I cosiddetti sani

Erich Fromm
I COSIDDETTI SANI
La patologia della normalità

A cura di Rainer Funk Traduzione di Marina Bistolfi Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996 Copyright 1991 by The Estate of Erich Fromm Copyright 1991 by Ranier Funk
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PREFAZIONE.
All’inizio degli anni Cinquanta, Erich Fromm affrontò il problema della salute psichica dell’individuo nella società industriale e approfittò delle numerose conferenze e lezioni che era invitato a tenere per parlare dell’argomento. Fu soprattutto grazie al suo approccio teorico di impronta sociopsicologica che Fromm poté applicare il metodo psicoanalitico a uno studio approfondito della patologia dell’uomo «normale» e socialmente adattato: egli sottopose a critica radicale i moti affettivi più diffusi, che prevalgono nel comportamento sociale e che determinano quindi il concetto di normalità. Così, alla questione di stabilire che cosa giovi veramente alla salute psichica dell’individuo e che cosa sia invece causa di malattia venne data da parte di Fromm una risposta nuova ed estremamente efficace.
Fromm mira a stabilire una relazione tra i moti affettivi che determinano il comportamento e le esigenze economiche e sociali: i tratti caratteriali più diffusi in una società vanno perciò intesi come risultato di un processo di adattamento alle condizioni socioeconomiche. Questo stesso metodo d’indagine gli aveva consentito di analizzare negli anni Trenta il carattere autoritario della società, alla fine degli anni Quaranta il carattere mercantile e, all’inizio degli anni Sessanta, il carattere necrofilo della società. Dall’analisi dei sistemi produttivi contemporanei e dei processi di adattamento psichico messi in atto dall’uomo per corrispondere alle esigenze dell’economia del proprio tempo, si evince che all’individuo vengono richiesti atteggiamenti e disposizioni psichiche (tratti caratteriali sociali) che ne compromettono la salute psichica. Ciò che si dimostra utile per il funzionamento del sistema economico si rivela dannoso per la salute psichica dell’individuo. Ciò che nella nostra società determina il successo del singolo è, a ben vedere, in contrasto con la sua salute psichica. E’ dunque legittimo il sospetto che nella normalità trovi espressione un processo patologico. Fromm studia la patologia della normalità sottolineando gli effetti patogeni che l’economia di mercato ha sull’uomo: al centro di questa condizione patologica si trova la crescente incapacità delle persone normali di stabilire un rapporto diretto con la realtà. Fromm elabora così un concetto clinico di alienazione, mostrandone le diverse forme di manifestazione e le implicazioni, la più importante delle quali è una nuova concezione dell’uomo e della salute psichica; idee nuove, che sfociano nell’appello programmatico per un umanesimo scientifico. “I cosiddetti sani” raccoglie interventi a prima vista assai eterogenei: le parti prima e seconda sono costituite rispettivamente da una serie di quattro lezioni tenute nel 1953 e da una conferenza del 1962. Entrambi i testi sono costituiti dalla trascrizione dei
nastri registrati in quelle occasioni, e hanno quindi un tono più colloquiale; vi si parla di salute psichica e delle principali forme
di patologia della normalità. La parte terza, un breve intervento programmatico del 1957 in cui Fromm annuncia la creazione di un «Istituto per la scienza dell’uomo», affronta invece il tema del nuovo umanesimo scientifico quale risposta alla patologia della società contemporanea. Nella parte quarta, infine, viene presentato un ampio contributo scientifico di Fromm sull’assioma dell’innata pigrizia umana. Quest’ultimo intervento, che risale al 1973-1974, illustra il tentativo frommiano di superare la patologia della normalità per mezzo della scienza: da un lato, egli fornisce una risposta interdisciplinare alla questione, alla luce dei risultati raggiunti
nei più diversi campi del sapere e in virtù della valutazione critica della loro rilevanza in rapporto alle concezioni dell’uomo che vi sono sottese; dall’altro, coniuga i risultati delle più disparate discipline scientifiche con la sua idea di salute psichica, fondata su una concezione umanistica dell’uomo.
Le quattro lezioni sulla “Patologia della normalità dell’uomo contemporaneo”, finora inedite, furono tenute da Fromm il 26 e 28 gennaio e il 2 e 4 febbraio 1953 presso la New School for Social Research di New York, che sin dal 1941 aveva ospitato alcuni suoi seminari. Gli argomenti da lui affrontati nell’arco di circa vent’anni rivelano quali fossero di volta in volta le problematiche al centro del suo interesse. Inoltre, poiché dal 1950 viveva in Messico, Fromm si trovava alla giusta distanza culturale per valutare criticamente la società industriale americana. Al termine di una conferenza tenuta l’11 dicembre 1951 al quarto Congresso internazionale sulla salute psichica svoltosi in Messico, dove illustra per la prima volta il suo interesse per i rapporti tra società e psiche, introducendo il concetto di «salute psichica», Fromm descrive il Messico come un paese moderno
“nel quale è peraltro ancora viva una cultura antica, tradizionale, una cultura nella quale la gente può ancora permettersi di essere «pigra» poiché è in grado di gustare la vita; una cultura in cui il falegname prova ancora soddisfazione se costruisce una buona sedia senza pensare unicamente a come produrla in modo rapido e redditizio; una cultura in cui ancora esistono contadini che preferiscono avere più tempo libero anziché più denaro”. (Fromm, 1952, p. 42)
Queste quattro lezioni furono annunciate nel calendario con il titolo “Mental Health in the Modern World”. Esse fanno riferimento all’analisi frommiana dell’orientamento mercantile, contenuta nel libro del 1947 “Dalla parte dell’uomo”, ma ripercorrono in modo assai più approfondito la psicodinamica dei processi di alienazione
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nell’economia di mercato. Il fatto che non viviamo più lo svuotamento
e la svalutazione degli individui, nonché la loro dipendenza dal mercato, come qualcosa di anormale è soltanto un indizio di ciò che alla fine Fromm definirà, in “Psicoanalisi della società contemporanea” (1955), «patologia della normalità».
La conferenza “Il concetto di salute psichica”, pubblicata per la prima volta quale parte seconda del presente volume, fu tenuta invece da Fromm il primo dicembre 1962 a un Seminario latino-americano sulla salute psichica promosso a Cuernavaca, in Messico, dall’Organizzazione panamericana della sanità, una sezione regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il testo registrato della conferenza, dal titolo”TheConceptofMentalHealth”, futrascrittoerielaboratoda Fromm, ma non venne mai dato alle stampe. E’ un testo importante per diversi motivi: si tratta del primo documento della scoperta da parte
di Fromm della «necrofilia» (i risultati di tale scoperta verranno pubblicati soltanto due anni dopo, in “Psicoanalisi dell’amore”); è
qui che Fromm parla per la prima volta del narcisismo come di una malattia psichica della società contemporanea ed è qui che, in modo analogo a quanto aveva già fatto nelle lezioni del 1953, egli descrive l’alienazione come un fenomeno di rilevanza clinica.
Tuttavia, tra la conferenza del 1962 e le lezioni del 1953 vi sono anche innegabili differenze: il profondo apprezzamento nutrito da Fromm per l’economia di mercato e la sua fiducia in un possibile superamento dei suoi aspetti patogeni (evidenti nelle lezioni del 1953) lasciano il posto allo scetticismo di fronte alla crescita,
nella società, di narcisismo e necrofilia. Tale scetticismo si è poi andato ulteriormente rafforzando negli anni seguenti, tanto che nel 1970 Fromm parla di una «crisi della società contemporanea» che è «unica nella storia dell’umanità» in quanto è una «crisi della vita stessa» (Fromm, 1970 c, p. 213).
Fromm è convinto che il nostro futuro dipenda essenzialmente dal fatto che la consapevolezza della crisi attuale induca gli individui più capaci a porsi al servizio di un umanesimo scientifico che riporti l’uomo al centro del suo interesse. Solo unendo le forze è possibile superare le malattie psichiche della società attuale. Il concetto frommiano di umanesimo scientifico si manifesta con la massima evidenza e concretezza in un breve testo programmatico del 1957, dal titolo “Institute for the Science of Man”. Su suggerimento della giornalista Ruth Nanda Anshen, Fromm aveva coltivato per qualche tempo l’idea di fondare un proprio istituto, votato agli ideali dell’umanesimo scientifico. Il fatto che tale istituto non abbia mai visto la luce non sminuisce il valore di quanto enunciato da Fromm in merito all'”umanesimo scientifico”.
Infine, quale parte quarta del presente volume viene pubblicato per la prima volta il saggio “L’uomo è pigro per natura?”, la cui stesura
risale in parte all’epoca di “Anatomia della distruttività umana” (1973). Il testo, elaborato nel 1974, doveva costituire la prima parte di un nuovo libro al quale Fromm, già alla fine dell’ottobre 1973, aveva dato il titolo provvisorio «To Be or to Have». Il motivo del mancato inserimento di questo scritto in “Avere o essere?” (1976) è probabilmente da attribuirsi al fatto che esso esulava dall’ambito specifico del libro. La stessa sorte era già toccata al capitolo dedicato al «passaggio dall’avere all’essere», pubblicato postumo dopo quasi quindici anni in “Da avere a essere” (1989).
La questione se l’uomo sia pigro per natura si rivela a ben vedere una questione cruciale nel pensiero frommiano, ma allo stesso tempo essa tocca il problema fondamentale della nostra epoca, vale a dire la possibilità di superare l’attuale crisi dell’umanità. Nella terza lezione del 1953 Fromm spiega che una relazione razionale e affettiva con la realtà non è solo il criterio determinante della salute psichica, essa costituisce una fonte autonoma di energia psichica, che rischia però di prosciugarsi per l’effetto alienante dell’economia di mercato. La patologia della normalità va intesa come la crescente incapacità dell’uomo di comprendere che egli deve instaurare una relazione attiva e autonoma con la realtà. Ed è proprio questo il punto cruciale della questione se l’uomo sia pigro e passivo per natura: l’uomo ha bisogno di stimoli esterni per sentirsi motivato a una relazione attiva con la realtà, oppure l’impulso a essere attivo e a interagire con la realtà è innato? Fromm chiede a diverse discipline scientifiche, e in particolare alla neurofisiologia, una conferma della sua idea che l’uomo sia per natura capace di attività autonoma, e che crescita e salute psichica siano dunque espressione immediata dell’interesse attivo per la realtà che è radicato nell’uomo, talché alcune ipotesi scientifiche di segno opposto sembrano in realtà schierarsi a favore della patologia della normalità.
Tutti i testi del presente volume sono tradotti dall’inglese, e desidero ringraziare Elfrun Rebstock per la prima versione dell’intervento del 1974. La suddivisione e i titoli dei paragrafi sono miei, tranne nel caso di “L’umanesimo scientifico”. Lacune e aggiunte editoriali sono segnalate con parentesi quadre.
Rainer Funk Tübingen, luglio 1991
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I COSIDDETTI SANI.
Parte prima.
LA PATOLOGIA DELLA NORMALITA’ DELL’UOMO CONTEMPORANEO. Quattro lezioni (1953)
1.
LA SALUTE PSICHICA NEL MONDO MODERNO. Prima lezione.
– Che cos’è la salute psichica?
Ci sono due approcci differenti al problema della salute psichica nella società contemporanea: uno statistico e uno analitico o qualitativo.
L’approccio statistico è abbastanza semplice, quindi mi limiterò a illustrarlo per sommi capi: esso estrapola dalle statistiche le somme di denaro che nella società moderna vengono destinate alla salute psichica. Tali cifre non sono per nulla incoraggianti: [dall’inizio degli anni Cinquanta] gli Stati Uniti spendono annualmente per le malattie psichiche circa un miliardo di dollari. La metà dei posti letto negli ospedali è occupata da persone affette da disturbi psichici. Le cifre sono poi ancor più scoraggianti se volgiamo lo sguardo ai dati, sconcertanti quanto significativi, che provengono dall’Europa. Proprio i paesi che sono considerati la patria di una borghesia stabile ed equilibrata, come Svizzera, Svezia, Danimarca e Finlandia, presentano rispetto ad altri paesi europei livelli molto più elevati di schizofrenia, alcolismo, suicidi e omicidi.
I dati statistici ci inducono a riflettere. Come mai proprio questi paesi europei hanno realizzato sul piano sociale e culturale quell’ideale che noi, pur auspicandolo, non abbiamo ancora realizzato, vale a dire un’esistenza borghese sufficientemente agiata e fondata in larga misura sulla sicurezza economica? E perché la condizione psichica in quei paesi suscita invece l’impressione che quel sistema
di vita non giovi in realtà alla salute psichica? Contrariamente a quanto da noi auspicato, esso non sembra comportare un aumento della felicità.
D’altronde, benché negli Stati Uniti e in Europa il numero delle malattie psichiche sia in aumento, si riscontrano anche degli sviluppi positivi: l’assistenza ai malati psichici migliora continuamente e vengono sperimentati nuovi metodi di cura. Negli Stati Uniti e in Europa si è inoltre costituito un movimento per la salute psichica. A dire il vero, non sappiamo se i dati in nostro possesso indicano un
reale aumento dell’incidenza delle malattie psichiche, o piuttosto un aumento dell’attenzione rivolta alla salute psichica. Grazie al perfezionamento delle metodologie di ricerca, all’approfondimento delle osservazioni e al miglioramento delle strutture siamo in grado di individuare con maggiore precisione i soggetti che soffrono di malattie psichiche, cosicché le nostre statistiche appaiono più allarmanti di quanto sarebbero se il problema della salute e della malattia psichiche ricevesse minore attenzione e interesse. Se optiamo per un approccio meramente statistico e ci limitiamo a considerare i dati positivi e negativi, questo genere di conoscenza non sarà molto utile. Di solito non basta un’occhiata alle statistiche per intendere
il significato delle cifre. Perciò in queste quattro lezioni non vorrei occuparmi affatto dell’aspetto statistico della salute psichica, bensì di quello qualitativo.
Che cosa s’intende per salute psichica, per malattia psichica? Che cosa significano queste espressioni? Qual è il rapporto tra la mia idea di salute e di malattia della psiche e la struttura specifica della nostra società del 1953? Se vogliamo parlare della salute psichica nella società contemporanea, non basta confrontare la salute psichica da un lato e la nostra società dall’altro, come se si trattasse di due entità a sé stanti. Occorre invece scoprire e comprendere le relazioni profonde, quali fattori dei processi e della struttura della società giovino alla salute, e quali caratteristiche strutturali siano invece patogene per la psiche.
Se ci chiediamo che cosa si debba intendere per salute psichica, dobbiamo distinguere tra due concetti radicalmente diversi. Benché le differenze siano evidenti, oggi entrambi i concetti vengono usati e tendono spesso a confondersi. Il primo è un concetto relativistico, sociale, che corrisponde alla condizione mentale della maggior parte della società. Infatti, così come si può definire l’intelligenza in rapporto alla sua misurabilità tramite un test, allo stesso modo si può affermare che la salute psichica è determinabile in rapporto al grado di adattamento al sistema di vita di una determinata società, indipendentemente dal fatto che tale società sia sana o malata. L’unico criterio è che l’uomo vi si sia adattato.
Molti conosceranno il racconto di Herbert George Wells “Il paese dei ciechi”: un giovane, smarritosi in Malesia [sic: in Wells, sulle Ande ecuadoriane. N.d.T.], incontra una tribù dove da molte generazioni tutti gli individui sono affetti da cecità congenita. Il giovane invece, per sua «sfortuna», ci vede: e così tutti diffidano di lui. Tra gli altri, persino medici esperti diagnosticano la sua malattia come una strana e fino ad allora ignota affezione del volto, causa di ogni sorta di fenomeni bizzarri e patologici:
“Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto
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una lieve e piacevole depressione, in lui sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d’irritazione e di distrazione”. (Wells, 1925, p. 671)
Il giovane si innamora di una ragazza e la vuole sposare. Ma il padre di lei si oppone alle nozze, a meno che egli non si sottoponga a un’operazione che lo renda cieco. Prima di dare il suo consenso, il giovane fugge via.
Il racconto di Wells mostra con estrema semplicità quello che tutti noi proviamo, più o meno distintamente, quando si parla di normalità e anormalità, salute e malattia, dal punto di vista dell’adattamento. La teoria dell’adattamento si basa implicitamente su alcune premesse: 1) ogni società in quanto tale è normale; 2) chi non corrisponde al tipo di personalità gradito alla società deve considerarsi psichicamente malato; 3) il sistema sanitario, in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, ha lo scopo di ricondurre il singolo individuo al livello dell’uomo medio, indipendentemente dal fatto che questi sia cieco o vedente. L’unica cosa che conta è che l’individuo sia adattato, e che non turbi il contesto sociale.
La teoria dell’adattamento è caratterizzata da alcuni elementi. Tipica è per esempio la convinzione che la nostra famiglia, la nostra nazione, la nostra razza siano da considerarsi normali, mentre il modo di vivere degli altri viene percepito come non normale. Mi spiegherò meglio con un aneddoto. Un uomo va dal medico e gli descrive i suoi sintomi. Comincia così: «Dunque, dottore, ogni mattina, dopo che ho fatto la doccia e ho vomitato…». Il medico lo interrompe subito: «Mi sta dicendo che lei vomita tutte le mattine?», e il paziente replica: «Perché, dottore, non lo fanno tutti?». Questa storiella è divertente proprio perché coglie un atteggiamento che tutti noi, chi più chi meno, condividiamo. Magari sappiamo che alcune nostre idiosincrasie personali si riscontrano anche in altri individui, ma non sappiamo che vi sono molte idiosincrasie che esistono soltanto nelle nostre famiglie, negli Stati Uniti o nel mondo occidentale, e che noi invece riteniamo comuni a tutti gli esseri umani, mentre in realtà non sono affatto caratteristiche della natura umana.
Tipico della teoria dell’adattamento non è però solo questo sentimento provinciale che identifica la normalità con il nostro modo di essere e di crescere. Dietro di esso si cela una sorta di filosofia relativistica, la cui principale affermazione è che non si possono stabilire giudizi di valore oggettivamente validi. Bene e male sarebbero per così dire solo una questione di fede, nient’altro che manifestazioni di ciò che viene concretamente realizzato nell’ambito di una determinata cultura o che viene preferito rispetto ad altre culture. Quello che i membri di una determinata cultura amano fare è
«bene», quello che non amano fare è «male». Poiché tutto si riduce a una mera questione di opinione, non sarebbe disponibile alcun criterio comparativo oggettivo.
In contrasto con la teoria dell’adattamento ve n’è poi un’altra, che ho già avuto modo di illustrare in “Dalla parte dell’uomo” (1947). Essa muove dal presupposto che in realtà esistano giudizi di valore oggettivamente validi, e che tali giudizi non siano una mera questione di gusto o di fede. Partendo dall’assioma che vivere è meglio di morire, che cioè la vita è preferibile alla morte, il medico o il fisiologo possono per esempio trarne il giudizio di merito oggettivamente valido che il tale alimento è migliore del talaltro, o che un certo clima o un certo modo di riposare o un certo numero di ore di sonno sono più indicati di altri. Gli uni giovano alla salute, gli altri no. Penso che questo non valga solo per il nostro corpo ma anche per la nostra psiche.
Anche riguardo alla psiche, sulla base della conoscenza che abbiamo della sua natura e delle leggi che la governano, possiamo arrivare ad affermare oggettivamente che cosa le giovi e che cosa invece le nuoccia. In realtà, su di essa sappiamo ancora ben poco: probabilmente siamo più informati sul fabbisogno quotidiano di vitamine e di calorie che non su ciò che è indispensabile alla nostra psiche per vivere normalmente. Sappiamo tutti quanto la conoscenza delle vitamine e delle calorie abbia influito sulle nostre abitudini di vita. Perché allora non dovremmo scoprire in relazione alla nostra psiche, a patto di occuparsene seriamente, che anche su di essa possiamo acquisire una gran quantità di informazioni se solo le prestiamo un po’ di attenzione?
Il relativismo sociologico, per il quale è bene ciò che serve alla conservazione e alla sopravvivenza di una determinata società, non è affatto arbitrario come sembra. Nell’ottica di una determinata società, qualunque altro punto di vista appare impensabile. Infatti, una determinata struttura sociale esiste solo fintantoché i suoi membri si identificano con un atteggiamento che ne garantisca un funzionamento più o meno agevole. Ogni società, grazie alle sue istituzioni culturali, al suo sistema scolastico, alle sue convinzioni religiose, eccetera, cerca in ogni modo di formare un tipo di personalità che aspiri a fare ciò che deve, e che, oltre a voler fare quanto è necessario, desideri esercitare con zelo il ruolo che la società, per poter funzionare senza attriti, gli ha assegnato.
Il buon funzionamento di una società di guerrieri e predatori richiede che i suoi membri siano bellicosi e aggressivi, che vogliano conquistare, razziare e uccidere. Una figura come il Toro Ferdinando (1) costituirebbe per costoro un grave impedimento a guerreggiare e a veder confermata la struttura della loro personalità, che non è il risultato di una qualche decisione arbitraria ma affonda le sue radici
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in una serie di condizioni storiche oggettive, all’interno delle quali
quella determinata società può funzionare. La struttura della personalità non può dunque essere modificata tanto facilmente. Oppure prendiamo l’esempio opposto, quello di una società agricola e cooperativa nella quale capiti che si smarrisca un membro di una società di guerrieri. Costui si sentirebbe assolutamente fuori posto,
e sarebbe trattato come un malato. Se altri membri della società agricola dovessero prenderlo a modello, finirebbero per costituire di certo una seria minaccia per il funzionamento della loro società.
Si può dire che ogni società nutra un peculiare e legittimo interesse per una certa dose di conformità. Si tratta di un interesse che deriva dalla volontà di sopravvivenza della società stessa, la quale in tal modo vuole confermare la propria struttura e la propria specificità. La richiesta di comportamenti improntati alla conformità è però molto accentuata nella vita di ogni giorno. Oggi, nel 1953, non ho certo bisogno di soffermarmi sul conformismo; sarebbe piuttosto il caso di sottolineare come attualmente la sopravvivenza della società dipenda dall’esistenza di alcuni non-conformisti. Se tra gli uomini delle caverne fossero esistiti soltanto conformisti, vivremmo ancora nelle caverne e continueremmo a praticare il cannibalismo.
Lo sviluppo dell’umanità dipende da un lato da una certa qual disponibilità al conformismo, ma dall’altro anche dalla volontà e dalla determinazione a non adeguarsi. Ai fini non solo del progresso ma della stessa sopravvivenza di qualsiasi società della specie umana, la disponibilità a non adeguarsi risulta essenziale quanto la tendenza a comportarsi in conformità alle norme che in quella determinata società regolano il gioco della vita.
Tra le varie concezioni che identificano la normalità e la salute con l’adattamento, ve ne è poi una che considero in sostanza una razionalizzazione. Il ragionamento è questo:
“Non sono un fautore del relativismo, e neppure sostengo che ogni società viva in conformità a ciò che è normale, buono e sano. Si dà però il caso che oggi, nel 1953, la nostra società e lo stile di vita americano rappresentano la meta e il compimento di ogni umana aspirazione. E’ questo il modo in cui vivono le persone normali, mentre tutte le società esistite finora o fino a centocinquant’anni fa erano retrograde, forse anormali, e facevano cose che non andavano bene. Oggi siamo finalmente giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo, e non relativistico, deve considerarsi normale e sano”.
La pericolosità di tale atteggiamento sta proprio nella sua apparente oggettività: esso, in realtà, non è che l’ennesima variante di quel
relativismo sociologico dal quale sembra prendere le distanze. Cercherò di dimostrare che se è vero che nella nostra società vi sono molti elementi positivi, di cui a mio avviso possiamo anche andare fieri, dobbiamo comunque chiederci se il modo in cui viviamo oggi noi americani favorisca maggiormente la salute o la malattia della psiche. In queste lezioni vorrei analizzare concretamente gli effetti prodotti sull’individuo dal nostro stile di vita: quali effetti producono sull’uomo il nostro stile di vita e la nostra organizzazione sociale e politica? In che modo questi due fattori influenzano la nostra salute psichica? In che misura questi due fattori contribuiscono alle malattie psichiche? Quali conseguenze e quali possibilità di migliorare gli aspetti positivi ed eliminare quelli negativi si ricavano da un’analisi accurata della questione?
Oggi, nel 1953, gli Stati Uniti vengono giudicati in modo piuttosto emotivo. Da un lato abbiamo un atteggiamento critico, attualmente limitato però agli stalinisti. Costoro affermano non solo che in tutto
il paese la gente muore di fame, ma anche che non esiste assolutamente nulla di positivo e che tutto è marcio. Ma queste critiche non possono essere prese sul serio; da un punto di vista oggettivo si tratta infatti di affermazioni totalmente false. Personalmente ritengo che il mondo in cui viviamo sia pur sempre uno dei migliori che l’umanità abbia prodotto. Non che questo significhi granché, visto che finora la specie umana non ha mai prodotto una società buona, e che, vedendo come vanno oggi le cose, si potrebbero sollevare molte critiche. Eppure sono spontaneamente portato a valutare in modo più positivo questo nostro mondo quando sento sempre e soltanto dire che esso è così terribile. Chiunque sia minimamente informato riguardo agli avvenimenti degli ultimi cinque o seimila anni deve ammettere che l’odierna società statunitense rappresenta, malgrado tutto, uno dei migliori esperimenti finora intrapresi. Pur con tutti i suoi spaventosi limiti, essa fa comunque sperare in uno sviluppo positivo, a condizione che dimostriamo di avere sufficiente sensibilità per capire che cosa sia davvero necessario e per evitare quel che può essere evitato.
Sul fronte opposto vi sono poi i «patrioti», per i quali l'”American way of life” rappresenta l’unico ideale possibile, indubbiamente il migliore di tutti i tempi. Tale punto di vista è piuttosto rozzo, denota scarsa intelligenza e, temo, anche scarso interesse. A mio avviso non c’è motivo di considerare virtuoso chi glorifica il proprio paese, dato che a nessuno viene in mente di considerare tale chi glorifica sé stesso. Se dico «Io sono una persona fantastica!», sicuramente gli altri mi considereranno un po’ matto e non proveranno alcun interesse per me. Se invece affermo «Il mio paese è meraviglioso!», ecco che la cosa viene considerata segno di grande intelligenza e virtù. In realtà, chi si accontenta di affermazioni del
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genere senza domandarsi che cosa non funzioni, e senza mettervi mano, manifesta unicamente egocentrismo e mancanza di sincero interesse. […]
– Caratteristiche della società moderna.
Prima di affrontare nello specifico la questione della salute psichica nella società contemporanea, vorrei analizzare brevemente le principali caratteristiche e gli atteggiamenti sui quali è fondata la nostra società moderna.
In primo luogo, il mondo occidentale moderno è caratterizzato dall’emergere dell’individuo dal gruppo al quale era indissolubilmente legato e nel quale era tenuto a inserirsi. Emergendo come individuo,
il singolo non è più un membro di una società statica quale fu per molti secoli la società feudale del Medioevo. E’ ciò che chiamiamo individualismo o anche libertà dell’uomo moderno, distinguendolo così dalla posizione fissa e statica dell’uomo medievale che era innanzitutto membro di un gruppo e, in ragione di quella struttura, non cessava mai di appartenere a quel gruppo. L’uomo moderno è emerso da quei legami primari e da quelle strutture originarie, però – in tutti questi casi aggiungerò sempre un però – ha paura della libertà ottenuta. Egli non è più membro di un organismo, ma è divenuto un automa che cerca un sostituto di ciò che ha perso aggrappandosi alla società, alle convenzioni, all’opinione pubblica e a ogni possibile forma di raggruppamento, poiché non sa che cosa fare della sua libertà. Non sopporta di essere solo, di essere libero dai legami entro cui la società determinava il suo ruolo.
Un’altra caratteristica della moderna società occidentale, strettamente connessa all’emergere dell’individuo dall’organizzazione collettiva della società, è quella che siamo soliti chiamare iniziativa individuale. Nelle corporazioni medievali le attività economiche di ogni singolo aderente dipendevano dalla corporazione. Nella moderna società capitalistica gli uomini sono liberi. Il capitalista è libero. Il lavoratore è libero. Ognuno va per la propria strada e sviluppa quella che viene definita iniziativa individuale o personale. Eppure, malgrado l’iniziativa personale sia stata fortemente incentivata, soprattutto nel corso dell’Ottocento, oggi ci troviamo a vivere in una cultura in cui gli uomini agiscono sempre meno di propria iniziativa. Magari ciò accade con maggior frequenza in ambito economico, ma comunque sempre in misura minore che nell’Ottocento. La causa va ricercata in determinati mutamenti strutturali del capitalismo moderno, sui quali tornerò in seguito. Se
ci chiediamo in che cosa consista, fatta eccezione per il settore degli investimenti finanziari, l’iniziativa individuale, dobbiamo constatare che a ben vedere è come se non esistesse più. Se per
spirito di iniziativa intendiamo qualcosa che ha a che fare con la capacità, propria dell’uomo, di meravigliarsi e di stupirsi, di considerare la vita come un’avventura, con il fatto di combinare qualcosa di buono e di distinguersi dal proprio vicino, allora l’uomo medievale ne possedeva altrettanto, se non addirittura di più. Oserei affermare che gli individui della maggior parte delle altre culture rivelano probabilmente più iniziativa di noi. Se consideriamo lo spirito di iniziativa in rapporto all’uomo, distinguendolo da un’interpretazione meramente economica, dobbiamo ammettere che nell’uomo moderno esso ha raggiunto un livello quanto mai basso.
A mio avviso, la terza caratteristica della società contemporanea è la seguente: da un lato abbiamo creato una scienza e una prassi che ci hanno consentito di combattere e dominare la natura in misura inimmaginabile, dall’altro noi uomini orgogliosi, partiti alla conquista della natura, siamo diventati gli schiavi di quella stessa macchina economica da noi creata per dominare la natura. Noi dominiamo la natura, ma le nostre macchine ci dominano. Anzi è probabile che siamo molto più dominati dagli artefatti da noi stessi creati con le nostre macchine di quanto non lo siano gli esponenti di molte culture da quella natura che non hanno ancora imparato a governare. Se per esempio confrontiamo il pericolo derivante da un terremoto o da un’inondazione, dunque dalla natura, con i rischi connessi a una guerra nucleare, risulta evidente che ciò che noi stessi abbiamo creato ci minaccia molto più di quanto non faccia la natura nelle culture da essa dominate.
La quarta caratteristica della cultura moderna è il suo approccio scientifico. Mi riferisco a qualcosa che va al di là del valore puramente tecnico di un approccio di questo tipo. Dal punto di vista umano, l’approccio scientifico è la capacità di essere obiettivi, ovvero l’umiltà di vedere il mondo, le cose, gli altri e noi stessi
così come sono, senza che i nostri desideri e i nostri sentimenti deformino la realtà. L’approccio scientifico implica la fiducia nella capacità della nostra mente di riconoscere la verità e la realtà, ma anche la costante disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero via via che si scoprono nuovi dati. Un approccio di questo tipo ci chiede inoltre di essere sinceri e obiettivi, di non trascurare i dati di nuova acquisizione al solo scopo di evitare di mettere in discussione le nostre convinzioni. Dal punto di vista umano, l’approccio scientifico moderno rappresenta a mio avviso uno dei passi decisivi nell’evoluzione dell’uomo, in quanto espressione di uno spirito di umiltà, obiettività e realismo che non ha riscontro nelle culture alle quali tale approccio è ignoto.
Ma che cosa ne è oggi di questo approccio? Noi siamo diventati adoratori della scienza, e abbiamo rimpiazzato gli antichi dogmi religiosi con le definizioni scientifiche. Per noi l’approccio
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scientifico non è affatto espressione di umiltà e obiettività, ma solo
un nuovo modo di formulare dogmi. L’uomo medio considera lo scienziato una specie di sacerdote che ha una risposta a tutto, a stretto contatto con tutto ciò che egli vorrebbe sapere. Così, egli non si distingue granché da chi si accontenta di partecipare alla comunicazione con Dio tramite il prete, che è in diretto contatto con Dio. Chi oggi legge le pubblicazioni scientifiche, si tiene aggiornato sulle scoperte più recenti ed è convinto che esistano scienziati in grado di fornire una risposta a tutto, è partecipe di questo nuovo dogma, la religione della scienza, che gli permette di esimersi dal ragionare con la propria testa.
Una quinta caratteristica della civiltà degli ultimi due secoli è la democrazia politica. Anch’essa costituisce un enorme passo avanti, in quanto consente agli individui non solo di decidere del modo in cui vengono utilizzate le proprie tasse, ma anche di esprimere la propria opinione su tutte le più importanti questioni sociali. L’idea, il principio democratico è nato come reazione allo stato assolutista e feudale, nel quale gli esseri umani non avevano alcun margine di intervento nelle decisioni riguardanti la loro stessa esistenza, ma è andato anch’esso deteriorandosi in vari modi. Per usare una metafora particolarmente efficace, oggi la democrazia è come una scommessa alle corse: con tutta l’eccitazione, tutti i rischi e tutte le componenti irrazionali che ci fanno puntare sul cavallo numero tre solo perché ce
lo siamo sognato la notte prima. Non nego che nel complesso il nostro sistema elettorale sia caratterizzato da una certa dose di razionalità; eppure non si può dire che esso tenga in gran conto gli interessi degli individui nelle questioni che riguardano la società.
E’ certo migliore di tutti gli altri sistemi esistenti, ma non c’è dubbio che sia ancora ben lontano dalla sua idea originaria.
Tutte le caratteristiche della società moderna fin qui enumerate vanno intese in primo luogo come negazioni delle strutture premoderne. Libertà personale, iniziativa individuale, approccio scientifico, democrazia politica, dominio della natura: tutto questo si definisce innanzitutto come negazione di qualcos’altro. Il nuovo è opposto, è diverso, e nega i suoi equivalenti nella struttura sociale feudale. Il rischio, a mio avviso, è di restare bloccati in una forma di negazione fine a sé stessa, di concepire e formulare tali idee solo in termini
di negazione, che potevano sembrare nuovi due o trecento anni fa. Occorre invece portare il discorso su un altro livello: il livello della negazione della negazione, se si vuole, ovvero della valutazione critica del significato di tale negazione. Occorre, cioè, oltrepassare
il livello della negazione e pervenire a formulazioni nuove e positive dei nostri intenti. D’altronde, lo stato assolutista o il feudalesimo non sono più un problema per noi. Può darsi che cent’anni fa un editoriale del «New York Times» fosse ancora un documento rivelatore,
stimolante e suggestivo. Oggi, nel 1953, gli editoriali non mi fanno più lo stesso effetto, e penso che questo valga per la maggior parte delle persone. Semmai gli editoriali si limitano a confermare quello che la gente già pensa per proprio conto, e per molti si tratta evidentemente di un’esperienza bella e gratificante.
Se consideriamo le caratteristiche positive della nostra cultura e della nostra società, dobbiamo riconoscere che ci siamo bloccati al livello delle negazioni, e che è già un po’ troppo tardi. Molto tempo è trascorso da quando la negazione era veramente feconda e costruttiva. Dalla negazione dovremmo invece passare a un livello nuovo, quello della negazione della negazione, ovvero, in altre parole, a una posizione nuova.
– Condizione umana e bisogni psichici.
Al fine di rendere il mio approccio più plausibile, e prima di entrare nel merito degli effetti prodotti sull’uomo dalla nostra struttura sociale e culturale, devo fare alcune considerazioni di carattere generale. Prima considerazione: ogni individuo deve dare una risposta al problema della propria esistenza. In altre parole, presupponendo che l’uomo abbia da mangiare e da bere a sufficienza, dorma quanto basta e si senta al sicuro (e abbia un normale soddisfacimento sessuale, direbbe Freud), che non subisca privazioni e la sua vita non presenti particolari problemi, è proprio allora, secondo me, che comincia il vero problema per l’uomo.
Se è vero che chi non ha cibo a sufficienza, non si sente protetto e ha difficoltà di sostentamento è alle prese con problemi reali, è anche vero che a questo livello si è ancora ben lontani dall’aver sfiorato gli autentici problemi dell’esistenza umana. Vorrei riprendere in esame alcuni dati relativi ai piccoli e stabili paesi protestanti d’Europa, dove praticamente non esistono più problemi di sostentamento: la gente ha abbastanza da mangiare, c’è cooperazione, la concorrenza non è esasperata, e non c’è stata neppure la guerra. E tuttavia è fuor di dubbio che la vita in quei paesi sia caratterizzata da una noia strisciante, che si traduce in cifre esplosive per quanto riguarda le malattie psichiche.
Parliamo spesso dei mali della vita: le malattie, i disturbi psichici, l’alcolismo, eccetera. Ma non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che una delle peggiori sofferenze nella vita è la noia, e che la maggior parte della gente sfrutta ogni occasione e sopporta sforzi immani non per superare la noia – cosa, questa, piuttosto difficile – ma per evitarla e dissimularla. Molti sono ben contenti di sfuggire alla noia lavorando sodo per otto ore al giorno, e ringraziano il buon Dio di aver dato loro il bisogno di dormire, che occupa altre otto ore. Ma il problema principale è come riempire le restanti otto ore,
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come affrontare la noia costantemente prodotta dal nostro sistema di vita.
La condizione umana è segnata da profonde contraddizioni. La più profonda è probabilmente dovuta al carattere limitato della nostra esistenza, che si esprime in ultima analisi nell’ineluttabilità della morte. Le contraddizioni derivano dal fatto che per costituzione fisiologica noi siamo parte del mondo animale, dal quale nello stesso tempo ci sentiamo indipendenti: vi apparteniamo, vi siamo immersi, eppure non ne facciamo parte. Noi possediamo l’intelletto e l’immaginazione, che ci consentono – e anzi quasi ci obbligano – di acquisire la consapevolezza della nostra diversità e peculiarità, e della ineluttabilità della nostra fine, che è l’esatto contrario della vita.
Perciò dobbiamo confrontarci con le contraddizioni della nostra esistenza e dare un senso alla nostra vita. E’ impossibile limitarsi a vivere, mangiare e bere, senza dare un senso alla propria vita. Dobbiamo sempre dare una risposta al problema dell’esistenza, sia teoricamente sia praticamente. Intendo dire che abbiamo bisogno di un quadro di riferimento che ci consenta di orientarci nella vita e conferisca chiarezza e significato al processo vitale e al posto che noi occupiamo in esso. Se non cadiamo nella follia, e se non rimuoviamo la consapevolezza dei nostri problemi esistenziali ricorrendo in modo coatto alla fuga – cosa che a molti riesce, e a volte con grande abilità -, dobbiamo confrontarci con il problema del significato della nostra esistenza. E per questo abbiamo bisogno di un quadro di riferimento e di orientamento in grado di fornirci un senso. Un quadro di riferimento non soltanto intellettuale: anche per un’esigenza d’ordine abbiamo bisogno di un oggetto di devozione su cui investire le nostre energie che eccedono la semplice produzione e riproduzione.
Mi si potrà obiettare che tale bisogno non è del tutto evidente. Come provarlo? Non so se riuscirò a farlo in modo del tutto convincente. Il mio assunto si basa sull’auto-osservazione – è sempre da qui che si dovrebbe partire! – e poi sull’osservazione di persone che ricorrono all’aiuto dello psichiatra e di ciò che accade nel mondo. Sulla scorta di queste rilevazioni mi sono convinto che vi siano due bisogni imperativi che non possono non essere soddisfatti: il bisogno di un quadro di riferimento in grado di fornirci un senso, e il bisogno di un oggetto di devozione che ci permetta di investire le nostre energie su qualcosa che vada al di là della produzione materiale di oggetti destinati al nostro sostentamento. In questo senso, tutti noi abbiamo bisogno di religione, a patto di intendere il termine religione in senso molto lato, indipendentemente da qualunque contenuto specifico, come sistema di orientamento e oggetto di devozione.
Se si intende la religione in questo senso molto generale, appunto
come sistema di orientamento e oggetto di devozione, essa non riguarda solo il teismo proprio dell’Occidente, ma anche il buddismo, il confucianesimo, il taoismo, e persino lo stalinismo o il fascismo, in quanto fanno tutti appello a quei bisogni dell’uomo che nella nostra cultura vengono soddisfatti dalla religione.
– Salute psichica e bisogno di religione.
Vi sono molti modi di rispondere al problema dell’esistenza umana. Basta sfogliare un qualunque testo di storia delle religioni per avere
a disposizione tutte le risposte che nel corso della storia sono state date al problema dell’esistenza umana. In realtà, le varie religioni non sono altro che risposte diverse allo stesso problema.
Dalla lettura di un manuale di psichiatria e dallo studio delle nevrosi e delle psicosi si può ricavare l’idea che tali patologie siano delle risposte che l’individuo dà al problema dell’esistenza umana. Si può quindi affermare che ad ammalarsi di nevrosi e psicosi sono proprio le persone più sensibili della media alla questione del senso della vita. Di norma, la maggior parte delle persone ha la pelle più dura e risponde alla questione religiosa, vale a dire alla questione di un determinato quadro di riferimento e di un determinato oggetto di devozione, nel modo prescritto dalla propria cultura. Chi invece è più sensibile e non riesce a trascurare l’impellenza del bisogno di religione, elabora un proprio credo profetico che lo psichiatra definisce poi nevrosi o psicosi.
A volte mi chiedo se oggi una persona debba impazzire per poter percepire determinate cose. Lessing ebbe a dire più o meno la stessa cosa: «Chi non perde la ragione per certe cose, evidentemente non è nemmeno in grado di ragionare». Temo che noi tutti, o almeno noi psichiatri, parliamo con troppa disinvoltura di «nevrosi» o «pazzia» ogniqualvolta un modo di sentire, un tipo di esperienza o una particolare risposta ai problemi dell’esistenza umana non coincidono esattamente con quello di cui ci si dovrebbe accontentare. Chi, invece di accontentarsi, elabora un più profondo, o comunque diverso, sistema di orientamento e devozione viene semplicemente considerato nevrotico o pazzo. Naturalmente, con questo non voglio affermare che tutti i pazzi sono dei santi ispirati da Dio, come credono invece molte culture primitive.
Certamente la moderna distinzione tra salute e malattia psichica è in qualche misura giustificata, ma quello che mi lascia perplesso è la sicurezza con cui tale distinzione viene operata. Si suol dire che in un ospedale psichiatrico l’unica differenza tra medici e pazienti sta nel fatto che i primi hanno le chiavi. La battuta esprime bene i miei dubbi nei confronti di ogni rigida definizione di salute e di malattia, di nevrosi e di normalità: alla base di tutte queste
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definizioni c’è il presupposto che la parte normale della popolazione abbia già trovato una risposta del tutto soddisfacente al problema dell’esistenza umana, e che chi non è in grado di accettarla di buon grado, e va anzi in cerca di qualche soluzione particolare, sia invece malato.
Per me la religione, intesa in senso lato, è un sistema di orientamento che in una forma o nell’altra è proprio di tutti gli esseri umani. Se usiamo il termine religione in questa accezione, la questione che si pone non è più se la religione sia legittima o meno, ma solo se sia buona o cattiva, o per meglio dire migliore o peggiore. In un certo modo siamo tutti «idealisti», poiché siamo spinti da motivazioni che vanno al di là del nostro interesse personale. Questo «idealismo» è la più grande benedizione, ma anche la più grande maledizione dell’uomo. Praticamente non c’è male inflitto dagli uomini al mondo che non sia dovuto a puro idealismo. «Idealismo» senza un significato preciso, e riferito a quegli impulsi che, travalicando la routine quotidiana che mira a perpetuare la nostra esistenza e ad assicurarci la sopravvivenza biologica, creano un quadro di riferimento e un oggetto di devozione.
E’ sciocco giustificare le nostre scelte dicendo di essere «idealisti». Siamo tutti «idealisti». L’unica cosa che conta è quali sono gli ideali che perseguiamo. Se a spingerci è il desiderio di distruggere la vita, di dominare, controllare e opprimere, nella mia accezione di «idealismo» tale desiderio, sul piano psicologico, è «idealista» quanto quello di amare e cooperare. La questione decisiva è: siamo pericolosi o utili per il mondo? Ma è una questione che ha senso solo nell’ambito e ai fini di una determinata religione o ideale da noi sostenuti, e non sulla base dell’affermazione che alcuni individui sono idealisti e altri no.
In effetti è evidente come persino i peggiori ideali del mondo continuino ancora oggi ad avere dei sostenitori. Costoro, tra l’altro, risultano affascinanti proprio per essere idealisti, il che conferisce alle loro azioni diaboliche una parvenza di dignità. Stranamente siamo tuttora convinti che il fatto di avere degli ideali sia di per sé positivo, invece di renderci conto che ciò non è per nulla scontato. Non possiamo fare a meno di seguire i nostri ideali, poiché sono essi che ci spingono a farlo. Dunque si tratta di superare l’ammirazione per l’«idealismo», per la religione, eccetera, e di porre l’unica domanda che conti: quali scopi vengono perseguiti? Quali sono gli ideali di quella persona? Quali effetti producono, ed entro quale quadro di riferimento si collocano?
Parlare di religione buona o cattiva, di ideali buoni o cattivi, ci riporta alla questione iniziale: se, cioè, sia possibile pervenire a giudizi di valore oggettivamente validi. A costo di essere tacciato di dogmatismo e di assoluta mancanza di scientificità, vorrei dire
semplicemente che cosa considero oggettivamente valido ai fini della salute psichica. Non c’è alcuna novità in quello che dico, che anzi è ben noto da tempo. Naturalmente potrei tradurre queste antiche verità in un forbito linguaggio scientifico, ma preferisco usare quelle antiche parole il cui significato oggi spaventa un po’ tutti (quantomeno noi scienziati).
E’ proprio della natura dell’uomo e della sua condizione esistenziale l’esigenza di avere uno scopo nella vita: essere capaci di amare, capaci di usare la propria intelligenza e di disporre di quella obiettività e umiltà che permettono all’uomo un’esperienza non alienata della realtà esterna e interna. Questa relazione con il mondo è la maggior fonte di energia di cui disponiamo oltre a quella prodotta nel nostro corpo dai processi chimici. Niente stimola la creatività quanto l’amore, a condizione che sia sincero. E non c’è migliore fondamento per qualunque senso di sicurezza e per un sentimento dell’Io in grado di sostenere da solo l’identità personale, di essere a stretto contatto con la realtà. E’ questa relazione che ci permette di superare tutte le finzioni e di acquisire quell’umiltà e obiettività necessarie per guardare la realtà così com’è, trascurando tutto ciò che ci separa da essa.
Sebbene non si possa dimostrare in modo inconfutabile che questi sono gli obiettivi che ogni religione si prefigge, è indubbio che lo siano almeno per la maggior parte delle grandi religioni. Il che peraltro non significa che si tratti di obiettivi di natura metafisica o prodotti dalla fede, ancorché quasi tutte le grandi religioni degli ultimi cinquemila anni li abbiano definiti in questo modo. L’antropologia, la psichiatria e la psicologia moderne dimostrano invece che, partendo dallo studio della natura dell’uomo e dei suoi problemi, si può desumere – con la stessa evidenza empirica che comprova l’utilità delle vitamine – che grazie a questi obiettivi è possibile ottenere la soluzione migliore e più soddisfacente alla complessa questione della vita e dell’esistenza umana.
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IL PROBLEMA DEL SENSO NELLA CULTURA CONTEMPORANEA. Seconda lezione.
– La mancanza di religiosità.
Nel corso della prima lezione ho definito il bisogno di un quadro di riferimento e di un oggetto di devozione come un bisogno universale e fondamentale dell’uomo, che nella nostra cultura viene normalmente soddisfatto da ciò che siamo soliti chiamare «religione».
Quali tracce di tale quadro di riferimento e oggetto di devozione si possono individuare nella cultura contemporanea, intendendo per cultura contemporanea l’era moderna seguita al Medioevo? La fine della cultura religiosa medievale ha comportato quello che potremmo definire un vuoto religioso. L’ordinamento religioso feudale non è stato sostituito da nulla, cosicché rispetto al quadro di riferimento religioso e all’oggetto di devozione ci troviamo a essere testimoni di un vuoto che sta progressivamente dilagando.
La situazione attuale della cultura americana, o europea, non è poi così diversa da quella degli indiani nordamericani o messicani, che della religione cristiana presentano solo un velo sottile. Ma la differenza è che, mentre tra gli indiani è ancora percepibile, sotto quel velo sottile, la loro antica tradizione pagana, sembra che sotto
il velo sottile della cultura americana non ci sia praticamente nulla: nessuna tradizione antica, forte e virtualmente religiosa. […] Questo vuoto ha fatto sì che si sviluppassero nuove religioni, che hanno preso il posto di quelle antiche: sono le nuove religioni del “fascismo” e dello “stalinismo”, religioni nel senso da me illustrato di quadro di riferimento e oggetto di devozione. Se consideriamo poi che la questione non riguarda l’esistenza o meno di una religione, ma solo la sua maggiore o minore bontà, definire fascismo e stalinismo delle religioni non comporta alcun giudizio di valore. Tale definizione sta solo a indicare che si tratta di sistemi che forniscono un quadro di riferimento e un oggetto di devozione per i quali le persone sono disposte non solo a morire, cosa di per sé già abbastanza grave, ma anche, ed è peggio, a rinunciare all’uso della ragione. Lo stalinismo e il fascismo hanno potuto prosperare e acquistare tanta forza e tanto seguito proprio a causa del vuoto religioso che si è andato progressivamente espandendo nel corso del Novecento. Nell’Ottocento questo vuoto era meno esteso, in quanto la tradizione morale della religione esercitava ancora sulla vita della gente un’influenza più vigorosa di quanto non accada oggi. Attualmente, negli Stati Uniti si riscontrano strani fenomeni che per certo verso fungono da surrogato della religione. Tra tutti vorrei
citare il movimento [della Chiesa di Scientology] che ha preso le mosse dal libro di L. Ron Hubbard “Dianetics” (1950): un libro assolutamente delirante, che tutt’a un tratto si è trovato al centro dell’attenzione e che è ammirato non solo dagli sciocchi, ma anche da intellettuali di grande levatura. Siamo di fronte a un fenomeno stupefacente, che dimostra come il bisogno di credere in qualcosa – anche se, o forse proprio perché, si tratta di qualcosa di totalmente assurdo, che trascende il buon senso e suscita speranze irrazionali – sia sufficiente ad attirare l’attenzione e conquistare l’interesse di molte migliaia di persone. Oggi vi sono negli Stati Uniti tanti altri piccoli movimenti che assolvono la stessa funzione. In un certo senso, anche la moda della psicoanalisi, che pure non è irrazionale come la dianetica, manifesta i sintomi della ricerca di una nuova religione, ed è stato proprio il dogmatismo di Freud a favorire un utilizzo in tal senso della psicoanalisi.
A mio avviso, il vuoto religioso della nostra cultura moderna è profondamente legato al fatto che in essa non esistono più “elementi drammatici e riti”. In genere la vita si muove tra due poli: da un lato la routine, dall’altro l’elemento drammatico, l’esperienza drammatica tanto forte da spezzare la routine. Non c’è dubbio che la routine svolga un ruolo importantissimo: deve farlo, in quanto per noi è la garanzia di poter mangiare, bere e lavorare. Se la nostra vita non fosse in buona parte routine, precipiteremmo nel caos. Magari ci sentiremmo in paradiso, data l’intensità con cui percepiremmo la nostra vita interiore, ma tutto andrebbe a rotoli, e non esisterebbe più una società organizzata. Dunque vi sono buoni motivi per considerare la routine indispensabile e per continuare a occuparci della parte monotona della vita, delle cose apparentemente irrilevanti, che però, dal punto di vista della sopravvivenza del singolo e del gruppo, sono invece importantissime.
Ma la routine nasconde anche un grave pericolo per l’uomo. La necessità della routine affonda le radici nella nostra parte animale, che ha bisogno di mangiare e di bere. Ed è appunto questa routine che ha la tendenza a prevaricare sulla nostra parte spirituale, paralizzandola fino a ucciderla. Questa parte spirituale è quanto di più importante vi sia nella nostra vita: è la psiche, l’esperienza dell’amore, del pensiero, della bellezza. Nella vita di ogni singolo individuo e in ogni cultura esiste per così dire una lotta, un conflitto tra quella parte della vita e della cultura che è routine e l’altra parte che riguarda invece le esperienze umane più profonde. Quasi tutte le culture si impegnano in questo senso. E lo fanno, con grande efficacia, ricorrendo alla forma drammatica. Uso il termine «drammatico» con riferimento al teatro greco, che era qualcosa di profondamente diverso dal teatro moderno: oggi, infatti, l’acquisto di un biglietto ci dà diritto a consumare uno spettacolo teatrale, che ci
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soddisfa perché è stato giudicato buono dal «New York Times». Il teatro greco era invece un rito religioso in cui le esperienze fondamentali di ogni individuo venivano rappresentate in forma drammatica, e in cui proprio la forma drammatica aveva la forza di spezzare la routine. Chi era partecipe del dramma non era un consumatore né uno spettatore, ma partecipava a un rito che toccava nell’intimo le corde fondamentali della vita; è per questo che il dramma, come dicevano i Greci, produceva un effetto catartico. Il dramma purificava, toccava direttamente. Chi prendeva parte a una rappresentazione drammatica ritrovava il contatto con la parte più profonda dell’uomo e dell’umanità, e ritrovava così ogni volta la capacità di squarciare il velo della routine.
Lo stesso avviene, per esempio, nella religione cattolica. Anche il suo rituale contiene elementi drammatici. Non mi riferisco ai contenuti specifici, ma agli elementi formali nella vita e nella società. Chi partecipa al rito viene a contatto con alcuni aspetti fondamentali di sé. Mediante la rappresentazione drammatica della nascita, morte e resurrezione di Cristo, o della vergine Maria, o grazie alla bellezza dei paramenti e delle chiese, chi partecipava a una celebrazione religiosa poteva vivere un’esperienza molto profonda e, come accadeva nel teatro greco, riusciva a lacerare il velo della routine e dell’inerzia interiore.
Vorrei citare come esempio uno spettacolo a cui ho assistito di recente: una corrida. La corrida, così come viene praticata nei paesi dell’America centrale, non è un avvenimento sportivo, né più né meno di quanto il teatro greco possa essere paragonato al nostro teatro e ai nostri attori moderni. La corrida è un rito dal significato ben preciso. Simboleggia la lotta tra la natura animale e lo spirito, l’intelligenza e la grazia. Questi due princìpi, incarnati dal toro e dal torero, sono in lotta tra di loro. In genere la lotta si conclude con la sconfitta e la morte del toro, cosicché in quel rito si assiste all’esperienza diretta della morte della materia bruta e della vittoria dell’uomo. La corrida è un rito che ci può portare a stretto contatto con esperienze molto profonde, un contatto troppo stretto per la maggior parte degli spettatori americani, che di solito giudicano la corrida un atto crudele. Ma non credo che sia questo il vero motivo. Direi piuttosto che costoro non sono abituati a misurarsi in modo così diretto con i fatti della vita e della morte, che in genere sono velati e mascherati.
Qual è lo spazio che la nostra cultura assegna all’esperienza dell’elemento drammatico e della ritualità? Dove la nostra cultura si dimostra preoccupata di quell’esperienza che sta particolarmente a cuore a quasi tutte le grandi culture? L’unica forma di rito praticata nella nostra cultura è quella della competizione tra due individui o tra due gruppi. E’ questo il significato simbolico del baseball, del
calcio, o delle elezioni presidenziali. La competizione tra due
individui tocca sicuramente alcuni aspetti fondamentali dell’esistenza, ma il suo significato simbolico non può certo essere paragonato alla profondità del problema evocato dalla corrida. Che due individui lottino tra loro e uno ne esca vincitore, in realtà è soltanto uno dei problemi più semplici ed elementari della nostra esistenza. Certo, la situazione non è irrilevante, ma di fronte ai grandi problemi dell’esistenza umana e della vita in generale, espressi nei riti di tutte le grandi culture, la competizione tra due individui è una questione assolutamente secondaria. Eppure è l’unico rito che abbiamo.
Evidentemente c’è bisogno di una maggiore drammaticità e ritualità. Prova ne siano i nazisti e gli stalinisti, che hanno introdotto nuovi rituali. Indubbiamente il successo di quei sistemi si è fondato in parte anche sulla loro capacità di soddisfare l’umano senso dello spettacolo. Ma come può essere soddisfatto nella nostra cultura? Per esempio, nel caso di un incidente stradale vedremo radunarsi venti o trenta persone. Perché lo fanno? In fondo non ha molto senso. Eppure, a mio avviso, di «senso» ne ha molto, poiché questa è praticamente una delle pochissime occasioni di venire a contatto con la morte, e dunque con qualcosa di drammatico. Si tratta di una forma drammatica di infimo livello, ma è sempre meglio di niente. Ricordo il caso di una donna che era stata assassinata nella propria casa. Ancora un paio di settimane dopo c’erano centinaia di persone che si recavano in auto in periferia per vedere quella casa. La visita a quella casa ha più o meno lo stesso senso di accorrere sul luogo di un incidente stradale: la gente non va lì per prestare soccorso, e neppure perché è stupida. Il fatto è che lì c’è qualcosa con cui, benché a un livello assolutamente superficiale, essa riesce a venire a contatto. Ed è quello che nella drammaticità e ritualità di una cultura più evoluta si manifesta con un effetto catartico.
Ovviamente, assistere a un incendio, a un incidente stradale o a un assassinio non produce alcun effetto catartico, eppure l’impulso di stare a guardare è ancora molto forte: infatti, in una cultura che ormai coltiva pressoché esclusivamente la routine, questo è forse l’ultimo residuo del desiderio di venire a contatto con qualcosa di drammatico. Ho persino il sospetto che i romanzi gialli, di cui anch’io sono un appassionato lettore, abbiano in parte la funzione di metterci a contatto con un frammento di drammaticità in più. Come minimo vi si verificano un paio di omicidi, che suscitano un certo senso di drammaticità: si troverà il colpevole? La giustizia trionferà? Il romanzo giallo presenta – in modo intelligente e, secondo me, anche divertente – traccia di un problema metafisico. Noi desideriamo ardentemente un contatto con la realtà della vita proprio perché la nostra realtà è fatta solo di prodotti artificiali.
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Viviamo in un mondo di convenzioni e di automobili, eppure non vediamo l’ora di entrare in contatto con ciò che nella maggior parte delle culture era fornito dalle religioni o dai loro equivalenti. Ma nella nostra cultura non esiste praticamente più nulla di simile. Illustrerò ora alcuni importanti concetti che necessitano di chiarimenti, per poi parlare della condizione spirituale della società contemporanea. Più avanti, nel corso della terza lezione, passerò a discutere alcuni temi che ritengo cruciali per la salute psichica nella nostra cultura.
– Il significato del lavoro.
Per cominciare, vorrei riassumere brevemente alcuni importanti aspetti dell’evoluzione del concetto di lavoro. Il lavoro viene spesso considerato il grande emancipatore dell’uomo. La storia propriamente umana dell’umanità inizia solo nel momento in cui l’uomo comincia a lavorare, poiché è solo allora che egli si separa dall’originaria unità con la natura. In questo processo di separazione e di manipolazione della natura, l’uomo modifica anche sé stesso. Anziché essere parte della natura, egli ne diventa sempre più il creatore, sviluppa facoltà intellettuali e artistiche, e comincia a esercitare
il proprio potere sulla natura: in questo processo egli si trasforma in un individuo.
L’evoluzione dell’uomo è indubbiamente fondata sul lavoro, che spesso si accompagna all’evoluzione delle sue facoltà. E’ in questo senso che possiamo riferirci al lavoro come all’emancipatore dell’uomo e al fattore più importante della sua evoluzione. Aggiungerei che il modo in cui l’uomo lavora costituisce uno dei fattori più importanti nello sviluppo della sua personalità. La funzione del lavoro in quanto forza liberatrice, emancipatrice, di incentivo allo sviluppo, non è stata decisiva soltanto nel Medioevo. Vi sono anche altri periodi della storia dell’umanità nei quali ha svolto lo stesso ruolo. L’artigiano medievale era diventato un individuo produttivo in senso proprio, che provava piacere nel lavoro e nella creazione di oggetti belli. A tutt’oggi ci riesce difficile riprodurre quanto si sapeva fare nel Medioevo o in molte altre culture, persino in quelle che consideriamo «primitive». Con l’inizio dell’era moderna, invece, questo processo ha preso una piega alquanto problematica, soprattutto nei paesi protestanti nordeuropei. Il piacere del lavoro diventa dovere. Il lavoro diventa un’entità, un dovere, un mezzo per uno scopo. In origine, nel pensiero calvinista e protestante il lavoro era uno strumento di salvezza, e quindi un atto religioso. Ma in tal modo era diventato un’entità astratta. Non importava più che la realizzazione di una bella sedia o di un bel gioiello fosse fonte di piacere: il successo stava a indicare il proprio stato di grazia, e
dunque la propria appartenenza alla schiera degli eletti. Così il lavoro inteso come gratificazione e piacere divenne ossessione, dovere, qualcosa che, come ogni altra attività ossessiva, è di per sé dolorosa, pur svolgendo l’importante compito di preservare l’equilibrio psichico dell’uomo. Infatti non c’è niente di più rassicurante per l’uomo di quel tipo di lavoro.
Questa descrizione della funzione del lavoro riguarda propriamente solo il ceto medio, ovvero l’imprenditore che possedeva un mezzo di trasporto o una fabbrica. Non riguarda certo l’operaio del Sette- Ottocento, il quale era costretto a vendere la propria forza-lavoro e, non disponendo di alcun margine di iniziativa individuale, non poteva neppure svolgere un lavoro significativo. Né l’operaio che nel Sette- Ottocento era costretto a lavorare quattordici o sedici ore al giorno, né il bambino che passava dieci ore in fabbrica, erano mossi da un impulso interiore. Essi non avevano alcuna possibilità di trarre un vantaggio morale dalla convinzione che se lavoravano come pazzi era per servire il loro signore e Dio. Il loro era un lavoro forzato, reso necessario dal bisogno di sfuggire alla morte per fame. All’inizio dell’era moderna ci troviamo dunque di fronte a due diverse forme e realtà di lavoro: da un lato, il lavoro frutto di un impulso interiore, che riveste una sua funzione religiosa all’interno del quadro di riferimento protestante e calvinista; dall’altro, il lavoro forzato, che per motivi economici andrà via via estendendosi nel corso dell’Ottocento.
Nel Novecento assistiamo a uno sviluppo nuovo: il lavoro va perdendo buona parte di quella connotazione di dovere, protestante e calvinista, che ancora aveva nell’Ottocento. Oggi non siamo più ossessionati dal lavoro come lo erano i nostri nonni. La molla che ci spinge è un’altra: lo scopo del nostro lavoro è molto particolare, il suo fine infatti è la crescita di un idolo, la macchina. Noi veneriamo una macchina che lavora. Ciò che oggi ci affascina non ha più nulla a che fare con il concetto medievale o protestante di lavoro, e neppure con il concetto, cruciale in tutto l’Ottocento, di profitto. Oggi siamo affascinati dalla crescita di una macchina produttiva. La produzione in quanto tale è una delle fantasie megalomani che idolatriamo. Essa è diventata uno scopo della vita. Quello che vogliamo è che ci siano sempre più oggetti, ma non oggetti organici, non fiori, no: solo macchine sempre più grandi e potenti. Vorremmo esser capaci di produrre un numero sempre maggiore di beni di consumo, automobili sempre più veloci, e così via.
Questa è dunque una delle linee di sviluppo del concetto di lavoro: lavoro come significativo soddisfacimento delle aspirazioni umane, come ossessivo adempimento di un dovere, come produttore di profitto; e lavoro, potremmo dire, come atto di venerazione di fronte all’altare della macchina, che è in sé stessa carica di significato e valore.
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E qual è la linea di sviluppo per quanto riguarda il lavoratore? All’inizio dell’Ottocento il lavoro era per l’operaio una forma di schiavitù. Lavoro forzato. Da allora il progresso è stato enorme, e la situazione della classe operaia è radicalmente cambiata. Attualmente la giornata lavorativa non supera le otto ore; il lavoro ha perso ogni carattere di lavoro forzato o di fonte di privazione. Una cosa però non è cambiata: il lavoro continua a non essere gratificante per chi lo svolge, né gli serve per dare un senso alla propria esistenza, nonostante negli ultimi tempi siano stati avviati molti progetti di ricerca per rendere meno alienante il lavoro industriale. Ritornerò in seguito sull’argomento.
La struttura sociale di un paese come gli Stati Uniti si è completamente trasformata rispetto a cent’anni fa. E’ enormemente cresciuto il numero degli impiegati e, più in generale, di tutti i lavoratori che percepiscono stipendi o salari. Eppure si assiste a un fenomeno molto strano, che coinvolge in uguale misura chi lavora e chi non lavora: oggi una delle massime aspirazioni dell’uomo si esprime nell’idea di assoluta pigrizia. Il nostro ideale è quello di non dover più lavorare. Prendiamo per esempio la pubblicità di una compagnia di assicurazioni: c’è una coppia misteriosa che gira il mondo con duecento dollari al mese, completamente soddisfatta di non dover più lavorare. La prospettiva più allettante nella vita è quella di potersene stare, prima o poi, con le mani in mano. E’ per questo che ragazzi di venticinque anni, prima di accettare un lavoro in una grande impresa, si informano sulle coperture previdenziali previste. E’ un fenomeno tipico della nostra epoca.
Sono proprio queste piccole cose a essere importanti e significative. Durante la [seconda] guerra [mondiale] veniva pubblicizzato un frigorifero il cui interno, premendo un pulsante, ruotava su sé stesso, facendo risparmiare così l’immane fatica di dovervi infilare
le mani per prendere qualcosa. Sono sicuro che per centinaia di migliaia di persone la felicità era incarnata dal desiderio di comprare quel magnifico frigorifero, al solo scopo di risparmiarsi un po’ di fatica.
Un altro esempio è quello delle automobili con il cambio automatico. Certo sono molto comode e, benché io non sia in grado di esprimere un giudizio, pare che presentino dei vantaggi anche dal punto di vista della sicurezza. Ma, a mio parere, non è una questione di sicurezza. In realtà, il loro fascino è tutto nell’idea di un potere che non richiede sforzi, un potere che ci consente di ottenere qualcosa senza la minima fatica, semplicemente premendo un pulsante. Lo stesso discorso vale, secondo me, anche per l’atteggiamento nei confronti della televisione. Non ho niente contro di essa, ma vorrei segnalare che tra i motivi psicologici per cui la gente ne è attratta e rimane incantata davanti a questo straordinario apparecchio, c’è anche il
fatto che basta premere un pulsante per vedere apparire davanti a sé il mondo intero standosene comodamente seduti in poltrona. Appare il presidente, si vede che cosa accade nel mondo. Se da qualche parte scoppia un incendio, o avviene una tragedia, si vede anche quello. Il pubblico televisivo non deve far altro che starsene seduto e premere un pulsante. Se osserviamo la pubblicità di qualsiasi prodotto, ecco ripresentarsi la lusinga dell’assoluta pigrizia: una condizione in cui, senza compiere alcuno sforzo, si dispone di un potere immenso. Di recente ho avuto modo di osservare un mio conoscente che faceva premere al figlioletto di tre anni il pulsante di accensione della sua auto. Ero talmente scioccato da non riuscire ad aprire bocca. Provate a pensare che cosa significhi per un bambino di tre anni. Benché non sappia assolutamente nulla di automobili, e riesca a malapena a spostare una macchinina di legno del peso di cinque-dieci chili, questo bambino fa la precoce esperienza che con un minimo dispendio di energia può mettere in moto un’automobile da centoventi cavalli. Questo esempio inquadra perfettamente il nostro modo di pensare e sentire. Per quanto possa apparire paradossale, penso che la nostra capacità di costruire una bomba in grado di distruggere l’intero universo, e che viene sganciata da un pilota premendo un pulsante, faccia in un certo senso parte di quella fantasia secondo la quale anche la forza più distruttiva può essere scatenata muovendo semplicemente un dito.
– Produrre e consumare.
Un aspetto della religione del nostro tempo è l’adorazione dell’idolo produzione, cioè l’adorazione della “produzione fine a sé stessa”. Cent’anni fa si produceva non secondo necessità ma per ricavarne un guadagno, quindi la motivazione determinante era il profitto. Oggi non produciamo più, in prima istanza, per amore del profitto; produciamo (e distruggiamo) per amore della produzione, perché la produzione in quanto tale è stata divinizzata. L’uomo moderno è affascinato dall’atto del produrre quasi quanto l’uomo delle altre culture era affascinato dai simboli religiosi.
Noi viviamo all’interno di questa cultura e non ci rendiamo conto che si tratta di un atteggiamento religioso. [Il fascino della produzione] ci appare del tutto naturale, in quanto non è formulato in termini religiosi. Per religione intendiamo solo il cristianesimo o l’ebraismo, la croce o i riti liturgici. Poiché non ci accorgiamo che
la produzione per amore della produzione è una vera religione, non la definiamo tale. E tuttavia siamo profondamente affascinati dal fatto di essere al servizio di questo meccanismo produttivo. Per l’uomo moderno, produrre è una componente essenziale del quadro di riferimento della sua esistenza e del proprio oggetto di devozione:
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far sì che gli oggetti diventino sempre più grandi e migliori, e che
ve ne siano sempre di più.
Alla produzione fine a sé stessa corrisponde il problema del consumo. Pare che consumiamo perché la cosa ci fa piacere. Mangiamo un cibo perché è gustoso, compriamo una casa perché ci sembra bella e vorremmo andarci ad abitare. Nel consumo vi è un aspetto del tutto realistico, legato ai nostri bisogni e ai nostri piaceri. Eppure sono convinto che, come la produzione, anche il consumo sia divenuto fine a sé stesso. Siamo così affascinati dalla possibilità di comprare oggetti, che non stiamo tanto a domandarci se essi siano effettivamente utili.
Il consumo fine a sé stesso è uno dei fattori psicologici sui quali si fonda la nostra economia. Esso è incentivato e stimolato dalla pubblicità, che fa affari d’oro applicando tale consapevolezza alla soluzione del problema pratico di come vendere un certo prodotto al consumatore.
Credo che la gente provi poco piacere nel comprare le cose che compra. L’unica cosa che conta è la rapidità con cui si ottiene qualcosa di nuovo. Per l’uomo contemporaneo, l’immagine paradisiaca di una città moderna non corrisponde più al modo in cui, per esempio, un musulmano immaginava il paradiso. Oggi il paradiso è attrezzato con macchine e utensili, e la gente possiede tutto il denaro necessario per comprare frigoriferi, televisori e le apparecchiature più nuove e sofisticate.
Il potere d’acquisto è praticamente illimitato, e ogni anno esce un nuovo modello. E’ probabile che in paradiso si possa addirittura comprare un modello nuovo ogni giorno, poiché questa è l’immagine che si ha del paradiso. Questa fantasia di condizione paradisiaca si traduce nella produzione di oggetti a un ritmo sempre più rapido, per arrivare ad avere tutto quello che nella vita reale non sarà mai possibile ottenere. Di fatto tutto può essere comprato. Non accade più di essere perseguitati giorno dopo giorno dal miraggio di qualcosa che potremo comprare solo tra un anno o due: c’è già tutto.
Non sto scherzando, penso che le cose stiano proprio così; solo che questo modo di consumare non rientra nella nostra idea religiosa di paradiso, che abbiamo riservato alle forme esplicitamente religiose. Questa disponibilità all’acquisto, questo anelito religioso verso l’infinità di oggetti di cui possiamo entrare in possesso, nonché il piacere quasi orgiastico che proviamo di fronte all’abbondanza degli oggetti che possiamo comprare, non si manifesta solo nei confronti dei nuovi modelli, ma anche nel nostro atteggiamento complessivo. Siamo diventati consumatori di tutto: scienza, arte, conferenze, amore. E l’atteggiamento è sempre lo stesso: io pago, e in cambio ottengo qualcosa; anzi, ho diritto a ottenerlo senza sforzarmi troppo, poiché non si tratta che di uno scambio tra oggetti che compro e oggetti che mi vengono dati. Lo stesso atteggiamento consumistico si rileva per certi versi in numerosi fenomeni analoghi: quando gli uomini
affrontano l’arte, la scienza, l’amore, lo fanno con lo stesso atteggiamento con cui comprano l’ultimo modello. E allo stesso modo si sposano. Anche il matrimonio ha molto a che vedere con l’ultimo modello, quello che appare di maggior successo e che sembra particolarmente desiderabile possedere, in quanto attesta il valore di chi lo possiede.
Al posto del concetto tradizionale di lavoro inteso come esperienza gratificante, o come dovere, sono subentrate due caratteristiche della religione attuale: l’adorazione della produzione e l’adorazione del consumo. Nessuna di esse ha il benché minimo rapporto con una realtà capace di dare un senso all’esistenza umana.
Proviamo a immaginare un futuro in cui la gente lavori solo quattro ore al giorno, guadagnando il doppio o il triplo di oggi. Norman Thomas e i fautori del New Deal [la politica economica e sociale del presidente F. D. Roosevelt], e magari anche buona parte dei repubblicani, la considererebbero una meta estremamente auspicabile. Che, tra l’altro, corrisponderebbe ai sogni più arditi del socialismo
di mezzo secolo fa. Una tale condizione andrebbe addirittura molto al di là, e sarebbe molto più radicale, di quello che Karl Marx descriveva come lo scopo immediato del socialismo e della rivoluzione. Dunque, proviamo a immaginare che sia possibile. Che cosa accadrebbe? Sarebbe una vera catastrofe! Sarebbe un fiorire di crolli nervosi, poiché gli uomini non saprebbero assolutamente che fare del loro tempo e della loro vita. Inizierebbero a comprare come pazzi. Comprerebbero un’auto nuova ogni sei mesi. E anche così proverebbero un profondo disappunto perché quel paradiso in terra, l’esaudimento di tutti i loro desideri, non ha alcun senso, è assurdo.
Ciò che spinge avanti il mondo è che il paradiso non viene mai raggiunto, che rimane sempre in lontananza, all’orizzonte. Possiamo consolarci dicendoci che un giorno arriverà la soluzione, la liberazione. E dato che la maggioranza della popolazione, se guardiamo la media dei redditi, non vedrà mai quel giorno, la speranza resta sempre viva. Una speranza che non viene mai del tutto meno, poiché siamo convinti che quello che abbiamo non ci basta e che, se avessimo di più, saremmo felici. Se si realizzasse veramente la situazione in cui la gente potesse lavorare solo due o tre ore al giorno, con un salario o uno stipendio moltiplicato, si tratterebbe in realtà di una vera e propria catastrofe.
Per secoli, scrittori e utopisti hanno descritto con parole toccanti
il sommo ideale: una vita in cui pochissimo tempo viene impiegato per ottenere quello che serve per vivere, dove esiste ogni genere di beni di consumo e non manca nulla. Proviamo a immaginare realisticamente che cosa avverrebbe se oggi fosse possibile vivere così! Faremmo di tutto per evitare tale condizione, perché ci condurrebbe ineluttabilmente a un crollo psichico. Non siamo assolutamente
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preparati a impiegare in modo sensato la nostra vita e il nostro tempo, che sono invece diventati due aspetti di quella religione del produrre e consumare nella quale produzione e consumo non hanno più alcun rapporto con i reali e concreti bisogni dell’uomo.
– Felicità e sicurezza.
Parlerò ora di alcuni altri concetti di uso comune che necessitano di chiarimenti. Il concetto di “felicità”, che ha un’antica tradizione, continua a svolgere un ruolo determinante nella nostra cultura. A esso ricorriamo per affermare che lo scopo della nostra vita è quello di essere felici. Due o trecento anni fa, nei paesi protestanti, non era così: scopo della vita era essere graditi a Dio e vivere secondo coscienza. Oggi diciamo che vorremmo essere felici, ma che cosa intendiamo con queste parole? Penso che la maggior parte delle persone, che non sta tanto a lambiccarsi il cervello, risponderà con sincerità: divertirsi. Senza entrare nel merito di ciò che questo significhi, una tale descrizione della felicità ha ben poco a che vedere con quella data da altre culture, che l’uomo moderno non sa neppure immaginare. Ma che cos’è la felicità, una condizione dello spirito? Oppure si è felici solo in rarissimi momenti della vita, quasi che la felicità fosse il frutto prezioso di un albero che fiorisce solo in via del tutto eccezionale, ma che pure deve esistere se produce almeno una volta il suo frutto?
Vorrei dire qualche parola sulla natura della felicità dal punto di vista psicologico. Molti definiscono la felicità come il contrario del dolore e della sofferenza: dolore e sofferenza da un lato, e felicità dall’altro. In quest’ottica la felicità viene immaginata e intesa come qualcosa da cui pena, turbamento e dolore sono esclusi. Ma questa idea di felicità è fondamentalmente errata. Chi non riesce a provare dolore non è vivo, e chi non è vivo non può nemmeno essere felice. Il dolore e la pena sono dunque parte integrante della vita, né più né meno della felicità; pertanto la felicità non può essere l’opposto del dolore. Anzi, sul piano clinico il dolore è in realtà l’esatto contrario della depressione. La depressione non equivale al dolore; il vero depresso ringrazierebbe il cielo se riuscisse a provare dolore. La depressione è l’incapacità di provare emozioni. La depressione è la sensazione di essere morti mentre il corpo è ancora in vita. Non equivale affatto alla pena e al dolore, con i quali anzi non ha niente in comune. Il depresso è incapace di provare gioia, così come è incapace di provare dolore. La depressione è l’assenza di ogni tipo di emozione, è un senso di morte che per il depresso è assolutamente insostenibile. E’ proprio l’incapacità a provare emozioni che rende la depressione così pesante da sopportare.
La felicità può essere definita come l’espressione di una intensa
vitalità. Secondo Spinoza, l’esperienza di una vita vissuta intensamente corrisponde alla gioia, alla felicità. All’opposto c’è la depressione, che equivale all’assenza di emozioni. Chi vive intensamente prova sia gioia che dolore, che vanno di pari passo in quanto conseguenze di una vita vissuta intensamente. All’opposto di gioia e dolore c’è la depressione, l’assenza di emozioni.
Se dicessimo all’uomo della strada che una delle più dolorose malattie psichiche, se non la più dolorosa, è l’assenza di emozioni, non comprenderebbe neppure di che cosa stiamo parlando. Anzi, direbbe: «Ma è magnifico! Sarebbe fantastico non provare nulla. D’altronde, che cosa dovrei mai provare? Io vorrei solo stare tranquillo e non avere nulla di cui preoccuparmi». Costui non conosce l’insopportabile esperienza di una condizione psichica del tutto diversa, nella quale non si riesce più a provare niente.
Se applichiamo questi concetti alla nostra cultura, troveremo che le persone normali sono in gran parte depresse poiché l’intensità delle loro emozioni si è alquanto ridotta. Chi oggi è vittima della depressione, probabilmente non è tanto più alienato o apatico, e privo di contatto con la realtà, di quanto lo siamo noi; solo che noi disponiamo di difese migliori di chi si ammala di depressione. Vi sono molte forme di difesa contro la sensazione che ci viene dalla perdita
di vitalità. L’industria dell'”entertainment”, il lavoro, le feste, le conversazioni superficiali, la nostra routine si configurano come forme di difesa contro quel terribile momento in cui potremmo davvero accorgerci di non sentire niente. In questo modo ci proteggiamo dal rischio di essere sopraffatti dalla «melanconia». Alcune persone, probabilmente a causa di una maggiore sensibilità, non dispongono di questi meccanismi difensivi. E’ probabile che costoro siano particolarmente predisposti a una condizione psichica in cui non provano alcuna emozione, e perciò le loro difese non sono altrettanto efficaci.
Nel complesso, cioè a livello della popolazione e senza entrare nel merito dei singoli individui, possiamo riscontrare una condizione psichica caratterizzata da una riduzione dell’intensità emozionale che sfiora la depressione: peraltro mitigata, e di fatto compensata, da molteplici forme di difesa che noi chiamiamo divertimento e lavoro. Come il concetto di felicità, anche quello di “sicurezza” è oggi sulla bocca di tutti, ed è anzi diventato lo slogan di molti dibattiti politici. Numerosi psicoanalisti, psichiatri, eccetera pensano che lo scopo della vita sia la sicurezza, il sentirsi al sicuro. I genitori
si preoccupano tantissimo che i loro figli si sentano davvero al sicuro. Se un bambino vede che un altro bambino possiede qualcosa che lui non ha, bisogna comprarglielo subito: «Perché così si sente rassicurato». La sicurezza si misura in genere in base agli standard del «mercato della personalità» di volta in volta vigenti. Pare che
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alcuni psichiatri abbiano decretato che ci sentiamo rassicurati se abbiamo successo, disponiamo di una vasta cultura e corrispondiamo agli standard sui quali si misura il successo. Siamo addirittura ossessionati dalla sicurezza come scopo della vita!
Chi critica questa aspirazione alla sicurezza teme soprattutto che l’interesse dell’uomo per la sicurezza minacci la sua intraprendenza. Ma poi questi critici parlano di determinate sicurezze economiche irrinunciabili, come la tutela della vecchiaia, senza neppure chiedersi se una persona che mette da parte un milione di dollari per trascorrere agiatamente la propria vecchiaia, o che stipula una polizza di assicurazione sulla vita, non sia vittima di tale esecrabile aspirazione. Comunque, essi sottolineano che nella nostra vita tutto ruota ormai intorno a un senso di sicurezza psicologica che fa perdere ogni gusto per l’avventura. Per esempio, un uomo come Mussolini, che era un gran vigliacco ma aveva il senso della teatralità, coniò lo slogan del vivere pericolosamente. Egli non vi si attenne, benché, nonostante tutte le misure di sicurezza adottate – in aperta contraddizione, quindi, con il suo stesso slogan -, abbia fatto una brutta fine. In ogni caso aveva capito che la gente è sensibile all’idea della vita come avventura.
A mio parere, lo scopo dello sviluppo psichico è la capacità di sopportare l’insicurezza. Chi dispone anche solo di un briciolo di capacità intuitiva per quello che sta avvenendo sul nostro pianeta, sa che viviamo per molti versi all’insegna dell’insicurezza, e non solo a causa della bomba atomica, ma anche di tutto il nostro stile di vita. Siamo insicuri in senso fisico, psichico e spirituale. Non sappiamo praticamente nulla di quello che dovremmo sapere. Cerchiamo di vivere in modo ragionevole, eppure non abbiamo la minima idea di come si faccia. Mettiamo continuamente in pericolo non tanto la nostra esistenza fisica quanto quella spirituale. Sappiamo pochissimo della vita, e non appena ce la troviamo di fronte ci sentiamo terribilmente insicuri. Chiunque abbia la consapevolezza, anche per un solo istante, di essere come individuo completamente solo, non può non sentirsi insicuro. In effetti, egli non potrebbe sopportare tale consapevolezza nemmeno per un istante se non fosse in relazione con il mondo, se non avesse il coraggio di mettersi in relazione, o se non avesse, per usare un’espressione di Paul Tillich, il «coraggio di esistere» (Tillich, 1969).
La nostra cultura tende a creare individui che non hanno più coraggio e non osano più vivere in modo eccitante e intenso. Veniamo educati ad aspirare alla sicurezza come unico scopo della vita. Ma possiamo ottenerla solo al prezzo di un completo conformismo, e di una completa apatia. Da questo punto di vista, anche la sicurezza è l’opposto della gioia, poiché la gioia nasce da una vita vissuta intensamente. Chi vuole vivere intensamente deve essere in grado di sopportare una buona
dose di insicurezza, perché in tal caso la vita diventa in ogni momento qualcosa di terribilmente rischioso. Possiamo solo sperare di non fallire, e di non andare completamente fuori strada.
Certo gli esseri umani non hanno perso del tutto il loro spirito d’avventura, poiché la sensazione di vivere in una condizione di assoluta sicurezza, senza alcuna possibilità di avventura, provoca una noia così terribile da risultare insopportabile. E’ questa la funzione di vari generi di film e di libri, in particolare i romanzi gialli e d’avventura. Ma anche chi legge di persone che divorziano ogni anno prova qualcosa di simile allo spirito d’avventura, benché in ciò non vi sia proprio nulla di coraggioso.
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L’ALIENAZIONE COME MALATTIA DELL’UOMO MODERNO. Terza lezione.
– Il processo di astrazione e l’alienazione dalle cose.
Eccoci alla questione, oggi cruciale, della salute psichica. A mio avviso, il problema fondamentale è l’alienazione da noi stessi, l’alienazione dai nostri sentimenti, dagli altri esseri umani e dalla natura, o, detto altrimenti, l’alienazione dal mondo dentro e fuori di noi.
Vorrei innanzitutto spiegare che cosa intendo per alienazione. Alla lettera, alienazione significa essere diventati estranei a sé stessi,
o che il mondo esterno ci è diventato estraneo. Ma, al di là delle parole, per chiarire meglio il mio punto di vista, devo introdurre uno dei temi caratteristici della società moderna e della nostra economia contemporanea: il ruolo del mercato.
Giustamente vi chiederete che cosa c’entri il mercato con la psicologia. Perciò vorrei subito dichiarare la mia convinzione che in ogni società gli uomini vengono plasmati in larga misura dalle condizioni economiche e sociali in cui vivono. E’ stata questa una delle grandi scoperte di Karl Marx, che però nella sua teoria l’ha rivestita di eccessivo dogmatismo. Inoltre, a mio parere, Marx ha sottovalutato molti fattori umani che non rientrano nell’ambito dell’economia. Ma, a parte tali valutazioni errate, sono tuttora convinto che la sua ricerca sia uno degli approcci fondamentali e di più vasta portata per comprendere la società. (Per questo è sciocco concedere agli stalinisti la possibilità di accampare la pretesa di essere i depositari della teoria marxiana. Tale pretesa ha lo stesso valore di quella della Santa Inquisizione di parlare in nome di Cristo. Chi concede agli stalinisti la possibilità di accampare la pretesa di essere i depositari della teoria marxiana si comporta da sciocco non solo perché tale pretesa è del tutto illegittima, ma anche perché in tal modo contribuisce a far sì che una delle componenti più importanti della sociologia venga ignorata. Se si è convinti, come lo sono io, che lo stalinismo sia uno dei sistemi più disumani e crudeli mai esistiti sulla faccia della terra, non si dovrebbe poi sostenere
la pretesa degli stalinisti di essere i veri eredi di Marx; dovremmo invece adoperarci affinché la teoria marxiana venga ulteriormente sviluppata. Lo sottolineo con forza, e vorrei che il mio punto di vista fosse assolutamente chiaro; infatti, vivendo in Messico da due anni e mezzo, mi sono fatto l’idea che negli Stati Uniti il termine «marxismo» venga maneggiato come una patata bollente. Non credo che ciò possa tornare utile alla democrazia americana e al pensiero scientifico.)
La nostra è una società incentrata sul mercato. Nella maggior parte
dei sistemi relativamente primitivi esiste un mercato simile a quello che molte generazioni fa caratterizzava i piccoli paesi, o che ancora oggi esiste in Messico e nei paesi meno sviluppati, dove la gente va a vendere la propria merce a chi abita nei dintorni. Il venditore conosce abbastanza bene l’acquirente, ed è contento di vedere gente e di fare quattro chiacchiere. Il mercatino rionale non è solo il luogo
in cui si fanno affari, ma anche un luogo di svago e di divertimento. In questa forma relativamente primitiva di mercato accade ancora qualcosa di molto concreto: al mercato si portano cose prodotte per uno scopo ben preciso. Si sa più o meno chi saranno i compratori. Il tutto rappresenta una concreta situazione di scambio.
La nostra società moderna è governata dal mercato in tutt’altro senso. A governare non è un mercato in cui siedono delle persone che vendono la loro merce, bensì quello che potremmo definire un «pubblico mercato delle merci» nel quale prezzi e produzione sono determinati dalla domanda. Questo mercato pubblico è il fattore che regola l’economia moderna. I prezzi non sono stabiliti da un gruppo economico che decide quanto c’è da pagare per questo o per quello. Questo può semmai accadere in situazioni eccezionali o in tempo di guerra. Prezzo e permanenza sul mercato sono determinati dall’andamento del mercato stesso, che cerca costantemente di trovare un equilibrio e che, entro certi limiti, riesce ad autoregolarsi.
Qual è il significato di tutto questo per la psicologia? Il mercato fa
sì che tutti gli oggetti si presentino come merci. Qual è la differenza tra un oggetto e una merce? Il bicchiere che ho di fronte a me è un oggetto che in questo momento mi serve per contenere dell’acqua. Mi è molto utile. Non è particolarmente bello, ma è quello che è. Come merce, invece, è una cosa che posso comprare, che ha un certo prezzo. Non lo percepisco solo come un oggetto che ha un determinato “valore d’uso”, ma anche come una merce che ha un determinato “valore di scambio”. Compare sul mercato come merce, e la sua funzione di merce consiste nel fatto di poter essere descritto come un oggetto da mezzo dollaro o da un quarto di dollaro. Dunque, posso esprimere questo oggetto sotto forma di denaro o sotto forma di astrazione.
Considerare la merce come un oggetto ci permette di fare un passo avanti. Ora possiamo anche affermare che il valore di un quadro di Rembrandt è cinque volte superiore a quello di una Cadillac. Il ragionamento non fa una grinza, in quanto il valore del quadro di Rembrandt e quello della Cadillac vengono confrontati sotto forma di astrazione: il valore è espresso sotto forma di denaro. In realtà si tratta di un’affermazione perfettamente assurda poiché un quadro di Rembrandt non ha, oggettivamente, nulla a che fare con una Cadillac. Eppure c’è un modo per confrontare le due cose e per formulare una frase in cui esse vengano poste in una qualche reciproca relazione:
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basta appunto tradurre ognuno dei due oggetti nella forma astratta di denaro. In tal modo i due oggetti sono confrontabili secondo una relazione particolare, che consente di affermare che il valore dell’uno è il quintuplo del valore dell’altro. Ognuno di noi, se analizza il proprio atteggiamento nei confronti delle cose, si accorgerà di avere un comportamento più o meno analogo e di considerarle non oggetti, ma merci. Una cosa viene percepita sotto forma del suo astratto valore in denaro, sotto forma del suo valore di scambio. Il bicchiere che in questo momento ho davanti a me non viene visto come un oggetto non molto bello ma utile, bensì come un oggetto economico, da un quarto o da mezzo dollaro.
Quando un giornale parla di una qualche nuova costruzione, scrive che è stato completato «il ponte da cinque milioni di dollari» o che è stato costruito «l’albergo da dieci milioni di dollari». Già qui si vede come l’oggetto non sia considerato per il suo valore d’uso, e neppure per la sua bellezza o per qualche altra sua caratteristica concreta, ma per un suo significato astratto: quell’oggetto ha un determinato valore di scambio, e dunque può essere confrontato con qualsiasi altro oggetto purché ci si riferisca a quell’astrazione, al
suo valore di scambio.
Nel nostro sistema è in atto un processo per definire il quale vorrei coniare un nuovo termine, sempre che non esista già: parlerei di “processo di astrattizzazione” [“process of abstractification”], riferendomi con ciò al tentativo di rendere una cosa astratta anziché lasciarla come concretamente è. In ragione del nostro meccanismo produttivo e del funzionamento della nostra economia, siamo abituati a considerare le cose in primo luogo nella loro forma astratta anziché
in quella concreta, oggettiva. Facciamo riferimento al loro valore di scambio anziché al loro valore d’uso.
Vorrei dimostrare ora con alcuni esempi fino a che punto si è spinto questo modo di rapportarsi alle cose. Recentemente un articolo del «New York Times» aveva questo titolo: “B.Sc. + Ph.D. = $ 40.000”. In un primo momento sono rimasto interdetto, ma poi, proseguendo nella lettura, ho potuto decifrarne il senso: un diplomato in scienze (“Bachelor of Science”) che ottenga anche il dottorato in filosofia (“Doctor of Philosophy”) potrà contare complessivamente su un aumento delle entrate di circa 40 mila dollari. Poiché il «New York Times» è un giornale serio, che non si permetterebbe mai di fare titoli ironici, questo mi sembra un esempio caratteristico dell’attuale modo di vedere le cose: il diploma in scienze e il dottorato in filosofia sono delle merci, che possono essere quantificate e tradotte in un’equazione che ha come risultato una somma di denaro. Il secondo esempio è tratto da «Newsweek»: il giornale riferiva che il governo Eisenhower è convinto di avere un «capitale di fiducia» talmente alto da potersi permettere, entro un paio di settimane, di sacrificarne una
quota dovendo adottare alcune misure impopolari. Quello che qui mi interessa non è la questione politica, ma il modo di pensare. La fiducia viene intesa come un capitale che, se sufficientemente cospicuo, può consentire di perderne una parte. E’ lo stesso modo di pensare di quel “B.Sc. + Ph.D. = $ 40.000”. La questione del rapporto di fiducia tra un partito o un governo e il popolo viene ridotta a una formula astratta misurabile e quantificabile, quindi non più concreta, oggettiva. A causa del processo di astrazione, un oggetto può essere messo in rapporto quantitativo con qualunque altra cosa al mondo; infatti, in questo processo vanno perdute praticamente tutte le qualità specifiche, concrete, e ogni cosa assume la stessa caratteristica quantificabile che si esprime nella forma astratta del denaro (o di un’altra forma di astrazione della quale parlerò tra breve).
Un altro esempio: qual è il luogo più distante da New York? Diciamo Bombay, in India. Non so con esattezza quanti chilometri disti Bombay da New York, ma so che dista tre giorni e mezzo e che il «valore di distanza» ammonta a circa un migliaio di dollari. In effetti è perfettamente realistico esprimere una distanza citando il tempo e il costo necessari a effettuare il viaggio. Persino le distanze più grandi risultano enormemente ridotte se misurate in base al tempo, poiché non vi sono luoghi che distino l’uno dall’altro più di tre giorni e mezzo. Allora l’unico problema rimane l’entità della distanza in termini di denaro, il suo costo. Mille dollari per la distanza massima. E se poi si vuole fare ritorno, si tratta di una distanza da duemila dollari. Con ciò vorrei accennare al fatto che esiste anche un altro modo, un altro settore in cui ragioniamo in termini astratti. Un settore in cui persino il tempo e lo spazio possono essere espressi in termini di denaro. Non è così assurdo come potrebbe sembrare, e anzi per certi versi si tratta di un atteggiamento molto utile. Ma è ancora una volta un esempio della mancanza di concretezza nella nostra esperienza e della nostra tendenza a percepire gli oggetti astraendoli dalle loro qualità concrete.
– L’alienazione nella percezione dell’uomo.
Lo stesso processo di astrattizzazione si manifesta con evidenza anche nella percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. Un necrologio del «New York Times» ha per esempio questo titolo: «Morto un fabbricante di scarpe», oppure «Morto ingegnere ferroviario». Chi è morto? E’ morto un uomo, è morta una donna. Descrivere addirittura la morte ricorrendo alla qualifica professionale del defunto equivale a parlare di un oggetto da mezzo dollaro. Viene dimenticata e ignorata la concretezza di quella persona, che pure era una persona particolare, unica, com’è unico ogni essere umano. Astraendo, vengono
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invece trascurate tutte le sue qualità concrete. Se ne parla come di un fabbricante di scarpe, quasi che quella fosse la sua natura. Parlare di una persona come di un «fabbricante di scarpe» equivale a parlare di una merce nei termini del suo valore di scambio, del suo prezzo. Caratterizzare una persona come «fabbricante di scarpe» avrebbe sicuramente più senso nell’ambito di un incontro tra fabbricanti di scarpe ad Atlantic City. In tal caso, riferirsi a Tizio nella sua qualità di fabbricante di scarpe fornirebbe almeno una spiegazione concreta del motivo per cui si trova lì: discutere di questioni inerenti alla fabbricazione delle scarpe. Ma è inconcepibile parlare della morte di una persona – la morte che, insieme alla nascita, rappresenta l’evento più significativo nella vita di ognuno – riferendosi al defunto come a un fabbricante di scarpe. Se ciò accade,
è la prova di un’astrazione pressoché totale dalla realtà concreta dell’uomo.
Vi è poi un altro ampio settore, connesso al primo, in cui la persona concreta subisce un processo di astrattizzazione. Ne ho parlato in “Dalla parte dell’uomo”, nel capitolo «L’orientamento mercantile» (Fromm, 1947, pagine 58-68), ragion per cui in questa sede mi limiterò a riassumerlo per sommi capi. Allorché, per un motivo o per l’altro, si fanno assumere, le persone non vendono solo la loro forza fisica, le loro capacità, il loro cervello. Nella nostra cultura esse vendono anche la loro personalità: per diventare rispettabili occorre mostrarsi gradevoli ed essere sorretti dal giusto ambiente familiare (e possibilmente avere dei figli). Anche la moglie deve mostrarsi affabile, e in generale deve attenersi a determinati modelli di comportamento. L’uomo deve essere simpatico, e più sarà simpatico più farà carriera. Ma in tal modo il singolo non si percepisce più come individuo concreto che mangia, beve, dorme, ama e odia; non è più un individuo unico e concreto, ma una merce, uno – lo dico intenzionalmente – che deve vendersi bene sul mercato. E che dunque deve coltivare le qualità che vanno per la maggiore. Avrà successo solo se saprà di essere richiesto, altrimenti si sentirà un fallito. Nella nostra società l’individuo, se ancora possiamo chiamarlo tale, fa dipendere il proprio valore unicamente dal suo essere più o meno commerciabile, dal fatto che quello che ha da offrire sia più o meno richiesto. La percezione che ha di sé, la fiducia che ripone in sé stesso, non sono più determinate dall’apprezzamento delle sue reali e concrete qualità, della sua intelligenza, della sua onestà, della sua integrità, del suo senso dell’umorismo, di tutto quello che costituisce la sua identità; la percezione che ha del proprio valore e
il senso di sicurezza dipendono piuttosto dalla sua capacità di vendersi. Per questo è sempre insicuro e dipendente dal successo, e diventa terribilmente insicuro se quel successo non si verifica.
– L’alienazione nel linguaggio.
Lo sviluppo del processo di astrattizzazione si manifesta anche nel linguaggio. Il linguaggio ha il compito e la funzione di consentirci di trasmettere, di comunicare. Perciò il linguaggio deve per sua natura astrarre. Se, per esempio, parlo di questo orologio e lo chiamo orologio, la mia affermazione non sta concretamente a indicare questo specifico orologio, in quanto si riferisce a uno tra le molte migliaia
di orologi prodotti dalla stessa ditta. Tuttavia, essa non copre tutti gli altri orologi. Quando dico che questo è un orologio, dico che è una cosa che ha sufficienti elementi in comune con tutti gli altri orologi da far sì che riusciamo a intenderci tramite il riferimento a un’astrazione – un orologio e non a un oggetto concreto come questo specifico orologio. La funzione del linguaggio è appunto quella di astrarre dal fenomeno singolare e concreto, consentendoci così, sempre che lo spazio per tale astrazione sia sufficientemente ampio, di coprire con una parola numerosi oggetti di uno stesso tipo.
Ma l’astrazione cela anche il pericolo che gli oggetti, venendo definiti con un’unica parola, perdano la loro concretezza, talché noi non percepiamo più quello di cui stiamo parlando ma solo la parola. «Una rosa è una rosa è una rosa…»: questa frase protesta contro il processo di astrazione, trasformando la rosa in una percezione assai concreta. Provate a chiedervi che cosa avviene dentro di voi quando pronunciate la parola «rosa». La vedete, la rosa? Ne sentite il profumo? La percepite come qualcosa di concreto? Oppure la parola «rosa» vi fa venire in mente «cinque dollari la dozzina»? O vi suggerisce la vaga idea di un fiore elegante da inviare in dono nella giusta occasione? Quanto concretamente percepiamo un oggetto che definiamo con una parola? O forse ci serviamo del linguaggio perlopiù in termini di astrazione?
Non fraintendetemi: se il proprietario di un negozio di fiori, tirando le somme alla fine della giornata e annotando la vendita di cinquanta rose, venisse travolto a tal punto dall’emozione al pensiero delle rose da dimenticare di contare con cura il denaro per rimanere seduto a fantasticare e abbandonarsi alle meravigliose sensazioni suscitate dal profumo delle rose, e alla fine uscisse felice dal negozio senza aver chiuso i suoi conti, quest’uomo non sarebbe sicuramente più adatto a gestire il proprio negozio. Il processo di astrazione è un aspetto fondamentale della nostra vita moderna, basata su un sistema razionale di contabilità, conteggi e quantificazioni. La nostra società non potrebbe esistere se negli affari non vi fossero metodi raffinati di quantificazione. Tutto può essere quantificato: spese di laboratorio, spese per il tempo libero, persino le spese che destiniamo alle “human relations”. Lungi da me l’idea di criticare la possibilità in sé di quantificare tutto, che anzi costituisce un
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elemento essenziale del nostro sistema produttivo. Senza quantificazione non esisterebbero grandi imprese né impianti di produzione, e l’intero sistema economico moderno collasserebbe se non disponessimo dei mezzi e delle facoltà di quantificare i processi lavorativi.
E tuttavia dobbiamo chiederci se questo modo di produrre, se questo comportamento economico non abbia esercitato un’enorme influenza sulla struttura della nostra personalità, e se esso non abbia da tempo travalicato l’ambito del commercio e dell’impresa permeando tutta la nostra vita; tanto che il fioraio, a forza di pensare sera dopo sera, quando chiude i conti, solo a un oggetto da cinquanta centesimi anziché concretamente al fiore, finirà per non pensare mai più al «fiore» in quanto oggetto concreto. [Non avendo più alcun rapporto con il fiore come tale,] in futuro potrebbe vendere altrettanto bene formaggi, energia atomica o scarpe. Tutti gli oggetti in quanto oggetti concreti hanno assunto per lui pochissima importanza, e vengono ormai percepiti soltanto come cose dal valore astratto.
Il processo di astrattizzazione nel linguaggio si manifesta in modo ancora più incisivo quando le parole non si riferiscono a oggetti reali ma a percezioni interne, come per esempio l’amore. Che cosa intendiamo quando parliamo di amore? Una cosa stupenda certo, ma ormai non esiste praticamente nulla sulla faccia della terra che non venga chiamato amore: crudeltà, dipendenza, dominazione, amore vero, paura, comportamenti convenzionali, quasi tutto viene chiamato amore. L’affermazione «lo amo» può significare qualunque cosa, da una blanda simpatia o da un modo cortese per evitare di dire che lo si odia, fino
a quei sentimenti di cui hanno parlato i grandi poeti. L’intera gamma viene coperta da una sola parola.
Recentemente ho sentito uno psichiatra dire di un suo paziente che aveva un lavoro importante. Gli ho chiesto che cosa intendesse per «importante», e lui mi ha risposto: «Be’, occupa un posto importante nella gerarchia imprenditoriale». Va bene, ma che cosa c’è di importante in questo? Se mi vuol dire che guadagna molto, o che ricopre una posizione di grande prestigio, posso ancora capirlo. Ma perché definirlo «importante»? Lo psichiatra ha continuato a fornirmi altre spiegazioni, e io ho cercato di scoprire perché, e in che senso, quel lavoro potesse essere importante. A quanto ho potuto capire, in quella professione non c’era niente di importante, a parte il fatto
che era ben retribuita e di notevole prestigio. Se dicessi che il professor Einstein si occupava di cose importanti, sminuirei il suo lavoro, ma almeno mi riferirei a qualcosa di concreto.
La frase idiomatica «morire dal ridere» denota un’insuperabile difficoltà di espressione: non riusciamo a provare nulla, siamo incapaci di esprimere alcunché. Stranamente, la morte svolge un ruolo importante in molti modi di dire. Per esempio, quando si è molto
eccitati si dice «muoio dalla voglia di fare questo o quello». Ho l’impressione che l’uso del termine «morte», o «morire», non sia casuale, ma stia a indicare che tali espressioni scaturiscono da un profondo vuoto e da una mancanza di sentimenti, dunque da quello stato depressivo al quale accennavo nella seconda lezione parlando del concetto di «felicità».
Oggi non ci serviamo più del linguaggio solo per comunicare, ma attribuiamo perlopiù alle parole lo stesso significato che ha il denaro: astrazioni dalle vere esperienze che si scambiano nella comunicazione interpersonale, percepite senza alcun riferimento alle esperienze concrete. Se chiediamo a una persona profondamente infelice come sta, e quella risponde: «Bene, grazie!», si dirà che quella risposta nasconde un certo orgoglio. Ma, a mio avviso, il vero problema sta nel fatto che nessuno si aspetta un reale interessamento da parte dell’altro, e che le parole non contano. Usiamo le parole per riempire i buchi, il vuoto in noi stessi e nella comunicazione tra noi
e gli altri. Se nella comunicazione interpersonale fate attenzione al tono di voce, vi renderete conto di quanto sia astratta. E’ quasi come andare al mercato a fare la spesa: ecco qui due dollari, datemi quello che ho chiesto.
Oggi gli esseri umani scambiano parole senza comunicarsi alcunché della realtà di cui stanno parlando. Scambiano parole con un certo imbarazzo, per mascherare il vuoto che c’è nella loro comunicazione, e conversare non li stimola. Dopo non hanno la sensazione di aver condiviso qualcosa, ma provano piuttosto lo stesso senso di vuoto che si ha uscendo da un cinema dopo due ore di un film deludente: ci si sente seccati e umiliati per aver perso tanto tempo in modo così sciocco.
– L’alienazione del sentimento nel sentimentalismo.
Con ciò che ho detto finora ho voluto illustrare uno degli aspetti essenziali, e a mio avviso più pericolosi, della società contemporanea: “la perdita di ogni contatto con la realtà”, tranne quella – prodotta dall’uomo – degli affari e dell’organizzazione di oggetti che possiamo manipolare. Ormai siamo in contatto solo con artefatti e routine sociale. Entriamo in rapporto unicamente con le fonti di produzione di oggetti sempre più numerosi, ma non siamo più collegati con le realtà fondamentali dell’esistenza umana. Non abbiamo più alcun rapporto con i nostri sentimenti, con quello che proviamo veramente: la nostra felicità o infelicità, la paura, il dubbio, e tutto ciò che si verifica nell’uomo. Abbiamo perso ogni contatto con i nostri simili e con la natura, e siamo in rapporto esclusivamente con quel frammento di mondo che noi stessi abbiamo creato. In realtà, la sola idea di entrare in contatto con qualcosa di più profondo ci
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riempie di angoscia.
La prova migliore di quanto affermato è il nostro rapporto con la morte: dobbiamo occultare la morte, non ne sopportiamo neppure una consapevolezza superficiale. Ma non occultiamo soltanto la morte: la stessa tendenza si manifesta nei confronti della nascita. Ho l’impressione che oggi molte giovani donne si facciano l’idea che il parto, grazie ai mezzi attualmente a disposizione, si svolga pressappoco così: non appena le cose si fanno un tantino spiacevoli, ecco pronta l’anestesia. E quando poi ci si sveglia, il bambino è già nato, e una gentile infermiera ce lo presenta bell’e impacchettato nel cellofan. Non ci rendiamo più conto che la nascita è un procedimento piuttosto elementare. Partorire non è facile, e il bambino non viene prodotto industrialmente, non esce bell’e pronto da una macchina. D’altronde, noi occultiamo anche tutte le altre esperienze dirette della realtà. Sono convinto che gli ultimi film di Chaplin abbiano riscosso così poco successo anche perché la gente aveva paura di essere toccata troppo nell’intimo. “Il dittatore” [1938-1940] termina con uno dei discorsi più commoventi che io abbia mai udito. Ma la maggior parte degli spettatori, pur ammirandone le immagini, commentava: «No, non va bene, questa non è arte». Non credo che a interessarli fosse veramente la questione estetica. Si sentivano toccati troppo nell’intimo. “Monsieur Verdoux” [1944-1946] toccava troppo da vicino, come pure “Luci della ribalta” [1952]. E quando per il pubblico è troppo, la critica comincia a razionalizzare. Ho letto
di recente che l’associazione americana degli ex combattenti ha minacciato di boicottare il film nell’Ovest [degli Stati Uniti], e che
i gestori delle sale hanno già iniziato a cancellare le prenotazioni della pellicola. Credo che l’associazione americana degli ex combattenti possa comportarsi in questo modo solo perché nell’opinione pubblica è diffusa una grande paura, se non una vera e propria fobia, per tutto quello che ci pone a confronto con noi stessi, con i nostri sentimenti, con la realtà dell’esistenza umana. Se quella che è forse una delle più alte espressioni della cultura americana attuale può essere boicottata e bloccata da un gruppo di pressione, è perché per la stragrande maggioranza della gente non riveste abbastanza importanza, non ha sufficienti attrattive.
Invece di essere in relazione e in contatto con il nostro amore, il nostro odio, la nostra paura, i nostri dubbi, e con tutte le emozioni fondamentali dell’uomo, ce ne teniamo a debita distanza. Siamo in rapporto con un’astrazione, vale a dire siamo privi di relazionalità. Viviamo in un vuoto e, per trarci d’impaccio, riempiamo questo vuoto, questo buco, con parole, astratti segni di valore, routine.
Ma c’è un’altra via d’uscita: il sentimentalismo. Vi sono probabilmente vari modi di considerare il fenomeno del “sentimentalismo”. Ne sceglierò uno che è in qualche modo correlato
con l’argomento che ci interessa. Per me “il sentimentalismo è sentimento subordinato a un assoluto distacco”. Ogni essere umano, a meno che non soffra di gravi disturbi psichici, prova delle emozioni. Ma se è distaccato, chiuso in sé stesso e privo di relazionalità come ho appena descritto, viene a crearsi una situazione particolare. Egli prova emozioni, ma senza riferirsi veramente e concretamente a qualcosa di reale. E’ a questo punto che diventa sentimentale: i sentimenti traboccano, ed emergono da qualche parte. Ecco allora il ricorso a parole stereotipate quali «onore», «patriottismo», oppure, nella sinistra, «rivoluzione» o termini affini, che sono soltanto concetti astratti e privi di un reale significato concreto, ma che stimolano la gente e la fanno scoppiare a piangere, a singhiozzare, eccetera. Eppure, in questo processo il sentimento non si riferisce a qualcosa che ci riguarda da vicino, ma a una cosa vuota.
E’ come quando, al cinema, la protagonista si lascia sfuggire l’occasione di vincere centomila dollari, e il pubblico scoppia a piangere. Ma queste stesse persone, nella vita reale, possono assistere a un’immane tragedia a due passi da loro senza commuoversi e senza provare nulla, perché di fatto non hanno alcun rapporto con il mondo che le circonda, e che non le riguarda. Vivono nel vuoto dell’astrazione, dell’alienazione dalla realtà dei loro sentimenti. Ma dato che provano comunque qualcosa, non possono far altro, per risvegliare quel sentimento, che ricorrere a frasi fatte, o a certe situazioni particolari. E tuttavia queste persone non piangono perché provano una reale infelicità, ma proprio perché ne sono completamente distaccate. Vivono in un vuoto, eppure il sentimento che è in loro cerca uno sfogo; così piangono non appena ne hanno l’occasione, senza avere alcun rapporto con qualcosa di reale. E’ questa, secondo me, l’essenza di quel sentimentalismo così frequente nella cultura moderna.
Le persone sentimentali danno l’impressione di essere piuttosto distaccate, distanti, e senza un vero rapporto con qualcosa di specifico, e poi ecco scoppiare l’emotività. Accade al cinema, alle partite di calcio o in altre occasioni analoghe, dove improvvisamente sui loro volti si dipinge un’intensa emozione, una grande eccitazione, o una forte reazione che sembra gioia o dolore; eppure, a ben vedere, l’espressione del loro viso è vuota. C’è una grande differenza tra una gioia manifestata in uno stato di relazionalità, e la gioia sentimentale provocata da una particolare situazione che sembra in qualche modo stimolare un sentimento di gioia; in questo caso, infatti, la persona è totalmente distaccata da tutti e da tutto, e non prova nulla.
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– La relazionalità con il mondo come segno di salute psichica.
Ogni astrazione e alienazione dalla concretezza dell’esperienza personale influisce profondamente sulla salute psichica. Qual è infatti la fonte di energia che ci consente di vivere? Possiamo dire che esiste una fonte di energia di natura puramente fisica, che affonda le radici nella chimica del nostro corpo. Sappiamo che essa comincia lentamente a declinare dopo il venticinquesimo anno di età. Ma vi è anche un’altra energia che scaturisce dalla nostra relazionalità con il mondo, dal nostro coinvolgimento. Talvolta riusciamo a percepirla, per esempio quando siamo insieme a qualcuno che amiamo o quando leggiamo qualcosa di molto interessante ed eccitante. In tal caso non proviamo alcun senso di stanchezza: sentiamo diffondersi in noi un’energia che ci sorprende e proviamo un profondo senso di gioia. Vi sono degli ottantenni che hanno vissuto una vita di intensa relazionalità, amore, coinvolgimento e interesse,
e nei quali si può riscontrare una straordinaria e sconvolgente carica di vitalità e di energia, che nulla hanno a che fare con la chimica e con le possibilità che il corpo mette loro a disposizione.
Gioia, energia, felicità: tutto dipende dal livello della nostra relazionalità e del nostro coinvolgimento, cioè in primo luogo dall’intensità della relazione che abbiamo con la realtà dei nostri sentimenti e con gli altri, che non dobbiamo percepire come astrazioni, come merci sui banchi del mercato. In secondo luogo, in questo processo relazionale possiamo percepire noi stessi come entità autonome, come un Io in relazione con il mondo. Io divento tutt’uno con il mondo nel mio esservi relazionato, e al contempo percepisco me stesso come un Sé, come un’individualità, come qualcosa di unico, poiché in questo processo relazionale sono anche il soggetto dell’azione, del processo in cui entro in relazione. Io sono io, e sono l’altro. Divento tutt’uno con l’oggetto del mio interesse, eppure all’interno di questo processo percepisco anche me stesso come soggetto.
Essere attivi può avere lo scopo di evitare la noia, oppure può essere il frutto di un processo relazionale, del coinvolgimento con qualcosa. La differenza si vede e si sente. Prendiamo l’esempio di un individuo che passi la serata chiacchierando con gli amici: alla fine potrà sentirsi felice, pieno di energia, di buon umore e bendisposto, oppure provare un senso di stanchezza e di noia, o essere un po’ insoddisfatto e depresso e pensare: «Be’, grazie al cielo adesso posso andarmene a letto». Chi, nonostante l’ora tarda, non si sente stanco ma stimolato e felice, sa che non ha cercato compagnia per evitare la noia.
– Alienazione e noia come segno di malattia psichica.
In una cultura in cui ci alieniamo da noi stessi e dagli altri, e in
cui i nostri stessi sentimenti diventano astrazioni e cessano di essere concreti, finiamo per “annoiarci” terribilmente e per perdere ogni energia. La vita cessa di essere veramente eccitante. Secondo me, la noia è uno dei mali peggiori che possano affliggere l’uomo. Sono poche le cose che ci riescono altrettanto penose e insopportabili. Quando siamo annoiati, disponiamo di vari modi per sfuggire alla noia: andiamo a un party o giochiamo a carte, beviamo qualcosa, lavoriamo, ce ne andiamo in giro, oppure facciamo una delle innumerevoli cose che possono aiutarci ad alleviare la noia. Nei paesi in cui il problema della noia è più diffuso, anche i casi di suicidio e di schizofrenia sono più numerosi che nei paesi dove vige ancora uno stretto contatto con la realtà, foss’anche una realtà tragica. Dolore e tragedia sono più facili da sopportare della noia, in cui si manifesta soltanto la mancanza di relazionalità con il mondo e con l’amore.
Il termine noia definisce forse la forma più comune e normale di quella patologia chiamata depressione o melanconia. “La noia è la condizione melanconica nell’uomo medio, normale, mentre la melanconia è la condizione patologica della noia, riscontrabile in particolari individui”. Credo peraltro che la differenza sia solo di natura quantitativa. E’ probabile che le persone con tendenza alla melanconia possiedano minori difese contro la noia dell’esistenza rispetto alle persone «sane», che pur annoiandosi sanno come evitarla e come riuscire a non esserne consapevoli.
Uno dei sistemi migliori per evitare la noia è la routine. Chi ha la giornata scandita da un orario che inizia alle sette di mattina con la radio e finisce a mezzanotte, tanto da non avere neppure un minuto libero, di fatto non ha il tempo di annoiarsi. La routine è l’unico rimedio efficace, poiché la noia si manifesta e diventa insopportabile solo se si ha del tempo a disposizione. Chi si organizza la giornata
in modo da essere sempre occupato, non viene sopraffatto dalla noia. Se non esistesse questa possibilità di sfuggire alla noia, dovremmo costruire in brevissimo tempo cliniche psichiatriche per milioni di persone.
– L’alienazione nella politica.
In questo contesto vorrei affrontare un ultimo punto, che non riguarda solo la nostra comunicazione interpersonale e il nostro modo di astrarre dalla relazionalità con noi stessi e con le cose, ma il nostro rapporto con la “politica”. Viviamo nel solco di una tradizione che ha preso le mosse dalla negazione dello stato assolutista. A ogni singolo cittadino è stato in primo luogo accordato il diritto di
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conoscere l’uso che viene fatto delle tasse che paga, e in secondo luogo quello di partecipare in modo responsabile alle decisioni riguardanti il destino della società. Tutto ciò è degno di approvazione, ed è un fatto molto concreto. Nelle piccole comunità ancora oggi esistenti, per esempio in Svizzera, formate soltanto da qualche migliaio o centinaio di persone, con i loro problemi concreti
e verificabili, la gente può ancora riunirsi per discutere e deliberare in merito a quei problemi comuni. In questo caso avviene qualcosa di concreto: deliberare è possibile, e non presenta eccessive difficoltà.
Vorrei ricordare che già Aristotele aveva sollevato il problema delle dimensioni ideali di una città. Una città non deve avere meno di mille abitanti, ma neppure più di diecimila. Una città con diecimila abitanti è ancora qualcosa di concreto, che è possibile gestire. La libertà decisionale che caratterizza la democrazia ha senso solo se rapportata a qualcosa di concreto. Ma che ne è del sistema democratico negli stati con cinquanta o duecentocinquanta milioni di abitanti? Non fa molta differenza che la popolazione sia di cinquanta o di duecentocinquanta milioni, così come per noi fa ben poca differenza che il bilancio dello stato ammonti a cinquanta o a settanta miliardi di dollari. Si tratta sempre di cifre che hanno perso ogni significato concreto. Ma mentre siamo capaci di maneggiare diecimila o centomila dollari, e magari c’è anche chi è in grado di farsi un’idea concreta
di un milione di dollari, è certo che l’immagine di cinquanta milioni di persone non può essere altro che una formula astratta, un’espressione matematica perfettamente adeguata a fornirci una certa dimensione quantitativa, ma senza più alcuna relazione con qualcosa che noi possiamo davvero com-prendere, così come possiamo farci soltanto un’idea astratta della distanza tra le stelle.
In politica questo processo fa sì che tutti noi andiamo a votare ogni due o tre anni. In realtà, il nostro voto è influenzato da pratiche molto simili a quelle della moderna tecnica pubblicitaria – soprattutto televisiva -, che ci bersaglia di slogan per condizionarci mediante richiami emotivi e del tutto irrazionali. Nei confronti di queste pratiche noi ci comportiamo come di fronte a una partita di calcio o a un incontro di pugilato, ossia reagiamo con quel senso teatrale del quale ho già avuto modo di parlare. Troviamo eccitante vedere due candidati combattere una battaglia il cui esito appare per qualche tempo incerto, consentendoci così di parteciparvi. In un incontro di pugilato non possiamo far altro che starcene seduti ad aspettare, votando possiamo invece anche intervenire. Sebbene il nostro voto abbia un’incidenza minima, è tuttavia sufficiente a farci mettere un piede nell’arena e a influenzare in qualche modo gli eventi.
Ma il voto è davvero un’espressione responsabile della nostra
opinione? Che cosa sappiamo veramente della situazione? Di quali informazioni disponiamo? Non si tratta forse di una faccenda troppo complessa per poter decidere su di essa con un voto? Il modo di discutere, formulare e costruire le nostre opinioni e convinzioni non sarebbe del tutto diverso, se trasformassimo il voto in qualcosa di veramente concreto? E’ fuori di dubbio che il nostro attuale sistema elettorale sia migliore di qualunque altro apparso sulla faccia della terra; ma è pur sempre molto imperfetto, poiché col tempo si è degradato a entità astratta. Nella prossima lezione proverò a indicare la via per allontanarci da questo tipo di astrazione o astrattizzazione.
Malgrado le nostre professioni di fede nella partecipazione del cittadino ai processi decisionali della società, se vogliamo essere realisti e concreti dobbiamo ammettere che il singolo cittadino ha ben poche possibilità di influenzare le cose. Per usare un’iperbole, si può dire che votare equivale in un certo senso a scegliere tra [le sigarette] Chesterfield e Camel, ma per meglio chiarire la situazione preferisco caricarne i tratti che essere troppo preciso. Ciascun cittadino può votare, scrivere una lettera al Congresso o al suo senatore, eppure la stragrande maggioranza delle persone ha la sensazione che non vi sia in pratica alcuna possibilità reale e concreta, e non solo in astratto, di esercitare un’influenza sulle vicende della società, che non vi sia modo di parteciparvi. Le persone pensano che tali vicende siano molto distanti da loro, e che siano altrettanto alienate, astratte e prive di concretezza delle altre cose
di cui ho parlato.
Vorrei aggiungere un’altra osservazione teorica: in genere si dice che, prima di agire, bisogna essere capaci di pensare. Prima viene il pensiero, poi l’azione ragionevole. Non dubito che la frase sia giustificata, ma è altrettanto vero l’inverso: finché non ha la possibilità di agire, una persona è fortemente inibita a pensare. Il pensiero si sviluppa solo se esiste almeno una possibilità di tradurlo in azione. Il proprietario di un piccolo negozio di alimentari, per esempio, si dimostra molto più abile in tutti gli affari che riguardano il suo negozio – dove può agire, influenzare l’andamento delle cose, osservare e decidere, e tradurre le sue decisioni in risultati concreti – che non nelle questioni politiche, e non necessariamente perché queste siano tanto più complesse di quelle che riguardano il suo negozio. A volte le questioni politiche sono di una semplicità estrema, mentre i problemi del commercio possono essere assai complessi. Non credo che ci voglia più intelligenza per ragionare di politica estera anziché della quantità di formaggio di cui c’è bisogno in negozio. I processi decisionali sono perfettamente analoghi, solo che in un caso l’azione è possibile, mentre nell’altro
i margini di influenza e di azione sono talmente risicati che se ne
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può solo parlare. E se ne parliamo, usiamo concetti vuoti, ma non pensiamo; e così ci rassegniamo all’idea che il nostro pensiero non serva a nulla.
Riassumendo: il quadro della nostra cultura moderna è caratterizzato da una produzione e da un consumo incentrati sul mercato e sulla produzione industriale. Questa tendenza è in sé stessa un’astrazione. E’ indubbio che la produzione industriale rappresenti una pietra miliare nello sviluppo del sistema economico; ma al punto in cui siamo questo metodo produttivo, basato sull’astrazione, ha assunto proporzioni tali che non si limita a influenzare l’ambito tecnico, ma finisce per plasmare tutti coloro che hanno a che fare con il sistema produttivo, cosicché tutte le nostre percezioni interiori ed esteriori diventano astratte come sono diventate astratte le merci sul mercato. Abbiamo perduto il contatto con le esperienze reali e viviamo in un vuoto. Ci sentiamo insicuri e ci annoiamo. La nostra condizione minaccia seriamente la nostra salute psichica. Cerchiamo di sfuggire a tutto questo attraverso la routine, che ci evita il confronto con la noia e con il vuoto della nostra relazionalità, nonché con le qualità astratte delle nostre esperienze.
Quarta lezione.
– L’alienazione del pensiero e della scienza.
Nell’ultima lezione ho parlato dell’alienazione dell’uomo da sé stesso, dagli altri esseri umani e dalle cose, e del rapporto tra questo processo di alienazione e il processo da me definito di astrattizzazione, che caratterizza la nostra moderna cultura industriale e capitalistica. Si tratta di un atteggiamento che ci porta a percepire le cose, gli altri uomini e noi stessi non nella loro forma concreta, nel loro valore d’uso, ma nella loro forma astratta, costituita dal denaro o dalle parole. Ci riesce più facile entrare in relazione con queste astrazioni anziché con le cose reali e concrete.
Vorrei ora fare un passo avanti, e parlare di altri fattori che vengono influenzati da questo processo di alienazione. Qual è l’effetto del processo di alienazione sul nostro “pensiero”? Credo che si possa paragonarlo agli effetti prodotti da tale processo sui nostri sentimenti. Ho parlato del fatto che, invece di provare emozioni, diventiamo sentimentali, e ho definito il sentimentalismo come sentimento subordinato alla mancanza di relazionalità: il sentimento trabocca ma è vuoto, poiché nonostante il bisogno di provare emozioni non vi è nulla cui tali emozioni possano riferirsi. Qualcosa di simile accade alla nostra ragione e ai nostri processi di pensiero quando non
abbiamo un reale rapporto con ciò che pensiamo. In altre parole, se non siamo coinvolti nella realtà sulla quale stiamo riflettendo, se non siamo realmente interessati, tutto ciò che resta dei nostri processi mentali è l’intelligenza. Per intelligenza intendo la capacità di servirsi dei concetti, ma senza penetrare oltre la superficie dei fenomeni fino all’essenza delle cose. L’intelligenza preferisce manipolare la realtà anziché comprenderla. La capacità di comprendere, la ragione (“reason”), è l’opposto dell’intelligenza manipolatrice (“intelligence”). La ragione presuppone sempre un rapporto con l’oggetto delle nostre riflessioni. Se non c’è rapporto, possiamo soltanto manipolare la realtà. Possiamo pesarla, misurarla e calcolarla, e confrontare i diversi fattori tra di loro. Questo tipo
di intelligenza ha lo stesso carattere di astrazione dei nostri sentimenti e delle nostre sensazioni.
La ragione può a volte apparire un lusso, eppure l’esistenza individuale e la vita dell’umanità possono talora dipendere dalla capacità di utilizzare la ragione per arrivare al nocciolo del problema, anziché limitarsi a manipolare la realtà con l’ausilio di un processo di pensiero meramente intellettuale, superficiale, che non penetra mai dentro le cose e, perciò, non può neppure modificarle.
Il problema della ragione e dell’intelligenza è connesso, a mio avviso, con la nostra “idea di scienza”. L’atteggiamento scientifico rappresenta senz’altro una delle principali conquiste degli ultimi cinquecento anni. La scienza è nata come una disposizione all’obiettività, un atteggiamento umano che implica l’umiltà e la forza di osservare il mondo obiettivamente, così come esso è, senza la lente deformante dei nostri desideri personali, delle nostre paure e delle nostre fantasie. L’atteggiamento scientifico comporta, inoltre, sia il coraggio di controllare se i dati trovati confermano o confutano le teorie, sia il coraggio di modificare una teoria qualora non riceva conferma dai risultati. E’ questa l’essenza del pensiero scientifico. Di fatto ciò significa la capacità di lasciarsi sorprendere, di stupirsi. La maggior parte delle grandi scoperte scientifiche ha avuto luogo quando qualcuno ha messo in dubbio quello che fino ad allora tutti avevano considerato indiscutibile: la scoperta scientifica avviene quando a un certo punto qualcuno si stupisce, si meraviglia. Ciò che avviene dopo è secondario. L’uomo studia, esamina, prova e fa tante altre cose, ma il vero spirito della scoperta non risiede nella cosiddetta ricerca scientifica, che subentra solo in un secondo tempo. La vera origine della scoperta scientifica è l’istante in cui qualcuno riesce a stupirsi di qualcosa
di cui fino a quel momento nessuno si era mai stupito.
La concezione attuale della scienza lascia invece perplessi. Nella fisica, che oggi può essere considerata la scienza più progredita, è ancora diffuso l’antico atteggiamento scientifico che comporta grandi
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sforzi, molto lavoro e molta riflessione, e che è dominato da una grande incertezza. All’opposto, per il cittadino medio – ma anche per la maggior parte degli studiosi di scienze sociali – oggi la scienza dovrebbe assolvere il compito assolto qualche secolo fa dalla religione: fornire certezze assolute. Queste persone non sopportano l’incertezza. Per loro la scienza è diventata una nuova religione, una nuova conoscenza assoluta delle cose della vita, che dà loro quel senso di sicurezza fornito un tempo dalla religione.
Al giorno d’oggi l’uomo medio è diventato un consumatore di scienza. Si aspetta che la scienza sappia tutto: leggere il giornale ha la stessa funzione che aveva un tempo l’andare in chiesa. Allo stesso modo i preti sono diventati gli specialisti del rapporto con Dio. A molti basta sapere che essi esistono, e che di tanto in tanto li si può consultare. Penso che l’odierno atteggiamento verso la scienza sia abbastanza simile: la gente è convinta che gli scienziati siano i sommi sacerdoti della scienza, e che abbiano una completa conoscenza del mondo. Finché insegnano alle università e i giornali parlano di loro, tutto è in perfetto ordine: almeno c’è qualcuno che possiede certezze e convinzioni, e che trasmette un senso di sicurezza.
Ma quello che il profano e lo studioso di scienze sociali intendono per scienza non è altro, in ultima analisi, che intelligenza manipolatrice. Così è ritenuto scientifico tradurre un problema psicologico in cifre astratte, ovvero quantificarlo e misurarlo, persino quando i dati sui quali ci si basa non hanno alcun significato. Ecco un esempio che riguarda la psicologia. Ho letto recentemente un articolo che riportava i risultati di uno studio sull’atteggiamento delle madri verso i figli. Nella prima settimana dopo il parto, una madre era stata tenuta sotto osservazione ogni volta che le veniva portato il bambino. Tre psicologi ne studiavano il comportamento. Ecco le principali osservazioni riferite: la madre sorride oppure tocca la testa del bambino. Queste reazioni sono state interpretate come indici di un atteggiamento affettuoso. Poi c’era un complesso apparato statistico basato sulle osservazioni, che contemplava margini di errore e quant’altro, e dove confluivano tutti i dati: come erano distribuite le percentuali dei vari tipi di madri all’interno dei diversi gruppi, e via dicendo. Ma il fatto importante
è che i dati di partenza erano del tutto privi di scientificità, poiché affermare che una madre sorride non significa proprio nulla. Tutto sta nel come sorride: può sorridere con amore, con amarezza, con indifferenza. Può toccare la testa del bambino per pura noia, con un gesto di stizza o per un’infinità di altri motivi. In realtà, in questo caso il metodo psicologico applicato non è scientifico, poiché non è descritto e studiato nei dettagli ciò che accade nella situazione specifica e concreta. Ci si limita a un’osservazione superficiale del comportamento, e poi si conferisce alla ricerca una
parvenza di scientificità elaborando quei dati, tutt’altro che scientifici, con un metodo che si spaccia per scientifico solo perché opera con delle cifre.
Nessun fisico o chimico potrebbe permettersi una cosa del genere, neppure al secondo anno di università, poiché si tratta di un metodo irragionevole che si limita a fingersi scientifico. Eppure, tra gli studiosi di scienze sociali pare esistere una sorta di “gentlemen’s agreement”, in base al quale è sufficiente che i risultati siano ottenuti grazie a cifre o a metodi statistici per essere considerati scientifici.
– L’alienazione nell’amore.
In questa situazione caratterizzata dall’alienazione da sé stessi e dalla mancanza di relazionalità, che ne è dell’amore? Possiamo notare che esistono essenzialmente due concetti di amore. L’amore può essere identificato con la sessualità, e allora è sufficiente – come dimostrano le numerose pubblicazioni al riguardo – apprendere le tecniche sessuali che consentono di esaltare l’amore nel matrimonio. Oppure l’amore è visto non come una faccenda caratterizzata dalla sessualità e dall’erotismo, ma come una relazione tra due persone che stanno bene insieme; quando capita che queste due persone siano un uomo e una donna, ci si sposa e si parla di amore. Ma è tutt’al più buon cameratismo, privo di quella scintilla esplosiva e di quel particolare e ardente desiderio che in altri tempi era insito nell’idea di amore.
In una condizione caratterizzata dalla mancanza di relazionalità, l’amore viene identificato con il sesso, oppure con la routine della buona convivenza o di un gradevole cameratismo, che però, in tali circostanze, è privo di “tenerezza”. Trovare manifestazioni di tenerezza nei film hollywoodiani è impresa quasi disperata, mentre ve ne sono ancora nel cinema francese e addirittura abbondano nei film di Charlie Chaplin. La tenerezza è più del sesso, ed è più di una piacevole convivenza. La tenerezza è espressione di una relazione piena di amore con un altro essere umano, e non solo nel senso dell’amore per un altro individuo, ma anche dell’amore per l’uomo in sé.
E’ perfettamente logico e naturale che in una cultura come la nostra l’esperienza della tenerezza sia ormai praticamente scomparsa. Temo addirittura che molti, pur provandola, se ne vergognino un po’, perché la tenerezza sembra poco decorosa. Hanno paura che manifestare tenerezza li faccia apparire troppo molli, infantili o ingenui, non adeguati all’immagine di uomini (o donne) appassionati.
Alcuni anni fa si è molto discusso di quanto l’uomo sia corrotto e vizioso: è stato soprattutto Reinhold Niebuhr a sottolineare la
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depravazione dell’uomo e l’importanza di prendere coscienza della distruttività e viziosità della sua natura. Non è mia intenzione occuparmi in questa sede delle affermazioni teoriche e delle analisi di Niebuhr. A me pare che il problema, perlomeno nella cultura moderna, non stia tanto nel fatto che gli esseri umani sono viziosi e distruttivi. Se osserviamo gli Stati Uniti, nel complesso possiamo riscontrare una notevole carenza di distruttività e di viziosità. La maggior parte delle persone ha un comportamento piuttosto cortese e benintenzionato, tutt’altro che distruttivo.
Secondo me, il problema è un altro, e cioè quello della nostra indifferenza, della nostra mancanza di interesse e coinvolgimento, della nostra incapacità di scegliere tra la vita e la morte, del nostro vivere alla giornata senza sapere quale ne sia lo scopo, della nostra indifferenza nei confronti di noi stessi e del futuro. Tutto ciò costituisce un problema ben più grave, e forse ci stiamo semplicemente lusingando quando ci accusiamo di essere così diabolici, distruttivi e viziosi come crede Niebuhr. Se fossimo veramente tali, sarebbe pur sempre qualcosa, anche se per certi versi sarebbe peggio. Noi siamo soltanto indifferenti e disinteressati, e temo che ciò sia
in un certo senso molto più pericoloso della depravazione. Comunque è certo che l’enfasi posta sulla viziosità dell’uomo comporta non pochi rischi, perché sembra voler distrarre l’attenzione dal nostro vero problema, che è per l’appunto l’indifferenza.
PER UN SUPERAMENTO DELLA SOCIETA’ MALATA.
– L’idea socialista e le sue distorsioni.
Per concludere, vorrei parlare di alcuni tentativi di soluzione diversi da quelli proposti dal nostro sistema attuale. Una soluzione risultata vincente in gran parte del mondo, e nota a tutti, è il totalitarismo. Il totalitarismo, che risale a ben prima della nascita del cristianesimo, ha creato una nuova religione pagana dove regnano la venerazione degli eroi e l’adorazione del lavoro, la paura e il terrore, e tutto è commisto sino a formare uno spaventoso sistema religioso pagano. Credo che oggi siamo tutti consapevoli della gravità di questi fatti, e dunque non c’è un motivo particolare per ripetere un’altra volta quanto il sistema sovietico sia [stato] terribilmente disumano. Penso anzi che continuare a ripeterlo faccia sorgere il sospetto che non ne siamo del tutto convinti. Per questo preferisco parlare di un’importante soluzione positiva che opera non tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, Asia e India: il socialismo.
Le varie dottrine socialiste nate nell’Ottocento, o ancor prima, avevano in comune l’idea di una società in cui l’uomo è fine a sé stesso, e in cui il singolo cittadino è attivo e responsabile, e vive insieme ai suoi simili in uno spirito di cooperazione, solidarietà e amore fraterno. In una società di questo tipo egli non può essere sfruttato da nessuno, neppure da sé stesso, per uno scopo che non sia il compimento della propria vita e lo sviluppo della propria personalità. In un certo senso, il fine comune a tutte le teorie socialiste è strettamente connesso con quella che si può chiamare l’idea messianica dell’Antico Testamento. Vorrei soffermarmi un po’ su questo punto.
L’idea messianica non può essere compiutamente compresa se non nell’ottica della storia della creazione. La cosiddetta storia del peccato originale di Adamo ed Eva si fonda sull’ipotesi che, in origine, l’uomo vivesse in completa armonia con la natura. L’uomo è parte della natura ma non se ne rende conto, non ha ancora coscienza di sé né conoscenza del bene e del male. Dio gli vieta di cibarsi dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma l’uomo lo fa, e tutt’a un tratto si vede separato dalla natura e dal suo simile. Uomo e donna si accorgono reciprocamente della loro nudità, e se ne vergognano. Essi si rendono conto della loro separazione. Si sentono alienati l’uno dall’altra e comprendono la «maledizione divina». La maledizione divina condanna gli uomini alla reciproca inimicizia, i due sessi alla reciproca ostilità e l’uomo a essere il nemico della natura, degli animali e dei frutti della terra. Ed è a questo punto che ha inizio la storia dell’umanità.
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Nella concezione profetica del messianismo, il fine della storia è quello di pervenire a una nuova armonia con sé stessi e con gli altri,
e con la natura. Una nuova armonia che non è più fondata sull’uomo ancora parte della natura e inconsapevole di sé, ma sull’uomo che ha sviluppato la ragione, la consapevolezza di sé e l’amore, tanto da essere capace, un giorno, di una nuova armonia con la natura e con i propri simili: solo allora non vi sarà più guerra e regnerà l’abbondanza. Nella tradizione profetica l’era messianica rappresenta il compimento, a un livello più alto, di quello che l’era edenica rappresentava a un livello più basso. Paradossalmente, in questa concezione dell’era messianica l’uomo si pone di fronte a Dio: questi gli ha vietato di cibarsi dei frutti della conoscenza ma l’uomo l’ha fatto, e ora sa di essere in procinto di creare qualcosa di più grande ed elevato di quello che ha lasciato.
In sintesi è questa la versione profetica del messianismo, ed è in sostanza anche l’idea comune a tutti i socialisti del secolo scorso: una nuova armonia, creata sulla base della conoscenza, dell’amore e della solidarietà, che porterà l’abbondanza e porrà fine alla lotta dell’uomo contro l’uomo e dell’uomo contro la natura. Se questa era l’idea di fondo, nel socialismo c’erano poi varie tradizioni di pensiero, che differiscono quanto ai mezzi e ai modi per raggiungere tale fine. Alcune scuole hanno posto fin dall’inizio l’accento sull’importanza di evitare il pericolo del centralismo, rilevando i rischi insiti nell’organizzazione statale e in ogni grande potere istituzionale. I socialisti marxisti credevano invece nella necessità
di impadronirsi dello stato, considerato uno strumento indispensabile per la trasformazione della società attuale in una società senza classi e, in ultima analisi, in una società senza stato formata da uomini liberi.
Inoltre, i socialisti marxisti ritenevano che il mezzo più adatto per la liberazione dell’uomo fosse la socializzazione dei mezzi di produzione. L’idea era che, se i mezzi di produzione non fossero più stati nelle mani di una sola persona ma proprietà di tutti, nessuno avrebbe più potuto sfruttare e manipolare i lavoratori. Abbastanza ingenuamente, essi credevano che la socializzazione dei mezzi di produzione, pur non essendo fine a sé stessa, fosse il mezzo per ottenere la quasi automatica trasformazione dell’individuo in essere umano responsabile e cooperativo.
Sul piano intellettuale, i socialisti marxisti hanno sconfitto tutti
gli altri gruppi. Si sono imposti in Europa, in Russia, in Cina, ammesso che si possa ancora parlare di socialismo marxiano (ritornerò presto sull’argomento). Non si sono invece imposti negli Stati Uniti, dove però non hanno attecchito neppure gli altri gruppi.
La critica marxista del capitalismo si muoveva essenzialmente su un piano economico. Da un lato veniva innanzitutto criticato lo
sfruttamento al quale è sottoposto il lavoratore nel sistema capitalistico: deve lavorare per troppe ore e per un compenso troppo esiguo, senza poter partecipare al valore sociale crescente nella stessa misura dei possessori di capitale. L’altro motivo di critica era che il capitalismo, in ragione del suo sistema produttivo, è incapace di fare un uso adeguato delle energie produttive della società. Il capitalismo non è in grado di evitare crisi e guerre, e anzi contribuisce con la sua particolare organizzazione a paralizzare
e ostacolare lo sviluppo delle forze produttive già esistenti di fatto nella società.
La critica marxista aveva una prospettiva di tipo sostanzialmente economico, e riguardava soprattutto la condizione di sfruttamento, povertà e miseria della classe operaia. Solo negli scritti del giovane Marx – e sporadicamente anche in quelli successivi – si ritrovano concetti che non sono riferiti ai bisogni materiali o alla miseria, ma proprio a ciò di cui ho parlato finora: l’alienazione e il declino dell’uomo, cioè di qualcosa che lo colpisce più direttamente e in profondità di un bisogno materiale. Ma benché il marxismo l’abbia sempre ammesso e menzionato, tutto ciò è andato più o meno perduto nello sviluppo successivo del socialismo marxista, che di Marx ha conservato soprattutto la critica economica del sistema capitalistico. E’ indubbio che tale critica del capitalismo si sia rivelata quanto mai imprecisa. Lo sviluppo economico e sociale dell’America, e in larga misura anche dei paesi dell’Europa occidentale, ha dimostrato come la previsione di Marx secondo cui con l’evolvere del capitalismo l’operaio sarebbe rimasto soggetto alla miseria e allo sfruttamento, senza partecipare del crescente benessere della società, fosse errata. Negli Stati Uniti si assiste a un enorme aumento del reddito, del prestigio sociale e del potere politico della classe operaia, cosicché continuare a parlare, anche solo in termini relativi, di operai poveri
e sfruttati, è in palese contrasto con la realtà americana dello sviluppo del capitalismo.
Anche una seconda previsione si è rivelata errata: il capitalismo americano, e in parte anche quello di altri paesi, ha dimostrato di saper sviluppare le forze produttive con una flessibilità molto maggiore di quella prevista dai marxisti. Certo è sempre possibile affermare che con un altro sistema economico lo sviluppo sarebbe stato ancora maggiore, ma questa rimane un’affermazione teorica. E’ addirittura sbalorditivo vedere quale enorme incremento abbia avuto la produzione negli Stati Uniti negli ultimi dieci o vent’anni. Evidentemente, la struttura del capitalismo è molto cambiata dai tempi di Marx. Proprio negli Stati Uniti del New Deal il capitalismo ha raccolto molte istanze originariamente socialiste, incorporando nell’economia capitalistica la classe operaia come sua parte integrante. Le vecchie argomentazioni dei socialisti, secondo cui il
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capitalismo sarebbe d’intralcio alla produzione e affamerebbe gli operai, lasciano ormai il tempo che trovano. E tuttavia non è mia intenzione criticare il socialismo di ieri e di oggi per aver sbagliato la prognosi in campo economico. Del resto, perché mai la teoria scientifica elaborata da Marx cent’anni fa avrebbe dovuto prevedere con esattezza sviluppi verificatisi solo cent’anni dopo? Questi errori non hanno nulla a che vedere con la teoria scientifica elaborata da Marx.
La mia critica della teoria economica e delle idee del socialismo, così come sono state messe in pratica negli ultimi cinquant’anni, si riferisce ad altro. Quello che io critico è che, così facendo, si rende il capitalismo sempre meno responsabile dei suoi effetti sull’uomo e dell’influenza che esercita sulla sua vita; e non dal lato economico, ma perché ridicolizza e impoverisce le forze emozionali dell’uomo, lo trasforma in merce, e contribuisce a produrre tutti quegli effetti alienanti di cui ho parlato finora. Effetti che il capitalismo non ha prodotto solo negli operai, ma in tutti coloro che sono coinvolti in questo sistema produttivo.
Se rivolgiamo la nostra attenzione all’uomo come all’unico fine che conti davvero, la critica decisiva da rivolgere al capitalismo non riguarda tanto la miseria che esso produce a livello meramente economico, poiché sembra proprio che il capitalismo sia in grado di attenuare e gestire tale miseria. La critica deve invece riguardare il modo in cui questo sistema produttivo, questo modo di produzione e di consumo, questo tipo di organizzazione sociale, agisce sulla psiche, sulla vita, sui sentimenti dell’uomo, e sull’immagine che egli ha di sé.
La teoria socialista non solo non ha criticato il capitalismo sotto questo aspetto decisivo, ma non ha neppure elaborato un’idea chiara di quello che il socialismo potrebbe e dovrebbe essere al di là di un puro e semplice miglioramento del modo di funzionare dell’economia. Secondo me, questa è una delle principali cause della sconfitta del socialismo negli Stati Uniti e in Europa. I socialisti hanno fatto appello solo agli interessi economici, ignorando il fatto che l’uomo ha interessi ideali e che il suo bisogno di un quadro di riferimento e
di un oggetto di devozione è grande, forse addirittura più forte dei suoi interessi puramente economici. D’altra parte, gli interessi economici della classe operaia furono e sono difesi benissimo dai sindacati. Il movimento socialista vi ha aggiunto ben poco, a parte il fatto di aver dato più forza politica ai sindacati, dai quali peraltro
era spesso tenuto in ostaggio. Ma non ha saputo risvegliare la sensibilità per una nuova concezione dell’uomo e per una nuova religione.
In occasione dell’ultimo Congresso umanistico di Amsterdam [1952], Julian Huxley ha tenuto una conferenza estremamente interessante in
cui ha sollevato la questione del bisogno di una nuova religione
umanistica. Le idee da lui esposte sono assai simili alle mie. Anche Huxley intende la religione non in senso esclusivamente teistico, ma più generale. Di conseguenza dobbiamo riconoscere che l’uomo ha bisogno di un quadro di riferimento e di un oggetto di devozione, che la sua vita deve avere un senso e un obiettivo da raggiungere al di là della produzione e riproduzione di sé. Se è vero che non possiamo creare una religione artificialmente – ecco la proposta di Huxley -, potremmo almeno soffermarci a meditare se e come sarebbe possibile che una nuova religione umanistica non teistica assumesse una propria fisionomia. In tutto il mondo, e anche negli Stati Uniti, assistiamo oggi a numerosi tentativi di far risorgere la religione in questa o quella forma, a conferma del profondo bisogno dell’uomo di elaborare un’idea, di un’immagine di nuove forme di relazione tra gli uomini e di simboli in grado di esprimerle.
A mio avviso, il socialismo era destinato a fallire perché non è stato capace di delineare una visione di questo tipo e di offrire qualcosa
di più oltre alle soluzioni proposte in campo economico. Doveva fallire, perché non ha fatto appello ai bisogni più profondi dell’uomo
e, soprattutto, a quelli che nel nostro sistema moderno sono frustrati
e insoddisfatti. Penso che fascismo e stalinismo, per quanto fossero sistemi infami, abbiano potuto diventare così potenti e riportare la vittoria in molti paesi solo perché proponevano una sorta di nuova religione, la possibilità di votarsi a un ideale. Il socialismo ha fallito perché non aveva niente del genere da offrire, ma si limitava
a sostenere una linea di pensiero che era giustificata e plausibile cento o, tutt’al più, settanta-ottanta anni fa.
C’è un punto particolarmente degno di attenzione, dove a mio modo di vedere la teoria socialista ha imboccato per così dire la strada sbagliata: mi riferisco all’ipotesi che il compito più urgente della società fosse quello di socializzare i mezzi di produzione. Oggi [1953] in Russia assistiamo alla più completa nazionalizzazione dei mezzi di produzione, e l’esperienza dimostra che questa socializzazione non ha affatto portato la libertà né ha realizzato gli altri obiettivi socialisti, ma ha prodotto invece un capitalismo di stato in cui l’asservimento dell’operaio e di tutti gli altri esseri umani è più grave che nella peggiore forma di capitalismo moderno. In Inghilterra la nazionalizzazione dei mezzi di produzione è abbastanza diffusa, ma la vita e la posizione di un lavoratore delle ferrovie in Gran Bretagna non sono cambiate per il fatto che il suo superiore sia stato insediato dallo stato anziché nominato dal consiglio d’amministrazione. La sua specifica funzione lavorativa, il suo ruolo concreto, sono esattamente gli stessi. Intendere il socialismo come necessità di nazionalizzare i mezzi di produzione in tutti i paesi vuol dire non rendersi conto che la formula della socializzazione non
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è abbastanza concreta, e che non ha mantenuto quello che da essa ci si aspettava, di essere cioè la condizione preliminare di un lavoro libero e cooperativo dell’uomo. Eppure la socializzazione è ancora oggi il cavallo di battaglia di tutti i partiti socialisti, ed è esasperante vedere come continuino a perseguire uno scopo che una volta raggiunto non porta a niente.
Dal mio punto di vista, il programma socialista non dovrebbe preoccuparsi solo di modificare la funzione del lavoratore e le condizioni lavorative, e di cambiare la nostra struttura politica, ma anche di altri due punti critici della tradizione socialista. Il primo
è il palese disinteresse per il mondo al di fuori dell’Europa e dell’America del Nord, benché il socialismo si presenti come un movimento internazionale. Di fatto, invece, esso si riferisce solo all’Europa. E’ molto interessante e significativo che in queste ultime settimane i socialisti indiani e di altri paesi si siano incontrati
per fondare una propria organizzazione. Per la prima volta è stato richiesto un socialismo adeguato alle diverse situazioni, ed è stato detto molto chiaramente che l’internazionalismo socialista ha un significato molto più ampio di quello attribuitovi dagli europei, che ne fanno una faccenda essenzialmente interna. Se prendiamo per esempio paesi come l’India o la Cina, emergono problemi universali come quello – cruciale – dello sfruttamento delle risorse naturali. Problemi per i quali i socialisti europei hanno praticamente trascurato di studiare possibili soluzioni.
Vorrei poi ricordare un altro punto, sul quale mi sembra vi sia stata una distorsione della teoria socialista. Si tratta dell’aspettativa, nutrita da Marx e in seguito anche da Lenin, che l’avvento della nuova era avrebbe coinciso con il nostro tempo. L’intera teoria è stata così compressa nella camicia di forza di questa supposizione, alla quale ha dovuto adattarsi per fornire la prova che la nuova società socialista,
la nuova era dell’umanità, si instaurerà qui e ora. Perciò tutti i dati raccolti hanno subìto una distorsione allo scopo di poterlo provare. Accanto a questa idea, che troviamo in Marx e in Lenin, e che probabilmente è uno dei motivi per cui il comunismo russo si è sviluppato in una direzione diametralmente opposta all’idea socialista, vi è poi un altro atteggiamento che ho riscontrato in alcuni partiti socialisti di altri paesi: una pazienza infinita basata sulla predilezione scientifica per come le cose dovrebbero andare. Un atteggiamento fondato sul presupposto che non vi sia niente di particolare da fare se non aspettare che le cose si sistemino da sole.
Il socialismo si è così trovato a essere dilaniato tra due poli: le implicazioni storiche, che hanno portato a gravi errori e, in seguito, anche a crimini, e l’indolenza storica, una sorta di inerzia causa di quella passività che ha consentito al nazismo di conquistare il potere in Germania. Direi che esiste una sorta di paradosso messianico,
caratterizzato dalla presenza simultanea di pazienza e impazienza; pur sapendo che non possiamo giungere alla meta con la forza, non dobbiamo neppure rimanere inerti ad aspettare che siano le leggi della storia a raggiungerla.
Un antico racconto ebraico narra di un rabbino che chiese al Messia quando sarebbe arrivato. Il Messia rispose: «Domani». Il rabbino tornò a casa e si mise ad aspettarlo. Il Messia però non venne e il rabbino
si infuriò con lui perché gli aveva mentito; andò a esprimere la sua collera al profeta Elia, ma questi gli disse: «Ti sbagli, il Messia non ha mentito. Ha detto “Domani”, ed è vero; però significa “Quando lo desidererai, quando sarai pronto, quando lo vorrai”».
L’attesa messianica si è sempre basata sul paradosso di saper aspettare senza diventare indolenti, senza voler forzare i tempi e senza cadere vittima di una sorta di inerzia che ci fa perdere ogni interesse. A mio avviso, i due poli del paradosso messianico sono stati violentemente scissi, creando da un lato l’impazienza che si è votata al crimine e, dall’altro, l’indifferenza che è diventata anch’essa crimine, benché meno evidente.
– Alcune misure necessarie.
Per concludere, vorrei dedicare qualche parola a proposito di quel che
si può fare nella situazione attuale.
Innanzitutto è necessario vincere lo scoraggiamento e la perdita di fiducia di cui da dieci anni soffrono in misura crescente le forze progressiste. Credo che neppure il senatore [Joseph Raymond] McCarthy possa cancellare del tutto le speranze in un miglioramento dell’uomo e nel progresso che la specie umana ha compiuto nel corso degli ultimi millenni. Al riguardo sembra addirittura serpeggiare una non molto realistica «paura matta», in parte espressione di una dilagante perdita di fiducia che deriva dalla grande disillusione provata da chi
era convinto che il progresso fosse dietro l’angolo. Parafrasando Spinoza, si può dire che, se questo scopo fosse tanto facile da raggiungere, sarebbe già stato raggiunto da un pezzo. A quanto pare,
il progresso della specie umana procede a rilento. Ma non c’è motivo
di credere che l’epoca in cui viviamo sia un’epoca di decadenza, o che abbia riportato indietro l’orologio dell’umanità.
Viviamo in un’epoca che, come poche altre, ha prodotto autentiche innovazioni nella storia dell’umanità. Rispetto al quinto secolo avanti Cristo, o all’alba dell’età moderna, il nostro pensiero ha fatto enormi progressi. Questi progressi, e i risultati ottenuti, non sono certo sintomi di decadenza. Abbiamo davanti agli occhi la realizzazione di uno dei più antichi sogni dell’umanità: un aumento della ricchezza tale da poter soddisfare in larga misura i bisogni materiali degli uomini; e non stentiamo a immaginare che tra poche
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generazioni tale problema potrà avere una soluzione ancor più soddisfacente. Così, già oggi possiamo immaginare come realtà ciò che un tempo era un sogno, un ideale, una speranza.
A parte questo, negli Stati Uniti e in molti altri paesi vi sono segnali di una crescente consapevolezza del fatto che, in questo processo di costruzione di macchine, abbiamo perduto qualcosa che dobbiamo assolutamente riconquistare. E’ una forma di reazione progressiva, che aumenta di giorno in giorno. Perciò non vedo motivo di diventare improvvisamente pessimisti nei confronti dell’umanità. D’altronde, voler misurare la storia con il solo metro della nostra vita è un atteggiamento piuttosto egocentrico e poco obiettivo. Per la storia, duecento anni sono in realtà un periodo molto breve; e forse in questo momento ci troviamo proprio nel punto che in futuro sarà descritto come la fine del Medioevo, e gli ultimi quattrocento anni saranno ricordati come i secoli in cui il Medioevo si è avviato al termine.
Dobbiamo anche capire dove il progresso ci abbia portato fuori strada, e dove la nostra forma di governo, che di per sé ha consentito uno sviluppo progressivo, ha prodotto nell’uomo conseguenze che reclamano un cambiamento, se vogliamo godere dei frutti di questo sviluppo. Dobbiamo cambiare diverse cose fondamentali nella nostra situazione sociale e politica: è questo il vero problema del socialismo. Non si tratta tanto della socializzazione dei mezzi di produzione, quanto della “socializzazione delle condizioni e delle funzioni del lavoratore”, affinché ogni individuo, nell’ambito del suo lavoro, possa diventare un soggetto attivo e cooperativo, e il lavoro stesso riacquisti dignità e significato, diventando un’espressione della forza vitale dell’uomo. Dobbiamo studiare quali siano i cambiamenti sociali e i mezzi occorrenti a tale scopo. Parallelamente, la nostra struttura politica richiede cambiamenti volti a “far funzionare la democrazia”, a restituirle concretezza. Dobbiamo confrontarci con il fatto che il singolo cittadino non ha praticamente alcuna possibilità
di influenzare il corso degli eventi. Non abbiamo abbastanza informazioni, e nessuno ci chiede niente. Le decisioni vengono prese senza consultarci, in base all’unico criterio del funzionamento del sistema. Ma la questione è se sia possibile trovare i mezzi per organizzare il lavoro, la società e la forma di governo in modo tale che gli esseri umani non siano manipolati e trattati come automi, ma in quanto singoli cittadini abbiano la possibilità di partecipare ai processi decisionali.
In parte questo problema coincide con la questione se il nostro sistema produttivo industriale sia di per sé compatibile con l’individualità. Di fronte alla produzione massificata e all’esistenza
di grandi imprese totalmente centralizzate, può ancora esistere un individualismo, e ha senso insistere, come ho appena fatto, sulla
responsabilità e la partecipazione del singolo?
Sarebbe assurdo voler cancellare i progressi dell’era industriale. I vantaggi di quei progressi sono talmente evidenti – l’uomo è stato affrancato dal peso del lavoro fisico, e gli sono stati forniti i mezzi per vivere senza soffrire – che a nessuno verrebbe in mente di rinunciare alle conquiste degli ultimi quattrocento anni. Pur ammettendo che in effetti è molto difficile conciliare un sistema industriale con un sistema sociale basato sulla democrazia e sull’individualismo, mi domando se la soluzione di questo problema sia più difficile che produrre la bomba atomica. Pensiamo a tutti gli studi, al lavoro e agli sforzi che i fisici hanno investito nella produzione della bomba atomica; e pensiamo alla quasi totale mancanza di studi e di sforzi dedicati a creare una struttura sociale in cui il sistema industriale risulti compatibile con un sistema democratico a misura del singolo: solo se i nostri sociologi e politici e noi tutti avessimo tentato mille volte più di quanto abbiamo fatto, solo allora avremmo il diritto di parlare di difficoltà. Ma finora non ci abbiamo neppure provato, e dunque non vedo alcun motivo particolare per cui la soluzione di questo problema debba essere più difficile della soluzione dei problemi delle scienze naturali; a condizione, ovviamente, che riusciamo a riconoscerne l’importanza e che ci stia davvero a cuore.
Per quanto sia giusto distinguere tra il modo in cui è organizzata la società, la produzione e il lavoro, e il modo di essere delle persone, sono convinto che siano necessari determinati cambiamenti fondamentali [in ambito socioeconomico] perché l’uomo abbia la possibilità di condurre un’esistenza individuale più umana. E sono altresì convinto che, per questo, dobbiamo cominciare da noi stessi.
Chi parla di politica e di cambiamenti sociali senza prima domandarsi quale sia il proprio atteggiamento personale e quali aspetti di sé possano essere cambiati, in realtà non fa che parlare a vanvera. Ed è anche pericoloso, poiché l’oggetto a cui aspira e che cerca di creare non si fonda su una percezione interiore (che gli potrebbe indicare se la sua realizzazione sarà un fatto positivo o negativo). Inoltre, credo che essere invischiati nell’astrattezza della nostra politica attuale non sia meno pericoloso che essere prigionieri dell’astrattezza delle ideologie socialiste. Lo stalinismo ha dimostrato con la massima evidenza dove porti l’astrattizzazione di taluni elementi: a un regime di terrore caratterizzato dalla più totale assenza di libertà che continua a definirsi socialista e democratico.
Nell’Antico Testamento c’è un passo che, secondo me, ha un certo legame con la situazione attuale: «Se non avrai servito il Signore, tuo Dio, con gioia e letizia di cuore, nell’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te»
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(Deuteronomio 28,47). Oggi abbiamo abbondanza di ogni cosa, ma viviamo senza gioia e letizia di cuore, e siamo schiavi dell’abbondanza da noi stessi creata.
Abbiamo liberato le forze della natura e ne stiamo sfruttando l’energia, che neppure immaginavamo di poter utilizzare, a beneficio della vita economica della società. Ma, a quanto pare, in questo processo di liberazione delle energie naturali abbiamo via via represso e reso insignificante l’energia umana. In alcuni casi, e in alcuni momenti drammatici, capita di rilevare che l’uomo possiede un’energia che non è meno meravigliosa e sorprendente di quella che i fisici hanno scoperto nell’atomo. Eppure questa energia umana è quasi sempre imprigionata, e non può manifestarsi. Non è stata liberata,
anzi in larga misura è stata paralizzata. Credo che il compito del futuro non consista solo nello sforzo di liberare l’energia fisica, ma riguardi anche l’introspezione e l’impegno a creare istituzioni, e a produrre cambiamenti personali e politici, che favoriscano la liberazione dell’energia umana e il suo impiego nel processo vitale
della società.
Io sono favorevole al mantenimento del sistema produttivo industriale, benché esso porti all’alienazione dell’uomo da sé stesso e produca
tutti quegli effetti negativi sulla salute psichica ai quali ho fatto
cenno. Sta a noi combinare in modo armonico centralizzazione e decentramento. Dobbiamo riflettere, e scoprire come coniugare l’organizzazione sociale del lavoro e il sistema democratico con il funzionamento della macchina industriale, in modo da favorire un aumento dell’iniziativa individuale della partecipazione e della responsabilità. E’ un compito per certi versi simile a quello del Settecento, quando la gente cominciò a confrontarsi con la distribuzione del potere e il funzionamento di uno stato democratico. Anche allora vi furono all’inizio ipotesi, progetti e studi scientifici su nuove forme di convivenza sociale. Ritengo senz’altro possibile elaborare nuovi modelli per i metodi di lavoro e l’organizzazione dell’industria. Negli Stati Uniti se ne
vedono già le premesse, e in tutto il mondo sono in corso esperienze cooperativistiche. L’importante è rendersi conto che si tratta di un problema che deve essere risolto. Se non vogliamo perdere né la macchina né l’uomo, se applichiamo tutto il nostro sapere, il nostro interesse e la nostra intelligenza alla soluzione di tale problema,
allora esso non sarà più difficile da risolvere dei molti altri problemi scientifici ai quali è già stata data una risposta. Le difficoltà non derivano da una presunta insuperabilità o complessità
del problema, ma piuttosto dal fatto che continuiamo a ripetere schemi vecchi di centocinquanta o duecento anni, senza renderci conto che il nostro sistema, pur funzionando ancora ottimamente sotto molti aspetti, non funziona più – o funziona sempre peggio – per quanto
riguarda l’uomo, e dunque rischia di distruggere colui che un tempo lo ha edificato.
Parte seconda.
IL CONCETTO DI SALUTE PSICHICA. Conferenza (1962)
IL CONCETTO ORIENTATO ALLA SOCIETA’ E LA CONCEZIONE PREVALENTE IN
MEDICINA.
Vi sono due concetti di salute psichica nettamente distinti. Il primo
è orientato alla società, il secondo lo definirei un concetto orientato all’individuo oppure, per usare un termine più familiare e tradizionale, «umanistico».
Nel concetto di salute psichica “orientato alla società”, l’uomo è sano quando è all’altezza dei compiti che la società gli assegna, ovvero quando funziona in modo conforme ai bisogni di una data società. Voglio illustrarlo con un esempio: prendiamo una tribù primitiva che vive aggredendo altre tribù e uccidendone i membri per depredarli dei loro averi. Proviamo a pensare che in questa tribù di guerrieri vi sia però un individuo che non ama comportarsi così, e che all’idea di uccidere e depredare viene colto dal panico. Probabilmente costui non sarà nemmeno consapevole della sua avversione, dato che in questa particolare società è addirittura impensabile che qualcuno provi avversione per ciò che agli altri piace tanto. Di fatto in ogni società è impensabile che risulti sgradito ciò che a tutti è invece gradito.
Un bel giorno la tribù andrà in guerra e quell’individuo, pur senza essere consapevole della propria avversione per l’uccisione di altri esseri umani, verrà per esempio colto da un conato di vomito. Probabilmente nella tribù non esisteranno ancora psichiatri che possano diagnosticare l’origine psicogena del disturbo, ma di certo lo stregone dirà che in quell’uomo c’è qualcosa che non va: mentre tutti sono felici di muovere all’attacco del nemico, quello comincia a vomitare, impedendosi così di prendere parte all’attacco. In una tale società quell’uomo è malato, mentre sarebbe sano come un pesce in una tribù di pacifici contadini; e un guerriero della tribù che prova piacere a uccidere sarebbe considerato malato nella tribù dei contadini pacifici e cooperativi.
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Il “concetto umanistico” si distingue nettamente da quello orientato alla società. Non è il funzionamento conforme a una data società a determinare che cosa sia la salute psichica, ma criteri insiti nell’uomo stesso. Ne parlerò in seguito. Se non vi fosse conflitto tra le finalità della società e l’obiettivo del pieno sviluppo dell’uomo,
i due concetti di salute psichica sarebbero identici e non vi sarebbe motivo di separarli. Ma finora nella storia dell’uomo è sempre esistito un conflitto tra gli interessi dello sviluppo dell’individuo
e gli interessi di una data società, e dunque sono sempre esistiti anche due diversi concetti di salute psichica. Naturalmente i fautori del concetto orientato alla società danno sempre a intendere che esso si identifichi con quello orientato all’uomo: ciò che è bene, ciò che
è il meglio per la società lo è anche per l’uomo. E la maggior parte delle persone lo crede.
Il concetto orientato alla società si presenta generalmente in termini più gradevoli. Non viene detto a chiare lettere che solo chi risponde a una funzione sociale va considerato psichicamente sano – per quanto a volte venga affermato anche questo -, ma si fa per esempio ricorso a una formula: la salute psichica consiste nella capacità dell’uomo di lavorare e di provare piacere. Termini assai innocui: nessuno vorrà negare che lavoro e piacere rappresentino un bene per chiunque. A volte si dice anche che la salute psichica consiste nella capacità di produrre e riprodurre la propria specie. In questo caso il piacere si manifesta essenzialmente sotto forma di capacità sessuale dell’uomo e della donna. Formulazioni simili fanno facilmente dimenticare di che genere di lavoro stiamo parlando. Si tratta di un lavoro interessante, remunerativo, oppure noioso? E di che tipo di piacere stiamo parlando? Del piacere in cui ci si dimentica di sé stessi, come nel caso dell’alcolismo? O di un piacere ormai diffuso nella società occidentale, l’eccitazione per le catastrofi e la brutalità? Oppure stiamo parlando del piacere per la gioia e la vitalità, per le cose interessanti, per un lavoro affascinante, per ciò che rende la vita attraente?
Parafrasare la salute psichica con termini quali lavoro e piacere in realtà non ha alcun senso, a meno di definire con precisione a quale tipo di lavoro e di divertimento ci riferiamo. Perciò la maggior parte di queste formule generalizzanti serve solo a mascherare il fatto che in realtà, anziché della capacità dell’uomo di lavorare e di provare piacere, stiamo parlando dell’interesse della società per un determinato funzionamento dell’uomo. La stessa idea si cela dietro la formula in base alla quale la salute psichica dovrebbe significare l’adeguamento dell’individuo alla società. Si pone lo stesso identico problema: è sufficiente chiederci se sia sano anche un individuo che si adegua a una società malata.
Esiste poi un altro concetto di salute psichica ricorrente in
psichiatria, che non rappresenta necessariamente un concetto orientato alla società. Esso afferma soltanto che “la salute psichica consiste nell’assenza di malattia psichica”. Di conseguenza, se non c’è nessuna nevrosi, psicosi o sintomo psicosomatico, e se su un piano socialmente rilevante non ci sono alcolismo, omicidi e disperazione (o solo in minima quantità), possiamo parlare di un individuo relativamente sano o di una società relativamente sana. L’atteggiamento che definisce perlopiù la salute come mera assenza di malattia è generalmente molto diffuso in medicina, per quanto di recente siano stati fatti dei tentativi (vorrei ricordare i lavori del dottor Dunn di Washington, tra gli altri) di elaborare una visione positiva della natura della salute psichica, o meglio della salute in genere, e di definirla non
in negativo, come assenza di malattia, ma in positivo, come presenza di benessere (“well-being”).
SALUTE PSICHICA E PENSIERO EVOLUZIONISTICO.
Il “concetto umanistico di salute psichica” che qui mi interessa sviluppare è un’interpretazione dinamica; pertanto mi soffermerò in primo luogo sulle peculiarità di tale interpretazione, così come Freud per primo l’ha definita. Vorrei far notare che il concetto umanistico di salute psichica affonda le radici in una logica evoluzionistica che troviamo in Darwin, Marx e Freud: per costoro l’evoluzione dell’uomo è intesa come uno sviluppo evoluzionistico che è possibile ripercorrere ed, entro certi limiti, anche predire. Caratteristico di Freud e di
Marx, i due principali rappresentanti del pensiero evoluzionistico nell’ambito delle scienze umane, è però il fatto che essi connettono quest’idea evoluzionistica con un’idea di valore: le prime fasi evolutive hanno meno valore, mentre quelle successive – o superiori, come si dice spesso – ne hanno di più e, in quest’ottica valutativa, sono migliori.
Affrontare il concetto di salute psichica basandoci su un’interpretazione dinamica ed evoluzionistica comporta però un problema che vorrei illustrare con alcuni esempi: prendiamo da un lato un neonato totalmente narcisista, e dall’altro un adulto anch’egli totalmente narcisista; il neonato non può considerarsi malato, perché il suo narcisismo è parte essenziale del suo sviluppo evolutivo. Nell’ambito del suo sviluppo il narcisismo, in una fase precoce, è una componente indispensabile; come tale esso non è patologico. Se lo stesso individuo dopo vent’anni presenta lo stesso grado di narcisismo, si tratta di uno psicotico. Oppure un altro esempio: se un bambino di tre o quattro anni gioca con le proprie feci, non è niente di patologico; ma se da adulto vent’anni dopo mostra lo stesso
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piacere, si tratta di un sintomo molto allarmante di malattia psichica.
Fintantoché un determinato fenomeno si presenta come uno stadio necessario dell’evoluzione umana non è patologico. Se però esso persiste oltre il necessario tempo evolutivo, ecco che lo diventa. E’ esattamente questo che Freud ha descritto con i termini «regressione» e «fissazione». La stessa logica contraddistingue anche il pensiero evoluzionistico di Marx. Per lui la schiavitù non è di per sé un male, fintantoché lo sviluppo della società la rende necessaria. Lo stesso vale per la proprietà, l’alienazione, e così via. Se però la schiavitù sopravvive in una situazione in cui le condizioni generali della società avrebbero già da tempo consentito di superarla, allora si tratta di un fenomeno patologico.
Questo concetto spiega anche una frase di Hegel, che condivideva questa logica, sulla quale basò l’intero suo sistema: «Ciò che è reale
è razionale» (Hegel, 1821, p. 16). Non è vero che con questa frase Hegel si dimostri talmente reazionario da accettare tutto l’esistente e da considerare ragionevoli anche le cose peggiori, purché siano reali. Nel pensiero di Hegel «reale» significa «reale in quanto necessario», e sta a indicare che ciò che è necessario nel processo evolutivo non è mai patologico, ma lo diventa se persiste al di là della sua utilità per l’evoluzione. E’ evidente che Hegel, per sostenere tale concetto, deve avere un’idea molto chiara dell’evoluzione, ovvero delle fasi evolutive che l’individuo o l’umanità nel suo complesso devono attraversare. Freud aveva un’idea molto chiara delle fasi evolutive; lo stesso vale per Hegel, e fino a un certo punto anche per Marx.
Freud dà perlopiù due definizioni della salute psichica: da un lato la salute psichica viene raggiunta dopo il superamento del complesso edipico, ovvero quando sono stati superati l’attaccamento originario, la fissazione incestuosa alla madre e la conseguente ostilità verso il padre. Dall’altro, Freud parla di salute psichica quando tutte le fasi pregenitali dello sviluppo libidico sono state superate ed è stata raggiunta quella genitale. Si tratta di un chiaro concetto evoluzionistico, che parte dall’idea che lo sviluppo dell’uomo abbia inizio con il complesso edipico, e che le fasi pregenitali siano un passaggio necessario. La persona psichicamente sana è quella che ha attraversato e concluso in modo soddisfacente questo processo evolutivo.
LA MIA CONCEZIONE DELLA SALUTE PSICHICA E LE MALATTIE PSICHICHE DELLA
SOCIETA’ MODERNA.
Le mie personali convinzioni si basano essenzialmente su Freud, sebbene con accenti più marcati e un po’ diversi sotto alcuni aspetti. “Io credo che la salute psichica abbia a che fare con il superamento del narcisismo, ovvero, per dirla in termini positivi, con il raggiungimento dell’amore e dell’obiettività che ne consegue”, con il superamento dell’alienazione – un concetto, «alienazione», che ci viene soprattutto da Hegel e da Marx e che non si trova in Freud – e con il senso di identità e indipendenza che ne deriva, con il superamento dell’ostilità e con la conseguente capacità di vivere pacificamente, e infine con il raggiungimento di una produttività che comporti il superamento della fase arcaica del cannibalismo e della dipendenza.
Quando parlo della salute psichica dell’individuo penso soprattutto – e mi preme molto sottolinearlo – alla salute psichica della società. Da ragazzo, a scuola, ci insegnavano il detto latino “mens sana in corpore sano”: «mente sana in corpo sano». Si tratta invero di una mezza verità, poiché accade spesso che una mente malata alberghi in un corpo sano, o anche che una mente sana alberghi in un corpo malato. A mio avviso sarebbe molto più corretto dire “mens sana in societate sana”: a prescindere da qualche eccezione, una mente sana può albergare solo in una società sana; ne consegue che il problema della salute psichica dell’individuo non può essere scisso da quello della salute psichica della società.
– Il narcisismo e il suo superamento.
Vorrei prima di tutto parlare del superamento del narcisismo. Molti hanno familiarità con la teoria freudiana del narcisismo, e dunque sarà sufficiente spiegarne i fondamenti per coloro che non conoscono benissimo Freud. Sono convinto che una delle più grandi scoperte di Freud sia stata proprio la formulazione della sua idea di narcisismo, poiché credo che niente sia più significativo e determinante del narcisismo per lo sviluppo delle malattie psichiche. Se fossi costretto a definire in una sola frase la salute psichica, direi che essa consiste in un minimo di narcisismo. Ma vorrei approfondire più concretamente questo concetto.
Freud intendeva il narcisismo come un atteggiamento in cui ciò che è soggettivo – i miei sentimenti, i miei bisogni, fisici e gli altri bisogni – è molto più reale di ciò che è oggettivo, al di fuori di me. Gli esempi più vistosi sono dati dal bambino, in particolare dal
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neonato, e dallo psicotico. Per il neonato non esiste ancora una realtà al di fuori di quella, interiore, dei suoi bisogni; fino a un certo punto, in termini di percezione il mondo esterno per lui non esiste proprio. Lo stesso si può dire dello psicotico. La psicosi, se vogliamo darne una definizione generica, è appunto il più completo narcisismo, dal quale è praticamente assente ogni relazionalità con il mondo oggettivo così com’è.
Tra il neonato e lo psicotico ci siamo noi, le cosiddette persone normali. Come già Freud aveva avuto modo di osservare, il narcisismo riveste un ruolo più o meno importante per ognuno di noi. Prendiamo per esempio un uomo che si innamora di una donna, alla quale però non interessa affatto. Se costui è molto narcisista, sarà incapace di ammettere che la donna non prova interesse per lui. L’unico pensiero, che non si stancherà di ripetere, sarà: «Com’è possibile che non mi ami, se io l’amo tanto?». Per quest’uomo l’unica realtà è il proprio amore: il fatto che ci sia una donna che forse prova altri sentimenti
e reagisce in modo diverso, per lui non è una realtà. Conoscerete di certo la storiella dello scrittore che incontra un amico con cui si mette a parlare del suo ultimo libro. Dopo un quarto d’ora dice: «Non ho fatto altro che parlare di me, adesso parliamo di te. Ti piace il mio nuovo libro?». E’ lo stesso tipo di narcisismo, solo che ci è già un po’ più familiare e appare meno minaccioso e meno patologico che nell’altro esempio.
Il narcisista è semplicemente incapace, a livello emozionale, di concepire il mondo esterno come una realtà a sé stante (se non lo percepisse affatto, sarebbe uno psicotico); egli percepisce il mondo esterno come una realtà autonoma solo a livello intellettuale, ma non a livello emozionale. Dato che il concetto di narcisismo nell’accezione freudiana, che qui anch’io utilizzo, provoca non poca confusione, vorrei sottolineare come il narcisismo sia cosa fondamentalmente diversa dall’egotismo e dalla vanità. Ovviamente anche l’egotismo implica sempre una certa dose di narcisismo, che però non è necessariamente superiore alla media. L’egotista, come il narcisista, non è una persona che ama. Come il narcisista, non è veramente interessato al mondo esterno, ma pretenderebbe tutto per sé. Però, a differenza del narcisista, l’egotista ha un’ottima percezione del mondo esterno. Neppure la vanità – o perlomeno un certo tipo di vanità – implica un eccessivo narcisismo. Di norma i vanitosi sono persone insicure che hanno un continuo bisogno di conferme, per cui non fanno che chiedere a tutti: «Mi vuoi bene?». Se sono astuti o versati in psicologia, cercheranno queste conferme per via più indiretta che diretta. Di fatto, quel che importa al vanitoso è principalmente il rapporto con il suo senso di insicurezza. Questo non è necessariamente narcisistico. Al vero narcisista non importa nulla di ciò che gli altri pensano di lui, poiché non dubita del fatto che
ciò che pensa di sé sia reale, e che ogni parola che gli esce di bocca sia semplicemente meravigliosa. Un vero narcisista entra in una stanza, esclama «Buongiorno!», e pensa: «Non è meraviglioso?». Il fatto di essere lì e di dire «Buongiorno! », per lui è una cosa bellissima.
Conseguenza del narcisismo è la distorsione dell’obiettività e del giudizio, poiché per il narcisista è bene ciò che è suo, e male ciò che non lo è. Un’altra conseguenza è la carenza d’amore, poiché è evidente che se mi occupo solo di me stesso non posso amare nessun altro al di fuori di me. Freud ha fatto un’importante osservazione al riguardo. Molte relazioni danno l’impressione di essere rapporti d’amore, per esempio quelle con i bambini o tra i cosiddetti innamorati. Ma in realtà si tratta spesso di rapporti di tipo meramente narcisistico: la madre che ama i suoi figli ama in realtà sé stessa, poiché i figli sono i suoi. La donna che ama il marito può farlo per lo stesso motivo. Non è necessariamente così, però è molto frequente. Accade spesso che dietro un atteggiamento amoroso verso un’altra persona si nasconda un carattere narcisista. Un’ulteriore conseguenza si manifesta quando una persona viene ferita nel proprio narcisismo. Si può avere una reazione di tipo depressivo o una depressione ansiosa, oppure rabbia. Il tipo di reazione dipende da numerosi fattori. Tra l’altro, vorrei ricordare che una questione di estremo interesse in psichiatria è in che misura le depressioni psicotiche possano derivare da gravi ferite del narcisismo, e se il dolore, che per Freud è parte della depressione, non sia dolore per l’immagine dell’Io narcisista che è andata distrutta, quanto piuttosto dolore per aver incorporato un’altra persona. Quanto alla reazione rabbiosa, il narcisista reagisce così quando vengono urtati i suoi sentimenti. La maggiore o minore consapevolezza di questa rabbia dipende in larga misura dalla condizione sociale. Se questo individuo esercita un potere sugli altri, è probabile che sfogherà la sua rabbia
in piena coscienza. Se invece subisce il potere altrui, non oserà sfogare la propria rabbia consapevolmente e diventerà depresso. Ma può anche capitare che la sua situazione cambi: in tal caso si avrà uno scoppio d’ira anziché una depressione.
Le grandi religioni occidentali e orientali identificano essenzialmente lo scopo della vita con il superamento del narcisismo, con l’acquisizione della capacità di amare e di rinunciare all’adorazione del proprio Io. Ed è precisamente questa la funzione della scienza moderna, che, al di là dei risultati ottenuti, richiede
un atteggiamento di accettazione della realtà così com’è e non come vorremmo che fosse.
Nello sviluppo della scienza moderna sono riposte grandi speranze: ci si aspetta che favorisca appunto quell’atteggiamento obiettivo e razionale essenziale al superamento del narcisismo. Perciò mi pare
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estremamente interessante che tra i più importanti scienziati moderni, in particolare tra i fisici teorici, si trovino persone che – a prescindere da alcune vistose eccezioni sulle quali non mi soffermerò – sono mentalmente e psichicamente tra le più sane di questo mondo. Questo si manifesta oggi in primo luogo nella loro capacità di ammettere che la corsa agli armamenti nucleari è pura follia e provocherà un disastro. Probabilmente non vi sono al mondo altri gruppi professionali che abbiano riconosciuto con altrettanta chiarezza la follia del riarmo nucleare. Sfortunatamente gli psicoanalisti non sono scesi in prima linea in questa presa di coscienza, benché ci si dovrebbe aspettare che lo fossero.
Poiché ora ci stiamo interessando non tanto ai problemi individuali quanto a quelli sociali, vorrei aggiungere una importante osservazione che riguarda la trasformazione del narcisismo individuale in narcisismo di gruppo. Come abbiamo detto, l’individuo narcisista è totalmente preso da sé stesso. Ma esiste anche un narcisismo familiare: famiglie pazze, per così dire. Ricordo un caso in cui madre, figlia e figlio – del padre si erano liberati – erano convinti
di essere le sole persone perbene al mondo. Tutti gli altri erano volgari, non sapevano cucinare, erano dei buoni a nulla. Solo loro erano persone rispettabili e perbene; per gli altri provavano odio e disprezzo.
Se questo narcisismo familiare appare piuttosto strano, la situazione appare diversa quando abbiamo a che fare con il narcisismo che non è riferito alla famiglia, ma al proprio popolo. Lo stesso atteggiamento
– «il popolo al quale appartengo è il migliore, il più ammirevole» -, che se riferito al singolo o alla famiglia dovrebbe suscitare sdegno ed essere tacciato di follia, appare tutt’a un tratto lodevole, morale
e positivo se riferito a un intero popolo o a una religione.
Dal punto di vista della psicologia, il narcisismo di gruppo non si distingue troppo da quello individuale. Lo spostamento del narcisismo dall’individuo al gruppo, accompagnato da odio religioso e nazionalismo, non apporta modifiche rilevanti alla natura del fenomeno narcisistico. Ma c’è un aspetto importante: per un poveraccio che non ha niente, né denaro né cultura è molto difficile indulgere al suo narcisismo individuale (a meno di non impazzire davvero). Lo slittamento del proprio narcisismo da individuale a collettivo gli consente di mantenerlo senza impazzire, poiché è confermato anche da tutti gli altri. I leader politici, i libri di scuola, e così via, non fanno che rafforzare in lui l’idea che il suo popolo sia il migliore, che abbia una tradizione e un futuro, che in esso regnino l’etica e la giustizia, e che tutte le altre nazioni – soprattutto se nei loro confronti esistono tensioni politiche – siano popolate da persone indegne, immorali e criminali.
Ripeto: chi riesce a spostare sul gruppo il proprio narcisismo
individuale, può sfogarlo senza impazzire, poiché tutti gli altri lo confermano. Eppure questo narcisismo collettivo è una malattia psichica, e le sue conseguenze sono identiche a quelle tipiche del narcisismo individuale sopra descritte. Nelle popolazioni di cui si disponga di dati statistici, è per esempio possibile osservare come il nazionalismo sia più diffuso proprio tra i ceti meno colti e più poveri. Di certo è così negli Stati Uniti, come molte ricerche hanno già dimostrato. Proprio coloro che menano una vita grama, che sono poveri sia materialmente che emotivamente, non hanno nulla di cui andare fieri, se non del proprio gruppo nazionale. Solo il loro narcisismo primitivo dà loro la sensazione di poter realizzare qualcosa di cui essere orgogliosi.
A tale proposito vorrei attirare l’attenzione su un altro punto: è noto che sono stati Copernico, Darwin e Freud – a parere di quest’ultimo – a infliggere profonde ferite al narcisismo della specie umana, dimostrando che l’uomo non è affatto il centro dell’universo, né una speciale creazione divina, e che persino la sua coscienza ha un’importanza molto relativa. A livello storico avremmo dovuto aspettarci una notevole riduzione del narcisismo negli ultimi due o trecento anni. E invece oggi assistiamo a un nazionalismo crescente, che non impedisce agli uomini neppure di giocare con le armi nucleari, lo strumento certamente più mortale e folle di tutta la storia, che con buona probabilità porterà la specie umana alla distruzione. Perciò dobbiamo ammettere che il narcisismo nazionale è ancora altrettanto patologico e dissennato, e che non corrisponde certo alle aspettative di una sua riduzione nel corso della storia. Se è vero che i fattori menzionati da Freud hanno ferito profondamente il narcisismo umano, è altrettanto vero che non lo hanno realmente distrutto o superato. Appare anzi molto evidente come oggi quel narcisismo si manifesti nel nazionalismo, nello stato autoritario e soprattutto nella tecnica.
Per quanto possa apparire contraddittorio e paradossale, da un punto di vista psicologico l’uomo moderno è talmente fiero di poter produrre armi nucleari che la sua capacità di distruggere la terra è diventata oggetto di un enorme interesse narcisistico. L’obiettivo di ridurre il narcisismo grazie alla scienza non ha comportato una reale riduzione del narcisismo, che anzi si è conservato proiettandosi sui risultati tecnici ottenuti dalla scienza.
Il problema della salute psichica si può riassumere domandandoci come superare il narcisismo. Di questo problema si sono occupati già da millenni i leader spirituali dell’umanità. Non foss’altro per questo, eviterò di delineare un programma o di fornire una ricetta per il superamento del narcisismo. Però vorrei esporre una riflessione teorica su un problema specifico: è necessario distinguere tra forme maligne e forme benigne di narcisismo.
Le forme di “narcisismo maligno” si riscontrano negli individui
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psicotici o gravemente malati. In questo caso il narcisismo è rivolto soltanto alla propria persona: la mia immagine, il mio corpo, i miei pensieri, i miei sentimenti, il mio appetito, eccetera, sono le uniche cose reali, le uniche cose che contino sulla faccia della terra. E’ una forma maligna in quanto mi separa dalla ragione, dall’amore, dal mio prossimo e da tutto ciò che rende la vita interessante.
Nelle forme di “narcisismo benigno”, questo non è diretto a una specifica parte di me – il mio corpo, i miei pensieri ma a qualcosa da realizzare, a una conquista scientifica o economica o di qualunque altro tipo. Ovvero, nelle forme benigne provo una certa dose di amore narcisistico, ma non per la mia persona, bensì per qualcosa che è al di fuori di me, qualcosa di oggettivo che io ho prodotto. Si tratta sempre di narcisismo, ma è di natura benigna, poiché nel momento in cui creo qualcosa, supero anche, in un processo dialettico, una parte del mio narcisismo. Se voglio produrre o creare qualcosa, sono costretto a pormi in relazione con il mondo esterno. Ne consegue che il narcisismo non provoca uno spietato aut aut tra singoli individui, ma una competizione per ottenere il risultato migliore.
Non voglio affermare che il narcisismo benigno è un ideale o addirittura un obiettivo dell’evoluzione umana; sarebbe tuttavia il primo passo verso un superamento dell’odierno narcisismo, individuale e puramente patologico. Sarebbe già molto se l’oggetto del narcisismo potesse essere, anziché la propria nazione, la specie umana, e se gli uomini cominciassero ad andare fieri della specie umana e non solo di una parte di essa. E’ molto strano vedere quante poche persone, nonostante le Nazioni Unite e i numerosi collegamenti mondiali, siano realmente in grado di provare un senso di fierezza per la specie umana. Se oggi gli uomini provassero nei confronti dell’umanità lo stesso attaccamento narcisistico che provano verso i propri figli, non esisterebbero le armi atomiche.
Il superamento del narcisismo è possibile solo realizzando enormi progressi economici e sociali presso tutti i popoli della terra. Non c’è modo di andare fieri delle proprie conquiste se la povertà e la miseria sono troppo grandi per consentirne la realizzazione, o se l’intelletto è paralizzato dall’autoritarismo o dalla burocrazia. Il superamento del narcisismo non presuppone soltanto l’accettazione di certe idee, ma anche cambiamenti talmente radicali nella vita di tutti
i popoli della terra da consentire a ogni essere umano di essere fiero delle proprie realizzazioni e a ogni popolo di essere fiero delle proprie conquiste, e non dei propri mezzi di distruzione.
– L’alienazione e il suo suo superamento.
Il secondo punto del quale vorrei parlare [in relazione alla questione della salute psichica della società] riguarda il superamento
dell'”alienazione”. Da alcuni anni va di moda parlare di alienazione, un concetto al quale vorrei almeno dedicare qualche parola. Sebbene storicamente non sia stato Hegel il primo a servirsi del concetto di alienazione, è stato comunque il primo a farlo in modo sistematico. Per Hegel alienazione significa che io non mi pongo come soggetto del mio agire, come individuo che pensa e che prova sentimenti e affetti, ma alieno me stesso e le mie forze nell’oggetto che produco. Dunque mi sento un nulla, e riesco a considerare me stesso solo nell’oggetto che mi sta di fronte e che io ho creato. Con me stesso e con le mie forze sono in contatto solo per il tramite dell’oggetto della mia creazione. Nell’Antico Testamento questo si chiama «idolatria»: l’uomo adora l’opera delle proprie mani invece di sentirsene il creatore che è.
Feuerbach, parlando di alienazione con riguardo alla religione, constatava come l’uomo diventi tanto più povero quanto più arricchisce Dio. Marx formulava lo stesso concetto in un senso più lato:
“Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico”. (Marx, 1845-1846, p. 33)
E nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844″ scrive: «Meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e più tu hai; più è espropriata la tua vita, più tesaurizzi la tua essenza alienata» (Marx, 1844, p. 337). L’impoverimento dell’uomo allo scopo di arricchire l’oggetto da lui creato: è questa l’essenza dell’alienazione.
L’alienazione così intesa chiarisce bene come l’uomo alienato abbia paura e dipenda dagli oggetti creati: dalle cose, dagli utensili, dalle merci, dalla burocrazia, dai leader, dai capi, dallo stato e da tutto il resto. Tutti hanno la stessa funzione di consentire all’uomo di provare un senso d’identità. Egli crede di essere in contatto con sé stesso solo arrendendosi a un grande potere, a un grande personaggio o a una grande istituzione che gli diano l’illusione di essere in contatto con le proprie forze.
L’alienazione non esiste solo da quando ha fatto la sua comparsa l’uomo organizzato dell’era moderna, benché probabilmente in nessun’altra epoca storica essa abbia assunto le proporzioni che ha nell’attuale società occidentale. Tra i contadini messicani ho rilevato una forma di alienazione che credo compaia in tutta l’America latina, e che consiste nell’abbandonarsi al destino. Essa si manifesta nella mancanza di speranza con cui l’individuo si sottomette al fato, e nella sensazione di non poter influire sulla propria esistenza, che
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segue il proprio corso, passa e va. Il grande problema è costituito dal fato, o meglio dalla sua ineluttabilità, che va appunto accettata. Chi lo fa spontaneamente diventa per così dire tutt’uno con il massimo potere esistente, il fato appunto. La fatalistica mancanza di speranza è uno dei sintomi del disagio psichico diffuso tra la popolazione contadina dell’America latina. Studiandola, ci si imbatterebbe in una particolare forma di alienazione in cui il fato e la sua presunta ineluttabilità sono diventati il grande idolo.
Un superamento dell’alienazione è possibile solo sulla base dell’indipendenza e con l’ausilio di una democrazia dotata di senso (che non si accontenti di schede elettorali deposte nell’urna). Ma questo a sua volta presuppone significative trasformazioni sociali, per le quali il singolo non sia più sottomesso all’autorità o alla burocrazia, ma svolga un ruolo attivo e responsabile nel dare forma alla vita sociale. Non è una questione di benessere o di consapevolezza, ma di partecipazione attiva, che è possibile solo a determinate condizioni. Una di esse è un livello ottimale di decentramento.
– La necrofilia e il suo superamento.
Il terzo aspetto di cui vorrei parlare in relazione alla questione
della salute psichica è il superamento dell’ostilità. Mi riferisco in particolare alla forma patologica, non a quella che nasce come reazione agli attacchi contro la propria vita, e che dunque, essendo al servizio della vita, è accettata da tutti.
Io distinguo tra due tipi di ostilità. Il primo è l'”ostilità «reattiva»”, che rappresenta una reazione all’angoscia. L’individuo impaurito è ostile, a meno che non sia talmente impaurito e impotente da vedersi costretto a rimuovere e sopprimere la propria ostilità. La fonte più importante di ostilità nel mondo non è, come oggi si è soliti affermare, una presunta natura malvagia dell’uomo, ma il fatto che la maggior parte della gente è impaurita. E’ un fatto ben strano e paradossale che gli ultimi quattrocento anni dopo la fine del Medioevo siano stati secoli di paura. Mai come oggi sulla terra ha regnato tanta sicurezza; e mai come oggi c’è stata tanta insicurezza. Oggi vige tanta sicurezza personale ed emozionale, e tuttavia anche realistica: mai prima d’ora l’uomo ha vissuto per anni nel terrore che tutta la vita possa essere distrutta in qualunque momento, che lui se lo aspetti o no.
Questa angoscia, che ha avuto inizio già con la fine del Medioevo e si
è manifestata in una forma o nell’altra nel corso degli ultimi secoli, oggi è talmente acuita che persone come Wystan Hugh Auden e altri hanno giustamente definito il nostro secolo il «secolo della paura». Ma non è di questa angoscia che voglio parlare, bensì del fatto che
oggi l’ostilità individuale è perlopiù l’ostilità di persone impaurite. Viviamo in un mondo di gente spaventata, e coloro che brandiscono la bomba non hanno certo meno paura di coloro che ne temono la minaccia. Il fatto che oggi l’uomo sia così impaurito è connesso con la sua alienazione, con il fatto che non esiste più alcun collante della società e che gli uomini sono ormai ridotti in atomi e profondamente annoiati dalla vita, che non sembra possedere alcun senso.
Accanto all’ostilità reattiva, esiste anche una forma del tutto diversa, che chiamerei “ostilità necrofila” o maligna. Per illustrare questa definizione vorrei citare un discorso tenuto da Miguel de Unamuno all’università di Salamanca nel 1936, in risposta a un’allocuzione del generale franchista Millán Astray. Il generale Millán aveva un motto che era diffuso in modo esplicito e consapevole tra i fascisti, e in modo non altrettanto consapevole ed esplicito tra molta altra gente: «¡Viva la Muerte!». Quando il generale Millán ebbe concluso il suo discorso, Unamuno [il quale all’epoca, all’inizio della guerra civile spagnola, era rettore dell’università] si alzò e disse: «E ora sento un grido necrofilo e insensato: “Viva la morte!”». Vorrei attirare l’attenzione sul termine «necrofilo». Necrofilia significa il perverso desiderio di un uomo di congiungersi carnalmente con il cadavere di una donna. Cose del genere sono abbastanza rare, però esistono. Ma Unamuno se ne serve in un senso molto più lato, quello dell’amore per la morte, dell’attrazione per la morte. Unamuno così proseguiva:
“Ed io che ho trascorso la mia vita a creare paradossi che suscitavano la collera di coloro che non li afferravano, io devo dirvi, come esperto in materia, che questo barbaro paradosso mi ripugna. Il generale Millán Astray è un invalido. Sia detto senza alcuna intenzione di sminuirlo. E’ un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Ma oggi, purtroppo, in Spagna ci sono troppi invalidi. E presto ce ne saranno ancora di più, se Dio non verrà in nostro aiuto. Mi addolora pensare che debba essere il generale Millán Astray a dirigere la psicologia di massa. Un mutilato che non abbia la grandezza spirituale di un Cervantes, cerca di solito un macabro sollievo nel provocare mutilazioni attorno a sé. Questo è il tempio dell’intelletto. E io ne sono il sommo sacerdote. Siete voi che profanate il sacro recinto. Voi vincerete perché avete la forza bruta. Ma non convincerete. Perché, per convincere, dovrete persuadere. E per persuadere occorre proprio quello che a voi manca: ragione e diritto nella lotta. Io considero inutile esortarvi a pensare alla Spagna. Ho finito”. (Cit. in Thomas, 1961, p.p. 376-377)
Unamuno aveva dunque individuato con estrema chiarezza l’essenza
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dell’atteggiamento necrofilo, dell’amore per la morte. Un atteggiamento nel quale la morte, la distruzione, la putredine esercitano un’attrazione perversa. A mio parere si tratta probabilmente dell’unica vera perversione esistente: essere attratti dalla morte quando si è vivi. L’atteggiamento necrofilo è scarsamente diffuso, ma quei pochi veri necrofili riescono a istigare alla necrofilia i molti che sono furiosi o arrabbiati, proprio perché sono impauriti. Cambiare chi è furioso o arrabbiato è più facile, poiché è sufficiente eliminare la sua paura (cosa peraltro non facilissima, non foss’altro perché prima bisognerebbe ridare significato alla sua vita). Ma rispetto a costoro il necrofilo è un irriducibile. E’ molto importante saper individuare la necrofilia, la peggiore aberrazione dalla salute psichica dell’uomo.
Uno degli esempi più lampanti di ostilità necrofila è il caso di Hitler. Di lui si racconta un episodio che appare senz’altro credibile benché la sua autenticità non sia stata provata. Durante la prima guerra mondiale un soldato vide Hitler che fissava in stato di trance un cadavere ormai in decomposizione. Quel soldato dovette faticare parecchio per destare Hitler da quello stato e trascinarlo via. Questo stesso individuo più tardi illuse sé stesso e milioni di altri uomini
che il proprio obiettivo principale fosse il progresso e la salvezza
del genere umano. Solo negli ultimissimi giorni della sua vita è apparso evidente come il suo vero obiettivo fosse la distruzione di tutto. La vera realizzazione per un carattere realmente necrofilo quale quello di Hitler sta nella distruzione totale, non nella vita.
So bene che per rendere più comprensibile il concetto di necrofilia ci sarebbe da dire ancora molto di più. Vorrei accostarlo almeno “en passant” alla descrizione che Freud dà del carattere anale, che rappresenta una forma più diffusa e meno maligna di quello che in forma maligna è il carattere necrofilo. Il carattere anale è attratto dalle feci e dalla sporcizia; nella sua forma maligna, l’attrazione si rivolge alla morte e a tutto ciò che è in contrasto con la vita.
Ogni individuo può sentirsi attratto dalla morte se non riesce a sviluppare la sua potenzialità primaria, quella di accostarsi al mondo con interesse e gioia, e se non riesce a sviluppare le sue forze razionali e affettive. Se non ce la fa, l’uomo tende a sviluppare una diversa forma di relazionalità: quella che distrugge la vita. Anche nella distruzione si trascende la vita: l’uomo può raggiungere questo obiettivo sia creando nuova vita sia distruggendola.
Dare vita a qualcosa – e non mi riferisco solo a generare un figlio, ma alla creazione di tutto ciò che è vivo – presuppone determinate condizioni individuali e sociali. Anche il più misero e infelice degli uomini è in grado di distruggere, regolando in tal modo i conti con quella che Unamuno chiama la sua condizione di invalido. Potremmo dire che la distruttività necrofila è la trascendenza dell’invalido, un
perverso tentativo dell’invalido di creare distruggendo poiché non sa creare.
A lungo termine la distruttività necrofila può ridursi solo se vengono create condizioni di vita tali da consentire all’uomo di sviluppare la propria individualità e di credere in sé stesso, permettendogli di dipendere in modo ragionevole da altre persone senza pretendere di farsi mantenere o di «fagocitarle». In termini positivi, questo è ciò che intendo con “orientamento produttivo” dell’uomo libero e indipendente.
– La determinazione sociale della salute psichica.
Per concludere vorrei parlare delle condizioni storiche in cui l’uomo vive come riflesso della società. E’ interessante vedere come nell’uomo non si riflettano solo le condizioni sociali del presente, ma anche quelle del passato. Se potessimo fare una radiografia di un qualsiasi individuo in una qualsiasi società, troveremmo in lui la storia sociale degli ultimi cinquecento anni almeno. Si tratterebbe solo di farla affiorare. La maggior parte degli atteggiamenti individuali sono in realtà il risultato della storia del gruppo sociale di appartenenza. Ma non solo: nel singolo si trova anche il futuro del gruppo che ancora non si è realizzato. Anche le società hanno un futuro, verso il quale si dirigono pur senza averlo ancora raggiunto. Nell’individuo quel futuro si annuncia con un bisogno di efficienza e di forza che caratterizza ogni membro di una data società. Anche in una società non ancora in declino e nel pieno delle forze possono manifestarsi nei singoli individui segnali del futuro. Io credo che l’individuo sia la manifestazione del passato e del futuro di una società. Quindi ritengo che la salute psichica, in ogni sua forma, possa essere compresa solo tenendo presente il fine verso cui si dirige quella società, e il passato che l’ha plasmata.
Tra tutti i sintomi di mancanza di salute psichica, uno è a mio avviso più grave degli altri: la mancanza di speranza. Ed è proprio la mancanza di speranza che è alla radice di tutti i sintomi della malattia, che si tratti di alcolismo, omicidio, depravazione o corruzione. In realtà sto solo parafrasando Goethe. Non c’è maggiore differenza tra personaggi storici che tra quanti hanno fiducia e quanti ne sono privi; poiché chi ha fiducia è vivo, e chi ne è privo è morto. Lo stesso vale per le società e per i singoli individui che ne fanno parte.
La salute psichica sarebbe dunque la sindrome di una persona non alienata, relativamente priva di narcisismo, non angosciata e non distruttiva: in breve, di una persona produttiva. Per usare una definizione concisa quanto generica, le persone psichicamente sane sono quelle capaci di interessarsi alla vita. Questo vale per ognuno;
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tuttavia la capacità di interessarsi alla vita non dipende solo da fattori individuali, ma in misura determinante anche da fattori sociali. Perciò, per affrontare la malattia psichica e aspirare alla guarigione psichica, non serve da principio una terapia individuale. Si tratta per prima cosa e soprattutto di modificare quelle condizioni sociali che provocano malattie psichiche o mancanza di salute psichica nelle varie forme sopra descritte.
Parte terza.
L’UMANESIMO SCIENTIFICO. (1957)
LA SCIENZA UMANISTICA DELL’UOMO. Considerazioni preliminari
La nostra epoca è caratterizzata dal divario tra il livello di conoscenza raggiunto nelle scienze naturali e nella tecnica, e la scarsa conoscenza che ancora abbiamo dell’uomo.
Questa discrepanza non è soltanto di natura teorica, ma riveste anche una grande importanza pratica: se l’uomo non riesce a saperne di più sul proprio conto e non applica queste conoscenze per organizzare meglio la propria vita, sarà distrutto dai prodotti della sua cultura scientifica. Ma questo bisogno di una migliore conoscenza di sé da parte dell’uomo non viene già soddisfatto da migliaia di ricercatori che operano nei campi della psicologia, della psicologia sociale, della psicoanalisi e di altre scienze che studiano le “human relations”? Rispondere a questa domanda è di capitale importanza in vista della fondazione di un nuovo «Istituto per la scienza dell’uomo». Se infatti avessimo la sensazione che le finalità di una scienza dell’uomo sono già adeguatamente perseguite dalle scienze sociali nella loro forma attuale, sarebbe senz’altro preferibile incentivare le ricerche già in atto anziché fondare nuovi istituti. Tutti coloro che hanno partecipato al dibattito su un nuovo istituto hanno però chiaramente affermato che attualmente le scienze sociali non rispondono a tale esigenza. A favore di un «Istituto per la scienza dell’uomo» si possono addurre infatti varie motivazioni.
1. Oggi le scienze sociali, a parte alcune lodevoli eccezioni, sono impressionate dal successo e dal prestigio delle scienze naturali, e dunque cercano di applicare i metodi delle scienze naturali anche allo
studio dell’uomo. Non solo non si chiedono se un metodo valido per studiare le cose possa essere applicato anche all’uomo, ma neppure si pongono il problema se tale concetto di metodo scientifico non sia ingenuo e obsoleto. Credono che soltanto un metodo che permette di contare e misurare possa essere considerato scientifico, dimenticando che le scienze naturali più avanzate, come la fisica teorica, operano con ipotesi ardite basate sulla deduzione e, secondo Einstein, non disdegnano neppure l’intuizione. L’imitazione di presunti metodi scientifici fa sì che sia il metodo di «fatti e cifre» a determinare che cosa studiare. I ricercatori scelgono problemi insignificanti perché i risultati possono essere facilmente tradotti in grafici e formule matematiche, anziché scegliere problemi rilevanti ed elaborare nuovi metodi per risolverli.
In tal modo nascono migliaia di progetti di ricerca che perlopiù non sfiorano neppure le questioni fondamentali dell’uomo. Il pensiero che trova applicazione in questi progetti non è rigoroso, ma di natura piuttosto ingenua, tecnico-empirico, e dunque non stupisce che non siano le scienze sociali, ma le più progredite scienze naturali, ad attrarre i migliori cervelli della nazione.
2. Strettamente connesso con il problema del fraintendimento della metodologia scientifica è il relativismo di cui sono impregnate le scienze sociali. Mentre a parole continuano a professare la grande tradizione umanistica, la maggior parte dei sociologi ha adottato un atteggiamento totalmente relativistico, per il quale i valori sono considerati una questione di gusto, senza alcuna validità oggettiva. Poiché è difficile provare la validità oggettiva dei valori, le scienze sociali hanno optato per la via più facile: eliminare il problema. Così facendo hanno però trascurato il fatto che tutto il mondo è minacciato dalla crescente perdita di senso dei valori, che a sua volta ha prodotto una sempre maggiore incapacità di fare un uso costruttivo dei frutti della nostra riflessione e dei nostri sforzi nell’ambito delle scienze naturali.
3. Un altro aspetto di questo relativismo è la perdita dell’idea di uomo come entità definita, che è alla base delle molteplici manifestazioni dell’uomo nelle varie culture. L’uomo viene visto come un foglio bianco sul quale ogni cultura scrive il proprio testo, anziché come un’entità definibile sia biologicamente che psicologicamente. Come possiamo pensare di fare buon uso dalla crescente unificazione geografica e sociale dell’umanità, che si delinea come la tendenza del futuro, se non recuperiamo l’idea dell’uomo come realtà?
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Obiettivi generali
Alla luce di queste considerazioni preliminari passiamo ora a formulare gli obiettivi generali dell’istituto.
Lo studio scientifico dell’uomo deve svolgersi nello spirito dell’umanesimo. In particolare ciò significa che lo studio dell’uomo deve basarsi su evidenti interessi umani e, in primo luogo, su quelli di cui si sono sempre occupate le tradizioni religiose e filosofiche umanistiche: l’idea della dignità dell’uomo e del suo potenziale di amore e di ragione, che possono realizzarsi in condizioni favorevoli. In secondo luogo, lo studio dell’uomo deve basarsi sui problemi che emergono dalla nostra personale situazione storica: il crollo del sistema di valori tradizionale, la crescita incontrollata e selvaggia di attività puramente intellettuali e tecniche, il bisogno conseguente di dare un nuovo fondamento razionale ai valori della tradizione umanistica. Presupposto di tutto ciò è che l’uomo, al di là delle differenze, sia una specie, non solo in senso biologico e fisiologico, ma anche in senso psicologico e spirituale.
Questi obiettivi generali possono essere raggiunti solo se vengono elaborati e sperimentati metodi adeguati allo studio dell’uomo. Il problema non consiste tanto nello scegliere tra uno studio più o meno scientifico, ma nel determinare quale sia il giusto metodo razionale per comprendere l’uomo.
Una scienza umanistica dell’uomo deve portare avanti l’eredità dei grandi studiosi del passato, come Aristotele e Spinoza, arricchendola con i nuovi dati acquisiti dalla biologia, dalla fisiologia e dalla sociologia, e con le nostre esperienze di contemporanei che, in un’epoca di transizione, si preoccupano del futuro dell’uomo.
Da ultimo è necessaria una precisazione. I sociologi spesso affermano che una delle condizioni della ricerca scientifica è l’assenza di ogni interesse personale e di ogni finalità precostituita. Che questa sia un’ingenuità è dimostrato dallo sviluppo delle scienze naturali, che in larga misura sono stimolate, anziché limitate, da obiettivi o da esigenze pratiche. Compito dello scienziato non è fare ricerca senza porsi alcuna finalità – poiché sono proprio le finalità che persegue a dare senso e impulso al suo lavoro – ma fare un uso obiettivo dei dati che ricava. Ogni epoca ha sì i suoi specifici problemi economici e tecnici, ma anche i suoi specifici problemi umani. Oggi lo studio dell’uomo deve essere pertanto ispirato e guidato dai problemi generati dalla situazione storica attuale.
– Finalità specifiche.
1. “Studio di metodi adeguati alla scienza dell’uomo”. Occorre stabilire approcci metodologici diversi per lo studio delle cose e per
lo studio degli esseri viventi, e in particolare dell’uomo. Occorre per esempio distinguere tra un approccio «oggettivo», in cui l’oggetto non è altro che un oggetto, e un approccio in cui l’osservatore entra anche in relazione empatica con la persona osservata.
2. “Studio del concetto di uomo e di natura umana”. Mentre la filosofia umanistica presume l’unità di tutti gli uomini, è molto diffusa l’esigenza di una prova razionale e dimostrabile dell’esistenza dell’uomo e della natura umana, al di là dell’ambito puramente anatomico e fisiologico. Il concetto di natura umana deve derivare dall’integrazione di tutto ciò che sappiamo del passato e della nostra conoscenza attuale delle diverse culture, sia di quelle più evolute che di quelle più primitive. Occorre andare al di là di un’antropologia descrittiva, studiando le forze fondamentali dell’uomo dietro la varietà di forme in cui si manifestano. Uno studio approfondito e dinamico di tutte le manifestazioni della natura umana consentirà di ipotizzare un quadro provvisorio della stessa e delle leggi che la governano. Una scienza umanistica dell’uomo deve partire dal concetto di natura umana, e al contempo aspirare a scoprire che cosa essa sia. Ovviamente si dovranno studiare le diverse società (industriali, preindustriali, primitive) allo scopo di verificare le ipotesi avanzate.
3. “Studio dei valori”. Occorre dimostrare che certi valori non sono solo una questione di gusto, ma che sono anzi profondamente radicati nell’esistenza umana. Occorre perciò indicare quali siano questi valori fondamentali, e in che modo siano radicati nella natura dell’uomo. Occorre studiare i valori di ogni cultura, allo scopo di individuare gli elementi comuni. E occorre anche tentare uno studio dello sviluppo morale dell’umanità. Inoltre è necessario indagare sugli effetti prodotti negli individui e nelle culture dalla violazione delle norme etiche fondamentali. Per i relativisti, ogni norma – che si tratti di omicidio o di amore – è valida se è stata approvata dalla società. L’umanesimo invece afferma che determinate norme ineriscono alla situazione esistenziale dell’uomo, e che la loro violazione provoca effetti che ostacolano la vita.
4. “Studio della distruttività”. Strettamente connesso ai punti precedenti è lo studio della distruttività nelle sue varie manifestazioni (distruzione degli altri, autodistruzione, sadismo e masochismo). Non sappiamo quasi nulla delle cause della distruttività, sebbene esista una mole notevole di dati empirici che ci consentirebbe di avanzare almeno qualche ipotesi sulle cause individuali e sociali della distruttività.
5. “Studio della creatività”. Un’area di ricerca altrettanto ampia è costituita dallo studio degli impulsi creativi nei bambini, negli adolescenti e negli adulti, e dei fattori che stimolano o inibiscono tali impulsi. Questi studi, come anche quelli sulla distruttività,
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devono trascendere l’ambito americano e utilizzare per quanto possibile materiali provenienti dalle culture più disparate.
6. “Studio dell’autorità”. La moderna era della libertà e dell’individualismo ha combattuto contro l’autorità e ha proclamato come suo ideale la completa assenza di autorità. Questa assenza di un’autorità palese ha tuttavia favorito il diffondersi di un’autorità anonima, che a sua volta ha provocato un pericoloso rigurgito di conformismo. Il problema dell’autorità deve dunque essere affrontato “ex novo”, distinguendo empiricamente tra forme di autorità irrazionali e razionali, e il fenomeno del conformismo deve essere studiato in ogni sua manifestazione.
7. “Studio dei presupposti psicologici di un’organizzazione democratica”. L’idea del cittadino responsabile e ben informato che partecipa a tutte le decisioni importanti della collettività è il cardine della democrazia. Ma a causa dell’aumento della popolazione e delle tecniche di suggestione di massa, la sostanza della democrazia si va indebolendo. Sono necessari studi volti a chiarire che cosa passa per la testa dell’elettore (al di là del voto espresso sulla scheda), quanto egli sia suggestionabile e quanto influisca sui suoi ragionamenti il fatto di avere scarse possibilità di incidere sulla prassi politica. Occorre perciò favorire esperimenti di dibattito e deliberazione collettiva, e studiarne i risultati.
8. “Studio del processo educativo”. Se è vero che abbiamo un livello di istruzione superiore a quello di qualunque altro popolo vissuto sulla faccia della terra, è altresì vero che il nostro raffinato sistema d’istruzione non contribuisce granché a stimolare la riflessione critica e a influenzare la formazione del carattere. Come numerosi studi hanno dimostrato, gli studenti sono scarsamente colpiti dalla personalità dell’insegnante e tutt’al più ne ricavano un sapere puramente intellettuale. Servono nuovi studi che analizzino il processo di apprendimento e il rapporto insegnante-allievo, affinché l’educazione trascenda i processi puramente verbali e intellettuali e diventi un’esperienza ricca di senso.
9. “Studio della storia come evoluzione dell’uomo”. Convenzionalmente la storia è stata studiata in modo provinciale: le radici della nostra cultura sono in Palestina, in Grecia e a Roma, poi l’attenzione si rivolge alla storia europea e americana. Quello di cui abbiamo bisogno è una storia universale in cui l’evoluzione dell’uomo appaia nelle sue reali proporzioni. Bisogna dimostrare che nelle varie diramazioni della specie umana si sono formate le stesse idee fondamentali, che alcune si sono fuse e altre sono rimaste separate, e che le diversità sono state ampiamente sovradimensionate rispetto alle affinità. Una vera storia dell’umanità potrebbe mostrare l’evoluzione dell’uomo, del suo carattere e delle sue idee, e il suo confluire in un’unità sempre più integrata. Occorre dare un giusto peso ai reali contributi delle
varie culture e delle varie epoche. Una simile visione della storia consentirebbe all’uomo di avere un quadro oggettivo dell’intera specie umana, della sua crescita, della sua integrazione e della sua unità. Negli ultimi anni sono state scritte varie storie universali di questo genere, ma nessuna soddisfa l’urgente necessità di un’opera scientifica in più volumi, scritta dai migliori esperti, accomunati da una mentalità umanistica.
– Osservazioni generali.
1. Per acquisire una certa notorietà, l’istituto dovrebbe darsi un’immagine riconoscibile, che tuttavia è difficile esprimere con parole adeguate, non perché ci manchino, ma perché vengono spesso fraintese: pertanto devono essere le persone a esprimerla con il loro lavoro e la loro personalità.
2. L’istituto non dovrebbe seguire la prassi delle grandi fondazioni, che praticamente incoraggiano molti studiosi a riflettere su un problema scientifico in base alla sua «vendibilità», pensando cioè prima a un profitto e solo in un secondo tempo a quello che si vuole scoprire. L’istituto deve elargire solo il denaro strettamente necessario alla realizzazione dei progetti. Per principio occorre contenere i fondi entro un minimo ragionevole, e spenderli solo in modo funzionale. L’istituto dovrebbe così incoraggiare il ritorno a un metodo di lavoro antiquato, per il quale il fulcro della ricerca scientifica è costituito dalla riflessione e dallo studio e non dalla raccolta e dall’amministrazione dei fondi.
3. Oltre a creare una biblioteca delle scienze dell’uomo, l’istituto dovrebbe accordare il suo sostegno a due tipi di attività:
a) il lavoro di studiosi di chiara fama: in questo caso non si tratterebbe tanto di mirare a un problema specifico, quanto di aiutare una personalità produttiva a svolgere le sue ricerche sulla scienza dell’uomo senza doversi preoccupare di altri obblighi o restrizioni;
b) specifiche ricerche da svolgere con l’aiuto di validi ricercatori, che l’istituto dovrà impegnarsi a rintracciare: in questo caso occorrerà prevedere fondi da destinare ai progetti speciali.
Il consiglio direttivo dell’istituto dovrebbe elaborare una sua politica di ricerca, non limitandosi a selezionare validi scienziati, ma anche individuando i problemi fondamentali sulla base di uno studio comparato delle varie discipline. Così il consiglio direttivo andrebbe in un certo senso a costituire un comitato scientifico di programmazione per lo studio dell’uomo.
4. L’istituto dovrebbe inoltre sostenere persone e progetti al di fuori degli Stati Uniti. In nessun caso devono essere elargiti fondi alle università o ad altre istituzioni affini; i fondi sono destinati unicamente a persone e progetti proposti e approvati dall’istituto.
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5. Suggerisco infine che il consiglio direttivo dell’istituto sia formato da cinque-sette membri, che dovrebbero incontrarsi almeno due volte l’anno per un’intera settimana, per discutere non solo di questioni finanziarie, ma anche dell’impostazione generale del lavoro di ricerca. Nel corso dell’anno ognuno dei membri, ciascuno nel proprio settore, dovrebbe dedicare un po’ del suo tempo ai preparativi per tale lavoro. Un consiglio direttivo del genere dovrebbe riunire rappresentanti dei diversi campi delle scienze umane, che tuttavia dovrebbero essere scelti principalmente sulla base dei principi comuni, della produttività e della creatività. Lo spirito burocratico dovrebbe essere ridotto al minimo.
Parte quarta.
L’UOMO E’ PIGRO PER NATURA? (1974)
L’ASSIOMA DELL’INNATA PIGRIZIA UMANA.
– Aspetti socioeconomici dell’assioma. –
Nessuno può sfuggire all’influsso di un assioma che ci è stato inculcato sin dall’infanzia: quello dell'”innata pigrizia” dell’uomo. Non è un assioma a sé stante, ma fa parte della convinzione generale che l’uomo sia cattivo per natura, e che dunque abbia bisogno della chiesa o del potere statale per cercare di estirpare il male che è in lui; questo pur sapendo di non potervi riuscire oltre certi limiti. Se l’uomo è per sua natura pigro, avido e distruttivo (questo è il ragionamento), ha bisogno di sovrani spirituali o secolari che gli impediscano di cedere alle proprie inclinazioni.
Da un punto di vista storico, tuttavia, è ovviamente più corretto capovolgere l’assunto: se le istituzioni e i capi vogliono dominare gli uomini, l’arma ideologica più efficace di cui possano servirsi è quella di convincere l’individuo che non può seguire la propria volontà e il proprio intuito, perché sono entrambi guidati dal demonio che è in lui. Nessuno ne fu più consapevole di Nietzsche: se si riesce
a opprimere l’uomo con un costante senso di peccato e di colpa, lo si rende incapace di essere libero e di essere sé stesso; poiché il suo Sé è corrotto, non deve essergli consentito di farsi valere. A quest’accusa di fondo l’uomo può reagire con rassegnata sottomissione, oppure può protestare con una violenta aggressività che sembra
confermare l’accusa. Però non può essere libero, non può essere padrone della propria vita: non può essere sé stesso. […]
Prima di entrare nel merito della questione se l’uomo sia pigro per natura, sarà bene considerare un’ulteriore conseguenza della risposta. Se l’uomo è per sua natura pigro, indolente e passivo, si lascerà motivare a essere attivo solo da stimoli che non saranno mai “intrinseci” all’attività stessa, ma soltanto “estrinseci”. Ovvero, essenzialmente, dalla ricompensa (piacere) e dalla punizione (dolore). Se l’uomo è pigro per natura, dobbiamo chiederci quali incentivi siano necessari per superare la sua innata inerzia. Se invece l’uomo è per sua natura un essere attivo, dobbiamo chiederci quali siano le circostanze che paralizzano la sua naturale vitalità, rendendolo pigro e disinteressato.
La convinzione che l’uomo sia pigro per natura e che la sua attività debba essere stimolata tramite incentivi estrinseci, è stata come è noto alla base dell’idea convenzionale di “educazione” e di lavoro. L’alunno doveva essere indotto ad apprendere con ogni genere di ricompense e punizioni. Solo da poco tempo (dopo Friedrich Wilhelm August Fröbel e Maria Montessori) ci si è resi conto che il bambino ha voglia di apprendere se il processo di apprendimento risulta di per sé interessante. Ma questa intuizione non è ancora condivisa da tutti. Gli sforzi principali nel campo dell’educazione sono stati rivolti a trovare stimoli esterni sempre più efficaci, anziché a elaborare metodi di apprendimento capaci di suscitare il naturale desiderio dell’alunno di imparare, sapere e scoprire. Né si può dire che la fiducia nell’efficacia esclusiva delle ricompense e delle punizioni
sia passata di moda. Il comportamentismo, soprattutto nella sua forma più recente e sofisticata del neocomportamentismo di Skinner, ha posto alla base del suo intero sistema il principio dell’efficacia esclusiva delle ricompense estrinseche. L’unico progresso rispetto al passato è rappresentato dall’idea che la ricompensa al momento giusto sia più efficace della punizione.
Che la società industriale abbia adottato lo stesso principio riguardo al “lavoro”, è cosa evidente. Cent’anni fa nessuno dubitava del fatto che il lavoro, in particolare quello dell’operaio, fosse dannoso e spiacevole, poiché era evidente a chiunque. La durata (fino a quattordici o addirittura sedici ore al giorno), la fatica fisica e la necessità di impiegare grandi energie in ambienti malsani rendevano questo tipo di lavoro decisamente ripugnante. Al giorno d’oggi molte cose sono cambiate: la giornata lavorativa si è notevolmente accorciata, le macchine sostituiscono la forza umana, i luoghi di lavoro non sono più bui e malsani. Quanto al lavoro «sporco» che ancora rimane, esso è svolto principalmente dai ceti più bassi della popolazione: dalla gente di colore negli Stati Uniti, dagli emigranti italiani, spagnoli e turchi in Europa, oppure dalle donne.
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Oggi, dopo la pressoché totale scomparsa degli aspetti negativi del lavoro più vistosi, ne è emerso uno assai inquietante: la “noia”, che non si manifesta solo tra gli operai, ma anche tra impiegati e burocrati, con l’eccezione di quanti partecipano alla progettazione o alle decisioni.
Che si trattasse di disagio fisico o di quello psichico della noia, lavoratori e datori di lavoro erano concordi nel definire il lavoro un’inevitabile seccatura. Perciò, per spingere il lavoratore al lavoro, bisognava agitare lo spauracchio della fame; e per farlo lavorare meglio e in modo più produttivo, lo si doveva ricompensare con salari più alti e giornate lavorative più corte. Pur essendo le due parti sostanzialmente d’accordo, i datori di lavoro erano riluttanti ad aumentare i salari e vi furono spesso costretti dagli scioperi minacciati dagli operai. Nello stesso tempo, i radicali cambiamenti del sistema economico hanno fatto sì che anche per i datori di lavoro risultasse vantaggioso aumentare le ricompense. Tutti i conflitti tra lavoratori e datori di lavoro vertevano sull’entità dei salari e sulla durata della giornata lavorativa. Nessuna delle due parti ha mai pensato di modificare la qualità del processo lavorativo in modo da rendere il lavoro interessante in sé.
Il fenomeno è tanto più sorprendente, soprattutto da parte dei lavoratori, in quanto già Marx, che ha avuto vasta influenza in tanti altri campi, aveva capito che il problema cruciale era “la questione della natura del lavoro”. Per Marx, nel capitalismo il lavoro dell’operaio o dell’impiegato è lavoro alienato. Il lavoratore vende le proprie energie a chi lo assume, e fa quello che gli viene detto, quasi fosse la rotella di un ingranaggio. La merce che «lui» produce sta sopra e contro di lui, e perciò non se ne sente il creatore. Il lavoro alienato è necessariamente noioso, dannoso e sgradevole; di conseguenza il lavoratore può essere motivato ad accettarne il peso solo con la promessa di compensi materiali, che tuttavia portano a un incremento dei consumi. I conflitti non riguardano il principio, ma solo l’ammontare del compenso.
La situazione sarebbe del tutto diversa se il lavoro non fosse alienato, se cioè fosse gratificante, perché interessante, stimolante
e vitale. E se non il lavoro in senso stretto, almeno la partecipazione responsabile all’organizzazione sociale delle unità di lavoro (fabbrica, ospedale, eccetera).
Solo negli ultimi anni gli operai hanno riscoperto le idee di Marx, certo non per influsso diretto dei suoi scritti. Questo nuovo atteggiamento è molto evidente negli Stati Uniti e nella Repubblica federale tedesca. Già da alcuni anni la protesta contro la noia del lavoro e la richiesta di metodi produttivi che offrano al lavoratore la possibilità di un maggiore interesse e di una maggiore influenza su un processo lavorativo ormai iperspecializzato, e che portino a un
decentramento dello stesso, sono al centro delle trattative tra lavoratori e datori di lavoro; sebbene le richieste puramente economiche di salari più alti (o almeno più stabili quanto al loro potere di acquisto) mantengano sempre uguale importanza. L’industria non è rimasta sorda alle richieste di un lavoro più gratificante, e in tal senso sono stati intrapresi in via sperimentale alcuni tentativi. L’importanza cruciale del problema per il futuro dovrebbe risultare evidente a chiunque. Più il lavoro è meccanizzato, spersonalizzato e dunque alienato, più deve aumentare la ricompensa estrinseca, che consiste in salari più alti e dunque maggiori consumi. Questo sviluppo porta l’uomo moderno a compensare la noia crescente nel lavoro e nel tempo libero con un incremento dei consumi, al fine di ritrovare il suo equilibrio psichico. Se ci si rende conto del pericoloso deterioramento dell’uomo prodotto dal consumismo, la questione se sia vero che l’uomo è pigro per natura diventa una delle questioni psicologico-antropologiche fondamentali.
– Aspetti scientifici dell’assioma.
E’ difficile comprendere come, nonostante le numerose osservazioni contrarie, si sia creduto tanto fermamente all’idea dell’innata pigrizia e della naturale passività dell’uomo. Gli animali non mostrano forse un’irresistibile inclinazione al gioco? E i bambini non hanno forse un incontenibile desiderio di giocare, impegnandosi finché non sono stanchi? (Il fatto che Freud abbia erroneamente interpretato la tendenza del bambino a giocare sempre uno stesso gioco come manifestazione di una «coazione a ripetere», piuttosto che come espressione del suo bisogno di attività, è probabilmente da ricondursi all’assioma della sua naturale inerzia.) Non è forse vero che l’uomo, in ogni epoca e in ogni cultura, manifesta il bisogno di essere eccitato e stimolato? E che cerca la soddisfazione di quel bisogno nell’arte, nello spettacolo, nella letteratura, nei riti, nella danza, nonché, nella nostra cultura, osservando «l’uomo al trapezio volante», assistendo agli incidenti d’auto, leggendo la cronaca nera? Non è forse vero che l’uomo fa di tutto per evitare la noia e l’inerzia? L’assioma riduzionista sostiene che l’uomo è alla ricerca di una condizione di minimo eccitamento. Per Freud, il piacere consiste nella totale assenza di eccitamento. La noia e l’inerzia sarebbero dunque condizioni ideali? Perché allora l’uomo cerca di evitarle? Vi sono numerose prove dell’esistenza nell’uomo di un intrinseco bisogno di eccitamento e di stimolazione. Tornerò in seguito su questo punto. Per ora mi limiterò a rilevare che già dagli esiti non ancora probanti delle osservazioni quotidiane appare evidente come la maggior parte degli psicologi sia cieca nei confronti di questo bisogno intrinseco dell’uomo.
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D. O. Hebb fornisce una spiegazione molto ingegnosa di questo fenomeno astruso. Egli suggerisce che la maggior parte degli attuali problemi legati alla teoria della motivazione derivi dal fatto che gli psicologi basano le loro riflessioni su teorie neurologiche datate, che nel frattempo sono state sostituite da altre più adeguate.
“Dal punto di vista caratterologico, la teoria stimolo-risposta considera l’animale più o meno inattivo quando non è sottoposto alle condizioni particolari che provocano una reazione di ‘arousal’: in primo luogo fame, dolore ed eccitamento sessuale, e in secondo luogo stimolazioni associate a una di quelle motivazioni più primitive”. (Hebb, 1955, p. 244)
In particolare Hebb segnala come, prima del 1930, la neurologia tendesse a credere che la cellula nervosa fosse inerte finché non le accadeva qualcosa dall’esterno, e che lo stesso valesse per l’agglomerato di cellule che formano il sistema nervoso. Dopo il 1930, la neurologia è molto cambiata da questo punto di vista. Si è cominciato a capire che il sistema nervoso, come ogni cosa viva, è attivo, che il cervello è strutturato proprio per essere attivo, e che tutto ciò di cui ha bisogno è un adeguato nutrimento. “L’unico problema comportamentale di cui bisogna rendere conto è l’inattività”, non l’attività (ibid., p. 244). Le più recenti scoperte neurologiche rivelano che il cervello è sempre attivo, ma «non sempre trasmette la sua attività in modo da condurre a un comportamento» (ibid., p. 248: Hebb cita come esempio la differenza che c’è tra l’attività lenta dei dendriti e l’attività istantanea che si manifesta negli “spikes” [impulsi elettrici]).
Per quanto affascinante, la tesi di Hebb secondo la quale le teorie degli psicologi soffrono del fatto di basarsi su una teoria neurologica obsoleta non spiega perché essi non si siano serviti di una teoria più aggiornata. Perché avrebbero dovuto trascurare dati che erano sottomano e pronti per essere utilizzati?
– L’assioma e la concezione attuale del lavoro.
Probabilmente la fede nell’assioma dell’innata passività dell’uomo trae origine proprio dalla natura del lavoro nella società industriale. Ciò appare chiaro se confrontiamo il lavoro industriale – dalla produzione tessile al telaio meccanico e al nastro trasportatore, fino alla catena di montaggio in una fabbrica di automobili – con il lavoro dell’artigiano medievale. Il modo di lavorare del fabbro o del carpentiere richiedeva una continua concentrazione e un costante interesse per il proprio lavoro. Quel metodo di lavoro era un processo di apprendimento senza soluzione di
continuità, che iniziava con l’apprendistato e continuava per tutta la vita. Nel processo lavorativo l’artigiano accresceva la propria perizia, ovvero “sviluppava sé stesso”, i propri sensi, la conoscenza del materiale e delle tecniche; la capacità di vedere e sentire cresceva con l’andare del tempo, e lui stesso cresceva nel corso di questo processo attivo fondato sul rapporto con i materiali, gli utensili e altri fattori dell’ambiente circostante. Per questo il suo lavoro non era mai noioso, ma sempre interessante, come lo è ogni attività che richieda concentrazione, attenzione e perizia.
Oggi possiamo riscontrare tracce di quell’antico atteggiamento nel lavoro dell’artista, sia egli un pittore o un violoncellista; ma anche nel lavoro di un chirurgo, di un pescatore, di un artista del circo, e così via. (D’altronde, credo sia questo il motivo per cui oggi la gente rimane affascinata da qualunque lavoro la cui esecuzione richieda una comprovata abilità, che si tratti del violoncellista Pablo Casals o di un tessitore al telaio.)
Sappiamo anche che i lavori che richiedono un esercizio e una pratica costanti sviluppano delle facoltà che a un estraneo possono apparire straordinarie: pastori la cui vista è dieci volte più acuta di quella dell’uomo medio; carpentieri arabi che con il solo ausilio degli occhi
e del tocco della mano, ma senza strumenti di precisione, sanno lavorare una lastra di marmo in modo da incastrarla perfettamente nell’apposito spazio sul piano di un tavolo (devo gli esempi citati a una comunicazione personale del pittore Max Hunziker). Il violinista che esegue a memoria un numero incredibile di brani musicali molto complessi non potrebbe sviluppare tali straordinarie facoltà senza un’attività e un esercizio costanti, sebbene anche il talento sia un elemento essenziale per una pregevole esecuzione. Bastino questi esempi per ricordare questo genere di lavoro.
Un lavoro così qualificato non necessita per essere svolto di ricompense, minacce o punizioni estrinseche. Esso reca in sé l’intrinseca ricompensa dell’interesse, dell’esercizio di una particolare abilità, che nell’atto creativo stabilisce una relazione con il mondo e, innanzitutto, premia l’uomo facendolo crescere ed essere sé stesso.
Per comprendere la natura di questo tipo di lavoro, occorre però considerarlo all’interno del suo contesto sociale. All’artigiano medievale – come ancor oggi all’artigiano che opera nei paesi non industrializzati – non importava la massimizzazione del profitto o della produzione. Egli voleva conservare il suo tradizionale standard di vita, e non era ossessionato dalla fame di merci tipica del consumatore moderno. Inoltre, i regolamenti delle corporazioni ponevano dei limiti al numero di apprendisti da formare e alla quantità di merci da produrre. Un tale artigiano si sarebbe stupito all’idea che il suo lavoro potesse risultare noioso, e che il denaro
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potesse essere un compenso per la sgradevolezza del lavoro, se non addirittura il maggiore incentivo a svolgerlo. (Si vedano, in proposito, i lavori di Werner Sombart, Max Weber, Richard Henry Tawney e Karl Marx, nonché le analisi contenute nei miei testi “Fuga dalla libertà” [1941], “Psicoanalisi della società contemporanea” [1955] e “La rivoluzione della speranza” [1968].)
Nella società industriale tutto è cambiato. Il lavoro ha un unico scopo: procurare profitto a coloro che possiedono le macchine e dar da mangiare a coloro che sono «assunti» per manovrarle. Oggi l’operaio è
al servizio della macchina, e per questo gli basta solo una minima dose di abilità. Neppure le prestazioni di un operaio «qualificato» sono paragonabili alla perizia di un artigiano medievale. L’operaio è
più uno strumento specializzato che un essere umano dotato di un proprio talento. L’operaio non qualificato esegue un numero molto ristretto di movimenti; alla catena di montaggio l’intero corpo è prigioniero del ritmo del nastro trasportatore e l’attività si riduce
a un paio di movimenti monotoni. Egli non è mai in contatto con il «suo» prodotto, o meglio non è lui a crearlo; tutt’al più diventa un acquirente, nel momento in cui lo compra e lo possiede. (E’ significativo che uno studio recente riveli come tra gli operai dei cantieri navali italiani vi sia un livello di insoddisfazione e di
noia molto più basso, in quanto il loro lavoro è organizzato in modo che essi abbiano sempre dinanzi agli occhi il prodotto finito, la nave, e possano seguirne lo sviluppo dal primo giorno sino alle ultime rifiniture e, infine, al varo.) E’ risaputo che l’operaio moderno soffre di una noia tremenda, e odia il proprio lavoro. In quanto persona non viene arricchito ma storpiato dal processo lavorativo, poiché nessuna delle sue facoltà ha la possibilità di essere coltivata
e di crescere.
D’altra parte non potrebbe essere altrimenti in un sistema in cui si produce per amore del profitto procurato dalla merce, e non per il valore sociale o culturale di ciò che si produce. Si producono molte merci già predestinate all’usura, e oggetti del tutto privi di valore,
che solo il potere di suggestione della pubblicità e del “packaging”
fa sembrare utili. Ovviamente, questo non significa che non si producano anche merci utili e di valore, poiché altrimenti il nostro sistema economico non potrebbe funzionare. Ma lo scopo precipuo della produzione capitalistica è il profitto, non l’utilità o la bellezza. E dunque non ci possiamo neppure aspettare che il lavoro sia intrinsecamente interessante.
In tempi recenti la classe dirigente ha cominciato a rendersi conto
che l’ottusità del lavoro è controproducente anche dal punto di vista
del profitto. Perciò si è ricominciato a decentralizzare il lavoro al
fine di renderlo meno noioso. Il tentativo più radicale di modificare
la natura alienata del lavoro è stato intrapreso nel sistema
socialista iugoslavo con il metodo dell’«autogestione» di buona parte della produzione: tutti i collaboratori di un’impresa sono cioè ritenuti responsabili della sua gestione. L’impresa non appartiene a un privato o allo stato (come nei paesi del blocco sovietico), e neppure «appartiene» in senso stretto agli operai: la proprietà legale ha perduto il suo ruolo centrale, poiché quello che importa non è la proprietà ma il controllo e la partecipazione. Sebbene nella pratica (come era prevedibile in un piccolo paese circondato da sistemi sociali basati sul controllo dei privati o dello stato) tale sistema abbia funzionato in modo molto imperfetto, tuttavia si tratta dell’idea più nuova e originale in fatto di organizzazione del lavoro
e della proprietà (si veda in proposito la Costituzione della Repubblica federale socialista di Iugoslavia, cap. 2, art. 6, e cap.
5, art. 96, cit. in Kolaya, 1966). E’ un fatto degno di rilievo che i movimenti operai rivoluzionari in Polonia e in Cecoslovacchia fossero coordinati da consigli operai. Probabilmente nessuna tendenza è [stata] altrettanto osteggiata dall’Unione Sovietica; i suoi primi fautori furono Rosa Luxemburg in Germania e, all’alba della rivoluzione russa, l’«opposizione operaia» che contrastò i metodi burocratici di Lenin (si veda in proposito anche Fromm, 1955).
Il sistema industriale alienato, sia nella sua versione capitalistica sia in quella del cosiddetto «socialismo», si fonda sul presupposto che l’uomo spreca il proprio tempo e le proprie energie senza alcun interesse, motivato esclusivamente dal desiderio di un aumento dei consumi. Mettere in dubbio l’assioma degli stimoli estrinseci quale unica motivazione dell’uomo al lavoro significa mettere in dubbio l’intero sistema e spargere sabbia negli ingranaggi della macchina che sembra funzionare tanto bene.
La maggioranza degli psicologi, come la maggioranza degli studiosi di scienze sociali, non è affatto incline a dubitare del sistema. Di fatto le loro teorie non solo sono influenzate dal sistema, ma ne forniscono un supporto ideologico. Essi non trascendono gli assiomi fondamentali neppure nei loro esperimenti, che perlopiù mirano a fornire una prova scientifica ai presupposti della nostra società. Cosa tanto più facile in quanto si confrontano ben poco con i dati nudi e crudi, come invece fanno per esempio i neurofisiologi; così essi possono manipolare – certo a livello spesso inconsapevole – il loro materiale nel modo più accettabile per la società.
Il fatto stesso che in tutti i dibattiti scientifici sulla natura della motivazione estrinseca o intrinseca non venga quasi mai menzionato il nesso tra questo problema e le ipotesi correnti sulla motivazione al lavoro, fa sorgere il dubbio che ci sia stata una sorta di rimozione di questo nesso, al fine di abbagliare lo studioso di scienze sociali impedendogli di vedere la fonte dei propri preconcetti. (Alcuni psicologi del lavoro, come Lickert, McGregor e
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White, hanno dato contributi preziosi all’analisi della motivazione al lavoro, ma anch’essi si ispirano sempre al principio dell’armonia tra gli interessi del profitto e gli interessi dell’uomo; si veda Fromm, 1970 a.)
Due sono dunque i motivi per cui l’assioma dell’innata pigrizia dell’uomo e del bisogno di questi di essere attivato dagli stimoli estrinseci del piacere o dolore ha dominato il pensiero della maggioranza degli psicologi: il primo è il ruolo centrale della macchina, insieme all’organizzazione del lavoro tipica della società industriale; l’altro è il bisogno di far sentire le persone in colpa
per meglio manipolarle. Un bell’esempio di influenza ideologica è dato dai molti neurofisiologi che parlano di aree della ricompensa e della punizione come equivalenti di piacere e dolore. Si dà per scontato che persino il nostro cervello obbedisca alle leggi del pensiero cristiano-capitalistico, per il quale il piacere è una ricompensa e il dolore una punizione.
Tuttavia il principio della ricompensa comincia a vacillare. Gli effetti della noia si manifestano in varie forme: nella mancanza di interesse di molti giovani per il lavoro, nella crescente diffusione delle droghe, nella violenza, nella disperazione, silenziosa o palese. Un numero crescente di persone sente che la noia di quaranta ore settimanali passate a lavorare non è né può essere compensata mediante un maggiore consumo, soprattutto se anche il consumo diventa noioso e non comporta più un aumento dell’attività, o una crescita della personalità e delle proprie capacità. Tra i lavoratori sono molto diffusi assenteismo e malattie psicosomatiche, e la scarsa gioia di lavorare si manifesta anche nella qualità scadente di molti prodotti. Ci troviamo in una fase di grave crisi del sistema patriarcale, che ruota attorno ai massimi valori del dovere e dell’obbedienza e non alla vita, all’interesse, alla crescita, all’attività; i valori guida
sono “avere” e “usare”, non “essere”. Non stupisce che sotto l’impatto della crisi sociale e culturale vengano messe in dubbio le vecchie dottrine, e che gli uomini comincino a sospettare che il piacere intrinseco dell’attività sia più importante del piacere estrinseco legato al denaro e ai consumi.
ARGOMENTI CONTRARI ALL’ASSIOMA. – Riscontri neurologici.
Vi sono ampie prove a sfavore dell’assioma dell’innata pigrizia umana, la maggior parte delle quali è stata (ri)scoperta nel corso degli ultimi decenni. Un numero crescente di persone ha cominciato a dubitare del dogma della pigrizia innata, che serviva solo a mantenerle in una condizione di dipendenza. Nel presente capitolo illustrerò alcuni dei principali argomenti probanti, che si possono individuare in vari settori: nelle discipline che studiano il sistema nervoso, nella psicologia degli animali, nella psicologia sociale, nello studio dello sviluppo infantile, dei processi di apprendimento e dei fenomeni onirici.
La scoperta dell’attività intrinseca dell’uomo ha avuto inizio con il libro del neurologo russo I. M. Secenov, “Riflessi nel cervello” (1863). Alla domanda in quale modo un neonato reagisca alle stimolazioni sensoriali esterne, Secenov replicava:
“E’ noto che la principale condizione per conservare l’integrità materiale, ovvero la funzione di tutti i nervi e di tutti i muscoli senza alcuna eccezione, consiste in un adeguato esercizio di ciascun organo: il nervo ottico deve essere esposto all’azione della luce, il nervo motorio deve essere stimolato e i muscoli si devono contrarre, e così via. D’altronde sappiamo che se l’esercizio di uno qualunque di questi organi viene impedito con la forza, la persona percepisce un senso di tensione che la costringe a eseguire l’azione necessaria. Appare dunque evidente che il bambino non reagisce in modo passivo agli influssi esterni”. (Lindsley, 1964)
Sebbene l’ipotesi di Secenov si basasse sulla convinzione dell’esistenza di un pattern innato di riflessi, che deve svilupparsi
e giungere a maturazione, è significativo che egli sia giunto alla conclusione che sia gli animali sia gli esseri umani appena nati addirittura “desiderano” una stimolazione sensoriale! Numerosi studi molto più recenti sono andati ben al di là dell’originaria ipotesi di Secenov, rivoluzionando il concetto di neurone inteso comunemente come entità statica. La neurobiologia molecolare ha individuato nuovi dati, che Schmitt definisce «fondamentali per lo studio del cervello e del comportamento». Secondo questo autore,
“il neurone vivo si distingue notevolmente da una grandezza statica; diversamente da quanto si desume dai manuali di anatomia e dalle
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osservazioni dei fisiologi, che si interessano soprattutto ai parametri bioelettrici, ‘il dinamismo è il leitmotiv della funzione neuronale'”. (2) (Schmitt, 1967, p. 211, corsivo mio)
Le cellule nervose rivelano un livello notevole sia di attività che di integrazione. Contrariamente alle ipotesi su cui si fonda la teoria stimolo-risposta, «il cervello non solo reagisce agli stimoli esterni, ma è esso stesso “spontaneamente attivo”». Livingston si esprime perciò criticamente nei confronti del concetto convenzionale di stimolo-risposta:
“Se per esempio analizziamo il paradigma dell’apprendimento, tendiamo a sottolineare come a un determinato stimolo segua una determinata risposta. Questo schema ci induce a fissare la nostra attenzione sulla natura reattiva del processo: lo stimolo condizionato (‘conditional stimulus’: C.S.) e lo stimolo non condizionato (‘unconditional stimulus’: U.S.), se opportunamente applicati, producono una risposta condizionata (‘conditional response’: C.R.). Non dobbiamo però dimenticare che tali processi si manifestano all’interno di un quadro di riferimento più ampio. Determinate condizioni sono indispensabili presupposti della possibilità che uno stimolo qualunque si traduca in apprendimento. Uno stimolo (C.S. o U.S.) assume importanza solo se il sistema nervoso è ben orientato e adeguatamente ricettivo nei confronti dello stimolo stesso”. (Livingston, 1967, p. 501)
L’attività elettrica spontanea delle cellule cerebrali ha inizio allo stadio embrionale, e non cessa mai. Può essere individuata con l’ausilio di elettrodi applicati alle varie regioni del cervello. Il livello sorprendentemente elevato di attività delle cellule cerebrali
si può spiegare con il fatto che il cervello umano, pur coprendo appena il 2 per cento del peso corporeo, consuma come minimo il 20 per cento del fabbisogno di ossigeno, una quantità di ossigeno equivalente a quella consumata da un muscolo in esercizio. Così, Livingston afferma:
“[mentre un] muscolo attivo può sostenere un tale consumo di ossigeno solo per un breve periodo […], il sistema nervoso prolunga il suo elevato fabbisogno per tutta la vita, dalla nascita alla morte, che
sia sveglio o addormentato”. (Ibid.; si veda anche Ketty, 1957)
Un fatto cruciale per la comprensione del comportamento umano è il rapporto tra l’attività cerebrale, ovvero l’uso dei neuroni, e la crescita del cervello. Lo sviluppo del cervello prima della nascita e nei mesi immediatamente successivi è molto rapido. A questa crescita esplosiva (dai circa 335 grammi al momento della nascita ai 1300
grammi dell’adulto) fa seguito una fase di rallentamento. Nell’adulto il cervello non si sviluppa più per aumento del volume; si sviluppa invece principalmente la struttura macromolecolare, soprattutto per la crescita delle diramazioni e dunque anche del peso dei neuroni. Dopo la differenziazione, i neuroni si dividono di rado (con l’eccezione dei microneuroni). Eppure non esiste un momento in cui tale sviluppo venga a cessare (Schmitt, 1967, p. 211). La crescita neuronale non avviene solo nelle cellule nervose del cervello, ma anche “in vitro”:
le cellule nervose in una cultura tissutale rimangono biologicamente ed elettricamente attive e «manifestano rotazioni nucleari, movimenti protoplasmatici, flusso assonico e curve della crescita sorprendentemente dinamiche» (Livingston, 1967, p. 502; si veda anche Pomerat, 1964).
Ipotesi formulate dalle teorie interneuronali della memoria confermano altresì l’idea che la trasmissione al cervello di nuove informazioni dia luogo alla creazione di nuovi circuiti neuronali, per allungamento o accorciamento degli assoni a seconda del loro uso. Poiché la teoria interneuronale è caduta in discredito nel corso degli ultimi decenni,
è probabile che anche queste ipotesi siano opinabili (Altman, 1967, p. 725). Tuttavia, alcuni interessanti esperimenti con animali (Bennet et al., 1964; Altman, 1967, p. 741) sembrano confermare la relazione tra uso dei neuroni e loro crescita. In una serie di esperimenti con i ratti, questi sono stati allevati in parte in una grande gabbia dove potevano muoversi liberamente e giocare con vari oggetti, in parte invece in piccole gabbie di isolamento, in deprivazione sensoriale e senza l’opportunità di eseguire alcuna attività motoria. I ricercatori hanno scoperto che la sostanza corticale grigia era più spessa negli animali della gabbia grande (benché il loro peso corporeo tendesse a essere più basso) che in quelli della gabbia piccola. In una ricerca analoga, Altman e Das (1964) hanno studiato la tendenza alla proliferazione cellulare nei cervelli di ratti allevati in ambienti diversi, ricavandone la prova istologica di una crescita nella regione corticale per gli animali della gabbia grande, e la prova autoradiografica di un intensificarsi della proliferazione cellulare negli animali adulti della gabbia grande. Mentre proseguivano le ricerche, Altman (1967, p. 741) ha provvisoriamente riferito che altre variabili comportamentali, dovute per esempio «all’aver avuto contatti da piccoli», possono alterare radicalmente lo sviluppo cerebrale e in particolare la proliferazione cellulare nella corteccia cerebellare, nella circonvoluzione dell’ippocampo e nel neopallio.
Altri esperimenti nella stessa direzione sono stati effettuati da Wiesel e Hubel (1965 a, b). Tali esperimenti dimostrano che il mancato uso di un occhio nei tre mesi successivi alla nascita (mediante chiusura artificiale della palpebra) produce nel gattino la cecità di quell’occhio, e l’uso dello stesso dal terzo al quindicesimo mese di
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vita consente solo un lieve recupero delle facoltà visive. Kandel ne deduce:
“Benché tali alterazioni si possano produrre solo negli animali appena nati, esiste peraltro l’interessante possibilità che modifiche più lievi ma qualitativamente analoghe dell’attività sinaptica si verifichino anche negli animali adulti, a seguito di prolungati periodi di uso alterato. Al momento attuale sappiamo ancora molto poco dei procedimenti che ci consentirebbero di produrre modifiche permanenti negli animali adulti a seguito di prolungati periodi di uso alterato”. (3) (Kandel, 1967, p. 684)
Sebbene le attuali conoscenze delle connessioni tra uso e crescita delle cellule cerebrali siano ancora molto scarse, possono risultare interessanti alcune osservazioni sul processo di invecchiamento. Walter scrive:
“In generale il cervello non è un fattore determinante per la durata della vita […]. L’elettroencefalogramma (EEG) si modifica di poco con il passare degli anni. Se escludiamo i casi di autentica senilità, spesso presenta gli stessi tratti all’età di sessanta o ottanta anni. Dalla elettrofisiologia, la gerontologia […] ha tratto la sola convinzione che la maggior parte dei cervelli è in grado di sopravvivere agli altri organi”. (Walter, 1953)
Anche il fenomeno neurofisiologico dei cosiddetti centri del piacere sembra confermare il fatto che il cervello vuole essere attivato. I centri del piacere sono stati scoperti dapprima da M. E. Olds e J. Olds, e poi studiati da Heath, Delgado e altri (si veda Heath, 1964 b). Tali ricerche hanno dimostrato come una breve stimolazione elettrica di determinate aree della regione subcorticale del cervello produca nel soggetto sperimentale una sensazione di piacere. Le aree del cervello nelle quali sono state finora riscontrate tali proprietà sono la testa del nucleo caudato, il setto, l’amigdala, il metatalamo centrale, l’ipotalamo medio, l’ipotalamo posteriore e l’area di demarcazione tra ipotalamo e tegmento. Queste diverse aree del cervello venivano stimolate mediante l’applicazione di elettrodi, mentre l’attività elettrica di ogni singola area veniva registrata dall’elettroencefalogramma (EEG). Heath riferisce che «l’area delle correnti gratificanti appariva sensibilmente maggiore» non appena veniva stimolato il setto, pur obiettando che «finora sono state studiate accuratamente solo poche posizioni degli elettrodi per poter dare un giudizio definitivo su questo punto» (Heath, 1964 b, p. 79). In un altro saggio (1964 a, p. 239), Heath riferisce che «una reazione piacevole era associata all’attivazione focalizzata del setto», e che
«l’attività fisiologica nell’area del setto è fondamentale per la
risposta di piacere». Egli riferisce inoltre che pazienti non schizofrenici reagiscono alla stimolazione del cervello con sensazioni di piacere più intense dei pazienti schizofrenici: un fatto che «appare degno di nota anche in relazione alla condizione di “anedonia” (assenza di piacere) nei pazienti schizofrenici» (ibid.). In altri pazienti è stato indotto eccitamento sessuale mediante stimolazione del setto, ma non di altre aree del cervello.
In un saggio pubblicato nel 1970 da «Psychology Today», Delgado calcola che mentre il 60 per cento circa del cervello è neutro nei confronti della percezione del piacere e del dolore, il 35 per cento è sensibile alla stimolazione piacevole e solo il 5 per cento a quella dolorosa. Ci sembra evidente quanto queste scoperte siano rilevanti per la valutazione della teoria freudiana del piacere. Freud, come altri riduzionisti, era convinto che non esistesse il piacere in sé ma solo varie gradazioni di dolore, e che il piacere fosse essenzialmente
il passaggio da un livello di dolore più alto a uno più basso. Le ricerche dimostrano invece che il piacere ha una propria base neurofisiologica, e inoltre che l’organismo umano è «per sua natura» molto più preparato a percepire il piacere che il dolore. Ovviamente il punto cruciale è che cosa si intende per «piacere». Si tratta principalmente di soddisfare determinati bisogni fisiologici come il sesso o la fame (e in tal caso, secondo lo schema freudiano, le sensazioni di piacere «più elevate» sarebbero sublimazioni di quelle più basse), oppure il piacere sta a indicare una generale condizione di benessere, al di là del soddisfacimento di desideri specifici? Le ricerche di Heath dimostrano che la stimolazione del setto può produrre eccitamento sessuale, e che a sua volta l’eccitamento sessuale compare nell’EEG in connessione col setto. Con le sue osservazioni, Heath ha fatto dei passi in avanti che sembrano trascendere lo schema edonistico nel suo complesso. Egli ha infatti scoperto che la stimolazione elettrica del setto può dar luogo alla percezione di un “interesse attivo”, di carattere intellettuale o di altro genere, che non è connesso con il soddisfacimento del desiderio sessuale o della fame. In un caso egli ha osservato come, nel corso del processo di soluzione di un interessante problema matematico, l’EEG segnalasse un’attività nel setto. Per questo Heath (comunicazione personale) è anche convinto che l’attivazione dell’area del piacere con buone probabilità dipenda da un processo per cui il soggetto sviluppa un interesse attivo nei confronti del mondo esterno. (Tradotto nella mia terminologia, si tratterebbe di un interesse produttivo [documentabile sul piano neurofisiologico] anziché di un interesse passivo, ricettivo.) In altre parole, queste scoperte stanno
a indicare che l’interesse attivo dell’uomo per il mondo esterno è già radicato nella struttura del suo cervello, e dunque non ha bisogno di
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essere sviluppato mediante ricompense estrinseche. Se l’uomo è privo di tale interesse attivo, significa che è malato, che soffre di una malattia davvero grave che però Heath non considera una depressione psicotica.
L’importante conclusione che dobbiamo trarre da queste scoperte è dunque la seguente: un individuo incapace di andare in cerca del piacere e, a un livello più alto della personalità, di sviluppare un interesse attivo per le persone, le cose e le idee, è “malato”, e non, come vorrebbe far credere l’assioma, «normalmente» inerte.
A parte questi riscontri neurofisiologici che contraddicono l’assioma dell’innata passività dell’uomo, esistono poi altri argomenti che si basano su esperimenti con animali, sulla psicologia sociale e su quella individuale.
– Riscontri basati su esperimenti con animali.
Alcuni studiosi del comportamento animale hanno aderito alla posizione antiriduzionista sulla base dell’osservazione diretta e della sperimentazione. In contrasto con la diffusa convinzione che le ricompense e la paura delle punizioni siano le più importanti motivazioni del comportamento, H. F. Harlow, M. K. Harlow e Meyer (1950) hanno scoperto nei loro esperimenti che le scimmie sono più motivate dal piacere di risolvere un compito difficile che dalle ricompense estrinseche. Essi riferiscono che «le scimmie volevano imparare a smontare un congegno composto da tre elementi, senza altra “spinta” o “ricompensa” della possibilità di smontarlo» (cit. in Hunt, 1963, p. 40). In un altro studio, gli Harlow hanno constatato come due scimmie ben nutrite e dissetate abbiano ripetutamente smontato, in un arco di tempo di dieci ore consecutive, un congegno composto da sei elementi; e questo pur essendo del tutto libere da stimoli dolorosi e sufficientemente rifornite di acqua e cibo. Alla decima ora di esperimento, ci informano gli Harlow, i soggetti continuavano ancora a «mostrare entusiasmo per il loro lavoro […]. Gli Harlow sono tra i primi a usare il termine “motivazione intrinseca” per definire il concetto che il fondamento della motivazione è insito nell’attività stessa» (ibid., pagine 40, 42).
Parlando di fenomeni quali la predilezione di molte persone per gli sport pericolosi o per le montagne russe, che rivela una deliberata ricerca della paura, oppure della mania del bridge o del golf, che implicano un elevato livello di frustrazione, o dell’incapacità degli uomini d’affari di mettersi a riposo a una certa età, Hebb e Thompson affermano:
“Nell’uomo, un tale comportamento è abitualmente attribuito alla sete di gloria; ma i dati accumulati nella sperimentazione con gli animali
rendono tale tesi insostenibile. Sembra assai più probabile che risolvere i problemi e assumersi rischi circoscritti sia di per sé gratificante. In termini più generali, l’animale si comporterà sempre in modo da produrre un livello ottimale di eccitamento”. (Hebb, Thompson, 1954, p. 552)
Nel loro articolo, Hebb e Thompson sottolineano come in genere gli animali cercano l’eccitamento. Gli studi di Montgomery e Thompson (cit. in Berlyne, 1960, pagine 167 e seguenti) dimostrano come per esempio un ratto, posto davanti alla scelta tra un territorio familiare e uno ignoto, propenda per quello ignoto: è il famoso «impulso all’esplorazione». Un’analoga tendenza è stata riscontrata, come segnalano Hebb e Thompson, nel laboratorio della McGill University, dove ai ratti venivano proposti due percorsi per raggiungere il cibo: uno diretto e semplice, l’altro in un labirinto;
nel 20-40 per cento dei casi veniva scelto il percorso più difficile.
I primati, al cui «interesse» abbiamo accennato nel contesto delle osservazioni di Harlow, tendono a creare disordini quando si annoiano. L’osservazione che negli animali la noia provoca un comportamento irrequieto riveste un’importanza essenziale per la comprensione dell’aggressività umana, da me analizzata [in Anatomia della distruttività umana (1973)].
Un’altra ricerca che si muove nella stessa direzione è quella di Myers
e Miller (1954): ratti ben nutriti e collocati in un ambiente confortevole imparano a premere un bottone o a girare una ruota solo per avere l’opportunità di esplorare il lato opposto di una Miller- Mowrer-box. Gli autori interpretano tale comportamento come un «impulso alla noia», che in determinate situazioni può essere ridotto. Anche Berlyne (1960) concorda con l’ipotesi di un «impulso alla noia» prodotto da condizioni immutabili. Invece di ipotizzare che la noia sia provocata da una carenza di stimoli, questi autori si vedono costretti dalla loro impostazione generale a presupporre l’esistenza
di un “impulso alla” noia. Evidentemente, per questo modo di pensare non può esistere niente che non sia un impulso!
Dal punto di vista del bisogno di stimoli risultano di particolare interesse le osservazioni effettuate dal primo studioso di primati in libertà, Adriaan Kortlandt, che ha pubblicato alcuni commenti sul diverso comportamento degli scimpanzé che vivono in uno zoo o nel loro habitat naturale. Dei primi riferisce che «in genere, con gli anni, assumono un aspetto sempre più ottuso e istupidito», mentre «gli scimpanzé selvatici più anziani ci appaiono più vivaci, più interessati a tutto e più umani» (Kortlandt, 1962, p. 131). L’autore dà una brillante descrizione di quella particolare vivacità degli scimpanzé selvatici più anziani:
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“Gli scimpanzé, così come si dimostravano tolleranti nei confronti dei giovani, rispettavano gli anziani. Il grande vecchio della popolazione studiata doveva avere a occhio e croce più di quarant’anni (un’età ben superiore a quella del più vecchio scimpanzé che io avessi mai visto in cattività). La sua schiena argentea era curva, la sua corona grigia, il volto solcato da rughe. Il nonno, così lo chiamavo, era chiaramente un po’ impedito nei movimenti… Evidentemente la sua autorità gli derivava dall’esperienza, e dalla conseguente conoscenza dei potenziali pericoli; più spesso di tutti gli altri maschi si comportava come una sorta di addetto alla vigilanza, con il compito di controllare che tutto fosse sicuro”. (Ibid.)
Mi sembra superfluo insistere su questo punto. Lo scimpanzé in cattività viene ben nutrito e accudito, ma è quasi del tutto privo di stimoli. Vive in un ambiente estremamente circoscritto, senza sfide e senza interessi. Così, per mancanza di stimoli, diventa ottuso e muore precocemente. Al contrario, il capo degli scimpanzé selvatici è continuamente confrontato con sfide che lo motivano e lo stimolano a esercitare il proprio spirito di osservazione e il suo «pensiero», mantenendolo all’erta. Così, invece di istupidirsi, con l’età acquista efficienza e saggezza e conserva la supremazia all’interno del gruppo. L’analogia con l’uomo è evidente: gli ospiti delle case di riposo per anziani, che in genere vengono accuditi altrettanto bene degli scimpanzé negli zoo (per quanto talvolta capiti il contrario, non essendo ritenuti altrettanto preziosi), hanno perlopiù la stessa espressione istupidita che Kortlandt rileva negli scimpanzé in cattività. Viceversa, un vecchio carpentiere, pescatore, studioso o insegnante che continui a essere attivo e motivato, non manifesta alcuna ottusità ma anzi vitalità e produttività, anche quando in lui vengono meno la forza fisica e persino la memoria.
Una visione del tutto diversa degli effetti della vita in cattività si
ha nelle ricerche dell’eminente zoologo Heini Hediger, già direttore dello zoo di Basilea. Hediger (1952, pagine 46-48) dichiara che gli animali selvaggi si adattano in cattività quanto in libertà, affermando che la gabbia diventa spesso una «nuova casa» che deve essere difesa, e che l’animale non sente la mancanza della libertà poiché, soprattutto se è arrivato nello zoo da piccolo o addirittura è nato in cattività, non l’ha mai conosciuta. Quante volte nella storia questo genere di argomentazioni è stato usato per giustificare l’asservimento degli uomini!
– Risultati di esperimenti sociopsicologici.
Il bisogno di attività e di stimoli e gli effetti negativi della noia hanno trovato convincente conferma nel classico esperimento
sociopsicologico di Elton Mayo, condotto presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electric Company di Chicago (Mayo, 1933; Roethlisberger e Dickson, 1950 [si veda anche Fromm, 1955, pagine 212 e seguenti]). A un analogo risultato sono pervenuti i recenti esperimenti sulla deprivazione sensoriale.
La fase del processo lavorativo scelta da Mayo riguardava il montaggio di relais telefonici, un lavoro che comporta movimenti ripetitivi ed è abitualmente eseguito da personale femminile. Un banco di montaggio per cinque operaie, dotato dell’equipaggiamento necessario, venne collocato in un ambiente separato dal reparto principale mediante una parete divisoria. In questo ambiente lavoravano complessivamente sei persone, cinque al banco e una incaricata di distribuire i pezzi da assemblare. Tutte e sei erano operaie provette. Due si ritirarono nel corso del primo anno, e furono sostituite da altre due operaie altrettanto esperte. L’esperimento nel complesso si protrasse per cinque anni; era suddiviso in varie fasi, durante le quali venivano operati determinati cambiamenti nelle condizioni lavorative. Senza entrare nei dettagli, mi limiterò a dire che si trattava di introdurre pause di lavoro antimeridiane e pomeridiane, della distribuzione di rinfreschi durante le pause, e della riduzione di mezz’ora dei turni
di lavoro. Nel corso di questi cambiamenti, la produttività di ogni singola operaia aumentò in misura considerevole. Fin qui tutto bene. L’ipotesi più plausibile era che l’incremento di efficienza fosse da attribuirsi all’aumento dei periodi di riposo e al tentativo di far sentire le operaie più «a loro agio». Ma una nuova procedura nella dodicesima fase dell’esperimento produsse risultati sorprendenti, in contrasto con tale ipotesi: d’accordo con le operaie, il gruppo ritornò alle condizioni di lavoro vigenti all’inizio dell’esperimento.
I periodi di riposo, la distribuzione di rinfreschi e le altre concessioni furono tutti soppressi per circa tre mesi. Tuttavia, con generale stupore, questo non comportò un “calo della produttività”: la produzione quotidiana e settimanale era anzi più elevata che mai. Successivamente furono reintrodotte tutte le vecchie concessioni, con l’unica eccezione che le operaie dovevano portarsi il pranzo da casa mentre l’azienda si limitava e offrire loro il caffè a metà mattina.
La produttività continuò comunque ad aumentare. Non solo: altrettanto importante fu che le assenze per malattia delle operaie che partecipavano all’esperimento si ridussero dell’80 per cento rispetto alla media, e che tra loro si crearono rapporti amichevoli.
Come si può spiegare il sorprendente risultato che «il continuo incremento della produzione […] sembra ignorare, nella sua ascesa, i cambiamenti sperimentalmente effettuati» (Mayo, 1933, p. 59)? Se non era per i periodi di riposo, il tè o la riduzione dell’orario, per quale motivo le operaie producevano di più ed erano più sane e più gentili tra di loro? La risposta è ovvia: mentre l’aspetto tecnico del
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lavoro, monotono e privo di interesse, rimaneva immutato, e neppure i miglioramenti (come le pause di riposo) sembravano determinanti, era l’aspetto sociale della situazione lavorativa complessiva che aveva prodotto un cambiamento nell’atteggiamento delle operaie. Esse erano state informate dell’esperimento e delle sue diverse fasi; i loro suggerimenti erano stati ascoltati e spesso accolti; e, cosa più importante, esse erano consapevoli di partecipare a un avvenimento significativo e interessante, che era importante non solo per loro stesse ma per tutti gli operai della fabbrica. Mentre all’inizio erano «timide e imbarazzate, silenziose e forse un po’ diffidenti nei confronti delle intenzioni dell’azienda», in seguito il loro atteggiamento apparve improntato a «fiducia e franchezza». Il gruppo sviluppò un senso di partecipazione al lavoro, poiché le donne sapevano quel che stavano facendo, avevano un obiettivo e uno scopo precisi, e con i loro suggerimenti potevano esercitare un’influenza su tutta la procedura.
Il risultato dell’esperimento di Mayo dimostrò che le operaie, malgrado l’immutata ottusità e monotonia dell’aspetto tecnico del processo lavorativo, fossero stimolate e interessate dall’esperimento,
e come questa stimolazione, seppure limitata, avesse un’influenza determinante sul loro atteggiamento generale e persino sulla loro salute.
Una seconda categoria di esperimenti, che si occupa non dell’incremento degli stimoli ma della loro riduzione, ha fornito un’importantissima conferma empirica alla tesi che l’uomo ha bisogno di stimoli. Il significato per il nostro tema è tale da giustificare anche in questo caso un resoconto dettagliato degli esperimenti.
Un vecchio esperimento di Karsten (1928; si veda anche Cofer e Appley, 1964, p. 279) aveva già dimostrato che i lavori monotoni provocano reazioni negative. I soggetti dell’esperimento venivano invitati a disegnare linee verticali, o a svolgere attività noiose quanto più a lungo possibile; il più delle volte si rifiutavano di proseguire. Molto più sofisticati e interessanti furono l’esperimento di Bexton, Heron e Scott, e altri successivi.
“I soggetti dell’esperimento, 22 studenti universitari di sesso maschile, furono pagati per trascorrere 24 ore su 24 sdraiati su un comodo letto in una cabina illuminata, dalla quale potevano uscire per mangiare e andare in bagno. Per tutta la durata dell’esperimento dovevano portare degli occhiali di protezione, che lasciavano filtrare una luce diffusa ma impedivano una visione nitida. Tranne che per mangiare o andare in bagno, i soggetti avevano guanti sulle mani e portavano polsini di cartone che coprivano tutto l’avambraccio, dal gomito alla punta delle dita, consentendo i movimenti delle giunture ma limitando la percezione tattile. La comunicazione tra i soggetti e
i ricercatori era assicurata da un piccolo sistema di altoparlanti, ed era ridotta al minimo. La stimolazione auditiva era limitata dalla parziale insonorizzazione della cabina, e da un cuscino di gommapiuma a ferro di cavallo nel quale il soggetto introduceva la testa durante
la permanenza in cabina. Inoltre il brusio costante dei ventilatori, dell’impianto di climatizzazione e del sistema di amplificazione collegato con gli auricolari nel cuscino, assicurava un rumore di fondo che sovrastava tutti gli altri.
Come già dimostra l’esperienza di Kleitman (1939), che a seguito di una riduzione degli stimoli l’uomo e gli altri esseri viventi si addormentano, all’inizio dell’esperimento i soggetti tendevano a dormire molto. Più tardi cominciarono a dormire di meno, ad annoiarsi, a mostrarsi avidi di stimoli. Cantavano, fischiettavano, parlavano tra sé e sé, sbattevano i polsini l’uno contro l’altro oppure esploravano con essi la cabina. Questa noia sembrava in parte dovuta alla riduzione della capacità di pensare in modo sistematico e produttivo, un effetto che descriveremo più avanti. I soggetti divennero inoltre molto irrequieti, con continui movimenti incontrollati, e definirono sgradevole tale irrequietezza. Risultò dunque difficile trattenere i soggetti per più di due o tre giorni, nonostante il fatto che il compenso (20 dollari al giorno) fosse più che doppio rispetto a quello che guadagnavano abitualmente. Di fatto molti soggetti abbandonarono l’esperimento prima che potesse essere portato a termine”. (Bexton, Heron e Scott, 1954, p. 71)
L’effetto generale della parziale deprivazione sensoriale fu, al di là di quanto appena descritto, una «inconsueta labilità emotiva» nel corso dell’esperimento. Più tardi i soggetti riferirono di aver provato «sensazioni confuse, mal di testa, un lieve senso di nausea e di stanchezza; in alcuni casi tali condizioni persistettero per 24 ore oltre la fine della seduta» (ibid., p. 72).
Gli autori si concentrarono soprattutto sui disturbi cognitivi durante la fase di isolamento e immediatamente dopo. I soggetti riferirono che durante la permanenza in cabina erano stati incapaci di concentrarsi a lungo su un argomento. Quelli che avevano cercato di ripassare mentalmente le loro materie di studio o di inventare e risolvere problemi intellettuali, avevano avuto difficoltà a farlo. Di conseguenza avevano cominciato a fantasticare, rinunciando ai tentativi di organizzare il pensiero e lasciando vagare la mente. Qualcuno riferì anche di «saltuari vuoti, durante i quali avevano avuto l’impressione di non riuscire a pensare a niente» (ibid.). Infine i soggetti riferirono di aver provato delle allucinazioni durante la permanenza in cabina:
“In genere le allucinazioni più «concrete», cioè più complesse, erano
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precedute da fenomeni allucinatori più semplici. I livelli di complessità erano così suddivisi: nella forma più semplice il colore del campo visivo cambiava, a occhi chiusi, da scuro a chiaro. Al livello superiore comparivano punti luminosi, linee, oppure semplici disegni geometrici. Quattordici soggetti parlarono di immagini del genere, dicendo che per loro era stata una esperienza nuova. Ancora più complessi erano i «disegni tipo tappezzeria», riportati da undici soggetti, oppure le figure o gli oggetti isolati, senza sfondo (per esempio una serie di omini gialli con cappucci neri e con la bocca aperta, oppure un elmetto tedesco), riportati da sette soggetti. Infine vi erano anche scene consequenziali (per esempio una processione di scoiattoli con dei sacchi sulle spalle, che attraversavano «con passo sicuro» una distesa di neve per poi uscire dal campo «visivo», oppure animali preistorici che camminavano in una foresta tropicale). Dei quattordici soggetti, tre riportarono scene simili, che spesso includevano distorsioni di tipo onirico e le cui figure erano spesso descritte «come cartoni animati». Un fatto curioso è che alcune allucinazioni apparivano capovolte, oppure inclinate”. (Ibid., p. 174)
In un saggio successivo, Scott e collaboratori (1959) dimostrarono con l’ausilio di vari test che «l’isolamento percettivo produce un declino delle facoltà intellettuali». In un altro articolo uscito nello stesso anno sul «Canadian Journal of Psychology», Doane e collaboratori ritornarono sull’argomento delle allucinazioni, scoprendo però che si manifestavano soprattutto nelle persone che portavano una maschera traslucida; l’esposizione alla luce diffusa costituiva dunque un fattore di quel fenomeno. Gli autori concludevano il resoconto del loro lavoro con una considerazione generale:
“I nostri risultati mettono ancora una volta in luce l’elevato grado di disturbo provocato dal processo di isolamento realizzato nel nostro laboratorio e altrove. Allucinazioni estremamente vivide, deterioramento dei processi mentali, alterazioni sensoriali e percettive, insieme a significativi cambiamenti dell’EEG, documentano il notevole effetto sul funzionamento del sistema nervoso centrale, indotto semplicemente limitando la normale varietà della stimolazione sensoriale”. (Ibid.)
E’ interessante chiedersi che natura abbiano queste «allucinazioni» e perché si manifestino. Di primo acchito viene spontaneo pensare a un’esperienza psicotica transitoria; e forse è per questo che a molti ricercatori sono apparse tanto drammatiche. Personalmente non credo che tale interpretazione sia giustificata. Credo che uno dei soggetti abbia fornito una definizione corretta della natura delle
allucinazioni dicendo: «Ho sognato da sveglio». Certo, ogni allucinazione potrebbe essere definita un «sogno da sveglio»; ma probabilmente una definizione così generica non terrebbe conto delle peculiarità delle allucinazioni nelle persone psicotiche. Propenderei piuttosto per considerare queste «allucinazioni» brevi sogni in stato di dormiveglia; e neppure escluderei la possibilità che i soggetti si fossero appisolati per pochi secondi e avessero fatto un sogno in quel breve intervallo. (La natura di questi sogni in stato di veglia è del tutto diversa da quella dei «sogni a occhi aperti», che non sono veri e propri sogni ma fantasie, che possono essere iniziate e concluse con un atto volontario e presentano scarsa creatività. Ogni sogno, anche quello fatto da svegli, è di tutt’altra natura.)
Un’ipotesi plausibile potrebbe essere quella di spiegare le «allucinazioni» negli esperimenti di deprivazione sensoriale nello stesso modo in cui spieghiamo l’attività onirica. Sia nel sonno sia in questi esperimenti l’organismo è privato in tutto o in parte degli stimoli esterni; e il cervello sembra perciò reagire creando i suoi stimoli con il ricorso ad «allucinazioni» e sogni. Zuckerman e Cohen (1964) riferiscono che Evarts (1962) e M. E. Scheibl e A. B. Scheibl (1962) hanno elaborato lo stesso concetto in termini neurofisiologici. Zuckerman e Cohen fanno inoltre riferimento ad altre spiegazioni teoriche delle allucinazioni negli esperimenti di deprivazione: interpretazioni di tipo psicoanalitico, cognitivo e sociopsicologico. Qui ci interessano particolarmente le interpretazioni psicoanalitiche. Sfortunatamente esse sono perlopiù tautologiche: l’isolamento provoca una sorta di regressione, e tale regressione favorisce i «processi primari» inibendo i «processi secondari». In un lavoro più recente Zuckerman esamina le prove addotte dalle diverse teorie sulle «allucinazioni», giungendo a concludere che «le allucinazioni sensoriali sembrano essere molto meno inquietanti che non in quei primi rapporti degli studenti canadesi» (Zuckerman, 1969, p. 125). Gli autori degli esperimenti di deprivazione sensoriale hanno posto l’accento sul significato che i loro esperimenti rivestono per la comprensione del funzionamento del cervello:
“I più recenti studi neurofisiologici indicano che il normale funzionamento del cervello sveglio dipende dalla sua costante esposizione a un bombardamento sensoriale, che produce una continua «reazione di “arousal”». Le ricerche attualmente svolte da S. K. Sharpless alla McGill University dimostrano inoltre che, se la stimolazione non cambia, perde rapidamente il suo potere di suscitare una «reazione di “arousal”». Sebbene lo stimolo abbia la funzione di evocare o controllare un determinato comportamento, esso ha anche la funzione non specifica di mantenere l'”arousal”, probabilmente attraverso la “formatio rcticularis” del tronco encefalico. In altre
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parole: la conservazione di un comportamento normale, intelligente e adattabile richiede presumibilmente un’immissione continuamente variata di stimoli sensoriali. Il cervello non somiglia a una calcolatrice alimentata da corrente elettrica, capace di reagire di colpo a determinati ordini anche dopo un lungo periodo di inattività. Esso somiglia piuttosto a una macchina che deve essere riscaldata e mantenuta attiva. Perciò ci è sembrato utile esaminare, per quanto possibile, l’andamento dei processi cognitivi durante un prolungato isolamento percettivo. Bremer e Terzuolo (1953) sono pervenuti a quel tipo di isolamento recidendo il tronco encefalico. Poiché tuttavia gli studenti non sono disposti a sottoporsi a interventi sul cervello a scopo sperimentale, ci siamo dovuti accontentare di un isolamento meno estremo dall’ambiente esterno”. (Bexton, Heron e Scott, 1954, p. 70)
Dal 1953 a oggi sono state fornite numerose altre prove del fatto che gli autori avevano interpretato in modo corretto i dati in loro possesso.
– Il potere creativo dei sogni.
Il fenomeno del sogno ci induce a conclusioni analoghe a quelle degli esperimenti di deprivazione sensoriale. Il fatto che tutti noi sogniamo (anche se molti dimenticano i loro sogni o credono di non aver sognato) è dato a tal punto per scontato da farci trascurare una domanda ovvia: perché sogniamo?
Dal momento che durante il sonno l’attività del corpo, fatta eccezione per gli organi necessari a mantenerlo in vita, è ridotta al minimo, dobbiamo chiederci perché non si riposi anche il cervello, dato che molti dei suoi compiti sono ridotti quando il corpo riposa. Qualunque sia la risposta a tale domanda, resta il fatto che il nostro cervello
è straordinariamente attivo a ogni ora del giorno e della notte. Il fatto che sogniamo per circa un quarto del nostro sonno, cosa nel frattempo appurata da numerose ricerche sperimentali, si spiega molto meglio alla luce del bisogno di una costante attività cerebrale, che costringe il cervello all’attività non solo quando siamo svegli ma anche quando dormiamo. (Il fatto che anche gli animali sognino, persino nelle specie meno evolute, dimostra quanto questa attività cerebrale sia fondamentale. Si veda in proposito lo studio di Tauber e Koffler, 1966.) Poiché durante il sonno l’organismo non può essere raggiunto da stimoli esterni (a meno che siano molto inconsueti), sembra che nel processo onirico esso produca stimoli propri, che hanno un effetto simile agli stimoli «reali» provenienti dall’esterno. Tuttavia il fenomeno onirico non si esaurisce nel bisogno del cervello di essere stimolato ed eccitato. Molti sogni manifestano una creatività artistica e una profondità di discernimento sconosciute al
sognatore durante la veglia. Persino quei sogni che paiono interamente motivati dal soddisfacimento allucinatorio di un desiderio istintivo (Freud era convinto infatti che tutti i sogni fossero soddisfacimenti di desideri libidici), presentano spesso una capacità narrativa di cui chi sogna non dispone durante la veglia. Molti sogni manifestano una certa perspicacia nei confronti di persone o situazioni di cui il soggetto, da sveglio, non è consapevole. Ecco un esempio di sogno rivelatore: A sogna B, che ha incontrato la sera precedente. Dopo l’incontro, A, giudicando B piuttosto simpatico, decide di portare avanti con lui una certa transazione commerciale. Ma quella notte A fa il seguente sogno:
“Sto camminando accanto a B, e arriviamo a un fiume. B, che è un buon nuotatore, afferma che ci vuole troppo tempo per raggiungere il ponte più vicino e suggerisce di attraversare a nuoto. Io accetto la proposta, ma presto mi rendo conto che la corrente del fiume è forte e che ho molta difficoltà a nuotare. B si trova davanti a me. Quando gli grido che preferirei tornare indietro, mi risponde con un sorriso beffardo e continua a nuotare. Lo seguo, con enorme sforzo, e alla fine raggiungo l’altra riva completamente esausto. B prende la mia borsa, che contiene importanti documenti e un bel po’ di denaro, e dice: «Vado a prenderti delle medicine». Se ne va, e non ritorna più”.
Al risveglio, A in un primo tempo si sente scioccato; poi, ripensando alla conversazione della sera precedente, ricorda di aver notato sul viso di B un sorriso stranamente beffardo e un’espressione ostile. Riflettendo ancora, gli vengono in mente piccoli incidenti occorsi in passato che indicano a loro volta la scarsa affidabilità di B. Si può vedere come A, nel sogno, si sia dimostrato più perspicace del solito.
I suoi processi mentali sono più attivi e penetranti nel sogno, mentre nella veglia non reagiscono all’intensità degli stimoli.
Le facoltà creative che trovano modo di esprimersi nel sonno vanno ben oltre. Molti sogni hanno qualità di mito o di racconto; mi è capitato di ascoltare sogni che avrebbero potuto essere pubblicati così com’erano, reggendo il confronto con i racconti di Kafka. In questi sogni il soggetto si rivela capace di una creatività artistica di cui,
da sveglio, non ha la minima idea. La storia del sogno non è una fantasia come il sogno a occhi aperti: è la rappresentazione artistica della realtà del sognatore. Chi sogna, non solo riconosce la verità che durante la veglia si cela dietro alcuni cliché coscienti: è anche
in grado di scegliere simboli che esprimono le sue visioni con estrema precisione, e infine di tessere dalle fila della sua storia una totalità artistica.
Ancora qualche esempio. Cominciamo con il breve sogno di un diciassettenne che sta vivendo un violento conflitto con il padre, un
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ufficiale dell’esercito. Il figlio si sottomette al padre, in parte perché lo teme e in parte perché ne ammira la forza. Una notte, dopo che il padre lo ha criticato, il figlio fa il seguente sogno:
“Sono alla testa di un reggimento di soldati che stanno attaccando un castello medievale. Ci apriamo una breccia nel muro di cinta, uccidiamo i difensori e ci ritroviamo nel cortile centrale del maniero. Tutti i nemici sono morti. A quel punto mi accorgo che i muri sono fatti di cartone, e che l’intero castello in realtà somiglia a un castello di cartone con il quale giocavo da bambino”.
Indubbiamente il sogno esprime i sentimenti di ribellione del figlio, il desiderio di spodestare il padre e di prenderne il posto. Ma gli elementi creativi del sogno sono dovuti alla scelta del castello medievale come simbolo del padre, e inoltre al fatto che il castello è in realtà di cartone, un giocattolo che non possiede un vero potere. Con il simbolo del castello di cartone, il sogno esprime l’opinione del figlio sulla vera natura del padre: un individuo romantico che vive nel passato. Invece di essere formidabile come lo immagina da sveglio, in sogno il padre è debole, infantile e vulnerabile, e il figlio così se ne rende conto. Il simbolo del castello di cartone esprime con grande precisione una caratteristica della personalità paterna, ed è quindi il prodotto di una creazione artistica. Stando ai princìpi dell’interpretazione freudiana, questo sogno non esprimerebbe altro che il desiderio di uccidere il padre e di ridicolizzarlo (e la conquista del castello potrebbe essere interpretata anche come incesto con la madre). Può darsi, ma non è affatto detto che sia così. Il punto cruciale è se il sogno esprime il carattere del padre in modo più pertinente dell’immagine della veglia. Anche se si accetta l’interpretazione di Freud, la formulazione del simbolo resta comunque un atto creativo.
In altri sogni, il potere creativo di chi sogna non si esprime in un “plot” letterario, ma in magistrali rappresentazioni visive. Un quarantenne che soffre di un intenso sentimento di solitudine e di inanità, vede la seguente immagine onirica: «Vedo una strada di una grande città; è l’alba. Sulla strada non c’è nessuno, a parte qualche ubriaco qua e là. Pioviggina».
Questa scena non è sognata a parole ma vista come una fotografia, ed è la precisa espressione dello stato d’animo del soggetto. Se però gli si chiede come si sente da sveglio, normalmente il sognatore fornisce una risposta molto meno precisa nel descrivere il proprio stato d’animo. L’immagine del sogno sintetizza tutti gli elementi della sua condizione, in modo tale da consentire a chiunque la senta di provare lo stesso sentimento di solitudine, di distanza dagli altri, di sconforto e di spossatezza.
Altri sogni sono variazioni sul tema di “Amleto”. Prendiamo l’intreccio così come Shakespeare l’ha formulato. Se Amleto avesse consultato uno psicoanalista, più o meno gli avrebbe raccontato: «A volte, quando sono con mia madre, non mi sento a mio agio. So che mi ama, eppure non mi fido completamente di lei. Il mio patrigno non mi piace molto, benché sia molto gentile con me. In effetti mi vizia e mi
fa un sacco di regali». A questo punto il nostro paziente potrebbe sognare la storia di Amleto: la madre, in combutta con il proprio amante e futuro sposo, ha assassinato suo padre.
Il sogno è la voce della verità? Non necessariamente. Potrebbe anche essere un’espressione della gelosia o dello spirito di ribellione del paziente. Ma spesso il sogno esprime la verità in forma simbolica e poetica. Non importa sapere se la madre ha veramente assassinato il padre; la drammaticità della descrizione probabilmente è solo la forma poetica in cui si esprime la realtà nascosta. E la realtà nascosta è
che la madre odiava il padre ed è infida, senza scrupoli e disonesta,
e che il patrigno è falso e spietato, e sta cercando di corrompere Amleto. Nel dramma di Shakespeare, la veridicità del «sogno» viene attestata dall’apparizione dello spirito del padre morto. Nella vita reale essa può essere attestata da una crescente presa di coscienza di molti dettagli che confermano il sogno, e a volte addirittura dalla scoperta di un comportamento forse non altrettanto sottile ma comunque occultato.
Il sogno, rivelando in modo creativo una realtà nascosta, è dunque del tutto diverso dal sogno a occhi aperti che è una fantasia guidata dai desideri o dalle angosce del soggetto. Il sogno a occhi aperti non rivela niente: si limita a esprimere un desiderio. Si distingue dal sogno come un romanzo da quattro soldi si distingue da uno dei grandi capolavori della narrativa, o come l'”entertainment” e l’«arte» ideologizzata si distinguono dalla vera arte. Ogni vera arte (come pure ogni vera scienza, anche se con mezzi diversi) non maschera la verità ma la rivela. L’artista «reazionario» è un rivoluzionario, mentre l’«artista» ideologizzato (per esempio gli esponenti del «realismo socialista») ha una funzione reazionaria. Omero, scrivendo l'”Iliade”, ha fatto molto di più per la pace di coloro che fanno «arte» pacifista di propaganda.
A volte lo stesso potere creativo che si manifesta nei sogni si nota anche negli episodi psicotici. A un paziente, ricoverato in clinica per molti mesi durante un episodio di schizofrenia acuta, fu data della creta da modellare. Egli produsse allora una serie di sculture,
e subito dopo le distrusse. Un artista dotato di un buon occhio critico fu invitato ad assistere, e affermò che le sculture avevano un elevato valore artistico. Quando il paziente si riprese e guarì, gli
fu chiesto di modellarne delle altre. Lo fece, ma riuscì solo a produrre figure banali. Alla domanda se rammentasse le sculture
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realizzate durante la malattia, rispose di non averne alcun ricordo. Una donna di grande intelligenza mi scrisse molte lettere durante un episodio di schizofrenia acuta. Queste lettere, pur essendo a volte bizzarre, erano così brillanti, pregnanti e argute che si sarebbero potute pubblicare così com’erano. Dopo la guarigione – come anche prima della malattia – le sue lettere erano sempre molto intelligenti, ma prive di quella straordinaria qualità artistica che caratterizzava il periodo in cui era malata.
Naturalmente si è tentati di speculare sulle condizioni cui attribuire la responsabilità dell’emergere di capacità attive e produttive durante il sonno o durante alcuni stati psicotici. In “Il linguaggio dimenticato” (1951) e in “Psicoanalisi e buddismo zen” (1960) ho proposto la seguente ipotesi: durante la veglia l’organismo ha la funzione di occuparsi della sopravvivenza, produrre il necessario per vivere e difendersi dai pericoli. Ciò significa che durante il giorno l’uomo deve lavorare, e per tale motivo deve innanzitutto percepire le cose come vanno percepite per poter essere usate; inoltre deve vederle come le vedono gli altri, in quanto ogni tipo di lavoro è basato sulla cooperazione. Durante il sonno l’uomo si riposa; ciò significa che è libero dall’obbligo di lavorare e di difendersi. Ma significa anche che è libero dalla necessità di percepire il mondo in modo funzionale al lavoro e alla difesa, e che è libero dall’influenza del “common sense” e del “common nonsense” che lo influenzano durante la veglia. Egli è libero di percepire il mondo nella sua realtà, senza le distorsioni di cliché e obiettivi sociali; può vederlo come lo vede realmente, e non come gli è chiesto di vederlo per adeguarsi al gruppo.
Sembra che nel sonno (e in certe situazioni psicotiche in cui l’adattamento al mondo risulta radicalmente disturbato), nonché assumendo determinate droghe, ci affranchiamo dall’influenza dei censori e distorsori sociali e siamo liberi di essere creativi. Si potrebbe definire l’artista come un uomo che sa creare anche quando è sveglio, sano e sobrio. Quanto più netta è la contraddizione tra la finzione sociale e l’ideologia da un lato e la realtà dall’altro, tanto meno il vero discernimento sembra costretto alla segretezza. Appare dunque giustificato speculare sul fatto che in una società totalmente umanizzata, che non abbia bisogno di produrre una distorsione delle coscienze, l’uomo medio potrebbe essere un artista anche da sveglio. (Otto Rank ha il grande merito di aver dimostrato il nesso tra manifestazioni nevrotiche ed espressione artistica, fornendo altresì un importante contributo alla comprensione dell’artista.)
– Risultati dell’osservazione di neonati e bambini.
Il settore in cui a chiunque è possibile osservare l’attività e
l’appassionato interesse per il fare, è lo sviluppo del bambino. Appare dunque tanto più sorprendente che Freud e altri psicologi non ne abbiano preso atto. Freud arrivò al punto di sostenere che l’aggressività avesse la sua sede originaria nell’Io, e che si fosse sviluppata per difendere l’Io dagli stimoli esterni. Ricerche più recenti hanno dimostrato che non è affatto vero. Se è vero che l’organismo infantile, come quello dell’adulto, si difende da eccessi di stimolazione o di eccitamento che il sistema psichico non è pronto a «digerire», nessuno può più dubitare del fatto che il neonato, già poco dopo la nascita, sia avido e bisognoso di stimoli. David E. Schecter ha elaborato un’esposizione completa e sistematica dei dati disponibili, a riprova della sua tesi generale che «gli stimoli sociali e l’interazione reciproca, spesso a livello ludico e non necessariamente connesso a pulsioni o a una riduzione delle tensioni, costituiscono una base per lo sviluppo di specifiche forme di attaccamento tra il bambino e gli altri» (Schecter, 1973, p. 21). Schecter cita una serie di importanti scoperte sulla percezione visiva nei neonati: i risultati degli studi di Tauber, che ha dimostrato il nistagmo optocinetico nei neonati (Tauber e Koffler, 1966, pagine 382 e seguenti), e le osservazioni di Wolff e White (1965) sul modo in cui bambini dopo tre o quattro giorni di vita seguono con gli occhi un oggetto in movimento. Di particolare rilevanza è quanto descritto da Fantz (1958): i neonati, fin dalle prime settimane di vita, preferiscono tenere lo sguardo più a lungo su disegni complessi che su disegni semplici. «A grandi linee possiamo dedurne che i neonati prediligono moduli di stimolazione più complessi», conclude Schecter (1973, p. 21).
Schecter parla anche della sollecitazione del sorriso nei neonati; è stato dimostrato che la reazione di sorriso può essere intensificata rispondendo con un sorriso, e che può essere in pratica annullata evitando di rispondervi. Schecter fa riferimento ad alcuni recenti studi che hanno fornito
“numerose prove del fatto che le variabili essenziali nel determinare la reattività sociale nel neonato potenzialmente sano, sono i tipici stimoli sociali e la reattività delle principali persone di riferimento. In assenza di un’adeguata stimolazione sociale (ivi compresa la stimolazione percettiva), come nel caso dei bambini ciechi dalla nascita o di quelli che crescono negli istituti, si hanno dei deficit nelle loro relazioni emozionali e sociali come anche nel linguaggio, nel pensiero astratto e nel controllo interiore”. (Ibid., p. 23)
Le ricerche di Piaget si sono mosse nella stessa direzione. Egli ha osservato che nel quarto mese l’interesse dei bambini «si concentra
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sull’effetto che essi producono sull’ambiente esterno» (cit. in White, 1959, p. 318). Nella seconda metà del primo anno di vita, Piaget ha osservato nel bambino il comportamento volto a studiare le proprietà degli oggetti e a sperimentare varie forme di utilizzo. Nel caso di Lorenzo, al quale a nove mesi fu mostrata una gamma di nuovi oggetti, Piaget rilevò quattro stadi reattivi:
“a) esplorazione visiva, passando l’oggetto da una mano all’altra,
chiudendo il borsellino, eccetera; b) esplorazione tattile, passando le mani su tutto l’oggetto, graffiandolo, eccetera; c) movimento lento dell’oggetto nello spazio; d) applicazione dell’intero repertorio di azioni: l’oggetto veniva scosso, battuto, fatto dondolare, sfregato contro il fianco della culla, succhiato, eccetera; ogni stadio era seguito da una sorta di riflessione, come se il bambino stesse studiando l’effetto prodotto”. (Ibid., p. 319)
Qualche tempo dopo, Piaget osserva Lorenzo che manipola un nuovo oggetto: ne rompe dei pezzi, lo lascia cadere, e «guarda con grande interesse il corpo in movimento; in particolare lo guarda a lungo dopo che è caduto, e se può lo raccoglie» (ibid.). Piaget ha così riassunto
la sua esperienza:
“Lorenzo […] afferra successivamente un cigno di celluloide, una scatola, eccetera, tende il braccio e li lascia cadere. Questa volta varia nettamente le posizioni di caduta: ora drizza il braccio verticalmente, ora lo tiene obliquo, in avanti o indietro rispetto agli occhi, eccetera. Quando l’oggetto cade in una posizione nuova (per esempio sul guanciale), il bambino lo lascia cadere due o tre volte nello stesso punto, come per studiare la relazione spaziale; poi modifica la situazione. A un certo momento il cigno gli cade vicino alla bocca: ora, il bambino non lo succhia (benché l’oggetto serva abitualmente a questo scopo) ma ripete il tragitto tre volte abbozzando soltanto il gesto di aprire la bocca”. (Piaget, 1952, pp. 303-304)
A proposito delle scoperte di Piaget, White commenta:
“Nessun genitore in veste di osservatore dubiterà del fatto che i neonati agiscono spesso in questo modo, quando sono svegli e la fame, il bisogno di affetto, il dolore e l’ansia non sembrano esercitare una particolare pressione. Se consideriamo tale comportamento nell’ottica delle tesi storiche della psicologia, dovremo constatare che mancano un paio di processi. Il bambino dà prova di sentire e percepire, di occuparsi di qualcosa, di apprendere, riconoscere, presumibilmente ricordarsi, e forse di pensare in modo rudimentale. Mancano le
emozioni forti, ma il sorriso, il gorgoglìo e la saltuaria risata argentina del bambino suggeriscono chiaramente la presenza di impressioni gradevoli. Le azioni si presentano in forma organizzata, in particolare seguendo i modelli della esplorazione e della sperimentazione attive. A quanto pare il bambino usa con una certa coerenza quasi tutto il repertorio dei processi psicologici, tranne quelli accompagnati da stress. Sarebbe davvero arbitrario affermare che uno sia più importante dell’altro”. (White, 1959)
Riassumendo: il fatto che i neonati manifestino fin dalla nascita il bisogno di stimolazione e il desiderio di un eccitamento ottimale, è stato dimostrato da studiosi molto competenti mediante vari esperimenti e osservazioni su animali e bambini. In questo modo, le vecchie idee di una tendenza alla riduzione dell’eccitamento pulsionale e di una completa passività del neonato sono state chiaramente confutate.
– Riflessioni psicologiche.
Se finora ho illustrato soprattutto dati sperimentali, qui di seguito
riporterò le idee di alcuni autori che sono pervenuti a conclusioni simili con la paziente osservazione del comportamento infantile, e non soltanto con esperimenti psicologici in senso stretto. Comincerò da un personaggio certamente atipico nel presente contesto, non uno «psicologo» come lo intendiamo oggi ma un filosofo: Jean- Jacques Rousseau. Costui fu un acuto osservatore e un brillante pensatore che purtroppo attualmente è ignorato, con grave danno del nostro pensiero. Se considerato in modo superficiale e decontestualizzato, Rousseau sembra condividere l’idea dell’innata pigrizia umana poiché descrive il selvaggio come colui «che vuole solo vivere e oziare» (4). Eppure Rousseau spiega molto chiaramente questo concetto di «oziosità», in contrapposizione all’attività, o meglio alla frenesia del cittadino. «Il cittadino», scrive nel “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini”,
“sempre attivo, suda, s’agita, si tormenta senza posa per cercare occupazioni ancor più laboriose; fatica fino alla morte. Il selvaggio vive in sé stesso; l’uomo socievole, sempre fuori di sé, non sa vivere che nella opinione altrui”. (Rousseau, 1754, p. 75)
Nell'”Emilio” aggiunge:
“Voi siete allarmati di vederlo consumare i suoi primi anni nel non far niente. Come! non è niente l’essere felice? Non è nulla il saltare, il giocare, il correre tutto il giorno? Nella sua vita egli
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non sarà così occupato… Spaventatevi dunque poco di questo preteso ozio”. (Rousseau, 1762, p. 408)
Nelle “Confessioni” dichiara infine:
“L’oziosità che a me piace non è quella di un fannullone che resta là con le braccia incrociate in una inazione totale, e non pensa più di quanto non agisca. E’ insieme quella di un bimbo che è sempre in movimento per non far niente…” (Rousseau, 1782-1789, p. 1113)
Il brano seguente, tratto sempre dall'”Emilio”, spazzerà via anche l’ultimo dubbio riguardo alle opinioni di Rousseau:
“Del resto, se accadesse il che è raro, che qualche fanciullo indolente avesse la tendenza a marcire nella pigrizia, non bisogna abbandonarlo a questa inclinazione, nella quale si intorpidirebbe interamente, ma somministrargli qualche eccitante che lo svegli. Si comprende bene che non si tratta di farlo agire per forza, ma di eccitarlo con qualche desiderio che ve lo conduca”. (Rousseau, 1762, p. 428)
Le affermazioni di Rousseau sul problema dell’attività umana non sono del tutto aliene da certe contraddizioni; questo può essere dovuto ad alcuni tratti caratteriali della sua personalità, quale una certa propensione alla dipendenza. Tuttavia, il nocciolo del suo pensiero è perfettamente chiaro (5).
Gli stessi princìpi compaiono nel sistema pedagogico di Maria Montessori, che è alla base di tutte le idee nuove e radicali in campo educativo; anche di quella più radicale che con Ivan Illich (1970) persegue una completa «descolarizzazione» della società (6).
Uno dei primi neurologi del nostro secolo che mise in luce l’intimo bisogno dell’uomo di attività e di stimoli fu Kurt Goldstein (1939). Sulla base delle sue fondamentali ricerche neurologiche, Goldstein ipotizzò l’esistenza di una originaria tendenza alla «realizzazione di sé» di cui le cosiddette pulsioni viscerali sarebbero manifestazioni parziali ma in realtà non isolate, e che può trovare espressione in una spinta alla perfezione, al completamento di ciò che è incompleto; che si tratti di un fine esterno, oppure, come nel caso del camminare, dell’apprendimento di una funzione. In tempi più recenti il termine è stato ripreso da Abraham Maslow (1954), che lo ha reso abbastanza popolare, ma ha rischiato forse di appiattirlo. Purtroppo, negli ultimi anni i termini «realizzazione di sé» e «realizzazione delle potenzialità umane» sono stati adottati da un movimento all’ultima moda, che tenta di vendere una «salvezza» rapida e a buon mercato a chi pretende risposte facili alle proprie domande. Molte di queste
pratiche sono improntate alla ciarlataneria e a interessi meramente commerciali, e mescolano realizzazione di sé, zen, psicoanalisi, terapia di gruppo, yoga, e «ingredienti» in voga. Ai giovani promettono una maggiore sensibilità, e ai maturi uomini d’affari una maggiore abilità nel «trattare» il personale. Fra i tanti altri risultati deplorevoli, c’è anche quello che i concetti importanti vengono trascinati nel fango, tanto che diventa difficile utilizzarli poi in un contesto serio.
In ambito psicologico fu Karl Bühler (1924) il primo a parlare del piacere intrinseco dell’attività e del funzionamento dell’organismo umano, definendo tale piacere «piacere della funzione». Murray e Kluckhohn (1952; si veda anche White, 1959, pagine 312 e seguenti) parlano del piacere dell’attività in quanto tale, riprendendo il concetto bühleriano di «piacere della funzione» e giungendo alla conclusione che «per la maggior parte del tempo, la mente del bambino non agisce come strumento di qualche urgente pulsione animale ma è principalmente impegnata a gratificare sé stessa».
Tra i più importanti contributi al concetto del piacere intrinseco dell’attività, dobbiamo citare quello di Robert W. White. In un breve e denso saggio, White (1959, p. 297) non solo fornisce una rassegna sistematica dei vari esponenti della concezione di piacere dell’attività, ma illustra anche a fondo la sua idea di «motivazione alla competenza». Per «competenza» White intende «la capacità di un organismo di interagire efficacemente con il suo ambiente […]. Nei mammiferi e soprattutto nell’uomo […], tale capacità viene raggiunta a poco a poco mediante lunghi processi di apprendimento». White propone di chiamare l’aspetto motivazionale della competenza “effectance”. Ma una tale motivazione determinata dall’efficacia (“effectance motivation”)
“non può essere intesa come un fattore indipendente dal sistema nervoso. Non è certo una motivazione dovuta a carenza. La sua origine è presumibilmente di natura neurogenetica, e le sue «energie» sono semplicemente quelle delle cellule vive che formano il sistema nervoso. Gli stimoli esterni svolgono un ruolo importante, ma in termini di «energia» tale ruolo è secondario; come si vede molto chiaramente quando la stimolazione ambientale viene cercata attivamente. Per usare una espressione pittoresca, potremmo dire che la spinta all”effectance’ rappresenta ciò che il sistema neuromuscolare vuole fare quando non è altrimenti occupato o è blandamente stimolato dall’ambiente. Ovviamente non si hanno azioni complete. La soddisfazione sembra derivare dal risveglio e dal mantenimento dell’attività, e non dal suo lento declino verso un’annoiata passività”. (Ibid., p. 321)
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White riassume così i suoi risultati:
“La noia, la sgradevolezza della monotonia, l’attrazione del nuovo, la tendenza a variare il comportamento piuttosto che ripeterlo rigidamente, nonché la ricerca di stimoli e di un blando eccitamento, sono fattori ineluttabili dell’esperienza umana che trovano evidente riscontro nel comportamento animale. Può darsi che alla fine della giornata cerchiamo il riposo e una stimolazione minima, ma non certo di prima mattina. Anche quando i bisogni primari sono soddisfatti ed è garantito il funzionamento omeostatico, l’organismo è vivo, attivo e impegnato in qualcosa”. (Ibid., pagine 314 e seguenti)
Non deve stupire che la maggioranza degli psicoanalisti fosse prevenuta di fronte a queste ipotesi; tutta la teoria freudiana era basata sull’assioma della riduzione dell’eccitamento a un livello minimo costante (principio di piacere) e/o a livello zero (principio
di Nirvana). Vi sono tuttavia alcune eccezioni a questa generale tendenza del pensiero psicoanalitico: Otto Rank ha osservato che il raggiungimento dell’individuazione è di per sé un atto creativo. L’uomo che diventa realmente sé stesso o che in altri termini si realizza, e che Rank chiama «l’artista», ha avuto il coraggio di superare la sua «angoscia di separazione». Angyal (1941) ha sottolineato la necessità di non perdere di vista la struttura generale del funzionamento complessivo dell’organismo, e di tenere conto del processo di crescita. Egli ha definito la vita un «processo
di espansione di sé», suggerendo che nel processo di crescita «la dinamica generale dell’organismo si muove in direzione di una maggiore autonomia». Solo alla fine l’organismo vivente è costretto a soccombere alla pressione di forze eteronome.
Hendryk (1943), osservando la gioia con cui i bambini scoprono in sé nuove abilità, ha formulato il concetto di «pulsione al controllo». Tale concetto, pur mantenendosi entro i confini della teoria freudiana delle pulsioni, contrasta con l’interpretazione del gioco infantile data da Freud, che tra l’altro è alla base del suo concetto di coazione a ripetere e di principio di Nirvana.
Ernest G. Schachtel ha messo in rilievo che le azioni che richiedono un’attenzione concentrata consistono in approcci generali e costanti, «volti a una attiva comprensione psichica […]. L’attenzione concentrata è lo strumento, la caratteristica attrezzatura umana grazie alla quale è possibile sviluppare la possibilità di un interesse oggettuale» (1954, p. 318). Schachtel indica in particolare che una forte pressione del bisogno o dell’ansia inibisce la possibilità di una comprensione attiva, sia nei bambini sia negli adulti.
Anche nei miei lavori, a partire da “Fuga dalla libertà” (1941), ho
posto l’accento sul bisogno dell’uomo di comprendere il mondo
attivamente, e di essere stimolato. Nel concetto di «orientamento produttivo» tale bisogno occupa un posto centrale, come uno degli orientamenti fondamentali dell’uomo nel processo di relazione e assimilazione. Tale orientamento di «relazionalità attiva» è il presupposto della salute psichica. La sua assenza si manifesta nella noia e costituisce un fattore patogeno, sebbene nei casi più lievi possa essere compensata da un comportamento in grado di impedire il manifestarsi di una noia cosciente.
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NOTE.
NOTA 1. Personaggio della letteratura per l’infanzia che ama i fiori del pascolo ed è inadatto alla corrida. (N.d.C.)
NOTA 2. In proposito si vedano anche gli studi cui Schmitt fa riferimento: Edds (1967), Ebert (1967) e Levine ( 1967). (N.d.A.) NOTA 3. In proposito si veda anche Beswick e Conroy (1965). (N.d.A.) NOTA 4. Sono debitore di questo riferimento a Rousseau e delle seguenti citazioni a una conversazione con il dottor Hartmut von Hentig. (N.d.A.)
NOTA 5. Per uno studio psicoanalitico del carattere di Rousseau si veda l’eccellente dissertazione di Wittes (1968), che mi ha consentito di approfondire la conoscenza di Rousseau. (N.d.A.)
NOTA 6. Per lo sviluppo dell’idea di un piacere intrinseco dell’attività, mi sono riferito principalmente agli studi di Cofer e Appley (1964), White (1959) e Hunt (1963), che ne forniscono un esauriente riassunto. (N.d.A.)
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