La responsabilità del terapeuta

Non mi è stato facile scrivere questo contributo. La riflessione sul principio della libertà e della responsabilità della persona mi ha messo molto alla prova. Gli accadimenti degli ultimi anni attorno a questo tema, mi riferisco in particolare ai temi della libertà di scelta politica e sociale, alla totale mancanza di un’etica pubblica degna di questo nome, alla deriva culturale e morale degli adulti che hanno la responsabilità nei confronti delle giovani generazioni, mi hanno reso consapevole che le parole “libertà e responsabilità” sono ormai usate con molte sfaccettature, non sempre rispondenti alla dimensione originaria di una condizione esistenziale costitutiva degli esseri umani. D’altra parte, la situazione di questi anni non può comunque prescindere da questi principi costitutivi, senza il quale tutto il resto del nostro ragionare è insensato.

Sergio Erba, nel presentare il suo pensiero su queste questioni, scrive che “ Una concezione materialistica produrrà teorie e tecniche diverse da una concezione spirituale; uomo-macchina e uomo-persona si muoveranno diversamente sul terreno della cura…Volendo/dovendo concepire una teoria e una tecnica per questo mestiere, sarà quindi necessaria una preliminare presa di posizione di natura esistenziale”.

Probabilmente ci sarà molto da discutere su questo punto. Larga parte delle difficoltà d’incontro con i nostri interlocutori nascono perché le premesse di uomo -macchina o uomo- persona non sono mai pienamente accettate, mentre l’oscillazione teorica tra il mondo della scienza come modello ideale a cui richiamarsi nella concettualizzazione del nostro mestiere e quello dell’etica, di provenienza umanistica, che concepisce l’essere umano come una totalità non inquadrabile nella dimensione dello studio scientifico, provoca molti sussulti anche nel mondo degli psicoanalisti e dei terapeuti, soprattutto in quelli che concepiscono questo mestiere fondamentalmente ancora ancorato ai concetti freudiani delle origini.

Nella scelta del concetto “persona” si articola, a ben vedere, anche tutta la mia teorizzazione e pratica clinica .

Il concetto di persona deve essere visto come un pilastro, quello su cui si regge tutta la costruzione del concetto stesso. La persona è qualcosa di diverso dall’individuo. Quest’ultimo è presentato, nella nostra cultura, come il portatore della razionalità, il domatore delle passioni che governano l’essere umano. Un essere solo e isolato nel suo modo di costruirsi e interagire con gli altri.

Gli esseri umani sono invece il risultato delle interazioni ricorrenti che essi hanno col creato che li circonda. Non sono semplici individui razionalizzanti e calcolanti, ma anche esseri pieni di passioni esistenziali, esseri che hanno dentro le comunità e i valori fondanti della cultura di appartenenza di cui fanno parte, costruzioni esistenziali che rappresentano parti che non avranno mai nessuna possibile descrizione verbale perché dentro la persona ci sono questioni come l’amore, la bellezza, la fede, questioni che non hanno spesso nessuna parola da esprimere perché le si riconosca come una caratteristica fondante gli esseri umani, e tuttavia rappresentano l’essenza per cui una vita umana val la pena di essere vissuta.

Come persone che hanno fatto la scelta di prendersi cura di altre persone, noi terapeuti siamo primariamente responsabili del nostro funzionamento con noi stessi e con gli altri.

La struttura della relazione terapeutica presentata da Sergio Erba ha avuto anche una sua elaborazione storica, che, per come sono i fenomeni storici, ha dovuto avere il suo tempo di incubazione, metabolizzazione, traduzione e spiegazione.

Negli scambi che ho avuto con vari colleghi prima di arrivare a Spetses, in qualcuno ho avvertito qualche difficoltà nel prendere atto di questo legame tra i vari punti presenti nel documento di Erba, quasi a dover costatare che tutta l’esperienza clinica di questi anni che si è praticata, spesso con grande soddisfazione, ha una sua filosofia di base che non era stata vista.

Si può pensare che la fatica possa essere solo quella di dover concettualizzare qualcosa che ha una sua coerenza organica, dal momento che la pratica clinica che segue il metodo del Ruolo Terapeutico ha già una sua prassi collaudata e apprezzata?

Un collega da cui ho avuto un contributo per questo incontro mi dice che “sentire di poter contare solo su me stesso e sulla mia coscienza nello scegliere ogni volta tra risposta buona o cattiva mette una certa ansia…anche se mi rendo ben conto che di fatto è esattamente ciò che accade: lì, nella relazione col paziente, ci sto io e ogni volta sta a me la scelta tra risposta buona o cattiva. Con la testa ci sono…con la testa! Come a dire che si tratta di staccarsi da quest’ultima maniglia della scienza, magari non utilizzata e contestata, ma sempre un po’ lì, a portata di mano all’occorrenza”.

Non credo che sui principi si possa aderire a metà, coi “se” oppure “ma”. Sui principi credo che valga un sì o un no. L’accoglimento di altre posizioni, altrettanto legittime, è non solo importante, ma addirittura doveroso se i principi sono condivisi. Tenterò di raccontare due storie, in cui mostro come applico nella mia pratica clinica questi principi. Si troverà certamente una distanza tra l’ adesione ai principi concettuali e la pratica clinica che viene mostrata in questi casi clinici, e questo conferma un’altra teoria del Ruolo Terapeutico: i terapeuti si muovono nel processo terapeutico per come sono fatti in quel momento della loro storia. L’importante, nel caso di un funzionamento inadeguato, è lavorare con se stessi per avvicinarsi a una posizione più aderente al proprio funzionamento di ruolo.

Una voce flebile al telefono. Chiede un appuntamento e dice di aver bisogno subito. Le varie proposte che le faccio però non le vanno bene, sono momenti in cui è troppo occupata.

“Mi dispiace, ma non ho altro da offrirle” le dico. Sono un poco infastidito da un quarto d’ora di telefonata inconcludente per i suoi continui rifiuti.

“Grazie lo stesso” chiude Luisa.
La settimana successiva richiama. La mia offerta si restringe ulteriormente poiché ho preso nel frattempo altri impegni. Luisa me lo fa notare subito, lamentando la mia scarsa disponibilità a venire incontro alle sue necessità.

“Questo è tutto quello che la mia agenda offre”, le dico.

“E Lei cosa offre oltre la sua agenda?”, mi dice provocatoriamente.

“Niente “.

“Buon giorno”, chiude Luisa con tono piccato.

Dopo mezz’ora richiama, accettando un orario che le avevo proposto.

Quel giorno e in quell’orario aspetto inutilmente. Non si fa vedere ne sentire. Né io la chiamo.

Si rifà viva alcuni mesi dopo, chiedendomi un appuntamento urgente. Accetta il primo spazio che le offro.

Questa volta si presenta. Molto curata nel vestiario, si siede in modo scomposto e mi fissa negli occhi in silenzio.

Trascorrono una decina di minuti silenziosi e cerco di capire il motivo della sua richiesta d’incontro.

“Volevo vedere bene in faccia lo psicoanalista che ha curato per cinque anni il mio amante. Volevo vedere se è uno stronzo come lui”, risponde con tono duro e scostante.

Non do segni di sorpresa, se non interrogandole con uno sguardo. “Sarà dura con questa”, mi dico intimamente.

Dopo la sua risposta si è ricomposta nella sedia. Passano altri minuti silenziosi, si liscia la gonna con una mano minuta, ossuta. Ha unghie cortissime. Dimostra non più di trenta anni.

Altri minuti di silenzio, ed ho l’impressione che si stia distendendo. “Mi scusi per quello che le ho detto”, dice con un tono flebile, “non ce l’ho con lei personalmente. Franco mi ha parlato tanto di lei che sono anni che fantasticavo di conoscerla. Io e Franco siamo praticamente cresciuti insieme, abbiamo fatto le stesse esperienze, che lei ben conosce.  Soprattutto quest’anno Franco si è sempre più allontanato da me, non riesco neppure a coinvolgerlo nel giro di amici che avevamo in comune. Ogni tanto accetta di incontrarmi, ma non è più quello di prima. Dice che non sente più nessun bisogno di fare le cose che facevamo insieme, non mi desidera più nemmeno sessualmente. E io che sbavavo per lui… uno stronzo, è diventato uno stronzo”.

“Cosa posso…” dico, tentando di infilarmi nel suo monologo.

“Mi faccia parlare, mi faccia parlare… Lei deve aiutarmi a recuperare il rapporto con lui. Senza questo rapporto la mia vita non ha più senso”.  Continua il monologo fine alla fine dei quarantacinque minuti, tempo che sapeva di durata dei nostri incontri.

“Il nostro tempo sta finendo”, le dico.

“Come sta finendo?”, dice guardando l’orologio.

“Come le avevo detto, l’incontro dura quarantacinque minuti”, le rimando.

“No, no, non è possibile! Andiamo avanti, pago una seduta doppia!”.

“Un’altra seduta la concordiamo per un’altra volta, oggi ci dobbiamo fermare qui”, ribadisco con più forza.

“E se io non voglio uscire che fa, chiama la polizia?”.

“Non ho bisogno della polizia per chiudere un incontro”, le dico alzandomi.

Abbassa lo sguardo. “Posso avere un altro appuntamento?

“Certo”.

La conoscenza di Luisa è cominciata così, continuando per circa sei anni con appuntamenti settimanali, non sempre regolari.

Nei primi anni si prendeva ogni tanto “una pausa di riflessione”, così chiamava le sue assenze dalle sedute, perché aveva bisogno di “allontanarsi un poco da me, erano troppo intense le sedute”. Non sospendeva la terapia, preferiva tenere impegnata la seduta perché poteva ripensarci improvvisamente e non voleva cambiare giorno e orario, vista la mia poca disponibilità in questo senso.

Ogni tanto la interrogavo su questa sua modalità di saltare le sedute per un paio di mesi.

“Non è contento di essere pagato senza fare niente?”, mi rispondeva .

“No, non sono contento di prendere soldi senza fare niente. E’ proprio sicura che io non faccio niente?”.

“Cazzo, è proprio insopportabile! Ma cosa vuole da me?”, dice sorridendomi.

“Io? Assolutamente niente, se non cogliere con lei il senso di queste assenze per mesi. Possono avere un senso per lei le assenze?”

“Non lo so, non lo so”risponde infastidita.

Un significativo cambiamento nel rapporto con me avvenne quando usci dalla casa dei genitori e andò ad abitare da sola.

“Mi sento sola”, dice con tono avvilito in una seduta di quel periodo.

“Con me, adesso?”

“Non sto parlando di adesso, non riporti come al solito a quello che avviene qui.  Mica la mia vita finisce in questo studio!  Sto parlando del vivere da sola in questa casa nuova, passo intere serate senza vedere nessuno.  Certe volte è anche bello fare quello che mi pare senza che ci sia mamma che mi chiama continuamente a fare qualcosa di suo, ma certe volte è proprio una pizza, mi annoio a morte.

Sto anche “scremando” le amicizie, mi è rimasto ben poco! Sono non più di 3-4 persone che vale la pena vedere. Da quando Manuela si è sposata la vedo pochissimo, e così Daria, sempre presa dallo studio. Con il mio fidanzato non va per niente bene, ha paura a venire troppo a casa mia temendo che così inizi una convivenza strisciante. Che stronzo!… Però lo capisco, anch’io avrei paura…certi momenti mi faccio paura da sola…”.

Mi guarda intensamente e lentamente il suo viso si rasserena. Abbozza un sorriso, che ricambio.

Al sesto anno di terapia decide di sospendere gli incontri. “Posso farcela da sola.  Posso chiamarla ogni tanto?”, mi chiede timidamente.

“Mi sta chiedendo un parere o l’autorizzazione a farlo?”.

“Già, che sciocchezze che dico, lo so bene che posso andare avanti…e che mi mancherà questo incontro…però è giusto chiudere questa esperienza della mia vita…Però, se ho bisogno posso tornare?”

Le sorrido, e anche lei sorride. Sei mesi dopo ha interrotto.

La seconda storia.

Ragazzo di 30 anni, arrivato in terapia in circostanze un poco particolari. Lo conosco in una serata di festa a casa di un amico, e si mostra desideroso di parlarmi perché anche lui è psicologo, pur non occupandosi di attività clinica ma di comunicazione aziendale.

Passano alcuni mesi e mi contatta telefonicamente per un incontro. In quella prima occasione manifesta il desiderio di affrontare alcuni suoi problemi, anche se non se la sente di intraprendere un percorso terapeutico per molto tempo.

“Mi piacerebbe potermi incontrare con lei qualche volta, quando me la sento” “Questo è possibile. Come mai chiede aiuto a me, visto che mi ha conosciuto in un altro contesto?”

“Quando l’ho conosciuto mi è piaciuto il suo modo di intendere il mondo e di viverlo. Non è quello che penso e faccio io, però mi piace di più il suo…”

“Beh, vuol dire che vuol parlarmi per sostituire la sua visione del mondo con la mia?”

“Mi piacerebbe avere una vita diversa da quella che ho…ha tanta paura di molte cose…sono molto sfiduciato…ci sono momenti in cui mi sento come morto…”.

Normalmente accolgo richieste d’incontro anche temporanee. In questo caso, vista la conoscenza pregressa con Salvo avvenuta in quel modo, non me la sono sentito di chiedere il pagamento di quelle episodiche sedute.

Salvo accettò le mie proposte di setting e ogni tre – quattro mesi mi chiamava, fissavamo un appuntamento, mi raccontava come era stato in quel periodo e lo stato d’animo di quel momento,  poi spariva nuovamente,  fino alla successiva richiesta di incontro.

 “Quando esco di qui mi pare di essere distrutto. Ma la notte dormo, non sono più pieno di incubi. Nei giorni seguenti mi sento anche più leggero”

La testimonianza di questi stati d’animo che avvenivano dopo le sedute qualche volta mi sorprendevano. Se ero sicuro di fare con lui quello che faccio normalmente con i pazienti che vengono in seduta tutte le settimane, lo stato d’animo di Salvo non sembrava affatto difforme da quello dei pazienti che fanno le abituali sedute settimanali.

All’inizio del terzo anno mi chiede di poter intensificare gli incontri.

“Vorrei venire tutte le settimane. Però vorrei pagare le sedute…almeno una parte, non ho i soldi per tutta la tua tariffa”

“D’accordo al vederci regolarmente. Sulle tariffe non faccio però differenze tra i pazienti, ma se vuole possiamo concordare che adesso me né da una parte e mi salda il residuo man mano che migliora le sue finanze”.

Salvo accetta. Non ho memoria di una seduta saltata, salvo le volte che andava a trovare i genitori, che abitavano lontano da Milano.

Riporto alcune frasi che mi ero annottato in quel periodo.

“Devo essere un disastro se nessuno mi cerca e vuole stare con me. Anche Rosaria (l’allora fidanzata) se può mi evita, e anche quando stiamo insieme cerca di stare con altra compagnia perché da sola non mi regge”.

“In ufficio non riesco a fare amicizia con nessuno. Forse è perché non do mai confidenza, non rido mai. Non credo di essere una buona compagnia”

Ogni tanto tentavo di riportarlo a noi due, a quanto avveniva nei nostri incontri, se quelli stati d’animo li sentiva anche con me, ma negava che fra di noi ci fosse un problema del genere.

“Vede, con lei parlo…non è che nascondo niente”

Io avvertivo a volte una sensazione di stanchezza per questa modalità uniforme di parlarmi di se.

Da un lato mi dicevo che dovevo essere paziente, ma mi rendevo anche conto che era utile fargli sapere anche gli stati d’animo che mi nascevano in quegli incontri.

Diventò tutto più facile per me dirglieli quando comincia a parlarmi in modo più diretto.

“Come fa a sopportare tutto quello che le dico? A volte non mi sopporto nemmeno io…A volte penso con preoccupazione a quando mi dirà che è stufo di me…”

“Spero di avere un buono allenamento, anche se è faticoso per me da seguire in certi momenti. Per esempio, quando parla di se al passato, senza esprimere mai i suoi stati d’animo. Pur dicendo cose terribili di se, spesso ne parla come se queste cose appartenessero ad altri. Adesso invece mi sta parlando direttamente, e mi esprime una preoccupazione sua nei miei confronti…”

“E’ sempre così impegnato con me…eppure io non riesco a cambiare niente nella mia vita, mi sembra di fare sempre gli stessi errori…penso che prima o poi si stufi di me…”

“Sono dispiaciuto quando si fa del male, pur sapendolo prima che così facendo non si aiuta di certo. Ma penso che quando viene qui cerca anche qualcos’altro che ancora non è chiaro”

Quando avvenivano quegli scambi le sedute erano intense. Il suo parlarmi direttamente, molte volte anche con emozioni intense mi facevano capire che qualcosa dentro di lei succedeva.

“Ci sono riuscito, ci sono riuscito”, mi dice all’inizio di una seduta. Aveva uno sguardo raggiante. Pochi mesi prima si era messo in testa di cambiare posto di lavoro e ci era riuscito.

“Sono contento per lei. Questo dimostra che non è vera solo quell’immagine disastrosa di se che mi porta continuamente. Sa anche essere altro, dentro di lei ci sono altre risorse”.

“Spero non sia stato solo un caso, anche se non capisco cosa abbiano trovato in me…forse sul lavoro sono più capace che nella vita”

In quel periodo inizio a lavorare con i pazienti anche in gruppo e gli propongo di fare anche questa esperienza.

Lui acconsente, però sceglie di provare a fare solo le sedute di gruppo, anche perché così non deve portare il peso di pagare solo in parte le sedute individuali. Mi chiede però di poter tornare alle sedute individuali se non si trova bene in gruppo. Non è abituato a stare in compagnia.

La sua esperienza con gli altri membri del gruppo è subito faticosa. Passa intere sedute senza intervenire, oppure lo fa per rimproverare aspramente qualcun altro per quello che ha detto.

E’ particolarmente polemico nei confronti di una paziente più anziana, rimproverandola di fare la “mammina scema e cattiva”. Senza nessun risultato il mio tentativo di farlo parlare di più su quello che gli richiamava dentro quello che avveniva negli scambi tra i membri del gruppo. Il più delle volte si chiudeva nei suoi pensieri e restava muto per il resto della seduta.

Dopo circa sei mesi si è ritirato dal gruppo, motivando la rinuncia a impedimenti lavorativi sopraggiunti.

Si rifà vivo dopo un paio di mesi, chiedendomi di riprendere le sedute individualmente. Il suo lavoro gli impedisce di partecipare al gruppo, posto in un giorno e in un orario per lui impossibile.

Accolgo la sua richiesta e ricominciamo le sedute individuali.

Trascrivo gli appunti presi nell’ultima seduta.

“Ho firmato finalmente l’acquisto della casa. Ho un po’ di paura, mi aspettano quindici anni di mutuo. Ma se il lavoro tiene, mi sento in grado di affrontare questa avventura”.

Parla vivacemente, con tono allegro.

“Vedo un buono stato d’animo”, gli rimando.

“Si, si, sono contento. Sarebbe bello che mi sentissi sempre così”

“Vuol dire che vorrebbe essere sempre allegro e contento?”

“Beh, non so…io so che ho dentro pezzi di me quasi morti. Ma sto lottando perché voglio sentirmi vivo. Quello che ho fatto lo devo a lei…”

“Guardi che io la sto solo aiutando. E’ dentro se stesso che deve continuare a guardare”

“Lo so. Sono disposto a tutto pur di vivere. E come morire se dentro non sento più niente…”

La seduta è continuata silenziosamente fino alla fine. Ero e sono rimasto tranquillo senza parlare anch’io.

Che cosa voglio dire con questi casi clinici? Che nell’incontro con un paziente si presentano tutti i vari punti presenti ne La struttura della relazione terapeutica  (la persona, il ruolo, il setting, il fifty-fifty, la domanda, ecc,) e che tocca al terapeuta affrontare con responsabilità di una buona risposta. Io non so se li ho affrontati bene quegli scambi, la mia processualità di quei momenti mi ha fatto muovere in modi che non so dire se siano stati i più adeguati possibili alla situazione clinica che si presentava. Probabilmente oggi in alcuni momenti sarei diverso nel mio parlare con Luisa e con Salvo, ma devo dire che sostanzialmente la processualità di ogni incontro risente, inevitabilmente, oltre che da quello che dice e fa il paziente, anche da quello che dico e faccio io come terapeuta.

Provo a dire cosa penso sia stata la mia parte di responsabilità come terapeuta negli incontri con Luisa e con Salvo.

Quando Luisa mi rivolge la domanda di incontrarmi mi attengo a una prassi collaudata, che mi consente di non farmi trascinare dal bisogno altrui, ma di proporre solo tempi che posso poi onorare senza soffrire in futuro. Posso apparire anche molto secco su questa posizione, ma ho imparato a essere abbastanza rigoroso sull’uso dell’agenda di lavoro.  Per quanto possa apparire piccola e insignificante la questione, credo che l’impatto iniziale di un incontro terapeutico sia importantissimo e che il terapeuta deve mettersi in una posizione di accoglienza e disponibilità che testimonino al paziente  l’importanza che il terapeuta attribuisce alle proprie capacità. Quando Luisa non è venuta al primo appuntamento non mi sono preoccupato (non avendo provato, tra l’altro, nessuna simpatia per il suo modo di fare al telefono), e ho lasciato cadere la cosa.

L’andamento della prima seduta penso sia stata cruciale per il prosieguo degli incontri. Quando mi sono fermamente opposto alla proposta di fare una doppia seduta non era tanto per una impossibilità materiale (non ricordo se avevo o meno l’ora successiva impegnata), ma volevo farle intendere chiaramente che non toccava a lei stabilire il tempo e la modalità di lavoro. Stessa cosa vale la mia risposta ferma e decisa alla provocatoria frase di Luisa “Che fa, chiama la polizia?” La reazione che ho avuto la considero un riuscito tentativo di farle capire subito che il setting di lavoro lo ponevo io. A lei toccava solo dire sì o no, non poteva metterlo in discussione. Oggi probabilmente rifarei la stessa cosa, forse con un altro atteggiamento, più tranquillo di quello di allora. Credo che la salvezza che offre il rispetto del setting che propongo sia la garanzia che ogni processo mio e suo possa essere governato con molta più semplicità.

Rispetto alle sedute saltate per mesi interi, non sono più certo che mi limiterei a interrogare solo questa modalità che ha usato.  Era anche vero che quando non veniva facevo altre cose, ma non ero del tutto tranquillo in quel silenzio un poco urlato che mi arrivava dal suo non venire. Oggi penso proprio che metterei più decisamente nella discussione sul campo delle questioni falsificabili il salto delle sedute “perché troppo intense”. Anche perché più di tanto su questa intensità non veniva fuori negli incontri successivi. Avrei dovuto, in altri termini, continuare a mettere un interrogativo più puntuale ai suoi “non so, non so”.

Sul rimanere nel mio cinquanta per cento non ho fatto fatica. Con Luisa c’è stata spesso la necessità, almeno per tutta la prima fase della terapia, di essere visto e ascoltato, data la sua tendenza ad occupare da sola tutto lo spazio terapeutico.

Sul mio funzionamento nel ruolo di autorità con Luisa non mi sono sentito in difficoltà. Ho mostrato subito la mia propensione a non perdere tempo, lasciando volentieri l’altra persona come titolare del movimento su cui dare una risposta interrogante. Mi pare di non aver anticipato nessuna domanda, e se me ne veniva una mi mordevo la lingua finché non ero sicuro di poterla mettere nel tavolo come una domanda di lavoro. Oggi credo che sarei più capace di essere più sciolto e tranquillo nel porle interrogativi, anche in assenza di una sua preliminare domanda verbale.

E’ sta altrettanto decisiva la possibilità di poter parlare, nelle supervisioni, delle domande e degli interrogativi che mi sorgevano durante le sedute.  Luisa mi richiamava, con i suoi atteggiamenti, anche alcune mie esperienze affettive e questa consapevolezza mi ha molto aiutato a prendere la paziente con molta pazienza e rispetto, in modo da rappresentare al meglio la funzione che avevo con lei.

Con Salvo ho scelto di incontrarlo, prima con quella formula occasionale, pur non essendo del tutto convinto che la conoscenza iniziale avvenuta in un contesto amicale mi avrebbe consentito di fare normalmente il mio lavoro.

Credo che la mia proposta di non fargli pagare le sedute occasionali abbia origine proprio dalla mia difficoltà a credere fino in fondo che si potesse sviluppare una storia terapeutica in quelle condizioni.

La preoccupazione di fargli male mi ha fatto andare coi piedi di piombo in molte sedute. In tanti scambi gli avrei invece dovuto far vedere come il suo modo “morto” di porsi non lo aiutava nemmeno con me.

Un paio d’anni fa, a Olbia, scrivevo nella mia relazione:

La cura, la terapia è fondata essenzialmente sulla nostra capacità di occupare bene, nel funzionamento, il ruolo che abbiamo, capacità che ha al suo centro la qualità vitale dei nostri atti.

Che cosa ci chiede, essenzialmente, il paziente?

Che noi siamo completamente umani con lui, di aiutarlo ad esprimere meglio le proprie qualità specificamente umane (il desiderio, la speranza, la fede, la ragione, l’amore, la felicità).

Sono qualità tipicamente nostre, in cui crediamo (o dovremmo credere) perché sono queste qualità che fanno la differenza tra un’esistenza umana ed una animalesca.

Uso la parola credere, aver fede, ma potrei usare, con la stessa caratteristica etimologica, la parola “fermezza”.

Credo molto nelle fermezza dei propri principi, anche se così si è spesso accusati di essere poco moderni.

Non credo nemmeno che questa fede o credere vada intesa in maniera da confonderla con una specifica religione, anche se può comprenderla.

Conosco anche dei convinti non credenti che sono fermissimi nei propri principi etici.

La fermezza e la fede che ho in mente ha più a che fare col sacro, con quel senso assoluto di mistero che accompagna alcuni aspetti della nostra esistenza.

Ecco, sono ancora convinto che quella cose scritte cinque anni fa siano attuali nel mio modo di intendere la responsabilità etica del terapeuta.  In tutte queste questioni che ho posto credo si possa articolare il nostro ragionare sulla responsabilità. Ci sono probabilmente tante altre cose importanti da discutere, e spero lo si faccia, con la consapevolezza che la cura di noi stessi prevede tanti sentieri diversi, tanti quanto siamo noi stessi come persone, e che ognuno deve scegliersi il suo, con i propri principi, poiché non c’è niente di più importante nella vita del dare un senso buono al nostro essere nel mondo.

 

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