava a voler rimanere.
Lo spavento delle piccole altalene divenne panico: se l’altalena grande non si fosse lasciata convincere a fuggire, sarebbero dovute rimanere anche loro perché erano legate tutte e tre in un’unica struttura.
Il cagnolino a molla invece era finalmente tranquillo; gli era bastato vedere gli operai per prendere la prima decisione della sua vita: sarebbe fuggito non appena fosse scesa la notte.
Per tutto il giorno, le altalene dondolarono i bimbi senza smettere mai un momento di discutere: le più piccole, quelle legate alla maggiore, erano terrorizzate fino alle lacrime mentre le altre, per non far vedere che anche loro erano spaventate, tiravano fuori sempre nuovi ‘ma’ e nuovi ‘se’.
“Smettetela di cianciare! – intervenne alla fine la casetta di legno – Ma si può essere presuntuosi fino a questo punto?
Non vi è bastato ciò che avete visto questa mattina?
Questo piccolo cagnolino a molla è molto più saggio di voi, che sembrate essere in tante al solo scopo di far confusione!
Andatevene con lui, cercate lo scivolo e procuratevi il bollino.
Salvatevi finché potete! Il sole sta per tramontare, non avete più tempo da perdere!”
“Senti chi parla! E tu, allora? Tu hai deciso di rimanere: perché dici a noi di andarcene? – La rimbeccò subito l’altalena maggiore.
“Speri forse di rimanere l’unico divertimento del parco, per avere i bambini tutti per te? – aggiunse un’altra.
“Siete false e bugiarde come il vento che create oscillando! – esclamò la casetta che stava per perdere la pazienza – Io non sono un gioco: così come le panchine servono al riposo delle persone, io devo solo fare ombra; noi resteremo esattamente dove siamo, gli operai che verranno a portarvi via non ci guarderanno neanche.
Non volete credermi?
Allora rimanete pure, sprecate così la vostra ultima possibilità di salvezza.
Domani mattina, quando verranno a prendervi, mi divertirò a guardare.”
Poi, accorgendosi che le due piccoline tremavano, si impietosì e aggiunse: “Per una volta, non potreste decidere sulla base di ciò che avete visto e che in fondo temete?
Ricordatevi che non basta fingere che un pericolo non esista per farlo sparire!”
Le altalene non risposero, però smisero di litigare.
Il sole tramontò e, più tardi, quando la luna brillò, alta…nel cielo notturno, l’ombra della casetta si allungò solitaria.
Il mattino dopo, la squadra di operai dell’Ufficio Giardini se ne andò via ancora più perplessa del giorno precedente.
La casetta aveva ridacchiato tra sé e sé contemplando quelle espressioni stupefatte ed immaginando la confusione che il loro racconto avrebbe portato nell’Ufficio Giardini.
Si sbagliava.
Dal momento che l’incredibile non esiste, il Direttore dell’Ufficio, sul registro del giorno, accanto alla voce “Rimozione vecchie strutture gioco al Parco dei Glicini’ scrisse: “Eseguito”.
E nessuno se ne occupò più.
Ma i giochi, lo scivolo ed i suoi compagni, che fine avevano fatto?
Quella stessa notte, mentre le altalene ed il cagnolino a molla fuggivano, lo scivolo stava tornando al parco per tentare di convincerli a seguirlo.
E fu così che si incontrarono.
“Dove sono gli altri?” chiese subito il cagnolino a molla che non vedeva l’ora di riunirsi all’amica motociclettina.
“Sono nel capannone della fabbrica di attrezzi da giardino.
Non è lontano!
Lì è pieno di barattoli di vernici, bulloni, chiodi e, quel che più conta, è pieno di quei bollini che servono a noi!
Questa notte abbiamo convinto pennelli, martelli, seghe e cacciavite a darci una mano: ora andiamo tutti a farci belli! Quando verranno gli operai dell’Ufficio Giardini a prendere gli attrezzi nuovi, quelli sicuri, prenderanno noi!”
Si avviarono nella notte, tutti in fila dietro lo scivolo.
Quando giunsero nel capannone le altalene ed il cagnolino si guardarono intorno in cerca dei compagni, ma non li videro.
“Sei sicuro di non esserti sbagliato? – iniziò subito a criticare con tono altezzoso l’altalena grande – Ecco cosa succede a fidarsi di chi prende decisioni affrettate!
Qui non c’è nessuno dei nostri compagni.
Ora ci toccherà uscire di nuovo e camminare ancora per chissà quanto tem…”
“Eccovi! Finalmente siete arrivati!
Non ci vedete?
Siamo qui! – gridò una voce.
“Qui dove? – chiese perplesso il cagnolino a molla.
“Ciao! Non mi riconosci?
Se non mi riconosci tu, allora è fatta! – gli rispose la motociclettina che gli si era avvicinata tanto da toccarlo.
“Accidenti! Sei nuova fiammante!”
“Ed io? Che ne dite delle mie nuove teste di elefante?”
“Wow! – fu tutto quello che riuscirono a dire le piccole altalene.
“Perfetto – intervenne lo scivolo – E’ stato fatto un lavoro veramente perfetto.
Non resta che la parte più importante: mettere a ciascuno di voi il bollino con sopra scritto che siete giochi sicuri, in regola con la legge.
Dopo di che voi sarete pronti.
Quindi, rivolgendosi ai pennelli ed a tutti gli altri attrezzi del capannone, aggiunse: “Grazie!
Avete fatto un lavoro meraviglioso!
Ma purtroppo non ci possiamo riposare: dobbiamo essere tutti pronti entro dopodomani mattina.
Oggi è sabato e domani non verrà nessuno a curiosare qui dentro, ma entro lunedì la trasformazione dovrà essere completata, altrimenti…
Ma ce la faremo, vero?
Dopodomani saremo irriconoscibili, tutti nuovi!
Forza, mettiamoci al lavoro!
E così, per tutta la notte ed il giorno successivo, le seghe, i martelli, i pennelli e le vernici cambiarono l’aspetto dei giochi da demolire, proprio come già avevano fatto con la motociclettina e l’asta bilanciere: i pioli dello scivolo, che erano tondi e scivolosi, vennero limati e resi piatti ma privi di spigoli; le altalene vennero tutte fornite di schienale, separagambe, cinture e catene di sicurezza; il cagnolino a molla, così come già fatto per la motociclettina, fu privato di tutti gli spigoli e arrotondato in tutte le sue parti. Alla fine vennero riverniciati.
La domenica sera erano tutti pronti, nuovi fiammanti nei loro sgargianti colori e con un bel bollino di sicurezza bene avvitato: dovevano solo finire di asciugarsi.
“Perfetto – disse lo scivolo dopo aver controllato uno ad uno i compagni – Veramente perfetto.
Grazie, ancora mille volte grazie! Ora possiamo finalmente riposar…”
“Aspettate! Manca ancora la cosa più importante! – lo interruppe il cacciavite.
“Dobbiamo incollare su ciascuno di voi il cartellino con l’indirizzo del Parco dei Glicini!
Le penne dell’Ufficio Spedizioni li hanno già preparati, eccoli qua: solo così sarete sicuri di tornare nel vostro parco.
E tutti ebbero un bel cartellino arancione.
“Ecco fatto. Ora possiamo riposarci sul serio.
“Grazie! Grazie di cuore. Siete stati fantastici! – esclamarono entusiasti i giochi così rinnovati, prima di cadere addormentati.
“ E Dopo qualche giorno – concluse la mia bambina – i tecnici dell’Ufficio Giardini, che erano andati nella fabbrica per ordinare i giochi nuovi, hanno trovato nel magazzino, belli e pronti per il trasporto, proprio i giochi che cercavano.
Non hanno dovuto far altro che far venire il camion con gli operai per caricarli, trasportarli e montarli.
“E così – le chiesi – secondo te quegli splendidi attrezzi gioco, nuovi fiammanti e con tanto di bollino di sicurezza, in realtà non sono che i soliti, cari, fedeli, vecchi attrezzi solo un po’ camuffati?”
“Certo, proprio così.
“Bene, mi hai raccontato proprio una bella favola! Brava! – dissi sorridendole.
“E’ bella, sì – rispose guardandomi seria seria, diritto negli occhi – ma non è una favola, mamma.
E’ la storia della banda dello scivolo ribelle.”

IL TERMOMETRO AMBIZIOSO

Da alcuni mesi, il timer che regolava il campanile della Chiesa Grande in Piazza del Sole si era guastato: lo scampanio aveva quindi preso a partire nelle ore più improbabili ed il Parroco, in attesa che la ditta responsabile della manutenzione inviasse un tecnico, non aveva potuto fare altro che escluderlo dal circuito, rassegnandosi ad azionare l’interruttore a mano tutte le volte che era necessario.
Non che fosse una gran fatica, questo è chiaro, ma doversene ricordare era una seccatura.
Oltretutto in questo modo il campanile rimaneva muto tutte le volte che per qualsiasi motivo lui non c’era. Da parecchi mesi quindi gli abitanti della cittadina non avevano più, come erano abituati, un campanile che battesse regolarmente i vespri ed i mattutini, né che scandisse gioiosamente il trascorrere del giorno.
In quello stesso periodo, nel cassetto situato proprio sotto la cassa della Farmacia che si affaccia sulla stessa piazza, sonnecchiavano in attesa di essere venduti 50 termometri, tutti perfettamente funzionanti, uguali e lucenti, ciascuno nel proprio astuccio, ordinatamente allineati.
Nel buio del cassetto il silenzio sarebbe dovuto essere assoluto, ma così non era.
Uno di quei termometri, esteriormente proprio uguale a tutti gli altri, costruito ed imballato dalla stessa fabbrica che aveva realizzato tutta la partita, era in realtà diverso: la sua anima, il suo mercurio cioè, era diversa, talmente diversa che il termometro stesso rotolava continuamente in avanti, verso l’apertura del cassetto, attirandosi per questo le critiche irritate dei compagni.
– Possibile che non riesci ad aspettare pazientemente come tutti noi?
Lo rimproveravano, ogni volta che con i suoi movimenti scomponeva l’allineamento generale.
Persino la Farmacista, stanca di trovarlo fuori fila: Su,STAI FERMO !
Persino la farmacista, stanca di trovarlo fuori posto ogni volta che apriva il cassetto – cosa che capitava piuttosto spesso dal momento che era stata assunta di recente e non aveva ancora imparato bene la disposizione della merce – cominciò a rimproverarlo, anche se mai avrebbe creduto che quello l’ascoltasse sul serio!
Ma cosa vuole questo qui? – Pensò, tra lo stupito e lo spazientito alla fine della prima settimana di lavoro. – Possibile che tutte le volte che guardo qui dentro me lo ritrovo sotto gli occhi?
Sembra vivo!
Più lo rimetto a posto e più lui rotola in avanti!
Vediamo un po’ cosa sei capace di fare adesso! Mi hai seccato, sai? – E così dicendo lo sistemò dietro a tutti gli altri, proprio in fondo al cassetto, sotto tutte le altre confezioni, da dove non sarebbe mai potuto rotolare in avanti. Non con le sue sole forze, per lo meno!
– Un elemento discordante disturba il mio senso estetico. – Spiegò al collega che la osservava stupito mentre risistemava tutti i termometri – Questo cassetto perfettamente ordinato non lo è più se uno solo degli oggetti contenuti è visibilmente fuori posto!
Ma d’ora in poi potrò cessare di rimetterlo a posto cento volte al giorno!
– Sei soddisfatto? – Lo apostrofarono gli altri termometri appena il cassetto venne richiuso – Adesso la smetterai di agitarti tanto!
Sei finito talmente in fondo che sarai l’ultimo ad essere venduto, vedrai!
Ti sta proprio bene, sai?
Il termometro in questione non rispose.
Non era un gran chiacchierone, anzi, per la verità era piuttosto taciturno.
Taciturno ed ostinato. Non era colpa sua se dentro la sua cannula c’era un mercurio che non riusciva a stare fermo, così tenace ed ambizioso che non vedeva l’ora di essere messo alla prova!
Non poteva contentarsi di starsene tranquillo su 35,5°: aveva deciso che sarebbe arrivato in alto, fino a 41°, anzi, fino a 42°, anche se sapeva che questo sarebbe stato molto, molto pericoloso per la sua stessa incolumità.
Come sempre dunque non replicò alle invettive dei compagni.
Ma neanche rinunciò.
Quando la mattina successiva la farmacista aprì il cassetto – questa volta non per errore ma proprio alla ricerca di un termometro da vendere ad una giovane signora – rimase di sasso nel constatare che dell’ordine perfetto in cui l’aveva lasciato la sera precedente non era rimasto nulla.
Non c’era un solo termometro che fosse allineato all’altro ed in cima a tutto quel caos ce n’era uno, la dottoressa era certa che fosse “quello”, posizionato in modo tale che non prenderlo sarebbe stato difficile.
E comunque lei lo prese.
Pur non ammettendolo apertamente (quelle erano proprio il tipo di stranezze che disturbavano profondamente il suo animo ordinato) pensò che se veramente il responsabile di quel pandemonio era lui – ma certamente c’era una spiegazione logica! – venderlo sarebbe stato il sistema più sicuro per liberarsi del problema.
Dunque lo prese, lo aprì, ne controllò l’integrità e, vergognandosi un po’ del sollievo che provava, lo impacchettò e lo passò alla cliente…visto che ce l’ho fatta?
– Avete visto che ce l’ho fatta? – Gridò soddisfatto il nostro amico ai suoi ex compagni che venivano ancora una volta riordinati – E adesso statevene pure in santa pace ad aspettare il vostro cliente che chissà quanto ci metterà ad arrivare.
Io me ne vado! 42°, aspettami!
E scomparve nella borsetta della sua nuova proprietaria, per uscire per sempre dalla Farmacia di Piazza del Sole e fare il suo ingresso in casa Allegretti.
La famiglia Allegretti era composta, oltre che dalla signora che era andata in farmacia, da suo marito, Ingegnere presso la Ditta Smaltimento Rifiuti Speciali, dai loro tre bambini, dalla nonna e dal gatto, tutti sempre di ottimo umore, proprio come stabiliva il loro cognome.
L’unico a non essere per niente allegro era proprio il protagonista della nostra storia che, una volta scartato, era andato a finire di nuovo in un cassetto buio. La sola novità consisteva nel non essere più in compagnia di termometri.
La farmacia di casa Allegretti conteneva infatti una scatola di cerotti, un esiguo numero di fasce e bende, un po’ d’ovatta, un disinfettante ed una confezione di pasticche contro la febbre.
Non c’era altro: niente gocce, niente sciroppi e tanto meno antibiotici.
Ma questo era abbastanza ovvio perché gente di così buona disposizione di spirito
difficilmente si ammala: tutt’al più i bimbi avrebbero potuto ferirsi giocando e per questa eventualità c‘era tutto l’occorrente.
Per la prima volta in vita sua il termometro si scoraggiò: aveva fatto letteralmente i salti mortali per farsi comprare e come gran risultato era finito in una famiglia che, con ogni probabilità, non avrebbe mai avuto bisogno di lui.
– Ti sbagli! – Lo consolò il medicinale contro la febbre con il quale alla fine si era confidato e che, ormai vicino alla scadenza, comprendeva molto bene le sue preoccupazioni – Pur non ammalandosi sul serio quasi mai, tu sei l’unico a venire usato con una discreta frequenza.
Devi ringraziare la nonna per questo.
E’ un’adorabile vecchina anche lei perfettamente in salute ma decisamente ipocondriaca, ossessionata dal timore di contrarre i morbi più inverosimili!
Non fa che controllare la temperatura dei nipotini perché non le sembra possibile che stiano sempre tutti così bene. Vedrai che presto ti tireranno fuori!
Il Termometro non si consolò troppo: è vero che l’avrebbero usato spesso, ma se nessuno era mai veramente malato, la sua ambizione di arrivare a toccare i 42° rischiava di rimanere per sempre repressa…
Ma poiché ambizioso lo era sul serio, subito cominciò a pensare ad un sistema per riuscire ugualmente nel suo intento.
La fortuna lo favorì: i bambini della famiglia Allegretti erano vivaci e curiosi come tutti i bambini del mondo, ma in sovrappiù avevano genitori molto pazienti ed erano tutti estremamente disordinati.
Grazie a questa combinazione, la prima volta che la nonnetta lo tirò fuori dal cassetto per misurare la febbre ad Icaro, il gatto, (non aveva trovato nessun altro disposto a darsi malato) dopo aver segnato un rigoroso 38,2°, temperatura per l’animale più che normale, venne abbandonato sul tavolino del televisore e lì dimenticato.
“Che fortuna! – Si compiacque il termometro – Ora non mi resta che attirare l’attenzione di Paolo, il ragazzino con gli occhi lucenti come punte di spillo che ha la passione per gli esperimenti. Sono sicuro che se riesco a farmi notare da lui, ottenere che mi faccia arrivare a 42° non sarà che un gioco!”
E così, nei giorni che seguirono, tutte le volte che Paolo guardava i cartoni, lui agitava freneticamente il mercurio, sempre bloccato sui 38,2° del gatto, riuscendo a far vibrare leggermente tutta la scatola.
Dai e dai, alla fine il bimbo se ne accorse e, essendo appunto un bimbo, era più che disposto ad accettare qualsiasi stranezza, anche un termometro che si muove da solo.
Incuriosito, lo prese in mano per esaminarlo da vicino.
Forse è la televisione accesa – pensò – a provocare una vibrazione nel tavolino?
Per sincerarsene lo rimise dov’era e, dopo aver spento la TV, tornò in poltrona per osservarlo.
No. Decisamente si muoveva.
In modo impercettibile, certo: ma si muoveva ancora.
Lo riprese in mano e lo estrasse dall’astuccio. Sembrava proprio un termometro come tutti gli altri, tale e quale… anche se… sì, il mercurio all’interno aveva una lucentezza che non aveva mai notata negli altri.
E lui se ne intendeva di termometri!
Ne aveva fatti saltare almeno una decina nel tentativo di farli salire a 42° senza che si rompessero!
Per fare questo si era sempre servito dei fiammiferi e naturalmente non ci era mai riuscito: benché avesse sempre saputo che non sarebbe stato possibile, era stato ugualmente molto divertente provarci.
Alla fine aveva dovuto smettere perché la mamma e la nonna, ciascuna per diversi motivi, l’avevano pregato di piantarla con quell’esperimento insulso.
Questo termometro, però… Questo era diverso!
Forse… Se invece dei fiammiferi si fosse servito del termosifone… Aveva un solo modo per saperlo: provare. Il mercurio era emozionatissimo: quel ragazzino, ne era certo, stava per farlo salire fino ai 42°!
Iniziò a sentire il calore che lo dilatava e lo spingeva, lentamente ma costantemente, lungo la cannula: 38,7°, 39°, 40°…
Paolo tolse il termometro dal calorifero.
“ Accidenti! – esclamò – Questo mercurio è sensibilissimo! E’ arrivato a 40° molto più in fretta di tutti gli altri! E senza fiamma, poi! Devo stare molto attento se non voglio che mi scoppi in mano!
“ Per un attimo, immaginando la reazione della mamma, stufa di comperare continuamente termometri, o – peggio – a quella della nonna, fu tentato di rinunciare e stava per riporlo nel cassetto delle medicine…
Ma non resistette e, cautamente, ne appoggiò nuovamente la punta al calore.
Subito il mercurio ricominciò a distendersi: 41°, 41,9°!
Ancora un decimo di grado e… Ma Paolo lo aveva ripreso in mano.
“Uhau! – Esclamò stupefatto – Ancora un attimo e sarebbe saltato! Non mi era mai riuscito di farlo salire così tanto senza romperlo!
Chissà, forse se lo appoggio solo per un altro miliardesimo di miliardesimo di secondo…
Forse… E lo riavvicinò al termosifone.
Ma i miliardesimi di miliardesimi di secondo sono un tempo veramente troppo breve da misurare!
Il mercurio ebbe una fugace visione dei 42° e poi…SCRASH!
Il vetro si ruppe e lui precipitò sul pavimento disperdendosi in decine di perfette sferette luccicanti, proprio nel momento esatto in cui l’Ingegner Allegretti rientrava dal lavoro.
UI CI VA UN TERMOMETRO CHE SI SFASCIA PER IL CALORE
Aiuto! Che mi sta succedendo?
– Peccato! Esclamò Paolo, non troppo deluso (in fondo era l’esperimento con i termometri che gli era riuscito meglio di tutti) guardando affascinato le biglie di mercurio rincorrersi per tutta la cucina.
– Paolino! Ma sei incorreggibile! – Lo rimproverò il padre arruffandogli i folti capelli – Sei il solo bambino al mondo che consuma più termometri che succhi di frutta!
E poi guarda qui, tutto quel mercurio per terra! Quante volte devo spiegarti che è pericoloso?
E’ velenoso! Forza, leviamolo di mezzo prima che Icaro decida di ingoiarlo.
Aiutandosi con un cartoncino, sotto lo sguardo dilatato del gatto, l’Ingegner Allegretti ed il figlio riunirono tutte le palline in un’unica bolla traslucida, che risultò piuttosto grande, e la fecero scivolare in un piccolo contenitore di plastica, uno di quelli utilizzati per contenere le sorprese delle piccole uova di cioccolata.
E ora? Senza cannula e senza scala graduata non sono più un termometro – si domandava il nostro eroe, decisamente preoccupato – sono mercurio, solo mercurio nudo e crudo! Cosa ne sarà di me? Ma non era pentito: arrivare lassù, essere riuscito a toccare i 42°, anche se solo per un infinitesimo di attimo, era stato fantastico!
– Bene, domani porterò con me anche questo – stava dicendo l’Ingegner Allegretti – Se vai avanti di questo passo, Paolo, finirò col chiedere un aumento di stipendio: con tutto questo mercurio che gli porto per merito tuo!
Chissà questo qui dove andrà a finire…”
– Perché – chiese il figlio incuriosito – non viene semplicemente eliminato?
Buttato… Distrutto?
– Vuoi scherzare? – Rispose il padre – I rifiuti speciali che noi trattiamo sono quasi sempre riciclabili!
Il mercurio, sai, non è solo molto tossico: è un metallo molto raro e soprattutto molto utile!
Questo qui, per esempio, potrebbe andare a far parte di una lampada a luce ultravioletta, di un cuscinetto lubrificante o addirittura di una radiosveglia…
Pensa che potrebbe essere utilizzato per estrarre l’oro o magari finire nello studio di un dentista…
Chissà, magari invece andrà a formare l’anima di un barometro, o più semplicemente tornerà in quella di un termometro: in questo caso – concluse ridendo – se venisse ricomprato dalla mamma diventerebbe il primo caso di mercurio destinato al riciclaggio continuo…
A meno che tu non decida finalmente di lasciare in pace i termometri.
In ogni caso – Concluse il Signor Allegretti strizzando l’occhio al figlio che lo ascoltava affascinato – bisogna ricordarsi di dire alla mamma di comprarne un altro, prima che la nonna decida di averne bisogno.
E ora, che ne dici, ci facciamo un tè?
Anche il mercurio era piacevolmente stupito: mai avrebbe sperato di avere tutte quelle opportunità! Aveva avuto ragione, dopotutto: la sua ambizione di arrivare a 42° non era stata una mera fissazione!
Ma i giorni passarono senza che il mercurio uscisse dal buio del contenitore.
Alla fine, l’Ingegner Allegretti aveva dimenticato di portarselo in fabbrica.
Uff! Mi hanno dimenticato!
Con l’avvicinarsi della Pasqua il Parroco della Chiesa Grande, che voleva celebrarla con le campane in piena efficienza e che si era stancato di attendere l’intervento della ditta di manutenzione, decise di chiedere aiuto ai parrocchiani.
Per questo motivo scrisse questa lettera che il sabato mattina distribuì in tutte le cassette postali:
Caro amico,
Ti sarai certamente accorto che da ormai troppo tempo il nostro campanile è silenzioso.
Sono certo che questo fatto ti rende triste e che, come me, vorresti porvi rimedio.
Il responsabile di questo stato di cose è il timer guasto: se tu avessi la necessaria competenza, saresti così gentile da trovare un minuto per venire a dare un’occhiata?
Tra due settimane sarà Pasqua e sarei veramente felice se per quell’occasione il campanile ritrovasse la sua voce. Sono certo che tutti i compaesani, insieme a me, te ne sarebbero molto riconoscenti.
Ringraziandoti nella preghiera Don Angelo
Questa lettera giunse naturalmente anche in casa Allegretti.
Appena l’Ingegnere l’ebbe letta, si ricordò del mercurio che giaceva nel contenitore delle sorprese pasquali.
– Paolino! – chiamò immediatamente – Usciamo, sbrigati!
– Dove mi porti, papà?
– In un posto che sono sicuro ti piacerà: il campanile della Chiesa di Piazza del Sole.
– Forte! Ma proprio fino lassù, in cima in cima?!
– Non lo so precisamente, ma non credo, dipende da dove si trova il timer che dobbiamo riparare.
Siamo in missione d’emergenza per il Parroco: andiamo a far ripartire le campane!
In tasca ho il mercurio dell’ultimo termometro che hai fracassato, te lo ricordi?
Sono sicuro che è proprio quello di cui avremo bisogno.
Immagino che ti divertirai a ficcare il naso dentro al meccanismo che comanda le campane. O sbaglio?
– No, certo che no, Papà! Ma cosa c’entra il mercurio?
Già, cosa c’entro io? Si chiedeva il protagonista della nostra storia, tutto emozionato.
Era ora, che si ricordassero di me! Finalmente, dopo tutto questo tempo di buio, silenzio e rassegnazione.
– C’entra, c’entra. Tra le varie applicazioni del mercurio che ti ho elencato – spiegava l’Ingegner Allegretti al figlio mentre percorrevano velocemente Piazza del Sole – credo di aver dimenticato i timer.
Ebbene, quello che abbiamo recuperato andrà a finire proprio lì, nel timer del campanile della Chiesa Grande. Sono quasi sicuro che la causa del guasto sia proprio lui, il mercurio.
Cosa sarà un timer? Si chiedeva il mercurio, sempre più emozionato.
Attraversato il sagrato, padre e figlio entrarono nella Chiesa e si diressero verso la scala che conduceva alla sommità del campanile: il timer si trovava naturalmente proprio ai piedi di quella scala.
– Guarda, – disse l’Ingegnere all’interessatissimo figliolo dopo aver tolto il coperchio dell’apparecchio – vedi questo cilindretto?
Questo è praticamente l’interruttore.
Dipende tutto da lui.
Vedi, in questa posizione, attraverso il mercurio che si trova al suo interno, il cilindretto mette in contatto i fili che entrano ed escono dalle sue estremità; in quest’altra posizione, invece, il contatto viene interrotto.
A seconda di come viene regolato l’orologio, va in una posizione o nell’altra, facendo partire o fermando lo scampanio.
E’ chiaro?
Ora smontiamo il cilindretto e lo apriamo: sono quasi sicuro che non c’è abbastanza mercurio al suo interno.
Ci metteremo il nostro e tutto tornerà a posto.
Ci scommetti?
Gli occhi di Paolino luccicavano per la curiosità mentre la biglia traslucida veniva fatta scivolare lentamente nel cilindretto interruttore.
Papà e figliolo non potevano saperlo, ma quella pallina era in preda alla più grande agitazione.
Assicuratosi che la quantità di mercurio fosse sufficiente, papà Allegretti posizionò i contatti e poi permise al figliolo di chiudere il timer.
– Bene – disse quando Paolo ebbe stretto l’ultima vite – ora facciamo una sorpresa a Don Angelo, che ne dici? Mancano 5 minuti alla Messa di mezzogiorno.
Se tutto va bene… Guarda, sposto le lancette, così… Ecco fatto.
Ora sapremo se avevo ragione.
Nel buio della sua nuova casa, il mercurio attendeva, ma non sapeva cosa.
Tic tac, tic tac, tic tac, tic… TAC! Il cilindretto cambiò improvvisamente posizione e… qualcosa di assolutamente nuovo, elettrizzante, lo attraversò interamente.
Nello stesso momento udì uno scampanio festoso e potente diffondersi nel cielo. DIN! DON! DAN! DIN! DON! DAN!
Era stato lui? Lui, aveva fatto quello?
Era questo il suo nuovo compito?
Ma certo! L’ingegner Allegretti l’aveva appena spiegato al figlio: lui apriva e chiudeva il contatto che metteva in moto e fermava le campane!
La sua anima irrequieta ed ambiziosa d’ora in poi avrebbe percorso i cieli sulle onde di quel suono argentino e solenne che proprio lei aveva il potere di risvegliare e fare tacere.
Altro che 42°: i rigorosi termometri che criticavano il suo desiderio di emozioni non avrebbero mai saputo neanche immaginare un’emozione entusiasmante come quella che d’ora in poi sarebbe toccata a lui.
DIN DON DAN! DIN DON DAN!
Per tutti i termometri, come sono diventato importante!
Ne aveva fatta di strada, dal cassetto della farmacia di Piazza del Sole!
Fiero della sua tenacia, orgoglioso del suo nuovo ruolo, il mercurio si adagiò di buon grado sul fondo del cilindretto interruttore quando questo ‘TAC!’, cambiò nuovamente posizione, facendo tacere le campane.

UNA GIOIA PER GLI OCCHI (Storia d’una pratolina)

Era una mattina di sole.
La seconda, dopo giorni e giorni di una pioggia fitta e continua che aveva trasformato il parco in un’enorme pozzanghera. Ma con la fine di gennaio anche le nuvole erano scomparse e febbraio era iniziato con una temperatura mite, quasi primaverile.
Così eravamo spuntate tutte fuori ed ora punteggiavamo il prato ancora umido con le nostre morbide corolle immacolate. Dopo tutta quell’oscurità, allargavamo con gioia i petali alla luce. Erano ancora le prime ore del mattino, troppo presto perché i raggi del sole ci colpissero direttamente, ma il cielo era limpido, l’aria quasi tiepida e tra non molto gli alberi avrebbero ritirato la loro ombra lasciandoci allo scoperto.
Nel frattempo ci scrollavamo di dosso la rugiada e ci guardavamo attorno.
Dopo qualche ora, quando il Sole era quasi al centro del suo giro nel cielo, vidi in lontananza un cane bianco: trotterellava allegramente in libertà, fermandosi di tanto in tanto per non perdere di vista il padrone o per annusare qua e là. Dietro di lui, parecchio più indietro, una donna spingeva lentamente un passeggino con un bimbo addormentato.
Non lo sapevo ancora, ma quella donna spingeva il mio destino.
Li guardai allontanarsi, godendo delle loro figure nitide nell’aria pura, sospese tra il verde del parco, l’azzurro del cielo ed il grigio- arancio della città acquattata all’orizzonte.
Il Sole continuava ad alzarsi, presto ci avrebbe raggiunte.
Nel parco cominciarono ad arrivare i cani: giocando ci correvano accanto, alcuni ci annusavano, altri ci annaffiavano.
I loro padroni li controllavano dal sentiero, parlavano tra loro e ci passavano accanto senza notarci.
Eravamo sbocciate appena il giorno prima, tenero anticipo di una primavera ancora lontana, una gioia per i loro occhi, ma non ci vedevano.
Io mi dondolavo nella brezza leggera e continuavo ad aspettare il sole.
A causa della stagione non avrei potuto goderne che per poche ore, sufficienti per allungare lo stelo, allargare la corolla e richiamare qualche insetto.
Ma sopra ogni cosa desideravo sentire quel calore intenso e diretto.
Sul sentiero passò il cane bianco, sempre trotterellando allegramente ed annusando ora il prato, ora il vento.
La donna che spingeva il passeggino arrivò e si fermò: si era accorta di noi!
Sorridendo ci indicò al bambino non più addormentato: ma era troppo piccino, non ci aveva mai viste e non sapeva distinguerci.
La donna allora lasciò il passeggino e si avvicinò.
Compresi.
Pregai, supplicai il buon Dio che non scegliesse proprio me.
Tentai di nascondermi, reclinai stelo e corolla…
Mi accorsi che il Sole era alfine giunto perché l’ombra di quella mano mi privò improvvisamente del suo tepore.
Pur sapendo quanto fosse inutile, gridai a quella donna la mia volontà di continuare a vivere.
Gentilmente le sue dita mi circondarono lo stelo, e strinsero.
Forse fu per la troppa disperazione, ma non provai dolore.
Lei sorrideva, e sorridendo tornò verso il passeggino per mostrarmi al suo bambino.
Era una bambina, una giovane vita proprio come me, e malgrado le fossi ormai davanti non riusciva ancora a distinguermi.
Anche se recisa, avevo ancora vita sufficiente per fare quello per cui ero nata: dare gioia ai suoi occhi. Raddrizzai lo stelo nella mano della donna ed allargai la corolla nel sole. La piccina mi vide.
La sua piccola mano si aprì e si richiuse intorno a me, prima con delicatezza, poi stropicciandomi tutta.
Con l’innocente crudeltà della sua vitale curiosità strappò alcuni petali e li portò alla bocca, poi fece lo stesso con quello che di me era rimasto insieme.
Ed io, io malgrado tutto amai i suoi occhi ridenti di stupore, e fui felice.
Per questo ero nata: una gioia per gli occhi.
Intanto, la donna aveva ripreso a spingere il passeggino, il cane questa volta la seguiva.
Un passero volò davanti a noi: la bimba lo vide e mi dimenticò. Sfuggita dalla sua manina umida rimasi incastrata sotto le sue gambe, con la corolla rivolta al sentiero.
Quello che doveva essere, era stato: ma c’era ancora vita in me e non volevo che andasse sprecata ma, per quanto cercassi di liberarmi, non riuscivo a lasciarmi cadere.
La donna forse comprese: mi sollevò gentilmente e mi depositò sull’erba, al sole.
Il passero che aveva rubato l’attenzione della bimba mi prese nel becco e mi portò con sé.
Da lassù, sospesa nel cielo, vidi una piccola auto lasciare il parco: riconobbi il cane bianco, ed il passeggino. Ora sono parte di un nido posto su un albero grande, in ombra. Ma del sole non ho più bisogno: per riscaldarmi in attesa della fine, richiamo alla memoria quegli occhi ridenti.
LA GATTA “DI-LUXIA”
Per la settima volta, il fattorino del droghiere pigiò a lungo sul campanello, con forza, guardandosi il dito diventare bianco come il piccolo pulsante che sembrava farsi beffe di lui.
Udì distintamente il trillo correre e riecheggiare al di là della massiccia porta di quercia, null’altro: dietro quella porta scura e pesante il silenzio persisteva, profondo ed ostile, per nulla disturbato dal suo suonare ostinato.
Incerto se lasciare la spesa sullo zerbino rischiando che alcune cose si guastassero – il latte per esempio – riportarsela indietro oppure tentare ancora, il ragazzo esitava.
Stava per rinunciare quand’ecco, spenta del tutto la vana eco del suo ultimo scampanellare, un passo leggero, incerto, che si avvicinava.
Subito riprese a schiacciare il pulsantino bianco, origliando.
– Chi è? – chiese una flebile voce di donna che lui stentò a riconoscere per quella della pittrice.
– Buongiorno signora, sono io, il garzone del fornaio.
Ho qui la sua spesa.
Silenzio.
– Signora? – riprese il ragazzo sempre con l’orecchio sulla porta. – Signora, si sente bene? Mi apra, per piacere… Ho qui il suo pane, il vino, la pasta, i pelati, le uova, il latte… Si ricorda?
– Non c’è nessuno qui – sussurrò la voce da dietro la porta chiusa – nessuno.
– Come, nessuno!? – Signora, mi apra! Per piacere…
– Nessuno – ripeté quella – sono tutti morti.
Attraverso il proprio muto stupore, il garzone udì i passi leggeri allontanarsi e svanire dietro una porta lontana. Poi più nulla.
– Strano – pensò il ragazzo – eppure mi sembrava una persona a modo, normale, forse la più simpatica di quelle che fanno la spesa in negozio… Ma già, lei fa la pittrice, è un’artista, e gli artisti, si sa, sono tutti un po’ tocchi.
Ricondotto in tal modo alla normalità quell’inquietante comportamento, il ragazzo fece spallucce, sistemò la busta sullo zerbino e se ne andò, saltando i gradini a quattro a quattro, giù via veloce verso il cortile assolato, la strada, il negozio. “E meno male che la spesa l’aveva già pagata stamattina, altrimenti sai che pasticcio!
Il principale non l’avrebbe mai creduto, che la signora m’aveva detto d’esser morta! Morta? Dove morta, se parla e cammina?!”
E infatti morta non era, Lucia. Ma era così triste, così triste che le pareva d’esser morta davvero.
Da che il marito era partito per un viaggio di lavoro portando con sé Giorgio, il loro unico figliolo, il tempo a sua disposizione, contro ogni previsione, anziché dilatarsi s’era fatto piccino.
Lei li avrebbe accompagnati volentieri in quel lungo giro e, se vi aveva rinunciato, era soltanto perché, essendo negli ultimi tempi gli affari del marito in preoccupante calo, aveva sperato di terminare in fretta, in quella settimana di silenzio, i ritratti che le erano stati commissionati, così da consegnarli ed incassare.
Ma già il secondo giorno Bunny, il suo adorato coniglio che da sette anni le si accucciava in grembo mentre dipingeva, si era improvvisamente ammalato e lei, con il trascorrere solitario dei giorni, senza nessuno con cui distrarsi nella città svuotata dagli amici tutti a sciare, si era abbandonata ad una sterile malinconia, i pennelli dimenticati sulla tavolozza, ed aveva trascorso tutto il tempo a spiare il decorso della malattia del suo piccolo amico finché, proprio quella mattina, notato in lui un notevole miglioramento, aveva lavorato al ritratto fin verso le dieci ed era poi scesa per una breve passeggiata e un po’ di spesa, il cuore lieto.
Tornata a casa, però, aveva trovato Bunny ai piedi del suo sgabello, morto.
Annichilita per lo stupore di quel dolore a tal punto crudele, ripetendosi mentalmente “pazienza, era vecchio, era vecchio…” se n’era rimasta accucciata accanto al cadaverino non sapeva quanto tempo, immobile, fino a quando il trillo insistente del campanello, che in un primo tempo le era parso suonasse in un tempo lontano, non s’era fatto strada fino a lei; allora si era stancamente avvicinata alla porta, ma solo per rivolgere quei bisbigli dell’altro
mondo all’incredulo garzone del fornaio. Tornata poi nel grembo rassicurante del suo studiolo, sentendo il ragazzo correre a precipizio giù per le scale, si era come risvegliata ed aveva riso e riso fino alle lacrime, con le braccia allacciate alle ginocchia ed il viso nascosto tra le gambe.
Finito di ridere, si era finalmente alzata, era andata in terrazzo ed aveva scavato una buca profonda nel grande vaso del gelsomino. “Prenderò un gatto – si era detta mentre ricopriva di terra il corpo di Bunny – un gatto molto, molto piccolo, perché possa fargli da mamma, e perché passino almeno una dozzina d’anni, prima che mi muoia anche lui.”
Resa più tranquilla da questa decisione, ritirò la busta della spesa da dietro la porta, lavorò con rapidità e soddisfazione al ritratto iniziato la mattina e si dispose a preparare la cena per il marito ed il figlio il cui ritorno attendeva in serata.
Il viaggio di lavoro del marito era stato un inutile successo.
I responsabili delle aziende contattate si erano tutti mostrati molto interessati, ma nessuno al punto di sponsorizzare la realizzazione della sua idea.
Per la famigliola i tempi difficili sembravano dunque dover continuare e Lucia si rassegnò: avrebbe indefinitamente rinunciato al piacere di dipingere paesaggi per impegnarsi a tempo pieno ai ritratti su commissione.
Qualcosa che era andata per il verso giusto c’era però stata: Lucia aveva ora una bella gatta dal folto pelo grigio striato di rosso che le si acciambellava in grembo ed ammorbidiva il silenzio con le sue fusa sommesse, mentre lei dipingeva.
L’aveva trovata in un’aiuola del cortile condominiale, magra magra e tutta un tremito, con gli occhi ancora chiusi; era stata abbandonata da una gatta smunta che, al riparo del muretto di confine con la strada, stentatamente allattava un altro cucciolo.
Lucia aveva tentato di riconsegnare quella gattina alla madre ma questa l’aveva scacciata con decisione, soffiandole contro rabbiosamente, probabilmente perché sapeva con certezza di non avere abbastanza latte per entrambi i cuccioli.
E così Lucia si era portata a casa quel mucchietto di pelo ed ossa, l’aveva curato ed allattato amorevolmente ed ora, pochi mesi dopo, quello era divenuto una splendida gatta, morbida e flessuosa che, con sua grande gioia, aveva per sempre scacciato da lei anche l’ombra della malinconia che prima l’aveva spesso tormentata, quando al mattino rimaneva sola.
Era così felice della sua gatta, Lucia, che quando giunse il momento di operarla per renderla sterile decise di non farlo, preferendo lasciare sempre aperta la finestrella che dalla sua soffitta- studiolo dava sui tetti, in modo da lasciarla libera di entrare ed uscire a suo piacere notte e giorno.
Come unica precauzione, nel caso si fosse persa, le legò attorno al collo un nastrino azzurro a
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cui appese una medaglietta con inciso l’indirizzo ed il nome, “Di- Luxia”, ed una minuscola lampadina intermittente, una lucciola azzurrina, affinché dalle finestre della casa, di notte, guardando sui tetti si riuscisse a rintracciarla: quasi la gatta avesse compreso, nelle sue scorribande non si allontanava mai al punto da rendere invisibile la sua minuscola stella.
Passarono le settimane, le giornate si fecero afose e durante la notte si iniziò a lasciare aperte le finestre sui tetti. In una di quelle nottate, la gatta scomparve. Non mancò per molto tempo, una settimana appena, ma con quella breve sparizione fece la fortuna della sua padrona.
Durante tutto quel periodo nella casa di Lucia esplose il caos: lei non cucinava, non lavava, non stirava, non metteva ordine, non faceva la spesa, non mangiava, non dormiva, non dipingeva e non capiva come marito e figlio potessero pensare a qualcosa di diverso che non fosse cercare la gatta.
Per la verità, per i primi quattro giorni marito e figlio la cercarono con lei, affannosamente, e l’avrebbero cercata ancora, se non fosse stato che… la trovarono!
Il quarto giorno, infatti, la videro nel telegiornale della sera: passeggiava tranquillamente sugli scranni dell’aula di Montecitorio, saltando agilmente da quelli della maggioranza a quelli dell’opposizione, godendosi in modo del tutto imparziale lo stupore, le carezze od il fastidio di ciascun Onorevole, senza però permettere a nessuno di loro di trattenerla.
Durante i tre minuti del servizio giornalistico, mentre Lucia rimase in apnea, la gatta divenne una star.
– I lavori – disse il giornalista in chiusura del servizio – sono stati sospesi per il tempo strettamente necessario a consentire agli uscieri di accompagnare fuori dall’aula l’Onorevole Micio.
Poi il telegiornale passò ad occuparsi di calcio.
– E ora? Dov’è, ora? Dov’è andata a finire? Perché il giornalista non l’ha detto? – Chiese Lucia in un soffio, ancor prima di riprendere finalmente a respirare.
– Evidentemente perché non si sa – le rispose il figliolo.
– E che significa, non si sa?
– Che non si sa – ribadì quello – Tu eri troppo agitata per ascoltare, ma il giornalista all’inizio del servizio ha detto che quando l’usciere è uscito dall’aula con la gatta in braccio per consegnarla alla protezione animali, quella gli è saltata dalle braccia ed è scappata via.
Ora sarà nascosta chissà dove, nei meandri di Montecitorio.
Ma io non mi preoccuperei troppo: così come è riuscita a entrare lì dentro, sono sicuro che saprà anche uscirne.
E da quel momento padre e figlio avevano serenamente smesso di cercarla, mentre Lucia si tranquillizzò solo quando, tre sere dopo, vide muoversi sul suo terrazzo una stella azzurrina.
– Ce l’hai fatta, birbante! Sei tornata! Ero così in pena!
Non farlo più! – Le disse mentre quella le picchiettava il naso e la bocca con il muso, rispondendo con sonorissime fusa alle carezze della padrona – Ma dove ti sei cacciata, tutto questo tempo?
La gatta a questo punto la guardò con i verdi occhi completamente oscurati dalle pupille dilatate al massimo e la testa leggermente inclinata, in un’espressione di genuino stupore. Poi balzò a terra e si accostò alla ciotola dei croccantini.
– Hai visto come t’ha guardata?
Praticamente ti ha detto: come, dove sono stata?! Ma se ne parla tutta l’Italia!
Avevo da fare alla Camera dei Deputati, no? Non dirmi che proprio tu non mi ha vista! In una cosa Giorgio aveva proprio ragione: tutti parlavano dell’Onorevole Gatto, del gatto con la lucciola al collo, del gatto grigio e rosso, di quel gatto così bello, così particolare, così unico…
– Quel gatto è di mia madre – disse una sera Giorgio intrufolandosi nella conversazione che, al tavolino accanto al suo della Gelateria Sapori Antichi nel centro cittadino, una profumatissima ed esageratamente bionda signora intratteneva con quattro sue amiche.
Quelle lo guardarono incuriosite.
– Quel gatto è di mia madre – ripeté lui – Ed è una gatta. Una gatta di una razza molto rara e preziosa.
– E che razza sarebbe? – chiese la signora che fino a poco prima si era vantata di averne uno identico.
– E’ un gatto Di-Luxia.
– Un gatto di che?
– Un gatto Di-Luxia! DI-LU-XI-A! – Sillabò Giorgio, che iniziava a divertirsi davvero – E lei non può averne uno identico, perché quello di mia madre è l’unico in Italia.
– Ma va là, che è un gatto qualunque! Bello quanto vuoi, ma non è né un siamese né tanto meno un persiano!
– Certo che no.
Gliel’ho già detto: è un Di-Luxia!
Sono gatti molto rari e molto intelligenti, che vengono selezionati in Thailandia dagli allevatori reali per uso esclusivo della regina.
Per questo si chiamano Di-Luxia, perché averli sono un lusso inarrivabile.
Ce li ha solo la regina di Thailandia, che li alleva e li fa addestrare es-clu- si-va-men-te per sé, lasciandoli liberi di entrare ed uscire come meglio credono da tutte le camere della reggia, nonché di presenziare alle riunioni del Governo.
Pensa davvero che un gatto qualunque, come dice lei, avrebbe saputo come comportarsi, durante la riunione della Camera?
Affascinate da quel ragazzo che narrava loro di quel gatto così esclusivo, tutte e quattro le signore stavano con la bocca e gli occhi aperti, lasciando che i gelati si sciogliessero nelle coppe e colassero sul piattino, sulla tovaglia e persino sui vestiti, mentre Giorgio era sempre più divertito.
Poi ad una di quelle venne un dubbio, un legittimo dubbio (ah, se ascoltassimo la nostra vocina interiore!):
– Ma se è così raro come dici, se è il gatto della regina di Thailandia, come mai tua madre ne ha uno?
E qui, bisogna riconoscerlo, Giorgio ebbe un’idea luminosa: – Perché mia madre è una pittrice – rispose.
E tacque, come se a quel punto tutto fosse ovvio.
– E allora? – lo incalzò quella – Che c’entra che è una pittrice?
– E allora – proseguì il ragazzo con fare annoiato, come se avesse a che fare con una bimbetta a cui bisogna spiegare tutto, ma proprio tutto – Allora ha fatto il ritratto alla Regina della Thailandia e quella, per gratitudine, oltre al compenso stabilito ha voluto regalarle uno dei cuccioli appena nati.
Ha capito, adesso, perché quel gatto che lei ha visto al telegiornale è l’unico in Italia, è di mia madre e lei non potrà mai averne uno uguale? A meno che… ma no… sono sicuro che non sarà possibile.
– A meno che? – quasi urlarono le quattro donne i cui abiti erano ormai completamente imbrattati di gelato.
E Giorgio, il quale si era invece gustato il suo fino all’ultima goccia e stava alzandosi per andare via e lasciare quello scherzo che gli aveva già preso un po’ troppo la mano, vedendo quegli sguardi concupiscenti non resistette e completò l’opera.
– A meno che, ammesso che mia madre sia d’accordo, cosa di cui non posso essere sicuro, anzi, tutt’altro; a meno che voi non riusciate a convincere mia madre a cercare di farsi donare dalla Regina anche un esemplare maschio.
Proprio tra qualche giorno deve partire per eseguire il ritratto del principino, il futuro Re…
Ma non credo, sapete? Mia madre è molto discreta…
Non penso che lo farà…
– Oh! Non preoccuparti di questo, lasciaci almeno tentare!
Sii buono, dacci il nome e il telefono di tua madre. A convincerla ci pensiamo noi!
– Oh, sì, fa il bravo! Se è in partenza per la Thailandia, dobbiamo affrettarci a tentare di parlarle!
O adesso o mai più!
– Ma tu pensa! – continuavano a cicalare quelle al colmo dell’eccitazione mentre Giorgio scriveva su un foglietto strappato al suo diario quanto quelle desideravano da lui – Se tutto va bene, per Natale potremo avere anche noi uno di questi rarissimi gatti “Di-Luxia”, come la Regina di Thailandia!
– Sì, e magari potremmo anche farci fare il ritratto dalla sua stessa pittrice!
Erano talmente entusiaste, che Giorgio non ebbe cuore di deluderle anche perché, ne era certo, a quel punto il suo scherzo non sarebbe stato apprezzato come tale… Le belle signore si sarebbero certamente infuriate e… come dar loro torto? Anche se,
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a pensarci bene, cosa c’era di male? Loro volevano un gatto “Di- Luxia”, e un gatto “Di-Luxia” avrebbero avuto.
Porse il foglietto alla signora più vicina e questa lo afferrò velocissima, gli diede una rapida scorsa e lo passò alle amiche, sussurrando rapida:
– Mi raccomando, ragazze, questo deve rimanere tra noi!
Copiate tutto ma non parliamone con nessuno.
O meglio, parliamone pure con tutte, ma non sveliamo a nessuna come fare per avere questo gatto!
– Già, e neanche il ritratto! Noi dobbiamo assolutamente essere le prime!
– Bene, allora, buona sera, belle signore! – le salutò Giorgio, senza che nessuna di loro lo udisse.
Lui si allontanò ugualmente in tutta fretta: aveva un’impellente necessità di nascondersi da qualche parte per ridere a crepapelle.
– Ma cosa sei diventato, matto? – esclamò Lucia disperata, quando a casa il figliolo le narrò tutto – E ora io che cosa racconto, quando mi telefonano?
– Potresti confermare la mia versione. In fondo loro non aspettano altro…
Anzi, credo proprio che se dirai loro la verità non lo apprezzeranno per nulla. Oltre a rimanere molto, molto deluse, si accorgeranno di essere state prese in giro…
No, non credo che apprezzerebbero. Non credo proprio.
– Ma come… E come faccio a dar loro i gatti!?
– Oh, beh, questo dipende da te: potresti acconsentire e dopo qualche giorno, giusto il tempo di andare e tornare dal tuo ipotetico viaggio, raccontar loro che la Regina di Thailandia non ha voluto accontentarti.
Ma questa non mi sembra una grande idea, dopotutto: non ti farebbe una buona pubblicità, sarebbe come dire che il tuo ritratto non era abbastanza buono…
– Ma finiscila con questa ridicola storia!
– Mamma, ma ci pensi?! Potrebbe essere la soluzione di tutto: il mutuo della casa, pagato; le preoccupazioni di tutti i giorni, sparite; per un po’ di tempo potresti guadagnare tutti i soldi che ti pare: devi solo vendere loro i gattini che tra poco la tua geniale gatta metterà al mondo!
Noi lo sappiamo che si è accoppiata con il fratello, l’abbiamo visti giù in cortile.
Se solo saremo un po’ fortunati, non dovrai fare altro che allevare questa prima cucciolata, tenerti anche un maschio e vendere gli altri a caro prezzo, completi di lucciola al collo e… di ritratto.
Non devi fare altro!
Il resto verrà da sé, dopo un po’ ce ne saranno fin troppi di quei gatti e nessuno li vorrà più; nel frattempo avrai venduto tanti di quei gattini ‘Di-Luxia’ ed avrai eseguito tanti di quei ritratti che potrai dipingere solo paesaggi per tutta la vita…
Anzi, no, ne farai pochi di ritratti, solo ai primi clienti che vorranno il gattino.
Gli venderai il gattino ed il ritratto, ad un prezzo ragionevolmente alto.
Dopo di che, quando i gattini non saranno più una rarità, se non avrai più voglia di fare ritratti…
Te lo immagini? Tutta la vita a dipingere solo quello che vuoi tu, senza una sola preoccupazione al mondo!
– Giorgio, sei una peste!
– Direi che è un genio, altro che peste! – Intervenne a quel punto il papà.
– Ti ci metti anche tu, adesso? – disse Lucia rivolgendosi stupefatta al marito che, tornato a casa dal lavoro, aveva seguito tutta l’appassionata autodifesa del figliolo – Ma quale genio! Non lo possiamo fare! Quelle credono che…
– Quelle credono che il tuo gatto sia unico, e lo è: ne hai mai visto un altro, così?
Quanti Onorevoli Gatti hai visto, oltre al tuo? E gliene darai altri, quasi uguali.
Quasi, ovvio: non sono cloni, sono gatti regolarmente allevati… sui tetti, solo che nessuno lo saprà mai.
E se poi diventeranno troppi, se non saranno più rari ed unici, beh, di chi sarà la colpa, se non loro?
Succederà esattamente quello che succede con le scarpe, le borse, le mutande, le cravatte e tutto il resto: ce l’avranno tutti, e saranno felici!
Perché non vuoi diventare un benefattore dell’umanità?
– Forza, mamma, di che hai paura?!
Il mondo va così: beni esclusivi… per tutti! E’ una contraddizione, ovvio, ma funziona: la massima aspirazione è mettersi in mostra e un bel ritratto è proprio quello che gli ci vuole, un bel ritratto grande e grosso.
Sai che soddisfazione, sulla parete del salotto, al posto d’onore!
– Ma che… Voi scherzate, scherzate sempre, e a me toccano i pasticci…
– Ma vai, mamma! Ma quali pasticci! Lo sai che ti dico?
Secondo me, la gatta, la tua gatta, l’ha fatto apposta ad intrufolarsi a Montecitorio e a farsi vedere da tutti: pubblicità gratuita e in prima serata!
La gatta, che fino a quel momento se n’era rimasta acciambellata sul divanetto di vimini della cucina, gli occhi socchiusi, il ventre prominente, proprio in quel momento alzò la testa e guardò Lucia, dilatando le sue pupille immense e misteriose.
Poi si stirò, saltò a terra, si avvicinò, le si arrampicò faticosamente in grembo, si leccò l’enorme pancia per qualche secondo e si riacciambellò, le pupille divenute nuovamente due fessure, mentre la cucina si riempiva delle sue fusa soddisfatte.
Da allora sono passati quasi due anni ed i tetti della città sono pieni di lucine intermittenti, alcune rosse, altre gialle, altre ancora verdi, tutte simili ad una stella, tutte che segnalano la presenza di un esclusivo gatto “Di-Luxia”. Raramente, e solo nella stagione degli amori, se ne può scorgere anche una azzurrina.
Se non ci credete, camminate anche voi sui tetti, come un gatto, e spiate alle prime luci dell’alba attraverso la finestra dello studio di Lucia.
Potrete così osservare le protagoniste di questa storia, soddisfatte e felici: una, intenta a dipingere tutto quello che le viene in mente, e solo quello; l’altra, l’unica autentica gatta Di- Luxia, che le sonnecchia in grembo, con la sua lucciola azzurrina sempre al collo.

STORIA DEL CANE PIU’ FELICE DEL MONDO

A poco più di due anni non ero che un cane di città, abituato a fare due pasti al giorno e a dormire ai piedi del letto del mio padrone. Per questo, quando mi lasciò qui, sulle montagne della Sila, tutti i cani del posto pensarono che sarei morto di freddo quello stesso inverno.
Anche io lo credei, ma non per il freddo: per il dolore. Lui mi aveva raccolto per la strada, cucciolo di poche settimane, sottraendomi ad alcuni ragazzini che giocavano con me come se fossi una palla, senza capire che in quel modo rischiavano di uccidermi. Nutrito, curato e coccolato, in poco più di sei mesi ero diventato alto e snello, con la testa eretta e massiccia, la fronte ampia e quadrata illuminata da vivaci occhi ambra e incorniciata da un bel paio d’orecchie spioventi, la pelliccia folta e nera come la notte che sul petto e sulla punta delle forti zampe era invece bianca come la neve.
Il padrone mi diceva sempre che pur non essendo di razza ero proprio un bel cane, forse un incrocio tra un Labrador nero ed un Bracco; e probabilmente aveva ragione perché il mio istinto di cacciatore era molto, molto sviluppato.
Un’estate venimmo qui, nella sua casa di montagna, dove non dormivo più ai piedi del suo letto ma in compenso ero libero di correre e giocare senza limiti di spazio né di tempo nel parco della casa.
Poi, un giorno come tanti, lui uscì in macchina senza di me ed io mi accucciai accanto al cancello, deciso a rimanervi finché non fosse tornato, come avevo imparato a fare da quando eravamo giunti in campagna.
Quel giorno, però, lui non tornava.
Non capivo e soffrivo, soffrivo e lo aspettavo.
Con la speranza, persi l’appetito e la voglia di correre.
Vivere con quel dolore non mi sembrava vivere e, senza saperlo, iniziai a lasciarmi morire.
Ma il figlio del guardiano della casa, che allora era poco più di un bambino, non me lo permise.
Ogni giorno, più volte al giorno, veniva fino al cancello per accarezzarmi e parlarmi piano nelle orecchie.
A volte capitava che io non resistessi al dolore e lo ululassi disperatamente contro il cielo; allora lui correva da me, mi prendeva la testa tra le braccia e se la portava al petto, sempre sussurrandomi nelle orecchie.
Non so quanto tempo trascorsi in quell’inedia, so che un giorno mi accorsi che aspettavo lui, il ragazzo: quel giorno non rifiutai più il suo cibo e, quando andò a casa, lo seguii.
Il mio padrone, il mio vecchio padrone, l’estate seguente tornò per un breve periodo: rivederlo fu una gioia devastante.
Partì e ritornò ancora, e poi ancora… Anche se per nulla al mondo sarei tornato in città, non riuscivo a rimanere indifferente alla sua voce ed alle sue carezze.
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Poi, finalmente, smise di tornare.
Fu così che non solo non morii, ma ricominciai a crescere. Grazie alla condizione di completa libertà di cui godevo, la vista divenne acutissima, l’udito e l’olfatto si affinarono come mai avrei immaginato, le zampe si irrobustirono ed il mio mantello divenne ancora più folto e lucente.
Trascorrevo la stagione calda a caccia di volpi o scoiattoli, camminando per giorni inoltrandomi nel cuore dei boschi e correndo nei campi aperti sotto il sole finché non rimase neanche un posto, a distanza di zampe, che non avessi esplorato.
Nessun cane mi era sconosciuto: i primissimi anni li trascorsi battendomi contro tutti i maschi che difendevano dalle mie incursioni il loro territorio e le loro femmine perché io, pur sapendo quanto fossero giuste, non avevo nessuna intenzione di sottomettermi alle loro regole.
La mia curiosità era incontenibile, la sete di scorribande inesauribile.
Ed ero forte.
Ah, se ero forte! Non rifiutai mai uno scontro e lottando perfezionai le mie tecniche fino al giorno in cui nessuno mi disturbò più: ero divenuto imbattibile.
Di più, mi avevano riconosciuto come capo e sempre più spesso alcuni di loro si univano alle mie esplorazioni e alle mie cacce. Restavamo in giro per settimane inseguendo scoiattoli imprendibili o smarrendoci dietro i nostri amori. In quelle occasioni dimenticavo tutto, non esistevano né il giorno né la notte, ma solo un tempo indefinito che si snodava senza tregua davanti alle mie zampe perché io lo consumassi correndo e correndo. Nulla poteva fermarmi.
Non la fatica, non la fame né il freddo. Neanche l’inverno mi fermava, mi rendeva solo più prudente: quando iniziava a scendere la neve avevo cura di non inoltrarmi nel cuore dei boschi perché in quella stagione, quando la notte si riempiva dell’ululato dei lupi, sentivo la mia pelliccia ergersi sul dorso per un incontrollabile terrore.
Tuttavia sapevo che loro, i lupi, temevano i nostri uomini e perciò mi limitavo a non allontanarmi troppo dalle zone abitate.
Quando infine tornavo a casa, a volte con le zampe sanguinanti per il lungo camminare, spesso con le ossa affioranti per il poco cibo, sempre con le evidenti tracce dei combattimenti ed esausto fino alla coda, il ragazzo mi accoglieva con calore infinito, lasciando che mi accasciassi ai suoi piedi con il cuore felice dopo aver compiuto l’ultimo sforzo per saltare a baciargli gli occhi.
Seguivano periodi di meraviglioso riposo, con cibo a sazietà e mani calde sulla testa e sulla pancia, fino al giorno in cui qualcosa di nuovo nel vento non mi convinceva a seguirlo ancora.
Il tempo passava e la mia forza cresceva rendendomi sempre più sicuro e felice, quasi sazio di vita.
Poi venne un inverno lungo e cattivo, come non ne avevo mai visti.
Tutto cominciò come sempre, con la neve che cadeva ininterrottamente finché, proprio quando le giornate iniziavano ad
allungarsi e ci si aspettava imminente l’inizio del disgelo, cessò di nevicare e si alzò il vento, un vento glaciale e costante che per giorni fischiò incessantemente, penetrò ovunque e spazzò spietatamente tutta la neve accumulata portando allo scoperto la terra dura e desolata.
Gli alberi si piegavano sfiniti sotto l’immane spinta del gelo ed i loro rami si spezzavano con schiocchi secchi e frequenti. L’intera superficie del lago ghiacciò.
Per la prima volta in tanti anni cercai rifugio nella mia cuccia.
Dormivo, mangiavo, mi godevo le coccole e aspettavo che passasse.
Ma non passò.
Una notte mi svegliai all’improvviso con il pelo irto e tutti i sensi all’erta. Non avvertivo alcun suono oltre l’ululato del vento, né vedevo altro che il luccicare del lago ghiacciato sotto la luna o le ombre degli immensi alberi scossi dalla tempesta.
Intorno a me c’era solo buio e freddo, ma il mio istinto sapeva: quell’inverno esasperato aveva spinto i lupi fuori dai boschi.
Volendo, restando al sicuro dentro la cuccia, avrei potuto limitarmi a dare l’allarme, abbaiando; oltretutto non c’era niente da difendere, il pollaio quell’anno era vuoto ed i maiali erano già stati macellati; i lupi non avrebbero trovato nulla da razziare.
Nulla all’infuori di me.
Volendo, avrei potuto.
Lasciai il tepore della mia cuccia ed entrai nella notte cattiva. S
ubito lo sentii, riconobbi quell’odore pur non avendolo mai conosciuto e per la prima volta sperimentai il fascino del terrore.
Fiutando, seppi che si trovavano ancora vicino al cancello perché, pur affamati al punto da sfidare l’uomo, erano cauti: avevano paura. E l’odore della loro paura era un richiamo irresistibile.
Il vento soffiava verso di me, quindi con un po’ di fortuna sarei riuscito a soddisfare la mia curiosità senza rischiare troppo…
Seguii la traccia. Fidando nella mia nera pelliccia strisciai lentamente tra gli alberi, tenendomi il più possibile nell’ombra. Inaspettatamente, li vidi: procedevano affiancati al centro del sentiero, timorosi ma risoluti.
Erano in tre, magri come solo la vera fame può rendere, il pelo rado d’un giallo grigiastro e gli occhi anch’essi giallastri, lucidi e brillanti, fissi nei miei.
Ci valutammo per un lungo momento, annusandoci reciprocamente. Compresi con chiarezza che la mia insaziabile curiosità mi aveva portato a commettere un errore irreparabile e, paradossalmente, sentii la mia paura svanire.
Se ne accorsero anch’essi ed indietreggiarono qualche passo annusando l’aria in cerca del solo odore che avrebbe giustificato la mia arroganza, quello dell’uomo. Saputo così che ero solo, con uno sguardo maligno, lo sguardo della fame che sta per essere saziata, si prepararono ad accerchiarmi. La possibilità di doverli affrontare mi aveva sempre terrorizzato; ora scoprivo che misurarmi con loro era stata la mia massima aspirazione, che tutta la vita mi ero preparato per questo.
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Attaccai. Attaccai per primo, furiosamente, freddamente, non per necessità ma per passione, per gioco, per piacere. Mi avrebbero ucciso e mangiato, ah, sì, certo! Ma di me si sarebbero ricordati per sempre.
Con atavico piacere mi slanciai a testa bassa in cerca delle loro gole, attento a non farmi travolgere.
Sarebbe stata solo questione di tempo, lo sapevo: per quanto sfiniti dalla fame erano pur sempre in tre contro uno.
Ed erano lupi!
Stavo combattendo contro i lupi! Fu una follia, una breve ed euforica follia.
Schivati i loro rapidi assalti ed i loro morsi schiumanti, finalmente affondai i denti in una di quelle gole, sentii il sangue caldo schizzarmi gli occhi e riempirmi la bocca.
Fui sazio. La vita non aveva nulla di più emozionante, di più estremo da offrirmi.
Avevo ucciso il lupo: che altro?
Senza più attaccare, tenendo sempre la gola protetta in un ultimo sussulto di orgoglio, lasciai che mi azzannassero la schiena, il collo, i fianchi…
Caddi rotolando sul dorso e mi arresi, felice di avere trovato quella fine.
Ma non ebbero il tempo di squarciarmi la gola: furono costretti a fuggire inseguiti dalle fucilate del ragazzo. Malgrado mi avessero sconfitto, quegli occhi gialli non si sarebbero saziati delle mie carni.
Questo non era nell’ordine delle cose, sentivo che non stavo rispettando i patti ma non potevo veramente farci nulla.
Non provavo alcun dolore, solo la sensazione tangibile della vita trascinata via dal sangue che si versava sul terreno troppo gelato per assorbirlo.
Sentii le mani calde del mio ragazzo sollevarmi dolcemente la testa e, nel baciargli per l’ultima volta gli occhi, mi accorsi del suo dolore. Cercai di spiegargli che non mi dispiaceva morire, che quanto era successo l’avevo voluto con tutto me stesso.
Prima di scivolare nel nulla seppi che lui comprendeva, che sempre aveva compreso e che per questo, solo per questo, ero stato un cane felice.
Il più felice del mondo.

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