Non mi basta la volontà

E’ una seduta di un gruppo formativo. Naturalmente i nomi che appaiono negli scambi sono inventati.

Leggenda:
C = Conduttore gruppo

P = Presentatore caso

M…….M7= Membri del gruppo

P: Io avrei bisogno di parlare. Vorrei iniziare dicendo una cosa al gruppo, che oggi mi sento spaventata dal gruppo, è perché ho un’idea, ma preferisco dirla dopo, in relazione al caso di cui voglio parlare.
La paziente che sto vedendo si chiama Anna e la vedo da circa tre mesi, mi viene inviata dalla psichiatra del CPS ed i sintomi di cui si lamenta sono un’ansia generalizzata, attacchi di panico, difficoltà a prendere i mezzi di trasporto, andare in posta e, nell’ultima seduta, paura di vomitare sangue.
Spesso mi ha parlato della paura di avere un tumore, di vedere suo figlio morire.
In seduta Anna parla molto dei suoi sintomi. Nelle ultime sedute arriva con una non voglia di parlare, è più triste, più chiusa, ed io sento che in questo suo modo di fare io sto meglio con lei.
Mentre tutte le altre volte un poco mi annoiavo, in questa seduta la sento “lei”, meno pesante, meno affaticata nel raccontarmi le cose.
L’ultima seduta, invece, lei è arrabbiata con me.
Arriva all’ultimo momento e mi dice che era in dubbio se venire o meno, che stava per chiamare il CPS per dire che non veniva.
Poi si è fermata perché le è venuta tutta un’ansia e dice. “No, devo andare, perché comunque è una cosa buona per me”.
La prima cosa che mi dice è che le è tornata la paura di vomitare sangue.
Io con lei, anche nelle ultime volte, ho sempre avuto la sensazione che mi volesse dire qualcosa, che ci fosse qualcosa sotto che non riusciva a comunicarmi, che avesse un certo risentimento nei miei confronti.
Ho provato molte volte a chiederle, però ha sempre negato.
Nel momento in cui mi dice di questa paura di vomitare sangue io questa paura l’associo a noi.
Ad un certo punto comincia a sentire una forte tensione, poi sento che lei è in imbarazzo tutte le volte che emerge un’emozione.
Ad un certo punto dice che i colloqui che stiamo facendo non servono a nulla, che lei era abituata con un’altra psicologa che le faceva un sacco di domande sui suoi sintomi, ed io invece non gliene faccio, che io non le dico cosa deve fare e, quindi, questa cosa qui la spiazza un po’.
Non era quello che lei si aspettava. Io le ho rimandato più volte che la cosa più importante che stava facendo era quella di venire, poi che lei non avesse voglia di parlare o meno non era decisivo.
Era importante il suo venire.
Dopo avermi detto questo dice: “ Adesso gliele ho detto queste cose, così lei avrà modo di rifletterci e rivedere il suo lavoro. Magari è il caso di cambiare qualcosa”.
Io, a quel punto, mi sono sentita spiazzata, e le ho detto che non avevo bisogno di rifletterci, che credevo nel lavoro che stavamo facendo insieme, come credevo nella sua difficoltà a stare lì con me.
Stava per finire la seduta, mancano cinque minuti e lei mi dice: ” Va bene, dottoressa, ci vediamo mercoledì prossimo”.
Io le faccio notare che non è ancora finita la seduta, e lei dice: ” E va bene, cinque minuti in più o in meno…”
Si vedeva che faceva fatica, era agitata, imbarazzata.
Le faccio presente che il tempo è una regola a cui siamo tenute entrambe.
Dopo un minuto le chiedo che sensazione prova in quel momento e lei mi risponde che è annoiata.
Le ho fatto notare che c’era una contraddizione tra la noia di ora e l’agitazione di prima, però lei ha continuato a sostenere la noia.
A me è rimasto dentro, innanzi tutto, lo scambio in cui lei mi dice che io devo rivedere il mio lavoro. La risposta che io le do è, secondo me, una risposta buona, che però nel modo in cui la dico non mi piace.
Glielo ho detto tranquillamente, perché percepisco che è diventata uno scudo.
Non mi pongo il problema che ho sbagliato, perché credo in quello che stiamo vivendo in quel momento, però allo stesso tempo mi sembra di dirle: ” Oh, guarda che è così, non c’è niente da fare”. Questa cosa qui è come se nel mio dire mancasse una forma di accoglienza.
L’altra è sul tempo, sui quei cinque minuti.
Io percepisco che lei faceva veramente fatica, avrei potuto dirle, non lo so, la seduta non è terminata, però se vuole andare può andare e invece è come se la parte mia fosse la parte del potere, però gestito male… (si emoziona nel dire queste ultime cose).
Queste due cose mi sono rimaste dentro in maniera stonata, ed ho la sensazione che la prossima seduta lei non verrà. Questa cosa qui mi da tristezza.

C: Cosa la stava emozionando poco fa?

P: Il fatto che quello che dico esce in un modo che non mi piace.
E’ come se un altro modo che potrei avere non riuscisse ad essere accettato da me, cioè ci metessi un muro. Forse questa cosa si collega con il gruppo, con la cosa che accennavo all’inizio, perché tutte le volte che porto il caso qui io mi sento molto accolta e per certi versi anche dai conduttori, per certi versi è un’esperienza nuova per me.
E poi molte volte mi capita, durante l’esposizione dei casi, di seguire solo un aspetto dei casi, poi mi sento in colpa, mi appisolo, non è la stanchezza, se va sembra così.
E invece, quando io espongo il caso loro ci sono con me, mentre quando lo fanno loro non sempre ci sono. Quindi è come se ci fosse un “occhio per occhio, dente per dente”.

M1: Prima mi sono venute le lacrime per la prima volta dopo tre anni, poi il caso l’ha portato lei… (segue un lungo scambio, con brevi interventi di ogni membro del gruppo, sulle emozioni che suscita il caso portato da Rosa).

C: Buoni, buoni. Rosa ha detto delle cose molto importanti. Dice” Io faccio delle cose buone, ma mi accorgo che chiudo emotivamente qualche cosa”.
Poi, collegandola al gruppo, pone questa chiusura come una paura che le cose buone finiscano.

P: Non ci riesco neanche questa volta…..ho paura di essere respinta….Mi dispiace

C: Questo non avverra.

P: E’ per questo che ho aspettato lei…
( c’è un brusioe risate a questa dichiarazione).

P: (dopo dieci minuti di silenzio) Sono arrabbiata… non so cos’è… (piange in maniera accorata). Ho dentro una scena di quando ero piccola con mia madre.
Quando andavo a scuola c’erano dei giorni freddissimi in cui il ghiaccio e la neve impedivano quasi di uscire. Io, invece, saltavo giù dal letto dicendomi: ” No, devo andare a scuola”.
Mai una coccola…me né dispaccio molto.

M2: Ti vorrei aiutare…

M3: Io oggi mi ero ripromessa di non parlare, mi sentivo fuori tema.
Ho sofferto di sonnolenza anch’io oggi, però quando Rosa ha cominciato a parlare mi si sono drizzate tutte le antenne.
Di solito quando parli lo fai in modo molto autentico ed io continuo a pensare che le tue lacrime sono l’unico vettore per poter dire queste cose. So che la mia disponibilità, quando ci parli, c’è.
Ci sono al cento per cento. Mi sembra inimmaginabile che un giorno possa cambiare questo.
Prima ho avuto un momento di ilarità, all’inizio, perché mi sembrava che tutti ci stessimo preparando a questo, chi con i fazzoletti, le caramelle per la gola, tutti ci stessimo preparando ad aspettare questo momento magico.

M2: Ho un’immagine; che una volta c’era una bella principessa che quand’era piccolina papà e la mamma avevano invitato tutte le fate, tranne una terribile, per la nascita della piccola.
Allora aveva fatto un incantesimo: ” Quando compirà tredici anni la principessa si addormenterà, perché si pungerà con un fuso”.
Allora papà e mamma fanno sparire dal regno tutti i fusi che ci sono.
I realtà, a tredici anni la principessa si punge con un fuso che era sfuggito alla distruzione, si addormenta e tutto il regno viene coperto dalle spine.
L’incantesimo dura cent’anni. In quegli anni arrivano tanti cavalieri per liberare la principessa, ma il roveto è più forte di loro e rimangono uccisi.
Arriva l’ultimo che, senza alcun merito, riesce ad entrare nel momento giusto, per cui i rovi spariscono e lui può raggiungere la torre della principessa senza dover nemmeno sguainare la spada. Le da un bacio e la principessa si sveglia.
Più che parlare di te, questa storia parla di me, perché io penso che ci sarà un momento giusto, per cui so che quando questo momento verrà ci sarò.
Mi ha un po’ stufato, perché ti fa soffrire, perché ti fa piangere, però è un incantesimo che riguarda te. L’unica cosa che io posso fare, che sento che fa il gruppo, ogni volta con grande attenzione di esserci in quel momento.
Mi piacerebbe, a livello di fantasia mia, nel vedermi come terapeuta, spada tra le mani, che rompo il roseto e raggiungo la principessa e la bacia.
Ma mi sembra troppo irruente come terapeuta, e poi penso che sia assolutamente inutile, visto che così ci si lascia le penne. E’ un rischio…

C: Il rischio qual è? Attraversare il roseto o dare il bacio alla principessa?”

M3: Mah, un po’ tutti e due…
(ride tutto il gruppo)

M4: Io prima, quando lei ha detto che ha portato il caso perché c’era lei come conduttore, a me è venuta questa immagine. Il pastore che controlla il gregge, che ci tiene sotto controllo, che rassicura tutti che non ci disperderemo.

M2: E’ un custode, prima di tutto.

M4: E’ un custode, ma io so di esserci anche per conto mio nel gruppo. Cero mi piacerebbe che ci dicesse una volta cosa lei intende per formazione con noi!
(un poco tutti avanzano la stessa domanda)

C: Io non penso ad alcun gregge, e quando penso al gruppo dei terapeuti mi vengono le immagini di ogni singola persona.
Ho in mente le persone. Il mio personale concetto di gruppo di formazione è quello di persone che interagiscono le une con le altre con l’intenzione manifesta di raggiungere uno scopo.
Il tipo di interazione è, naturalmente, estremamente variabile non solo rispetto al tipo di persona, ma anche rispetto all’ambiente e al momento in cui avviene l’incontro.
Di tutta la querelle: ”Che formazione fai? Di gruppo o in gruppo?”, rispondo che più modestamente la chiamerei formazione di persone con tutte le altre del gruppo, con loro avvengono situazioni emotive ed affettive in cui ci sono reazioni determinate dal fatto che avvengono così perché, nel cercare di raggiungere quello scopo, lo si fa con tutta la gamma delle motivazioni consapevoli e inconsapevoli di cui siamo portatori.
E’ vero che esiste, oltre questo mondo affettivo, un mondo sociale esterno che ci condiziona, ci orienta, ci guida, ci vincola.
Il fine di questa formazione è far si che tutto quello che ci succede dovrebbe servire a consentire lo sviluppo della persona, in tutta la sua unicità di terapeuta.
Non dimentichiamoci però che stiamo parlando con Rosa “.
M4: Sa una cosa? Mi pare di sentire una fatica immensa di Rosa di accettare queste nostre coccole.
(intervengono molte persone, c’è una sovrapposizione di voci)

C: Vediamo questa sua affermazione. Lei dice: ” L’ho portato perché c’era lei a condurre. Magari uno intuisce che così si sente facilitata nel suo esporsi. Poi, però, rimane sola.

P: Preferisco far male a quello che ho vicino, piuttosto che non sentirla vicino. Ma sentirla troppo vicino mi fa paura. Mi fa incazzare questa cosa… (piange).
Ho la tendenza a chiudermi e a far coincidere il reale solo con quello che penso e sento io.
Non so se mi fido… mi manca una fiducia strutturale.

C: Se la sua fosse una mancanza di fiducia strutturale nemmeno lo direbbe.

P: Ok, allora diciamo che mi fido, ma non voglio.

M5: Ha detto”Non voglio”, quindi ci mette un atto intenzionale.

M7: Da parte mia, in questo momento non riesco a fare nient’altro che esprimere la mia testimonianza e la mia vicinanza all’ascolto. Il tuo “Non voglio” mi fa stare al mio posto, è difficile avvicinarsi a te.

M8: Sai cosa mi ricorda questo”Non voglio?
Una cosa di cui ancora adesso faccio fatica a liberarmi. Nella mia educazione da piccola mi è stato sempre detto: ” Quando vai in casa d’altri togliti le scarpe e non accettare niente”.
Quindi adesso, quando sono in giro, ad una qualsiasi offerta mi viene un “No, grazie”, anche se ho sete. Poi, se ci penso, dico che un bicchiere d’acqua lo prendo volentieri.
E’ per questo che quando sento un “Non ne ho voglia” mi verrebbe da prendere un regalo ed appoggiarlo lì.
Il momento giusto arriverà, ma è sorprendente come rimanga un riflesso, un’impronta.”

M2: Io, invece, ritorno un attimo al caso, ad Anna. Siccome sono profondamente convinta di volerti stare vicina, e che questa è una cosa buona, non ho bisogno né di pensarci né di rifletterci un momento e pertanto te la do. Punto e stop.
Quello che tu hai detto alla tua paziente era una cosa buona ed io credo che le cose buone prima o poi arrivano dentro.

M1: Io provo le stesse cose di Rosa…

P: Ma se è così, come faccio ad arrabbiarmi con qualcuno? Così sono impedita dal poterlo fare, mi arriva troppa accettazione!
Voi state sempre presenti con me, mentre quando parlate voi per metà dormo, tante volte mi sono irritata. Poi ho paura che scappino…

C: Chi pensa che scappi ?

M2: Trasferita d’ufficio alla SGAI!

M4: Però io mi sto un poco irritando dall’ultima uscita di Rosa. Prima vuole aprire, poi non apre.
Vuoi tutto e non accetti niente. Io sono in difficoltà in questo momento.

M3: Io confermo che la posizione del cinese è quella migliore.
E’ quella del cavaliere che aspetta di vedere quando potrà entrare.

P: Ma di fronte a M4 che mi dice così io mi chiudo, sono così (piange).

M4: Anche l’altra volta, quando c’era stato tutto questo trasporto, io le dicevo quanto le ero vicino e lei mi diceva che non le interessava.

C: Abbiamo ancora pochi minuti e vorrei tornare al caso presentato, nel senso di capire se Rosa, dopo il lavoro che abbiamo fatto oggi, pensa di potersi avvicinare ad Anna in un modo diverso da quello che è stato finora.

P: Quando sono arrabbiata mi chiudo, nessuno mi può venire a dire niente, niente!

C: Fino a quando lei non dice basta tutte le persone che sono con lei sono autorizzate a fare le loro riflessioni. Non è per niente sufficiente che lei sia arrabbiata. Quindi, se vuole uscire dal rapporto con gli altri deve dire basta.

P: Cosa cambia? Si vede che voglio continuare?

C: Io vedo solo che è arrabbiata.

P: E’ vero, sono arrabbiata. Anche perché vorrei tanto che il mio desiderio di essere accolta non solo si realizzasse sempre, ma anche finirla col il mio modo pazzesco di respingere subito dopo l’aiuto che ricevo.

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