La porta aperta.

La concezione della terapia illustrata in questo libro trova nella Porta aperta la sua più completa rappresentazione.

Le forme in cui abitualmente si pratica la terapia sono quelle individuale, in coppia, in famiglia, in gruppo, e nella prassi attuale esse conservano una loro specificità e una loro definita identità

Nella maggioranza dei casi, i terapeuti finiscono con lo specializzarsi in una o più di queste forme, e talvolta cominciano la loro carriera già specializzati. In questa situazione l’indicazione a una forma di terapia piuttosto che a un’altra è posta “a prescindere”, nel senso che in essa fa gioco l’opzione di partenza del terapeuta piuttosto che una valutazione puntuale e contingente del modo di presentarsi della domanda di cura.

In conseguenza delle specializzazioni in vigore, è umano e comprensibile che gli “specialisti” nelle diverse forme in cui la terapia  viene somministrata siano portati a privilegiare la loro specialità, a sopravvalutarla rispetto alle altre possibili.

Tra l’altro, una conseguenza della specializzazione è quella di inviare ad altri anziché trattare in prima persona quelle domande di cura che possono subentrare nel corso di un trattamento: un coniuge, un figlio, un genitore che chiedono udienza al terapeuta del loro congiunto già in cura si vedono abitualmente dirottati su altri terapeuti, su altre forme di cura prima ancora che le ragioni della loro iniziativa trovino un adeguato ascolto da parte di colui che è stato interpellato.

Forse non succede più con la frequenza di una volta che chi osa chiedere udienza al terapeuta del proprio congiunto sia considerato un disturbatore o un boicottatore e come tale trattato. Certamente, nella cultura attuale, questi movimenti sono vissuti come un problema più che come una possibile ricchezza al servizio della terapia, e suscitano spesso nei terapeuti l’imbarazzo di chi, di fronte a un’evenienza non prevista, si sente privo degli strumenti adeguati a fronteggiarla.

Con la locuzione Porta aperta intendiamo riferirci a una pratica clinica nella quale le varie forme in cui la terapia viene somministrata possono trasformarsi dall’una all’altra in corso d’opera

Le “variazioni di setting” sono sempre esistite. Quella che a noi appare una novità sostanziale consiste nel fatto che, lungi dall’essere considerate “eccezioni alla regola”, esse sono a tutti gli effetti comprese all’interno della “regola”.

Per “regola” intendiamo quell’insieme di criteri, tecniche, metodi ai quali i terapeuti tradizionalmente si assoggettano, che sono in parte frutto di precise indicazioni teoriche, in parte frutto di una consuetudine che col tempo è diventata legge.

Per esempio, l’aver considerato sempre e comunque come un attentato alla terapia l’intenzione di ingresso nella stanza da parte di terzi.

Quando accenniamo criticamente a comportamenti clinici di questo tipo, sappiamo che certe degenerazioni o certi eccessi vanno attribuiti, più che alla teoria in quanto tale, a una sua  cattiva interpretazione da parte di terapeuti in carne e ossa. Ma se essi sono così diffusi tanto da apparire scontati, un certo rapporto tra teoria e pratica ci deve pur essere. E poi, il nostro discorso verte anche e soprattutto sulla terapia reale, quella che viene praticata dai più.

Due precisazioni terminologiche si rendono a questo punto necessarie.

L’una riguarda il setting: è consuetudine definire in questo modo le condizioni fattuali della terapia, per cui per passaggi di setting si intendono appunto i passaggi da una forma all’altra.

Poiché, come abbiamo illustrato nell’apposito capitolo, diamo al setting significati e funzioni che vanno molto al di là dell’accezione corrente, preferiamo parlare delle diverse forme, anziché dei diversi setting. Questo anche per rispettare l’univocità sostanziale di questo concetto.

L’altra, di cui siamo debitori al collega Piergiorgio Nicotera, riguarda il fatto che analisi personale e analisi individuale sono entità diverse (nel linguaggio comune spesso vengono confuse): per analisi individuale si intende un’analisi effettuata appunto nella forma individuale, mentre l’analisi personale è il processo terapeutico che rimane sostanzialmente indipendente dalle varie forme in cui esso può svolgersi.

Accennavamo alla terapia reale, quella che viene praticata dalla “maggioranza silenziosa” dei terapeuti, non quella che troviamo rappresentata nei libri e nelle riviste.

È a questa “maggioranza silenziosa” che soprattutto ci rivolgiamo, con intenzioni pedagogiche più che puramente “scientifiche”. Diciamo questo perché una delle obiezioni più frequenti che il discorso della Porta aperta incontra da quando ha cominciato a circolare sulla rivista e altrove ed essere occasione di dibattito è stata quella della “pericolosità” di offrire a terapeuti non ancora sufficientemente formati uno strumento di lavoro la cui applicazione richiede una grande competenza.

Abbiamo curiosamente constatato che queste obiezioni provengono soprattutto da colleghi già formati, mentre il discorso della Porta aperta è generalmente ben accolto dai giovani. In sé questo dato non dice molto, mentre dice sicuramente qualcosa il fatto che quando i neo terapeuti della nostra scuola si cimentano con le prime esperienze cliniche, l’aver già nella mente una possibilità del genere è sicuramente di grande aiuto per loro.

Illuminante il pensiero di un nostro collega: “Magari, quindici  anni fa, qualcuno avesse  condiviso con me simili considerazioni! Avrei comunque fatto un sacco di fesserie, ma forse qualcuna me la sarei risparmiata. Probabilmente, agli inizi mi sarei quanto meno sentito più libero e meno impacciato a rispondere alle tante telefonate di parenti di vario grado dei miei pazienti. Forse mi sarebbe stato un po’ più facile evitare di confondere  la difesa del setting  con l’assunzione di un atteggiamento di rigida chiusura.

Poiché non trascuriamo nessuna occasione per affermare l’indissolubiltà del rapporto tra la nostra concezione della terapia e la pratica della formazione permanente, questo è il momento per ribadire ancora una volta questo punto. Teoria e pratica sono strettamente interconnesse nel nostro mestiere: che senso avrebbe tacere ai neoterapeuti le applicazioni pratiche della Porta aperta quando tutta la concezione della terapia che viene loro proposta rappresenta la base teorica e metodologica su cui queste applicazioni si fondano?

Preferiamo fare affidamento sulla responsabilità e sulla libertà dei nostri più giovani interlocutori, assicurando loro, com’è dovuto, l’accompagnamento e l’assistenza necessari nei loro primi, secondi, terzi… passi.

Ci rendiamo conto che la questione è molto complessa, sono tanti gli aspetti che, a vari livelli, entrano in gioco.

Un difficoltà al momento ancora forte dipende da un insufficiente grado di conoscenza e comprensione, da parte di molti “tradizionalisti”, dei presupposti teorici da cui deriva La porta aperta. Il passaggio da una concezione terapeutica fondata sulla psiche a una concezione fondata sulla persona ci appare, lo diciamo con umiltà, qualcosa di rivoluzionario, qualcosa che impone la revisione di una grande quantità di pensieri sulla terapia, e sui  modi di vederla e di praticarla.

Ci è capitato più volte, nelle discussioni coi colleghi, di veder attribuite a una nostra insufficiente chiarezza concettuale quelle che sono invece  le effettive e comprensibili difficoltà soggettive di applicazione della Porta aperta. Difficoltà che potrebbero riassumersi tutte nella difficoltà di curare se stessi anziché l’altro/gli altri.

Dicevamo del passaggio dalla psiche alla persona. Dire persona è dire libertà, è dire responsabilità

Libertà e responsabilità, per i terapeuti, di offrire il loro aiuto secondo le modalità più adeguate alle circostanze del momento, e libertà e responsabilità di proporre o di accettare cambiamenti di assetto in corso d’opera.

Libertà e responsabilità derivanti da una strategia fondata su presupposti teorico-metodologici predefiniti, non improvvisazioni arbitrarie, frutto dell’estro, sempre discutibile e opinabile, del singolo.

Libertà e responsabilità di assumere iniziative terapeutiche prevedibili e praticabili alla luce di un pensiero coerente, argomentabile e generalizzabile.

Libertà e responsabilità che, fatte salve le differenze di ruolo e di funzione, sono le stesse dei loro interlocutori pazienti.

In questo capitolo illustreremo appunto questa particolare prospettiva.

L’apertura della porta della stanza del terapeuta comporta una grande quantità di “aperture”, la prima delle quali, come abbiamo ripetutamente sottolineato, è quella rivolta alla realtà esistenziale della persona. Un’altra apertura necessaria è quella del passaggio, per il terapeuta, a una visione che vada al di là del paziente in carne e ossa che sta davanti a lui, per individuare, quando se ne presenta il caso, gli altri interlocutori meritevoli di comparire efficacemente sulla scena terapeutica.

Si tratta, oltre che di un’apertura, anche di un “innalzamento”, consistente nell’attitudine-capacità a cogliere un insieme anziché solo un singolo, secondo la stessa logica per la quale, innalzandosi di livello, si vedono più cose di quante non se ne vedono rimanendo sul livello inferiore. 

Il terapeuta della porta aperta si trova in posizione avvantaggiata, non solo perché in grado di offrire tutta la gamma degli interventi teoricamente previsti, ma anche perché in grado di cambiare assetto in corso d’opera, secondo le circostanze e gli sviluppi della terapia. Soprattutto, questo terapeuta è grandemente aiutato, nell’esercizio della sua responsabilità e della sua libertà, dal fatto di lasciare al suo interlocutore la scelta della forma da intraprendere, anche quando questa scelta è difforme da quella che farebbe lui.

Le nostre argomentazioni di natura concettuale non entrano nel merito della processualità, ma danno per scontato un terapeuta “sufficientemente capace” di tenere la posizione che gli compete ed è su questa posizione che si indirizzano le nostre considerazioni.     

È  una posizione in autorità,  è una posizione asimmetrica rispetto a quella del paziente.  Chi copre questa posizione ha la responsabilità e la funzione di aiutare chi vi si affida a realizzare la propria aspirazione alla salute. Ma queste condizioni, più volte ribadite nello svolgimento delle nostre argomentazioni, che caratterizzano indistintamente tutte le esperienze terapeutiche, non sono sufficienti a delineare la figura del terapeuta della porta aperta  Altre condizioni vanno tenute presenti. Tra queste,  quella che sia il paziente a essere considerato l’autore della propria cura; che il terapeuta sia consapevole che la  natura e i limiti della responsabilità che  si attribuisce sono gli stessi di quella del paziente,  e che la cura si indirizzi a una persona, non  solo a un soggetto psichico. Quest’ultima  soprattutto è discriminante.

Parlare di persona significa parlare di una realtà esistenziale unica, originale, irriducibile a qualsiasi altra; comporta l’introduzione di concetti come libertà,  responsabilità, volontà; significa il superamento di qualsiasi attitudine diagnostica; richiede da parte del terapeuta di riconoscersi su un piano di assoluta reciprocità umana rispetto al paziente; vuol dire considerare il paziente autore e responsabile delle modalità malate con cui si relaziona con se stesso e con gli altri  e, in presenza del desiderio e dell’intenzione di affrontarle,  responsabile e autore della propria cura.

I compiti e le responsabilità del terapeuta non sono da meno: accogliere, ascoltare e rispondere al paziente testimoniando in prima persona, nell’attualità e nella concretezza della relazione terapeutica, che la salute che il paziente ricerca è possibile. È  possibile perché il terapeuta per primo la cerca e la realizza nel rispondere al paziente secondo gli attributi del suo ruolo (di autorità, di adultità, di competenza, di fiducia nelle potenzialità di crescita dell’altro, di rispetto assoluto per le sue scelte, di desiderio del suo bene rinunciando in partenza a immaginare quale possa essere, ecc.), e nel ricorrere all’aiuto altrui ogni volta che si accorge di non “funzionare” bene nel suo ruolo.

Non si pensi a un terapeuta totipotente. Si pensi piuttosto a un terapeuta che crede all’unicità, alla responsabilità di sé, alla libertà della persona, convinto che la sofferenza di cui è chiamato a prendersi cura deriva,  in ultima istanza,  proprio  dagli attacchi, dai misconoscimenti, dalle negazioni  inferti a queste esigenze  strutturali dell’essere  umano.

Inferti perlopiù inconsapevolmente, nell’ambito del microcosmo familiare, attraverso le innumerevoli forme di amore malato con cui gli adulti di riferimento possono accompagnare l’infante, il bambino, il ragazzo nel suo processo di crescita e di evoluzione.

Inferti perlopiù intenzionalmente, nel macrocosmo socio-politico-culturale, ad opera di un potere il cui motto,  divide et impera, oggi si riferisce soprattutto alle coscienze, all’interiorità  delle persone.

Un terapeuta siffatto non può non credere all’unicità e all’unitarietà del processo di cura, tanto da ritenere le diverse forme in cui esso può essere effettuato solo dei differenti contenitori di una stessa sostanza.

Questo terapeuta, di conseguenza, non potrà immaginarsi qualitativamente diverso,  come persona, ruolo, funzione, competenza, metodo, a seconda dei vari assetti in cui si trova a operare, che  possono essere la terapia individuale, o con la coppia, con la famiglia, o in gruppo.

Questo terapeuta  dovrà essere fin dall’inizio consapevole che i diversi gradi di difficoltà e di complessità presentati dalle diverse forme in cui può esercitarsi la sua funzione non dipendono solo da queste ma anche, e soprattutto,  dai livelli di maturazione, di sicurezza, di capacità personali da lui raggiunti al momento.

A noi risulta che nelle attuali culture e pratiche  delle relazioni d’aiuto e della formazione, le varie forme in cui si somministra la cura non sono considerate in modo così unitario e omogeneo, anche quando  si muovono sotto lo stesso cielo teorico, per esempio quello psicoanalitico.

È  forte, ripetiamo, la tendenza alla specializzazione. Un terapeuta individuale anche di provata esperienza può rimanere interdetto di fronte a un’occasione di terapia di coppia, e se le circostanze lo inducono a intraprenderla è probabile che lo faccia con uno spirito di trasgressione, e con una sensazione  di incompetenza.

Vorremmo fugare possibili fraintendimenti. Non intendiamo sottovalutare l’importanza e il valore della competenza o dell’esperienza necessaria per raggiungere questa competenza.

Stiamo proponendo “semplicemente” un cambiamento di mentalità, all’insegna di una visione sostanzialmente unitaria della salute, della sofferenza, della cura e delle persone implicate in queste realtà.

Ma come far valere a livello socio-culturale quello che si ritiene possa valere a livello individuale-soggettivo?

I due livelli sono strettamente interconnessi. Che cosa vogliamo dire?

Se quel modello di terapeuta che andiamo delineando entrasse a far parte del bagaglio teorico e tecnico dei terapeuti, costoro si muoverebbero, nel loro percorso professionale,  con un’attrezzatura mentale che non diminuirebbe certamente l’impegno del loro travaglio formativo, ma che li condurrebbe più rapidamente ad affrontare le situazioni cliniche con questa apertura.

Interrompiamo momentaneamente questa parte introduttiva per presentare alcune situazioni concrete: dovrebbe così essere più agevole per il lettore afferrare lo spirito e la lettera di questa impostazione. Anche nelle vignette cliniche tralasceremo volutamente gli aspetti e i problemi di natura processuale, al fine di rendere maggiormente evidente la cornice strutturale che fa da contenitore e da riferimento a questa filosofia. Saranno le singole esemplificazioni cliniche a fornirci l’occasione per ulteriori riflessioni di carattere più generale.

Come si vedrà, gli interventi della Porta aperta si possono classificare in due gruppi: uno, meno numeroso, dove più persone nella stanza, solitamente una coppia  coniugale oppure una coppia genitore-figlio, intraprendono insieme un processo terapeutico personale di lunga durata; l’altro, più ampio, dove l’apertura della stanza a terzi è un evento di breve durata. In questo secondo caso la breve comparsa di un terzo, o di terzi, arricchisce e potenzia il processo terapeutico in cui è impegnato il “titolare” della stanza, mentre contribuisce, talvolta potentemente, a dinamizzare e porre su nuove basi dei rapporti di vita sclerotizzati in una sofferenza relazionale priva di sbocchi.

Altre volte ancora, è sufficiente proporre al paziente nella stanza la presenza di uno o più congiunti particolarmente significativi per assistere a effetti sorprendenti, indipendentemente dal fatto che l’apertura si realizzi o meno. Come nel caso seguente.

Vincenzo (Valerio Montieri)

Si tratta di un giovane uomo, che al momento di cui trattiamo era già al quarto o quinto anno di terapia, che si sarebbe felicemente conclusa due anni dopo.

Vincenzo, il paziente, ha un fratello mentalmente disturbato e disturbante, che soprattutto dopo la morte dei genitori costituisce nella sua vita una spina nel fianco. Se ne sente responsabile, ma non sa come gestire il rapporto, e prova una forte avversione, e anche paura, nei suoi confronti.

È giunto il momento, sempre rimandato ma non più prorogabile, della spartizione patrimoniale.

Vincenzo è in crisi, agitato e impaurito: “Come faccio a discutere di questioni di interesse con mio fratello, che rifugge da ogni discorso pratico, e che mi oppone una visione catastrofica della sua vita futura? Come parlare di dividere il denaro, con uno che vive prospettive così nere? Mi sento uno sciacallo…”

Terapeuta: “Direi a suo fratello che dato che il suo futuro è così nero, mi preoccupo di salvaguardare la mia parte di patrimonio per essere in grado, all’occorrenza, di aiutarlo”.

Come altre volte in situazioni simili, Vincenzo rimane piacevolmente sorpreso da questo, per lui paradossale, capovolgimento di logica.

Egli si prospetta però tutte le difficoltà di un dialogo e di una discussione col fratello. Il terapeuta dice: “Perché non lo porta qui?”

Lui rimane sbalordito, pensa a uno scherzo:  “Non si fa, non è possibile, la psicoanalisi vieta queste cose (sic!). Ho sempre pensato questo spazio come inviolabile, e poi… così come ho temuto di presentare la mia fidanzata a mio padre, per timore che la “sporcasse”, così avrei paura che, venendo qui, mio fratello “sporcasse” lei, dottore.

Terapeuta: “Potrei essere un facilitatore del vostro scambio, non un giudice, non un arbitro”.

La  mossa è veramente dirompente. Vincenzo dice chiaramente che questa frase buttata lì gli spalanca una prospettiva insospettata, nuova. Non sa se la cosa avverrà, se lui stesso la accetterà, se il fratello a sua volta  l’accetterebbe, ma indipendentemente dai possibili sviluppi pratici questa prospettiva è per lui sconvolgente in senso positivo.

Dice del padre, della complicità del padre con Vincenzo di fronte al fratello  (“Cosa vuoi farci, è una disgrazia, mi devi essere vicino e complice”), e dell’atteggiamento del padre  di totale asservimento di fronte all’altro figlio. Era costui a dettare legge – una specie di dittatore folle – e il padre lo assecondava, lo subiva…

Dice dei genitori,  che non hanno insegnato ai due fratelli a volersi bene, a essere amici. E adesso, il suo terapeuta gli propone… gli è inconcepibile che il terapeuta possa essere dalla parte di entrambi, “sente” che di fronte a loro due il terapeuta parteggerebbe per il fratello…

Al congedo riconosce che il terapeuta gli ha aperto una sconvolgente e inaspettata prospettiva, è contento, lo ringrazia in modo molto intenso. Ha toccato con mano una logica diversa da quella in cui è stato immerso nella storia famigliare, quella del divide et impera.

In questo caso la porta rimase chiusa, ma la ricchezza del “materiale analitico” prodotta dalla proposta di aprire la porta ci sembra dica molto sulle potenzialità della Porta aperta.

Antonella e Valerio

Sono di fronte al terapeuta  Antonella e Valerio, coppia di coniugi di mezza età.

Lei dice: “Lo sapevo già, ma l’altra sera ho proprio toccato con mano che la nostra vita sta migliorando e che questo lavoro che stiamo facendo insieme funziona.

Valerio è rincasato tardi, io ero per caso ancora sveglia, e nel sentirlo raccontarmi tutto eccitato un episodio che gli era appena accaduto l’ho visto bambino, mi sono commossa, e mi sono appartata per piangere a lungo, intensamente. Sentivo che quel pianto era solo mio, che lui non c’entrava. In quel momento ho capito veramente, non solo con la testa, quante cose mie giocano nel nostro rapporto, e come non è giusto attribuire solo a lui, come ho fatto finora, tutte le colpe per la mia sofferenza e le nostre difficoltà”.

Valerio dice: “Mi piacerebbe che anche Antonella intraprendesse un suo percorso analitico, e io riprendere il mio lavoro da solo, anche se devo riconoscere che questo tratto fatto insieme è stato prezioso e illuminante anche per me”. Dietro richiesta del terapeuta egli spiegherà che il desiderio di riprendere la sua terapia individuale non è dovuto tanto a problemi di segretezza quanto all’esigenza di occuparsi di cose che sente solo sue.

Valerio è stato per circa tre anni in trattamento individuale. 

In una situazione coniugale affettivamente insoddisfacente, la cui criticità la moglie, presa dal lavoro e dai figli, stentava a riconoscere, Valerio si era  abbandonato a relazioni sentimentali sempre più coinvolgenti, fino a figurarsi la prospettiva di una separazione.

Una mattina  il terapeuta riceve un’accorata e drammatica telefonata da sua moglie: “Sono venuta a sapere cose terribili sul conto di mio marito, è crollato tutto, sto male, ho bisogno di parlare con lei, dottore, ma non voglio che lo sappia mio marito!”

Il terapeuta le dice che  la riceverà volentieri, ma che non si sente di farlo all’insaputa del marito, e che si sente tenuto, per lealtà, a informarlo anche di questa telefonata.

Lei insiste: “Non lo faccia, ho paura, sono disperata, se lo fa mi butto dalla finestra!”

Lui dice che non può accettare questa imposizione, insiste sull’importanza di parlare al marito, e la incoraggia ad avere fiducia nel dire la verità.

Lei  scongiura il suo interlocutore  di rimandare almeno la comunicazione al marito della telefonata, lo ringrazia per l’indicazione (quella che è meglio parlare), e lo saluta più sollevata.

Pensando all’incontro che avrebbe avuto all’indomani con Valerio, il terapeuta si chiedevo se informarlo o no, e aveva deciso di soprassedere, in attesa degli sviluppi. Si sentiva tenuto a parlare, ma non subito, doveva tener conto anche della richiesta della moglie.

All’indomani, il paziente gli dice: “Avrà intuito che è successo un patatrac! Mia moglie ha scoperto il mio tradimento e le ha telefonato. La può ricevere?”

Così, dopo qualche colloquio con Antonella, era cominciato, per desiderio di entrambi, un trattamento in coppia,  di cui il frammento che abbiamo presentato rappresenta un passaggio significativo. Lo sviluppo di questa storia ha visto la coppia separarsi, Valerio concludere la terapia e dar vita a una nuova relazione che si prospetta stabile, e Antonella intraprendere una terapia individuale con lo stesso terapeuta del suo ex marito.

Nel caso di Valerio e Antonella  si presenta un problema che secondo una  certa consuetudine  trovava una risposta automatica: la stanza d’analisi era sacra e inviolabile, e andava difesa da qualsiasi tentativo di intrusione dall’esterno. L’analista era il garante di questa inviolabilità, tanto da assumere talvolta, di fronte a un coniuge o a un genitore che si facevano vivi con lui, comportamenti francamente assurdi, maleducati e incomprensibili agli occhi del malcapitato “intrusore”.

Che questa linea di condotta scaturisse dalla dottrina o da una sua cattiva interpretazione poco importa; la prassi diffusa era (e probabilmente  è ancora) questa, e ad essa ci si atteneva.

Il paziente in analisi godeva di uno statuto speciale rispetto agli altri membri del suo mondo relazionale, e di fronte a questi ultimi, dentro di sé, il terapeuta finiva spesso per identificarsi col paziente, facendo propri i vissuti, i sentimenti, le idiosincrasie di costui.

È stata in particolare la concezione sistemica ad abbattere il muro tra il “paziente designato” e i “membri sani” della famiglia o della coppia, e a mostrare le interconnessioni e i reciproci condizionamenti tra le due categorie.

Ma la  teoria sistemica, e le relative applicazioni cliniche, non si interessavano all’individualità e all’interiorità dei singoli, limitandosi  a intervenire sulle loro interazioni, e ciò rappresentava, dal punto di vista psicoanalitico, un inaccettabile handicap.

Se Antonella non avesse accolto  l’invito del terapeuta e non avesse detto al marito della telefonata fattagli, come si sarebbe egli comportato con lui? E se Antonella avesse insistito per incontrarlo all’insaputa del marito? Anche se in quella  situazione la piega presa dagli eventi  ha evitato al terapeuta di doverle affrontare, crediamo che alla luce della filosofia della “porta aperta”  queste domande vadano attentamente considerate.

Alessia

Alessia è una donna che ha accompagnato, da paziente, quasi tutta la carriera professionale del suo terapeuta.

Sia pure con intervalli di anni, essa ha frequentato il suo studio fin dai primi anni della sua professione. Via via che egli procedeva nell’elaborazione di un suo pensiero sulla cura  e nell’affinamento di una sua tecnica, questi metteva a disposizione di Alessia, tutte le volte che ritornava a consultarlo. Storie cliniche come questa crediamo figurino nell’esperienza di molti terapeuti, anche se non sono tra quelle di cui, a torto o a ragione, essi sono soliti compiacersi. Si tratta di pazienti particolarmente difficili e tenaci, che senza l’accompagnamento di un terapeuta avrebbero avuto una vita ancor più devastata, oppure di pazienti particolarmente sfortunati, incappati in un terapeuta non all’altezza, nel loro caso, del compito?

Quando Alessia  si ripresentò ancora una volta  nel suo studio, il terapeuta aveva avviato la conduzione di gruppi terapeutici, e fu “giocoforza” per lui offrirle di partecipare a uno di questi.

Dopo un anno e mezzo di partecipazione a questa nuova forma di terapia, il risultato è stupefacente, nel senso che in gruppo Alessia ha delle aperture su un mondo interno impregnato di dolore, di paura e di rabbia che nelle terapie precedenti, contrassegnate da opposizione, rifiuto, silenzio,  era lontanissima dal potersi permettere.

In un incontro di gruppo particolarmente movimentato, dietro stimolo di una situazione intensamente evocativa presentata da un altro paziente, Alessia improvvisamente ricorda un episodio infantile rimasto sepolto nella memoria, a conclusione del quale aveva giurato a se stessa: “Non vorrò mai più bene a nessuno!”

Piera e Giovanni

Piera e Giovanni si presentarono al terapeuta la prima volta insieme. Il loro rapporto era in crisi, avevano bisogno d’aiuto, ma non volevano una terapia in coppia, bensì un trattamento individuale per entrambi, entrambi con lui. Il terapeuta si interrogò sulla sua capacità di trattare ciascuno dei due lasciando l’altro totalmente fuori dai suoi  “memoria e desiderio”, ritenne di poter affrontare il compito, disse loro che si sarebbe attenuto a questo criterio, e cominciarono a lavorare.

Quando il terapeuta espose questo caso in un gruppo di supervisione, un collega gli chiese: “Come ti comporterai nell’eventualità che uno dei due tradisca l’altro a sua insaputa? Non pensi che tacendo tu possa diventare traditore a tua volta? E come farai ad evitare di essere condizionato, nel tuo rapporto con loro, da tutto quello che verrai a sapere dell’altro, e viceversa?”

I due trattamenti si svilupparono secondo le consuete modalità dei trattamenti individuali. Pur essendo ovviamente presente l’altro coniuge sulla scena analitica, mai si verificò che i due fossero tentati di interpellare il terapeuta sul conto dell’altro per giudizi, valutazioni, informazioni o altro.

L’evenienza paventata dal collega si verificò puntualmente. Giovanni, che all’inizio della terapia intratteneva già, all’insaputa della moglie, una relazione extraconiugale con una collega di lavoro, nel corso del trattamento vide rinforzarsi questo legame fino alla decisione di separarsi, divorziare e sposare la nuova compagna. Piera, che aveva subìto più che condiviso questa decisione, aveva protratto la sua analisi più a lungo del marito: risentita per un abbandono di cui non si capacitava, e i cui effetti, a livello emotivo, erano rinfocolati da antiche vicissitudini della propria storia di figlia delle quali stentava a riappropriarsi, si era faticosamente fatta una ragione dell’accaduto, e si era risposata pure lei.

Nel corso delle vicende legate alla separazione la loro unica figlia era entrata in uno stato di grande sofferenza e reattività: i genitori, colpevolizzati e spaventati, le avevano offerto un aiuto terapeutico, ma avevano dovuto attendere a lungo prima di vedere accettata la loro proposta.

Piera, un anno dopo la fine della sua  terapia, era ritornata dal terapeuta per riprenderla, ed aveva aderito di buon grado all’idea del gruppo, che ha frequentato con soddisfazione da tre anni.

Anche Giovanni si è rifatto vivo ultimamente, afflitto da difficoltà di rapporto con la figlia e intenzionato ad affrontarle.

“Perché non venite insieme?” ha buttato là il terapeuta.

La proposta gli giunge inaspettata, ne è sorpreso, avanza una quantità di obiezioni. Da parte sua il terapeuta, pur accogliendole e comprendendole, rimane sulla sua posizione: “Perché no? Si può sempre provare… ”

Si sono congedati così, lasciando la cosa in sospeso. Dopo sei mesi, Giovanni telefona al terapeuta annunciandogli che lui e sua figlia desiderano  avviare degli incontri insieme.

Lui, al momento di iniziare questa nuova esperienza terapeutica, grazie alla terapia precedente, aveva già acquisito una certa confidenza con il proprio contenzioso interno, di figlio amato e protetto come un cagnolino ma del tutto trascurato in quanto a riconoscimento e a valorizzazione della sua individualità; lei, con una terapia individuale in atto, adolescente tardiva schiacciata da un’immagine di sé molto svalutata,  piena di risentimento verso i genitori e piena di pretese di risarcimento da parte loro. La loro separazione le aveva offerto l’occasione, e anche l’autorizzazione, per dar sfogo a sofferenze e insofferenze prima silenti, accumulate in un contesto affettivo familiare occupato quasi esclusivamente dalla conflittualità dei genitori.

Ciò che aveva indotto Giovanni a chiedermi nuovamente aiuto era stato il suo trovarsi totalmente disarmato di fronte alla reattività, ai rifiuti, agli attacchi, alle gelosie della figlia. Reagiva a sua volta alle provocazioni, se ne colpevolizzava, ogni tentativo di dialogo e di spiegazione falliva con il comprensibile strascico di delusione e rancore reciproci. Non avendo se non precariamente raggiunto la posizione paterna, viveva il rapporto con la figlia in termini simmetrici, o addirittura capovolti, struggendosi nella vana attesa di segni di riconoscimento, di affetto e di conforto, di cui aveva bisogno per poterli manifestare a sua volta.

Un dramma nel dramma, nel caso di trattamenti congiunti con genitori e figli, è rappresentato dal fatto che, sotto l’aspetto della sofferenza e dei bisogni, non c’è differenza tra di loro. Ciò che fa la differenza è che gli uni sono venuti al mondo prima degli altri, e che hanno delle responsabilità che questi ultimi non hanno. È la  posizione nella vita, dei genitori, col conseguente carico di compiti e di responsabilità, che autorizza i figli a sentirsi defraudati quando i genitori hanno svolto la loro funzione in modo eccessivamente difettoso. Ma anch’essi  sono stati figli defraudati, e senza una robusta presa di coscienza, e conseguente cura, di questa loro condizione, essi continueranno a muoversi come tali anche da genitori, con tutte le conseguenze negative immaginabili.

In queste situazioni il compito del terapeuta è particolarmente delicato, perché quel tanto di figlio non del tutto pacificato che può albergare ancora in lui potrebbe portarlo ad abbandonare quella posizione anche interiore di equidistanza, che è la condizione di partenza per questi interventi.

Ma se questa capacità del terapeuta di entrare in contatto con la sofferenza dei singoli a prescindere dalle loro rispettive posizioni è messa in atto nella stanza d’analisi, nell’hic et nunc della relazione terapeutica, gli effetti sono tangibili quasi immediatamente. Genitore e figlio trovano nel terapeuta quell’ascolto, quell’accoglimento, quella valorizzazione e legittimazione dei loro sentimenti e dei loro vissuti di dolore e di rabbia che invano cercavano l’uno nell’altro. Lo spazio relazionale offerto e protetto dal terapeuta consente a questi sentimenti e vissuti di manifestarsi  non più  in modo esclusivamente reattivo, col risultato di potersi far strada nelle rispettive consapevolezze anziché cozzare l’uno contro l’altro elidendosi a vicenda.

Questo è ciò che si verificato con Giovanni e sua figlia.

L’aiuto lo voglio tutto per me!

Il terapeuta viene  richiesto di aiuto terapeutico da parte di una collega. Lei espone una situazione di difficoltà e di crisi coniugale che, rimasta a lungo latente, si è manifestata con virulenza in occasione di un certo episodio. A lui viene spontaneo proporre un incontro di coppia. In questi casi spiega sempre che propone un incontro, non una terapia in coppia. Un incontro perché gli interessati siano informati direttamente da lui, e non solo dalla controparte, delle possibilità di un lavoro congiunto, e perché siano aiutati a valutare correttamente questa opportunità.

La sua interlocutrice risponde di getto: “No! L’aiuto che le chiedo lo voglio tutto per me, non mi va di spartirlo con nessuno!”

In questa reazione così immediata e spontanea ci sembra di cogliere, oltre che significati affettivi ed emotivi specifici, anche alcuni pregiudizi molto radicati nella mentalità corrente,  anche in quella terapeutica, che più dovrebbe esserne immune: la confusione tra qualità e quantità, un’idea molto ristretta di benessere, tale che una sua condivisione andrebbe a scapito, non a vantaggio, degli interessati. Nell’idea di terapia in coppia di questa collega evidentemente uno più uno dava metà, non due.

Il terapeuta le  espose la sua idea della terapia, pago di avere almeno contribuito al superamento di un pregiudizio. Non sarebbe stato comunque in suo potere  che da questo chiarimento potesse derivare  l’accettazione della sua proposta. La collega ha deciso di cominciare da sola, ma la porta rimane aperta.

Lorenzo e Lucia

Sempre in tema di trattamenti congiunti e dei possibili sviluppi.

Lorenzo e Lucia si presentarono insieme, chiedendo esplicitamente una terapia di coppia. Dopo un anno di convivenza, iniziatosi all’insegna di un grande reciproco trasporto, sia affettivo che sessuale, si era verificata, da parte di Lorenzo, una progressiva caduta della capacità erettile. Rimaneva il desiderio, non la capacità di soddisfarlo.

Accanto alla comprensibile preoccupazione di entrambi erano emersi alcuni tratti delle rispettive personalità prima latenti: da parte di lui, una forte dipendenza e un’immagine di sé molto svalutata; da parte di lei, un forte controllo sull’altro, un’incapacità ad aspettare che giungeva al parossismo, una grande “sordità” nei confronti del proprio mondo interno, una tendenza ad agire per evitare di sentire. Dopo una prima fase di accanimento di entrambi sul problema sessuale – lei incalzante, bisognosa di capire, lui mogio e abbattuto, teso a dimostrare la sua incolpevolezza – il lavoro terapeutico aveva preso una piega meno concitata, in cui, sia pure a tratti, ciascuno dei due veniva a contatto con sentimenti e aspetti di sé prima ignorati. Soprattutto, si era verificato un progressivo riequilibrio delle due posizioni rispetto allo sbilanciamento iniziale, quando tutte le ragioni della sofferenza, agli occhi di entrambi, scaturivano dall’impotenza di Lorenzo.

In questo processo di riappropriazione di parti di sé, a ciascuno dei due la presenza dell’altro era parsa in qualche momento ostacolante o limitante, tanto da far loro pensare di disgiungere i rispettivi percorsi. Ma quando questa eventualità è stata dal terapeuta  presa in considerazione e riproposta, entrambi hanno preferito, per il momento, soprassedere e continuare insieme.

Questo lavoro ha dato risultati soddisfacenti. Avrebbero raggiunto gli stessi risultati, Lucia e Lorenzo, se avessero intrapreso separatamente un’esperienza terapeutica?

La domanda è ovviamente senza risposta, non c’è controprova; ma vale la pena lo stesso di sollevarla, perché una cosa è certa: all’epoca in cui si sono presentati insieme, Lorenzo, per sua dichiarazione, non avrebbe accettato un trattamento individuale, e Lucia, da parte sua, mai lo avrebbe chiesto per sé, convinta che il suo problema fosse esclusivamente nella difficoltà sessuale del compagno.

Avrebbe senso, nel caso di Lucia e Lorenzo, chiedersi se si tratta di una terapia in coppia o di due trattamenti individuali in parallelo?

Nel prosieguo, i due hanno separato i loro percorsi terapeutici, continuando ciascuno individualmente con lo stesso terapeuta. Lorenzo ha poi concluso la sua esperienza terapeutica, si è separato da Lucia, ha stretto un’altra relazione sentimentale, e con la nuova compagna ha avuto un figlio.

Lucia è ancora in cura, e dopo vicissitudini sentimentali improntate come le precedenti all’insegna dell’impossibilità a realizzare un rapporto stabile e soddisfacente, è attualmente impegnata in una storia affettiva che promette di poter andare a buon fine. Soprattutto, ha gradualmente accettato di tornare sui suoi passi, di figlia che attraverso l’idealizzazione della figura paterna ha nascosto a se stessa il dolore e la rabbia per un padre libertino e irresponsabile.

Come avevamo anticipato, nei frammenti clinici presentati non ci siamo soffermati se non di sfuggita su tutti quelli che siamo soliti definire gli aspetti processuali di una relazione analitica, cioè la storia, le fantasie, i ricordi, gli affetti, le emozioni, i sogni, gli agiti,  cioè tutto quanto appartiene ai mondi interni del terapeuta e del paziente, e ai modi in cui essi si manifestano nella vicenda relazionale.

Questo per la convinzione che la specificità della terapia,  il fattore essenziale della sua efficacia dipendono dalla capacità del curante di coprire il proprio ruolo terapeutico.

Quando questo ruolo è coperto in modo “sufficientemente capace” l’analisi procede senza intoppi, nel senso che tutti gli “intoppi” che il paziente incontra sulla via della salute e che si presentano nella relazione con la figura e con la persona del terapeuta trovano in quest’ultimo un interlocutore “sufficientemente sano”, capace di esserci, di accogliere, di rispondere senza reattività e senza collusioni, di restituire al paziente ciò che gli appartiene e che impropriamente e inconsciamente costui proietta sugli altri e sul terapeuta.

È evidente che queste condizioni, definite parafrasando il modello di Winnicott della madre “sufficientemente buona” non sono statiche, non sono raggiunte una volta per tutte. Richiedono una manutenzione permanente, quella che definiamo la cura di sé del terapeuta, cura che non può essere lasciata solo appannaggio del suo foro interno.

Siamo di fronte allo spinoso tema della formazione.

Raggiungere, sia pure in senso relativo e mai concluso, quella condizione di terapeuta “sufficientemente sano” e “sufficientemente capace” è frutto di lunghi anni di lavoro clinico supportato dai dispositivi della supervisione e della formazione permanente. Quest’ultima purtroppo è spesso una petizione di principio piuttosto che un’esperienza effettivamente praticata. Non intendiamo entrare nel merito di questo stato di cose: il discorso ci porterebbe lontano, dovremmo ancora una volta riferirci a quella certa consolidata consuetudine che vede nella formazione psicoanalitica un processo a termine: raggiunto quel livello di esperienza e competenza ritenuto sufficiente, il terapeuta sarebbe a posto per sempre. È anche, questa logica, un retaggio della vecchia psicoanalisi, quella che prescriveva una supplementare  “tranche d’analisi” a quei terapeuti che, una volta abilitati, avessero incontrato difficoltà nel successivo percorso professionale. Evidentemente, questa logica non riteneva fisiologica, naturale e necessaria una sistematica permanente attività di confronto e verifica del  proprio operato clinico.

Illuminanti, a questo proposito, queste parole di un collega: “Quelle volte che (…)  ho aperto la porta, beh, non è andata proprio benissimo (…) ho in testa il rapporto individuale (…) desiderandolo, ce ne sarebbe di lavoro da portare in supervisione, ma dove trovo il tempo? (…) mi sembra di agire da una posizione di non sufficiente neutralità […] io l’allargamento lo sento ancora come una variazione del setting  individuale (da terapeuta della porta aperta non dovrebbe essere così, credo) (…). Insomma, al momento, come terapeuta, sto bene così. Perché cambiare?”

Tutto questo per dire che la necessità della formazione permanente è imprescindibile da una pratica terapeutica improntata alla filosofia della porta aperta.

Anzi, possiamo dire che la formazione permanente è parte integrante di questa filosofia, i due versanti sono indissolubili.

Insistiamo su questo punto non solo per ragioni intrinseche al tema. Come già detto, una delle obiezioni più frequenti alla Porta aperta consiste nel ritenere pericoloso  presentare questa filosofia a terapeuti che, non avendo ancora raggiunto un sufficiente livello di maturità e capacità personali, potrebbero, sposando questo approccio e praticandolo impropriamente,  esporre se stessi e i loro pazienti a difficoltà e criticità indebite.

Non intendiamo affatto svalutare questa perplessità, ma ci piacerebbe affrontarla e discuterla all’interno di quella cornice teorica e metodologica che ci siamo adoperati di illustrare. Abbiamo già accennato alla difficoltà di ottemperare a questa condizione da parte di terapeuti già formati nel modo tradizionale.

Le  situazioni di Alessia e di Piera chiamano in causa la  terapia in gruppo, in particolare quella associata, in contemporanea o meno, con altre forme, sempre però in rapporto con lo stesso terapeuta.

Troviamo che il trattamento individuale e quello di gruppo, associati, siano complementari e si potenzino a vicenda. Poiché utilizziamo la frequenza settimanale per entrambe le forme, l’onere di tempo e di denaro a carico del paziente non risulta eccessivo, e questo ci consente di proporre questa formula con una certa larghezza.

A proposito di queste proposte: spesso troviamo utile, ai fini del lavoro analitico,  buttar lì, all’interlocutore che abbiamo di fronte, l’idea  dell’eventuale presenza di qualcun altro, di qualcuno – un genitore, un coniuge, un compagno – col quale il nostro interlocutore è coinvolto in modo sofferto e coatto. In questi casi chiariamo che non si tratta, o non ancora, di una indicazione o di un invito, ma di un semplice ballon d’essai: le reazioni e le fantasie così suscitate possono aprire spiragli interessanti…

A un paziente estremamente inibito, quasi paralizzato dal timore di lasciarsi scappare qualche manifestazione di reattività, anche  nei confronti del suo terapeuta, che esprimeva il desiderio di intensificare il loro rapporto, il terapeuta aveva fatto presente la possibilità del gruppo. Tempo dopo, egli gli fece notare con una punta di compiacimento, che aveva commesso l’errore di offrirgli di spartirlo con altri, lui che desiderava di averlo ancor più tutto per sé.

Allo stesso paziente, coinvolto in una relazione sentimentale che si era rivelata per entrambi i partners una soffocante trappola simbiotica alla quale, pur essendone intenzionati, non riuscivano a sottrarsi, e che lo aveva portato a una condizione di tensione parossistica, il terapeuta propose qualche incontro congiunto, prontamente accettato da lui e dalla compagna. Nell’immediato il paziente ne ha tratto un grande sollievo, il lavoro in coppia si è protratto per qualche mese, e nel prosieguo della terapia individuale egli ha progressivamente sciolto un nodo che sembrava inestricabile

Dicevamo del gruppo e della sua azione sinergica con il trattamento individuale: sono cose risapute da sempre che per un paziente portato a vivere la propria condizione patologica con sensi di vergogna e di colpa il confronto con altri nelle stesse condizioni ha un grande potere di rassicurazione; e che il trovarsi tra pari rispetto alla posizione asimmetrica del terapeuta facilita l’estrinsecazione dei vissuti e dei sentimenti relativi alla  figura e alla  persona di costui. 

Se poi i membri del gruppo hanno o hanno avuto col terapeuta anche un rapporto individuale, ancor più ricco risulta l’intreccio delle fantasie, reazioni e affetti messi in gioco.

Soprattutto per Alessia, ma anche  per Piera, i movimenti di identificazione o di repulsa verso altri membri del gruppo che di volta in volta si sono verificati hanno loro consentito una presa di contatto più viva e immediata con aspetti conflittuali di sé e della propria storia, che nel corso del lavoro individuale erano stati colti con maggior difficoltà.

È possibile che queste considerazioni suscitino nel lettore, riguardo al mestiere del terapeuta, un’impressione di semplicità:  questo è proprio lo scopo che ci proponevamo.

Semplicità che non riduce, anzi esalta, tutta la sua difficoltà e  complessità.

Se si condividono i presupposti che abbiamo brevemente indicato, difficoltà e complessità non appartengono più alla teoria, bensì alla sua applicazione.

Il  fatto è che ad  applicarla siamo noi esseri umani in carne e ossa, che abbiamo “scelto” questo mestiere nell’illusione di curare gli altri, e che ci siamo accorti  con fatica e dolore di dover curare noi stessi.

Dobbiamo curare noi stessi perché quel ruolo terapeutico tanto ambito si rivela, una volta presone formalmente possesso, molto esigente nelle sue richieste, molto puntuale nel rimarcare tutte le manchevolezze e i limiti di chi lo occupa.

È in questo incessante processo di cura di sé, di cura del proprio modo di coprire il ruolo del terapeuta che consiste il prezioso servizio reso ai pazienti, che sono  tali non perché afflitti dal generico “male di vivere” che accomuna tutti i mortali, ma perché soffrono per l’impossibilità di affrontare  questo “male” con le dovute consapevolezza, libertà e responsabilità.

Le figure in autorità della loro storia di vita non hanno potuto o saputo svolgere con sufficiente autorevolezza la loro funzione formativa. Detto in altri termini, non sono state capaci di amore “sufficientemente sano”.

È di questo amore “sufficientemente sano” da parte di chi si assume l’onere della cura che i pazienti hanno bisogno per recuperare la salute, in risposta alle modalità malate con cui lo chiedono al terapeuta, malate perché modellate sulle loro esperienze pregresse.

“Amore sufficientemente sano” del terapeuta: definirlo concettualmente è estremamente semplice, ma si tratta di una semplicità “terribile”, perché richiede, al terapeuta che si proponga di praticarlo, non solo  costanti attenzione e controllo per conoscere e disciplinare le proprie personali modalità di risposta, ma anche una grande determinazione nel resistere alle pressioni e seduzioni dell’ambiente sociale,  culturale, professionale circostante, che ha perso o allentato la nozione e la pratica di concetti quali principio d’autorità, responsabilità di sé, significato del ruolo, distinzione tra ruolo e funzione,  problema dei vincoli, significato sostanziale e funzionale del setting…

“Amore sufficientemente sano” del terapeuta: è l’amore maturo dell’adulto per chi ancora adulto non è, anagraficamente o psicologicamente; l’amore di chi dà senza chiedere; l’amore di chi  vuole il bene dell’altro senza pretendere di essere lui a prefigurarlo; l’amore di  chi riconosce all’altro, potenzialmente,  la stessa libertà e  responsabilità che riconosce a se stesso;  l’amore di chi testimonia all’altro, attraverso la propria personale pratica, la possibilità e la verità della salute.

È  un amore strutturale, un amore di ruolo: su di esso si fondano, e grazie ad esso si esprimono le complesse funzioni di coloro che sono preposti all’accrescimento altrui.

È immaginabile chiedere a un terapeuta questa capacità d’amore? Certamente no, se la intendiamo come una condizione di partenza o come una meta raggiungibile in termini pieni.

Su quali basi allora il  terapeuta agli inizi può esercitare la sua funzione curante senza cadere nell’illusorietà o nella mistificazione? Non certo su quella di un sapere intellettuale, non certo su quella della tecnica, o quantomeno non solo su di esse. È il ruolo, che entra in azione da subito con i suoi attributi e i suoi vincoli, a rappresentare, soprattutto nei primi lunghi anni della formazione professionale, la maniglia cui aggrapparsi, la bussola con cui orientarsi per rimanere al proprio posto, e per ritornarvi tutte le volte che ci si accorge di essersene allontanati.

È lo stesso ruolo che fa da guida ai terapeuti formati, e che li assiste, oltre che nel lavoro coi pazienti, anche nell’accompagnamento e nella formazione dei colleghi più giovani, secondo una linea transgenerazionale, che in natura è rappresentata da nonni-genitori-figli.

È su questo modo di pensare alla cura e alla formazione che si basa l’idea della Porta aperta.

Se affida interamente ai domandanti aiuto la cura di sé, perché crede alla loro potenzialità di salute e conta sulla loro responsabilità e libertà, il terapeuta  si sgrava da tante incombenze improprie e da tante preoccupazioni ingombranti. Così liberato, può offrire ospitalità nella sua “stanza d’analisi” a chiunque si presenti animato dal desiderio di metter mano alla propria sofferenza, e si trova incapace di farlo da solo. Che i pazienti si trovino in quella stanza da soli, o in coppia, o con più famigliari, o in un gruppo insieme con estranei, il processo terapeutico che li vede impegnati, e il terapeuta con loro, è sempre lo stesso: si tratta di riconoscere, di riconciliarsi e riprendere nel proprio mondo interno quegli aspetti e parti di sé che a cagione di traumatiche vicende della propria vita di figli sono state rifiutate, negate, proiettate all’esterno, con grave nocumento per la propria salute e per il benessere del proprio contesto relazionale.

Terapeuta e porta della stanza “aperti”, secondo una visione dinamica dei processi vitali, comportano un terapeuta pronto  non solo ad accogliere e offrire al domandante (o ai domandanti) l’assetto formale di lavoro più appropriato al momento, ma anche   l’essere questo terapeuta in grado di cogliere e sfruttare quelle nuove possibilità che possono presentarsi quando si è già in corsa, e di cui abbiamo presentato qualche esempio nei frammenti clinici.

Un’altra delle perplessità suscitate dalla proposta della porta aperta riguarda l’eventualità che la libertà e la disinvoltura con le quali un terapeuta può invitare “estranei” nella stanza possano condurre a errori di valutazione, senza contare il fatto che questo terapeuta potrebbe facilmente esorbitare dalla propria parte di responsabilità. In altre parole, tradire il  fifty-fifty. E nel caso di una presenza che si rivela impropria, come uscirne?

La prendiamo alla lontana. Ricordiamo ancora i tempi in cui ci si sfiancava nell’impossibile compito di valutare preventivamente la motivazione e l’essere adatto del paziente alla cura psicoanalitica.

Abbiamo anche presente, e critichiamo, la pretesa di alcune scuole di psicoterapia di accertare preventivamente la fondatezza della domanda di formazione da parte di  un candidato.

Parlando della domanda di cura, di quale domanda parliamo? Della domanda letterale, di quella cosciente, o di quella complessiva? E quella complessiva non è almeno in parte anche inconscia?

E quando parliamo di apparente assenza di domanda, non intendiamo forse la possibilità che una domanda emerga proprio grazie al lavoro terapeutico?

L’eventualità di invitare, o di accogliere nella stanza della terapia anche soggetti privi di motivazione alla cura esiste comunque, anche nei trattamenti con una sola persona.

Una domanda di cura trova solo nella stanza del terapeuta il luogo adatto per mostrare la sua autenticità o, al contrario, per rivelarsi inesistente.

Quando parliamo della stanza del terapeuta, diamo a questa figura  un senso che trascende i dati fisici,  alludiamo a qualcosa di sacrale, il luogo dove il terapeuta esercita la sua funzione interrogante proprio verso gli aspetti più intimi e nascosti della propria e altrui soggettività.

Muovendosi all’interno di una concezione terapeutica fondata sui dati strutturali che sappiamo questo terapeuta può permettersi di largheggiare nell’accogliere o nell’invitare i pazienti nella sua stanza grazie appunto alla funzione interrogante: interrogante su di sé, sui suoi comportamenti, sui suoi atti, con l’ausilio dei dispositivi della formazione permanente; interrogante  nei confronti dei presenti nella stanza. Il gioco che il terapeuta propone, nella sua stanza, a uno o più “giocatori”, non può essere giocato da una parte sola: eventuali e sempre possibili fraintendimenti ed errori di valutazione, da una parte o dall’altra, non possono reggere a lungo, in una stanza siffatta.

Importante è collocare la presenza di più persone nella stanza nella categoria dei dati strutturali, il che significa una possibilità concettualmente prevista sempre. Se il terapeuta è mentalmente ed emotivamente già attrezzato in questo senso, aprire la porta ad altri, per propria iniziativa o per richiesta altrui, sdrammatizza la sua scelta, la relativizza, e un eventuale sempre possibile agito avrà modo di essere riconosciuto.

Per dirla brutalmente: non siamo onnipotenti! Se ci muoviamo nel nostro fifty, se crediamo che la nostra responsabilità finisce dove comincia quella altrui, su un piano di reciprocità e di pariteticità, allora non è prevedibile che entri nella nostra stanza chi non è motivato, ed è sicuro che chi fosse entrato per sbaglio, non vi rimarrebbe a lungo.

Ricordiamo poi che l’ingresso di un congiunto nella stanza dove è in corso, magari da tanto tempo, un trattamento individuale, non comporta necessariamente che il nuovo entrato intraprenda un analogo percorso di lunga durata. L’evenienza di gran lunga più frequente è quella di un passaggio nella stanza, più che quella di una lunga permanenza. L’esempio seguente, cui altri ne seguiranno, mostra come un paio di incontri tra il paziente in trattamento e il congiunto provvisoriamente cooptato abbia potuto sbloccare una situazione familiare incancrenita.

Giancarla

Giancarla (Roberta Madoi), compare anche in Le parole di un filosofo, donna di mezza età, ha intrapreso la cura per un vissuto di estraneità e di emarginazione ribelle a qualsiasi dimostrazione o testimonianza di segno contrario, condizione  che lei fa risalire a un’infanzia di solitudine: padre molto anziano, madre dedita esclusivamente al marito, un fratello e una sorella di molto più anziani di lei.

Adesso che è entrata nella maturità, e  dopo alcune storie sentimentali fallite Giancarla sente la nostalgia dei vincoli famigliari, e desidererebbe riallacciare un contatto col fratello e con la sorella, ma con entrambi, nel corso del tempo, si sono accumulati tensioni, incomprensioni e recriminazioni tali da farle apparire impossibile un recupero.

Succede che la figlia adolescente della sorella, in conflitto con la madre, se ne vada di casa sbattendo la porta. Giancarla vorrebbe aiutare la nipote (con i figli del fratello i rapporti sono inesistenti), ma teme la gelosia della sorella. Per alcune sedute la paziente si tormenta sul da farsi, finché il terapeuta accenna alla possibilità di invitare la sorella. “Ci avevo pensato anch’io”, risponde.

La sorella non aspettava altro! Dopo il primo incontro congiunto, Giancarla fa un sogno che le lascia dentro un senso di calore e di conforto: si trova su un’isola, insieme al fratello e alla sorella, e d’amore e d’accordo si recano in visita all’anziano padre, che si è ritirato in una grotta e che li accoglie affettuosamente.

Nel secondo incontro, la sorella spontaneamente dice: “Perché non facciamo venire anche nostro fratello?”

In coincidenza, accade che il fratello, dopo anni di silenzio, si faccia vivo con la sorella in occasione del suo compleanno, e sulla scia di ciò Giancarla decide di invitare a cena entrambi.

Grazie a questi scambi, i cui particolari sarebbe troppo lungo raccontare, le due sorelle scoprono che la freddezza e lontananza del fratello non erano dovute a indifferenza, ma all’imbarazzo per una penosa situazione famigliare.

Alla fine del secondo incontro congiunto, la sorella dice a Giancarla: “Visto che abbiamo voglia e piacere entrambe di parlare e stare insieme, perché non ci accordiamo per incontrarci ogni tanto a mangiare un panino?”

Dopo questi due incontri la porta si è rinchiusa, e Giancarla prosegue il suo faticoso cammino terapeutico individuale. Sul piano pratico, di vita quotidiana, i rapporti di questi tre fratelli non hanno visto cambiamenti significativi, ma dentro di sé Giancarla ha constatato un diverso modo di percepirli e di percepire se stessa. 

I due esempi che seguono mostrano il passaggio opposto, da una situazione iniziale congiunta a una terapia individuale in un caso e in gruppo nell’altro.

Eravamo una famiglia perfetta!

Due giovani coniugi, genitori di due figli piccoli,  si presentano insieme, messi “improvvisamente” in crisi dal fatto che lei si era innamorata di un collega di lavoro. “Eravamo una famiglia perfetta!”, dice il marito, cui l’innamoramento della moglie va al di là della sua possibilità di comprensione. La donna è mortificata, anche a lei il fatto appare  imprevedibile e inspiegabile,  del tutto estraneo alla sua mentalità e al suo costume di vita. Messi di fronte alle varie possibilità di intervento, Giovanna sarebbe aperta anche a un’esperienza individuale (desidera conoscersi, capirsi); Arturo, lontano mille miglia dall’idea di poter avere una sua parte di responsabilità in questa crisi, opta per un lavoro in coppia (vuole capire la moglie, forse anche controllarla…), cosa che la moglie accetta.

Sarà proprio il lavoro terapeutico svolto in coppia a portare Arturo all’intuizione di un suo modo di essere (egocentrico, possessivo, ossessivo, dispotico) molto diverso dall’immagine idealizzata che aveva di sé, ma che non si sente per il momento di mettere in discussione. Pertanto abbandonerà il campo, e la moglie proseguirà da sola.

Alessandro e sua madre

Telefona al terapeuta una signora,  dice  che si tratta di un suo figlio ventenne il cui comportamento la preoccupa molto. Il problema che  pone, nella telefonata, è che non è sicura che suo figlio accetterà di venire.

Il terapeuta le risponde che per fissare un incontro  è sufficiente che venga qualcuno, non importa chi.

Questa risposta la solleva, e viene fissato un incontro, al quale si presenta sola, e nel corso del quale  espone la storia di una movimentata  separazione coniugale, con i due figli della coppia alternativamente in carico a uno dei due genitori.

Motivo della sua venuta: il figlio maggiore ha sviluppato, nei confronti dei genitori, ma anche verso il mondo circostante, atteggiamenti e comportamenti sempre più aggressivi e provocatori.

Specificando che si tratta di un passo interlocutorio, in attesa di maggiori elementi, il terapeuta la invita a tornare col figlio.

“Ma rifiuta una psicoterapia!”

“Non si tratta di venire per una psicoterapia, ma di accettare un incontro, uno solo, con me”.

La donna si congeda intenzionata a mettere in atto il suggerimento, anche se l’espressione del suo volto è dubbiosa.

Ritorna col figlio, che dopo aver dichiarato la sua contrarietà e il suo scetticismo nei confronti di questo incontro, si lancia in una filippica contro i genitori e tutte le loro manchevolezze passate e presenti. Il linguaggio è ricco e appropriato, la rabbia, che si intuisce profonda, è  contenuta in una forma tra l’ironico e il sarcastico.

Sotto i colpi indirizzati direttamente contro di lei la madre reagisce restituendoli al mittente, mentre traspare il suo compiacimento allorché le accuse e le critiche del figlio sono rivolte al padre.

Questo comportamento della madre esaspera il ragazzo, che però non riesce ad aprirsi un varco nella mente della madre: oltre un certo livello, la  pressione esercitata su di lei la induce in uno stato di rassegnata impotenza.

Il terapeuta assiste a questi scambi con interessata simpatia, butta là qualche battuta. La colgono, sorridono, per un attimo sospendono le “ostilità”: “Vuol dire che c’è spazio anche per me”, commenta dentro di sé il terapeuta, che dice loro: “Quante cose avete da dirvi, e che rabbia e che sofferenza vi provoca il fatto di non riuscire a parlarvi. Immagino che la stessa cosa riguardi anche gli assenti. Perché non venite tutti e quattro, la prossima volta?”

Si congedano con un appuntamento che entrambi desiderano fissare subito, nonostante ci siano  in mezzo i due mesi della pausa estiva.

Puntuali all’appuntamento preso con tanto anticipo si presentano in tre (la mamma e i due figli). La mamma e Alessandro (il “paziente designato”) sono contenti che anche Federico abbia accettato di venire, nonostante la sua riluttanza.

Al fine di chiarire se, come e con chi procedere, il terapeuta propone dei colloqui “aperti”, in cui accoglierà chi vorrà venire. A questi – una decina – i tre si presenteranno in ordine sparso, qualche volta tutti insieme, qualche volta in due, qualche volta da soli. Da questo lavoro emergerà agli occhi della mamma e di Alessandro che anche Federico, ritenuto da loro fino a quel momento indenne da problemi e difficoltà emotive, in realtà soffre proprio per questa falsa immagine che i famigliari hanno di lui. Assorbiti dalle manifestazioni eclatanti della sofferenza di Alessandro, essi hanno scambiato la riservatezza e l’introversione di Federico per assenza di problemi. Federico sembra per il momento appagato da questo riconoscimento, e si ritirerà. Alessandro decide di intraprendere una terapia in gruppo (ci tiene a pagarsela da solo, e la tariffa del gruppo è affrontabile, quella di un lavoro individuale sarebbe per lui proibitiva).

La mamma, rassicurata da ciò, e dal sapere di poter nuovamente incontrare il terapeuta in caso di bisogno, dopo un paio di mesi di incontri  individuali, deciderà di interromperli.

Come facciamo a non farci condizionare, nel nostro lavoro con uno, da tutte le cose che sappiamo sul conto dell’altro? Come facciamo a garantire a ciascuno dei nostri pazienti la riservatezza necessaria? Come facciamo a non tradire emozioni e sentimenti inevitabilmente depositati dentro di noi dagli uni e dagli altri?

Quando siamo  con un paziente dentro la stanza tutto il resto del mondo rimane fuori, e  con  l’esperienza e l’autodisciplina è possibile controllare emozioni e contenuti riferiti all’altro, per  evitare che l’hic et nunc della seduta ne sia toccato.

In fondo, si tratta dello stesso controllo che dobbiamo esercitare per non essere condizionati, nei confronti del paziente, da tutti i personaggi della sua storia e della sua vita che egli comunque porta con sé e che ci presenta già filtrati e deformati dalle sue personali percezioni.

Poiché questa risposta generica di solito non soddisfa del tutto i dubbiosi e i perplessi, ci chiediamo se questo dipenda da loro difficoltà e da loro limiti del momento, o se non si tratti piuttosto di una nostra presunzione, di una nostra sottovalutazione di questo delicato problema.

Aggiungiamo allora due cose, una di natura teorica, l’altra pratica.

Pregi, limiti e  rischi di questa impostazione andrebbero valutati da un vertice di osservazione molto diverso da quello tradizionale: secondo la nostra visione il terapeuta non è l’uomo in grigio asettico e disincarnato, e il paziente a sua volta non è solo quell’essere fragile e tremebondo che molti terapeuti tendono a tenere nella bambagia.  Il rispetto delle sue condizioni di bisogno e di sofferenza va inserito in un contesto in cui egli ci interpella per imparare ad affrontare la vita in tutte le sue manifestazioni, non per essere protetto da essa.

In secondo luogo, l’esperienza clinica finora accumulata ci dice che questa strada è percorribile, e che certi eventi paventati dai “tradizionalisti” possono essere, ai fini dell’avanzamento terapeutico, risorse e non intralci, come dice l’esempio seguente.

Zita

Zita una ragazza da poco laureata in legge, che sta muovendo i primi passi, con entusiasmo e trepidazione, sulla via della professione.

È in cura da sei anni, una seduta alla settimana.

Tralasciamo la sua storia familiare e le ragioni antiche e recenti che l’hanno portata in terapia, per circoscrivere questo frammento clinico a un fatto particolare, la cui specificità è collegata alla filosofia e alla pratica della porta aperta.

Zita ha un fratello minore che vive in famiglia appartato, isolato, sofferente e insofferente. Mentre i genitori sembrano rassegnati e impotenti, la sorella non si arrende alla sofferenza di Mirko, e prova a più riprese a parlargli.

Dopo tanti tentativi respinti con fastidio, finalmente una sera che sono soli in casa Mirko si confida, e manifesta alla sorella tutto il dolore e la rabbia che sente dentro di sé, e l’impotenza di chi non trova come uscire dal proprio isolamento.

Zita gli parla della sua esperienza terapeutica in corso col suo terapeuta, e lo invita a fare altrettanto.

Dopo qualche mese da questo scambio, finalmente Mirko vince la sua riluttanza e i suoi timori, si fa vivo col terapeuta della sorella, e intraprende anche lui una terapia settimanale.

Una mattina che il terapeuta va a ricevere Zita nella stanza d’attesa, percorrendo il lungo corridoio vede che la ragazza lo aspetta già fuori dalla stanza, scalpitante e impaziente.

Appena seduta la ragazza dice: “Non vedevo l’ora di essere qui per dirglielo, sono felice, ieri mio fratello si è aperto con nostra madre, hanno parlato a lungo, lui ha potuto anche dirle che viene qui. Tenere il segreto su questa cosa era per lui un ulteriore motivo di senso di colpa e di tormento”.

Due giorni dopo è la volta di Mirko, che racconta, alla sua maniera concisa e scorbutica ma con evidente soddisfazione, la chiacchierata avuta con la madre, e del suo sollievo per averla trovata comprensiva, e per nulla turbata, come lui temeva, dal fatto che va in analisi anche lui.

Il terapeuta gli manifesta la sua contentezza.

Più avanti, nel corso dell’incontro, Mirko dirà: “Sa dottore, sono un po’ imbarazzato a dirlo, e mi vergogno anche, per provare questo senso di delusione, ma mi aspettavo che lei reagisse con più forza, con più calore a questa notizia per me così importante!”

Il terapeuta pensa al fatto che questa notizia  la sapevo già, che gli  è mancata la sorpresa, e che questo ha sicuramente influito sul suo modo di accoglierla.

Allora gli racconta l’antefatto. Mirko apprezza la sua sincerità, riconosce che le cose non potevano andare altrimenti da come sono andate, ma dice anche del senso di delusione e dispiacere per questa “intrusione” della sorella, che gli ha tolto il piacere dell’esclusiva.

Mirko concluderà felicemente la sua terapia nel giro di due anni, Zita, che ritroveremo in altre parti del libro, dopo una dozzina d’anni è in procinto di concluderla felicemente anche lei.

Quando parliamo della Porta aperta non mettiamo in primo piano l’apertura in senso fisico della porta dell’analista. Questo pare essere  un dato di fatto acquisito nella pratica clinica. La parte forse nuova, comunque non sufficientemente esplorata e resa pubblica finora, riguarda la concezione sottostante ai cambiamenti di assetto in corso d’opera, e di conseguenza la concezione stessa della terapia. In altre parole: un’apertura della porta che non sia lasciata esclusivamente alla discrezionalità o all’arbitrio del singolo terapeuta, ma sia guidata da un metodo, richiede preliminarmente l’apertura della mente dei terapeuti.

Non perché pensiamo che la mente dei terapeuti sia ottusa. Potrebbero  essere ottuse, nel senso di insufficienti, alcune teorie e alcune concezioni di riferimento che vanno per la maggiore.

Alcuni colleghi ci hanno confessato di muoversi all’insegna del  “lo faccio ma non lo dico”: se questo dato risultasse avere una certa consistenza, rivelerebbe una discrepanza tra ciò che si fa e ciò che il conformismo ufficiale consente di dire.

Dove sta l’inghippo: nella pratica o nella teoria?

Non sarebbe un buon motivo, questo, per cercare di saperne di più? Un motivo per cercare, nella sconfinata complessità del gioco della terapia, quei fattori generali che lo rendono praticabile ed  efficace?

Come tutto nella vita, anche la terapia ha una sua verità. Non pretendiamo di arrivarci, non saremmo umani. Ma cercare di diminuire il divario tra la sua verità e l’immagine che di essa ne abbiamo, questo riteniamo un compito possibile e meritevole.

Come punto di partenza della Porta aperta c’è un cambio di prospettiva, un allargamento del campo di osservazione: non più un paziente isolato dal proprio contesto di vita, staccato dalla rete dei suoi rapporti e legami attuali, ma un paziente inserito in una trama relazionale dove altri individui possono essere sofferenti, e contribuire alla sofferenza del primo ed esserne a loro volta condizionati.

C’è la presunzione che accanto o attorno a chi è presente nella nostra stanza con una domanda di cura ci siano altri potenziali pazienti: lo consideriamo un dato strutturale, presente nella nostra mente prima ancora che il lavoro terapeutico cominci.

Che altri potenziali pazienti entrino successivamente nella nostra stanza è un’evenienza possibile ma non scontata, che non dipende da una nostra scelta, ma da un complesso di circostanze: tra queste, il presentarsi con forza sulla scena analitica di altri protagonisti, o fisicamente per loro iniziativa, o attraverso le parole, i vissuti o il desiderio del paziente in cura;  il fatto che ci sia una disponibilità, da parte di chi è già nella stanza, a far entrare altri, e che costoro, entrati, ne accettino le condizioni per rimanervi. Qual è la nostra parte allora?  Quella di chi, nel ruolo che ricopre e con la responsabilità che gli compete, testimonia la possibilità di ricerca (assistita) di salute per più attori contemporaneamente, quando le condizioni richieste lo consentano.

Lei sta bene, dottore?

Alessandro (Davide Babbini), uomo sulla quarantina, è in terapia da poco meno di un anno.

Non è stato facile per lui decidersi a questo passo, e dopo averlo fatto, gli inizi sono stati all’insegna del dubbio e dello scetticismo riguardo la possibilità che ci potesse essere anche per lui uno spiraglio di salvezza. Vive nel terrore di un’esplosione catastrofica della sua aggressività. La sua vita sociale è costellata di episodi dove la logica del colpire per non essere colpito lo ha portato sulla soglia del punto di non ritorno. Intuisce l’estrema sua vulnerabilità, è spaventato ma anche compiaciuto per la potenza della sua voglia di uccidere.

Anche commuoversi lo terrorizza: è l’ignoto, la perdita di controllo, l’essere totalmente in balia di un pericolo, di una minaccia…

Alcune frasi tra tante, espressive di questo stato di cose: “Lei dottore per me è una macchina, non una persona. La pago, questo mi rassicura molto. Se la considerassi una persona l’amerei, ma io non voglio amarla”.

[In una fase successiva della terapia dirà: “Lei dottore ha tanto modi per farmi molto male. Sta facendo per me una cosa che non ha fatto nessuno nella mia vita, ho paura di essere inculato… Ho detto cose che non ho detto a nessuno, ha in mano il mio cuore, che è una cosa molto delicata”.]

“Non so come si fa a essere uomo, non ho avuto riferimenti…”

“Parlare con lei è umiliante, quando mi commuovo ancora di più…”

Tra i temi “caldi” la figura del padre, quella della madre, la propria recente paternità, temi che quando affiorano sono accompagnati da turbamenti, emozioni, risentimenti che sono soffocati sul nascere, anche se il terapeuta può constatare negli ultimi tempi un allentamento di queste difese, e piccole aperture.

In una fase recente del lavoro terapeutico irrompe sulla scena la figura della sorella: maggiore di lui di cinque anni, fin da piccolo lei lo ha “schiacciato”. Da vent’anni lui l’ha cancellata dalla sua vita, fino al punto di vietare alla moglie di invitare la cognata al battesimo del figlio. Sorella e fratello soffrono entrambi di questa situazione, ma l’odio che Alessandro prova per lei è smisurato. Ne parla in seduta con toni accesi: “Potrei donarle un rene, ma da lontano. Se l’avessi di fronte, potrei ucciderla!”

Quando il terapeuta avanza l’idea di invitarla nella stanza, dopo un primo momento di sbigottimento Alessandro prende sul serio la cosa, pur oscillando tra l’accettazione e il rifiuto. Questo rapporto condiziona la sua vita, i rapporti con le donne, anche quelli  sul lavoro. “Mi piacerebbe, ma se mi parlasse in un certo suo modo, potrei aggredirla, picchiarla…”

Il terapeuta gli dice:”Ci sarei anch’io, vi inviterei a parlare con me, non tra di voi”.

Questa risposta lo rassicura.

In breve: l’invito è stato fatto, la sorella lo ha accettato con piacere, e nel corso di tre quattro incontri i due sono ritornati sulla loro vita da bambini, sulle figure dei genitori, su come ciascuno ha vissuto certi episodi e certi intrecci della situazione familiare. Momenti burrascosi e momenti teneri si sono alternati; ricordi, rabbie, rancori, lacrime hanno trovato ospitalità nella stanza del terapeuta; molte cose dell’uno e dell’altra hanno trovato agli occhi di entrambi una nuova lettura.

In una seduta da solo, Alessandro dirà: “L’astio per mia sorella mi ha fatto molto soffrire. Il rapporto irrisolto con mio padre ha trovato in mia sorella un capro espiatorio. L’aver trovato un significato mi ha sollevato, sto meglio. Non provo più astio violento, né rabbia, piuttosto un’emozione neutra. Chiederò a mia madre di invitarci a pranzo insieme””.

Nel prosieguo di questa seduta Alessandro riprenderà il tema che più di ogni altro lo spaventa, quello della paura di perdere il controllo delle emozioni… “l’ignoto mi terrorizza, mi fa mancare la terra sotto i piedi…”

Al congedo: “Lei sta bene, dottore?”

Il terapeuta è sorpreso, dopo un rapido autoesame risponde affermativamente, e domanda ad Alessandro il senso di quella domanda.

“Ho bisogno di sapere che la salute mentale è possibile”.

Ad Alessandro che “impazziva” all’idea di un contatto con la sorella, combattuto tra un odio e un amore vissuti in termini assoluti, il terapeuta si era offerto come interlocutore terzo. Il fatto che entrambi avessero accettato di incontrarsi da lui dice quanto la loro sofferenza cercasse una via d’uscita. Vent’anni di assoluta lontananza risolti con quattro sedute… non è troppo facile?

Sono fatti come questi che, più di altri, dovrebbero costringere noi pensatori di cose psicoanalitiche a rivedere certe posizioni a volgere lo sguardo in direzioni diverse da quelle consuete.

La Porta aperta, prima ancora di essere una tecnica, un metodo è una concezione esistenziale, una concezione che, per dirla alla Buber, si identifica con la relazionalità, si oppone all’individualità. Stralciamo, da Il principio dialogico:

“L’individualità si manifesta distinguendosi da altre individualità. La persona si manifesta entrando in relazione con altre persone. L’una è la forma spirituale della separazione naturale, l’altra del legame naturale. Lo scopo della distinzione è l’esperire e l’utilizzare,  il cui scopo è a sua volta, la ‘vita’, cioè quel morire che dura il tempo di una vita umana. Lo scopo della relazione è il suo stesso essere, cioè il contatto con il tu. Poiché a contatto con ogni tu ci sfiora un soffio della vita eterna”.

Scendendo a terra: per un terapeuta dalla concezione autenticamente relazionale troviamo sia giocoforza trascendere la relazionalità “stretta” terapeuta-paziente, e allargarla alle altre relazionalità sofferenti, ogni qualvolta se ne presenta l’occasione.

È un modo per superare la logica sani-malati, per riconoscere a ciascuno la propria responsabilità. Qualche volta è sufficiente l’accenno alla possibilità della presenza dell’altro per confrontare il paziente coi suoi fantasmi (vedi il caso Vincenzo).

Nel breve sketch sottostante è ben rappresentata questa mentalità.

Venga chi vuole!

Una signora cinquantenne, professionista affermata, sempre in giro per il mondo a causa del suo lavoro, presenta al terapeuta il problema del rapporto con suo marito.

“Lo porti qui!”

“Perché no? Anche se penso che non accetterà”

Il marito accetta, ma desidera preliminarmente incontrarsi a tu per tu col terapeuta, desidera conoscerlo. In questo incontro, il marito dà della situazione coniugale, comprensibilmente, una versione molto diversa da quella della moglie.

Anche lui comunque è disponibile a incontri congiunti.

Ma i vari tentativi della coppia per trovare nelle rispettive agende, e in quella del terapeuta, un momento comune, falliscono per motivi apparentemente pratici.

Al momento in cui scriviamo, la situazione non si è ancora definita, ma un primo risultato è stato raggiunto: dopo mesi di reciproco “incarognito” silenzio, i due hanno ripreso contatto. Lui, che al primo incontro col terapeuta aveva dichiarato: “Se non le vado bene, che se ne vada!” ha manifestato, così come la moglie, segnali di apertura.

Dora

Dora (Abate Daga) si dibatte tra le spire di un rapporto sentimentale dove patisce il rifiuto, la mancanza di reciprocità, umiliazioni… lui ha famiglia, ha tante altre storie, è pieno di sé, non ascolta ma vuole essere ascoltato…

Lui le dice: “Non posso rinunciare a te, con te sono felice, mi va bene tutto, poni tu le condizioni su quando, come, con che frequenza vederci, ma non voglio perderti!”

Lei commenta: “Mi ha fregato, di fronte al suo bisogno, io scompaio, le mie intenzioni di lasciarlo scompaiono, è sempre stato così per me…”, e si dilunga su vissuti di impotenza, impossibilità sfiducia, tra i  quali emerge un “Quando sono con lui sono felice!”

“Almeno questo consente di cercare un senso a una situazione altrimenti ancora più assurda” è il commento del terapeuta.

Più avanti, a mo’ di provocazione-stimolo, egli avanza: “Non è un suggerimento né una prescrizione, ma riesce a immaginare lui qui, presente in questa stanza?”

Dora prima non capisce, ma poi realizza…

Il terapeuta continua il gioco: “Potrebbe metterla come condizione a Carlo. Io sto con te, ma tu vieni con me in terapia. Certo, potrebbe farlo solo nel momento in cui si sentisse sicura di porlo come un aut aut irremovibile… prenderebbe due piccioni con una fava…”

Lei, divertita: “Sono spiazzata, è geniale, questa cosa mi smuove tutta dentro. Non so se lo farò, se è possibile, ma certo questo mi fa molto pensare…”

La seduta dopo: “Ho sognato di essere su un ponte sospeso sul vuoto, molto sotto ci sono carrelli da miniera, miniere a cielo aperto, scavi… il ponte è stabile, non come quelli che ho attraversato in certe regioni impervie, che morivo di paura, soffrivo di vertigini… avanzo su una specie di carrello, mi sento sicura…  anni fa ho sognato… quando ci penso provo ancora i brividi… che ero in una foresta con Dino (una specie di copia di Carlo di allora), vengo risucchiata dalla luna, nel vuoto, lui non mi trattiene…”

Dora poi dice: “Sa dottore che l’idea di venire qui con Carlo ha avuto un effetto pazzesco, ha avuto su di me un effetto protettivo, qualcosa che non ho sperimentato nelle due precedenti analisi. Ho sentito lei interessato, che c’era, che si poneva il problema…”

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