La Teoria delle Intelligenze Multiple di Gardner

 

 

L’intelligenza è la capacità di comprendere il mondo in cui viviamo e di risolvere i problemi ambientali, socialI e culturali che ci vengono posti in ogni momento della nostra esistenza.

All’inizio del ‘900, era diffusa in Occidente la teoria dello studioso Charles Spearman che battezzò l’intelligenza con il termine Fattore G, identificabile con una capacità comune e misurabile in tutti gli individui.

Più tardi, lo studioso Howard Gardner, con la pubblicazione del suo libro Formae mentis1, introdusse al mondo scientifico ed accademico la teoria delle intelligenze multiple, secondo la quale non esiste una facoltà comune di intelligenza, bensì diverse forme di essa, ognuna indipendente dalle altre.

Con la sua opera Gardner non mise in discussione soltanto la vecchia teoria di intelligenza, bensì anche i test standardizzati che sulla stessa si fondavano.

Nell’introduzione egli infatti sostiene:

”Scrivendo questo libro, mi proposi di minare la nozione comune di intelligenza come capacità o potenziale generale che ogni essere umano possiederebbe in misura più o meno grande. Nello stesso tempo intendevo mettere in discussione l’assunto che l’intelligenza, comunque venga definita, possa essere misurata da strumenti verbali standardizzati, come test con carta e matita e fondati su risposte brevi e batterie di domande”2.

Le parole dell’autore stanno a sottolineare come i test, sino ad allora utilizzati in Occidente (Stati Uniti e paesi sviluppati dell’Europa) per misurare e diagnosticare l’intelligenza di studenti e candidati, in occasione delle selezioni scolastiche o lavorative, andassero a considerare soltanto due tipi di intelligenza: quella linguistica e quella logico-matematica.

Accanto ad esse, Gardner ne pone altre 5 che sono le seguenti:

  • l’intelligenza spaziale;
  • l’intelligenza sociale;
  • l’intelligenza introspettiva;
  • l’intelligenza corporeo cinestetica;
  • l’intelligenza musicale, oggetto di analisi scientifico-didattica del seguente articolo.

Prima di svolgere l’analisi e al fine di far cogliere l’importanza culturale e sociale che ancora oggi riveste la teoria gardneriana, sento la necessità di fare due premesse: una di tipo storico-culturale e l’altra di tipo pedagogico.

Nella prima, sottolineo come il contesto socio-culturale dell’Occidente abbia sempre dato un maggior peso alle intelligenze linguistico-verbale e logico-matematica, trascurando tutte le altre che hanno goduto e godono invece di ampia considerazione in culture diverse dalla prima.

Simile contesto è entrato tuttavia in crisi con l’avvento dell’era post industriale ed informatica contemporanea, nella quale sono oramai ampiamente diffusi settori lavorativi come l’ingegneria informatica e la programmazione di software ed hardware dove i risultati migliori vengono dati proprio grazie all’uso dell’intelligenza spaziale, cui si affianca quella logica; inoltre, le capacità di collaborare in gruppo e di risolvere in un breve lasso di tempo problemi inaspettati ed improvvisi richiedono ai lavoratori un buon uso di competenze interpersonali (l’intelligenza introspettiva di cui parla Gardner) e del pensiero divergente, tipico delle menti creative.

Occorre fare allora un’ulteriore precisazione pedagogica: per camminare a passo con i propri tempi, la scuola attuale deve puntare alla formazione di giovani che abbiano teste “versatili”, ossia cervelli in grado di imparare sempre cose nuove e in grado di attivare una diversità di competenze in passato non richieste.

Le vecchie generazioni imparavano, infatti, un mestiere e quello si tenevano per tutta la vita, potendosi adagiare sull’uso esclusivo di un tipo di intelligenza che la mansione da loro assunta aveva fin dall’inizio imposto e che l’addestramento ripetitivo di anni di lavoro aveva rafforzato, impedendo però la sperimentazione di altre intelligenze.

A tutt’oggi la scuola italiana mantiene ancora in piedi un modello anacronistico di pedagogia, incentrato sullo sviluppo e la valorizzazione esclusiva dell’intelligenza logico-matematica e linguistica, con il risultato di avere due effetti negativi, uno sul piano educativo, consistente nell’esaltare e motivare gli alunni più dotati sul piano logico-matematico e linguistico, demotivando però la parte restante degli studenti, l’altro sul piano sociale, poiché mantiene le distanze con la realtà circostante. Fatte queste premesse, ci possiamo ora focalizzare sull’intelligenza musicale e, in particolare, sulle sue connessioni neurologiche, i suoi legami con le altre competenze cognitive (spaziale ed interpersonale di cui ho accennato), la sua importanza educativa nella formazione integrale dei giovani e terapeutica nella cura di alcune malattie.

L’INTELLIGENZA MUSICALE E LE SUE CONNESSIONI NEUROLOGICHE

Gardner definisce l’intelligenza musicale una “competenza intellettuale autonoma”3, con una specifica localizzazione neurologica distinta da quella del linguaggio e con un rapporto di indipendenza dagli oggetti fisici del mondo.

A tal proposito, è interessante ricordare l’accurata descrizione che lo studioso Daniel J. Levitin, in un suo recente articolo4, svolge relativamente al quadro topografico neurologico della competenza musicale, evidenziandone all’interno, regioni dell’emisfero destro, parti di quello sinistro ed alcune regioni dell’area sottocorticale.

L’ascolto della musica coinvolge infatti parte delle strutture sottocorticali, come per esempio il cervelletto, i cui circuiti sono preposti alla sincronia e al ritmo e l’amigdala, sede dell’elaborazione corticale delle emozioni.

Il riconoscimento di una musica nota o familiare viene svolto invece dall’ippocampo, il centro della memoria, e dalla corteccia frontale inferiore.

L’esecuzione della musica richiede invece l’intervento di una parte dei lobi frontali per quel che riguarda la fase dell’intenzionalità e della corteccia sensoriale, per quel che riguarda il feedback tattile.

Per quel che concerne l’ascolto ed il ricordo di testi musicati, un ruolo importante viene rivestito dalle aree di Broca e Wernicke e da altri centri del linguaggio, situati nei lobi temporali e frontali.

La lettura della musica chiama in causa, invece, la corteccia visiva del lobo occipitale, situato nella parte posteriore del cervello5.

LA MUSICA, UN’ATTIVITÀ SUI GENERIS

Il fatto che l’intelligenza musicale abbia una localizzazione neurologica specifica porta Gardner a considerare la musica un’attività “sui generis” 6esattamente come il linguaggio naturale.

A sostegno di ciò, nella sua celebre opera, egli ricorda casi nei quali specifiche competenze musicali decaddero a causa di lesioni cerebrali nell’emisfero destro del cervello:

“Lesioni ai lobi frontale e laterale destro causano difficoltà spiccate alla discriminazione dell’altezza dei suoni e alla loro corretta riproduzione, mentre le lesioni nelle aree omologhe nell’emisfero sinistro (che causano difficoltà devastanti nel linguaggio naturale) lasciano in generale le abilità musicali relativamente intatte. Anche l’apprezzamento della musica sembra compromesso da malattie all’emisfero destro.”7

Altri studi riscontrarono invece come la lesione all’emisfero destro comportasse nel soggetto una compromissione nella capacità di vivere emotivamente la musica, senza tuttavia andare a compromettere quella di eseguirla o di capirla e spiegarla sul piano tecnico e disciplinare.

Come ricordato ancora dal medesimo:

“Un individuo con un’estesa lesione dell’emisfero destro conservò la capacità di insegnare musica e persino di scrivere libri sull’argomento, ma perse la capacità ed il desiderio di comporre. Secondo l’esame introspettivo che egli faceva di se stesso, non aveva più il senso di una composizione nella sua totalità, né il senso di ciò che funzionava”8.

Infine, uno studio condotto su alcuni compositori, ai quali era stata diagnosticata una medesima afasia cerebrale, mise poi in luce come ad alcuni di loro essa avesse comportato l’impossibilità di continuare la propria attività musicale, mentre ad altri non avesse causato alcun danno sul piano lavorativo.

Da quanto sin qui riportato Gardner dimostrò allora che il quadro delle “sindromi musicali” risultava essere molto più variegato rispetto a quello linguistico.

FORMAZIONE MUSICALE ED EMISFERO SINISTRO DEL CERVELLO

Le competenze musicali risultano essere dunque varie, come diversi risultano essere l’approccio all’ascolto della musica e la modalità di pensiero musicale da parte di professionisti e di non professionisti.

Come riportato dalla studiosa Nicoletta Beschin9, in uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, basato sulla somministrazione di un questionario on line a 600 musicisti ed altrettanti non musicisti, è emersa la presenza di due differenti modalità di pensiero.

I professionisti, infatti, utilizzano prevalentemente modalità di pensiero musicale strutturate e sistematiche per mezzo delle quali sono portati a focalizzare la loro attenzione sui singoli strumenti e sulle componenti vocali ivi presenti.

I non professionisti tendono invece a porre maggiore attenzione alla parte emotiva della musica e sono, pertanto, condizionati ad usare una modalità di pensiero e di ascolto empatica, intuitiva, globale e meno analitica.

Sul piano neurologico, queste due differenti modalità di elaborazione della musica stanno ad indicare un differente uso dei due emisferi cerebrali: nel primo caso, infatti, prevale l’attivazione dell’emisfero sinistro, mentre nel secondo, l’attivazione del destro.

La formazione musicale andrebbe dunque ad incrementare il ruolo dell’emisfero sinistro su quello destro nell’interpretazione, esecuzione o semplice ascolto della musica.

E’ ancora Gardner a fare da maestro; riportando infatti le sue parole:

“…quanto migliore è la formazione musicale dell’individuo, tanto maggiore è la probabilità che egli attinga almeno in parte ai meccanismi dell’emisfero sinistro nella risoluzione di un compito che il principiante affronta primariamente attraverso l’uso di meccanismi dell’emisfero destro”, questo perché, continua: “musicisti esperti possono essere in grado di usare classificazioni linguistiche formali come semplice ausilio, mentre soggetti dalla preparazione insufficiente sono costretti a ricadere in capacità di elaborazione puramente intuitive10”.

EMISFERO DESTRO, EMOZIONI E TERAPIE

L’emisfero destro ha il merito di coinvolgere la nostra dimensione emotiva ed esistenziale quando il nostro orecchio viene stimolato da un qualsiasi pezzo musicale che sia una canzone o una qualsiasi melodia.

Ma cosa avviene nel cervello quando si reagisce emotivamente alla musica?

Una spiegazione molto chiara è stata data da due studiosi Blood e Zatorre i quali, in seguito ad una ricerca da loro condotta nel 2001, dimostrarono che la musica possiede la medesima capacità di stimolazione del cibo, delle droghe e del sesso sui sistemi neuronali; è inoltre in grado di lenire l’ansia, grazie all’inibizione da essa operata sulle strutture del sistema nervoso centrale e di determinare la capacità di attenzione per mezzo dell’attivazione di altre strutture del medesimo sistema.

La capacità di agire sulle emozioni delle persone è stata utilizzata in ambito terapeutico per curare alcune malattie di tipo psicologico, come la depressione o l’ansia, malattie neurogenerative come il morbo di Alzheimer o il morbo di Parkinsons e malattie terminali.

L’ascolto di una musica ricca di armonici e ripetitiva consente per esempio alle persone di rilassarsi, allontanando tensioni mentali e psicologiche.

Il canto è risultato essere benefico sui pazienti affetti da demenza senile, come spiegato dalla dottoressa Lucia Jandolo, :

“Se l’infermiere, nell’aiutare il paziente con demenza a lavarsi e a vestirsi comincia a cantare, stimolando il paziente stesso a fare altrettanto, le tensioni si allentano, le emozioni positive aumentano e il paziente acquisisce un maggiore controllo dei propri movimenti e della propria postura, oltre ad ottenere un miglioramento della propria competenza ed espressività verbale”11.

Simile attività, costituendo per la persona malata uno strumento per comunicare liberamente le proprie emozioni, va ad attivare in lei un processo psicologico di rielaborazione dei propri traumi e delle proprie esperienze negative.

Risulta avere dunque un effetto terapeutico in malattie depressive, ma anche gravi come un cancro avanzato.

ALLE ORIGINI DELLA PEDAGOGIA MUSICALE E ATTUALI STUDI SULL’ATTIVITÀ MUSICALE NELLE SCUOLE

La storia della pedagogia è ricca di pensatori, pedagogisti ed educatori che esaltarono il ruolo formativo ed educativo della musica.

In alcune sue opere, il filosofo Platone ne esalta la capacità di abbellire e rendere nobile lo spirito umano: di qui il ruolo altamente educativo di essa all’interno del curriculum scolastico di tutti quei giovani, destinati a diventare la classe dirigente del proprio stato, sia nella funzione di guerrieri che di quella dei filosofi.

Quando la scuola divenne tuttavia luogo di educazione del popolo e non più solo dei nobili, la musica non venne più considerata con il ruolo determinante ed importante quale era stato dato sino ad allora.

L’educazione andava ora a coincidere con l’apprendimento della lettura, della scrittura e del far di conto, con un sapere cioè pratico.

Fu l’iniziativa di singoli pedagoghi a permettere l’introduzione della musica e del canto nelle scuole popolari.

Tra di loro vi fu Giovanni Pestalozzi, svizzero di origine italiana, grande pedagogista ed educatore, famoso come colui che introdusse la “pedagogia del cuore”.

Egli sosteneva che l’educazione dovesse mirare allo sviluppo armonico dello spirito e delle sue tre facoltà peculiari: la mente, il cuore e la mano.

Il metodo didattico pestalozziano era impostato secondo un passaggio dal semplice al complesso, dall’elementare al globale.

Nella propria esperienza educativa con fanciulli ed adolescenti, il canto costituì l’attività primaria, grazie alla quale i discenti, facendo una prima esperienza melodica con singoli fonemi, successivamente con singole parole e, infine, con frasi dapprima semplici e via via più complesse, riuscivano con facilità e gioia a pronunciare le prime parole. Solo una volta che erano state udite e cantate, le parole diventavano oggetto di lettura e di scrittura: dal fonema si passava in seguito al grafema.

Lo sviluppo della competenza linguistica partiva quindi da un’attività vissuta dai discenti in modo ludico e spontaneo, come un prolungamento del rapporto caloroso e protettivo vissuto ognuno con la propria madre o figura materna.

Il canto andava cioè ad incidere su una competenza affettiva, permettendo la condivisione e la fraternità tra i discenti e tra discenti e educatori. Siamo, comunque, su un piano puramente intuitivo e spontaneistico dell’approccio con la musica che qui inizia e qui finisce.

Non vi è uno sviluppo ulteriore che porti alla specializzazione dei talenti o ad una padronanza tecnica del canto. Esso non è infatti inteso come attività fine a se stessa, ma solo come un mezzo per arrivare a qualcos’altro: l’acquisizione appunto della lingua madre e la collaborazione all’interno del contesto educativo.

Il ruolo sponataneistico, ludico ed affettivo del canto fu successivamente esaltato anche da pedagogisti ed educatori italiani, impegnati nelle scuole dell’infanzia o nelle scuole elementari: pensiamo solo all’esperienza delle sorelle Agazzi nei loro asili o a quelle di Giuseppe Lombardo Radice (pedagogista che collaborò alla Riforma scolastica del 1923 con l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile).

Un diverso atteggiamento pedagogico venne invece adottato dalla pedagogista Maria Montessori, secondo la quale, l’educazione linguistica ed artistica, come il canto e la musica, devono essere subordinate, in età prescolare, a quella sensorio-motrice, poiché è quest’ultima a porre le basi per l’apprendimento della prima.

A tal proposito, riporta lo studioso Mauro Laeng:

“Ella ritiene sufficiente e già impegnativo provvedere all’educazione dei mezzi funzionali che saranno impiegati, ad un livello superiore in queste attività (attività linguistica ed artistica). Il possesso del meccanismo della scrittura e della lettura, il disegno a ricalco o su sagoma a traforo, il riconoscimento acustico delle note musicali nel loro puro strumentalismo le sembrano mete già cospicue da raggiungere”.12

Attualmente le scuole dell’infanzia ed elementari non si sono allontanate dal quadro storico-pedagogico da me appena esposto.

Nelle scuole secondarie inferiori, l’insegnamento della musica è soprattutto storico-teorico, mentre in quelle superiori non esiste, se non come attività ricreativa o all’interno di progetti extracurricolari, slegati dal curricolo disciplinare della scuola.

Manca un approccio pedagogico approfondito nei confronti della musica.

Bisogna allora spostarsi all’estero per conoscere quali possono essere i vantaggi sul piano cognitivo e formativo dell’insegnamento della musica in età scolastica.

E’ interessante a questo proposito ricordare un’esperienza didattica oramai trentennale, condotta in una città bavarese, di nome Hof della quale è ancora Lucia Jandolo a riportarne interessanti risultati.

In questa città, ogni anno un migliaio di studenti delle scuole elementari e medie (in Italia secondarie inferiori) hanno l’opportunità di svolgere, parallelamente alla frequenza delle lezioni tradizionali, un’attività musicale sotto la guida dell’orchestra sinfonica locale.

L’esperienza è stata in seguito studiata da un’equipe scientifica, diretta dal neurologo Ernst Poppel e dal musicologo Lorenz Welker per condurre una ricerca sugli effetti svolti dalla pratica intensiva e precoce sul cervello dei bambini.

Durante la ricerca vennero costituiti due campioni omogenei: uno sperimentale e composto da 21 alunni che da circa 12 anni dedicavano il proprio tempo libero allo studio e alla pratica musicale e un altro di controllo, composto da altrettanti alunni che avevano fino ad allora dedicato il proprio tempo libero ad altre attività.

Dal confronto operato tra i due gruppi, emersero delle differenze sia sul piano emotivo che su quello cognitivo: il primo gruppo, infatti, riusciva a percepire più intensamente le emozioni e a differenziarle meglio rispetto al secondo.

I praticanti musicisti avevano inoltre manifestato una maggiore capacità di concentrazione.

In seguito i due gruppi vennero sottoposti ad una risonanza magnetica che permise a Poppel di spiegare scientificamente il motivo della diversità di prestazioni sia sul piano emotivo che cognitivo: per quanto riguarda quello emotivo, i soggetti del primo gruppo mostrarono di possedere reti neuronali supplementari che entravano in gioco in situazioni di gioia o di tristezza; mentre per quanto riguarda quello cognitivo, i medesimi soggetti avevano rafforzato, grazie alla pratica musicale, la struttura del tempo mentale, struttura trasferibile anche in altre attività (quali per esempio la matematica o lo sport).

Altre ricerche, condotte nei medesimi anni, hanno evidenziato come la musica sia un ottimo strumento per rafforzare la memoria e il ragionamento spaziale astratto.

Sul piano scolastico (dove già da diversi anni ormai si è iniziato a parlare di certificazioni delle competenze), la musica, se adeguatamente introdotta nelle scuole, andrebbe a costituire un importante e ricco strumento metodologico e didattico che metterebbe in comunicazione mondo insegnante e mondo giovanile, favorendo nei primi l’opportunità di tradurre un linguaggio tecnico-disciplinaristico in un linguaggio empatico ed universale qual è quello della musica, incrementando invece nei secondi una forte motivazione ad apprendere quanto fatto a scuola, vivendolo come un ricco bagaglio da fare e disfare costruttivamente in ogni circostanza della propria esistenza ed ottimizzando inoltre l’uso delle altre competenze quali quella spaziale e logica, nonché quella interpersonale ed empatica, contribuendo così ad una formazione integrale del giovane.

BIBLIOGRAFIA

  1. Howard Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 2010.
  2. Nicoletta Beschin, Musicisti: altro che sensibili! In Psicologia contemporanea, luglio-agosto 2010, p. 52.
  3. Lucia Jandolo, Musica per il cervello in Psicologia contemporanea, gennaio-febbraio 2010, pp. 24-29.
  4. Daniel J. Levitin, Le radici della musica: E’ solo un’illusione in Psicologia contemporanea, novembre-dicembre 2008, pp. 20-24.
  5. Mauro Laeng e Dario Antiseri, Filosofia e pedagogia dalle origini ad oggi, Le scuole nuove italiane, vol. 3, Editrice La Scuola, Brescia, 1998, p.757.

 

 

1 thought on “La Teoria delle Intelligenze Multiple di Gardner”

  1. Pingback: Google

Lascia un commento