Oneiron

 

 

«Le cose cominciano ad accadere quando smetti di avere paura e lasci che il tempo rallenti».

È lì che si aprono le porte del “dopo”.

O di ciò che ancora “dopo” non è, ma non è più, semplicemente, unicamente “vita”.

Laura Lindstedt, scrittrice finlandese al suo secondo romanzo – il primo, Scissors, è del 2007 – ci conduce così, con un preambolo lungo poche decine di pagine, che hanno la densità di centinaia, nel cuore di ciò che, con una parola evocativa e sfuggente al contempo, le protagoniste chiamano Oneiron.

Oneiron è, appunto, il titolo del romanzo corale di Laura Lindstedt, ora pubblicato, per la traduzione di Irene Sorrentino, dalle edizioni Elliot (pp. 384, euro 18).

“Oneiron” è una soglia, spazio neutro tra la veglia e il sogno, tra la vita e la morte. O forse è già la morte, ma priva di consapevolezza“Oneiron” è anche un performativo: crea, apre, trasforma non appena le protagoniste imparano a pronunciare le sue tre sillabe. Ed è allora, in uno spazio divenuto saturo di parola, che le cose, semplicemente, accadono.

E si apre un altro ordine del tempo.

L’esergo scelto dalla Lindstedt, tratto dalla Morte di Ivan Illic di Tolstoj, è una prima chiave di accesso per questo romanzo che ha radicalmente inciso sulla letteratura finlandese.

Al di là del successo, dei premi, delle annunciate traduzioni (in numerosi Paesi, il nostro arriva per secondo, dopo la Lituania e prima della versione romena).

«Io non ci sarò più, ma allora che cosa ci sarà?», scrive Tolstoj.

Niente, non ci sarà niente.

«Ma allora, io, dove sarò?».

Immaginate corpi senza gravità e senza appigli.

Miraggi.

Immaginate corpi, mente, cuore, cervello, ma senza circostanza, senza luogo.

Immaginate un piano non euclideo e sette donne – tutte, egualmente, protagoniste – che lo abitano.

Donne che si trovano in un Decameron rovesciato, dove giorno e sera non esistono e la morte nera è già passata, eppure si riscoprono a raccontare e a raccontarsi la propria vita per ritrovare quei frammenti di sé che, in qualche modo, sono la sola traccia che anche loro sono state “presenza”.

Eppure in questo spazio tutto è presente, tranne il presente.

In questo vacuum spazio-temporale, Shlomith, Rosa Imaculada, Nina, Wlbgis, Maimuna, Polina e l’ultima arrivata, che ha il compito di aprire al lettore quello spazio svolgendo quasi il ruolo di tracciante narrativo, Ulrike, si ritrovano senza peso, senza storia, senza ricordi.

Un puro “qui” senza terra sotto i piedi e senza terra dove andare.

Sono corpi – ma che tipo di corpi? – sedotti, abbandonati, uccisi, sfruttati.

Portati al limite quando erano in vita – è il caso della performer Shlomith, che trasforma l’anoressia in un gesto artistico.

Solo dei flash-back li attraversano, senza condensarsi in memoria.

Fino a che una di loro – Rosa Imaculada – pronuncia una parola, “oneiron”, e anche il suo corpo diventa quasi trasparente, quasi un luogo onirico nell’Oneiron.

Le altre provano a seguirla, pronunciano quella strana parola.

Ma non riescono.

Nasce però qualcosa che le spinge a riconfigurare quello spazio.

Lo fanno attraverso il racconto, che ridefinisce lo spazio fra loro, una sorta di in-between che, grazie alla reminiscenza della Dottrina delle corrispondenze del mistico svedese Emmanuel Swedenborg, evocato dal personaggio di Polina, diventerà anche un modo per interrogarsi sulla relazione fra i mondi: materiale, corporeo, spirituale, etereo, infernale, paradisiaco, terrestre e celeste.

Se, come insegnava Hannah Arendt, scopo di un racconto è sempre farci apparire il “chi” di quel racconto, è proprio in questo raccontarsi allucinato che le protagoniste ritrovano – nell’altrove in cui sono – consapevolezza di sé.

Mancando il “come”, è nel “chi” che troveranno ancoraggio.

Le sei donne rimaste si spogliano e con i loro vestiti costruiscono una casa, delimitano uno spazio, quasi un cerchio magico del racconto.

Ma è fondamentalmente nella parola detta che le sei donne rimaste «costruiscono una casa».

E da lì ripartiranno.

Nel discorso che ha tenuto il 26 novembre dello scorso anno, in occasione del conferimento del prestigioso Premio Finlandia, lei ha fatto un discorso tagliente su società, solidarietà, lotta.

Ha usato parole forti per parlare delle diseguaglianze che si stanno sempre più allargando fra classe media e classi di high-high riches.

«Stiamo costruendo una società classista», ha dichiarato.

Cosa l’ha spinta a tenere quel discorso?

Lo rifarebbe, oggi?
Assolutamente sì, anche se adesso potrei sottolineare anche altre questioni, ad esempio questa latente mentalità fascista che sembra essere un problema ancor più urgente rispetto a un anno fa in tutto il mondo occidentale.

Quando il mio editore mi ha telefonato e ho saputo che avevo vinto il Premio Finlandia, ho avuto due giorni per pensare a cosa dire nel mio discorso.

Mi sono resa immediatamente che dovevo dire qualcosa , qualcosa di diverso da quei normali e formali complimenti, che dovevo fare buon uso di questo spazio che mi si offriva. Era il mio momento, dinanzi a me c’era la platea più grande che una scrittrice o scrittore possa mai avere in Finlandia.

Ho sentito direi addirittura il dovere di segnalare alcuni problemi sociali di cui ci trovavamo (e ci troviamo) ad occuparci.

 

Oneiron è ed è stato un romanzo di grande successo in Finlandia.

È vincitore di molti premi e i diritti sono stati venduti in tutto il mondo.

Insomma, credo si possa dire che il suo è un bestseller internazionale ancor prima di essere tradotto e conosciuto.

Da autrice e da lettrice, come vive l’approdo di Oneiron all’estero, in altre lingue e in altri sistemi culturali?
paesi in cui sono stati venduti i diritti sono dodici e in Finlandia Oneiron ha effettivamente avuto una splendida accoglienza da parte dei lettori e della critica.

Ora sarà interessante vedere che succede nelle diverse culture, perché il libro affronta moltissime tematiche ed è possibile che i lettori stranieri sollevino questioni diverse da quelle rilevate dai lettori in Finlandia.

Tuttavia, credo che le idee centrali di Oneiron, e cioè le domande esistenziali sulla morte e sul morire siano in grado di parlare a lettori con background differenti.

E l’intero libro è fondamentalmente sulla comunicazione: sul tentativo di rendersi accessibili, sullo sforzo inesauribile di capire cosa sta succedendo nella mente dell’altro.

Io uso diverse lingue in Oneiron, anche le lingue che non padroneggio, proprio per sottolineare questo tema.

 

Oneiron è un libro dalla struttura complessa, denso di riferimenti, che richiede attenzione e dedizione.

Eppure ha incontrato migliaia di lettori attenti ed entusiasti.

Lei ritiene dunque che Oneiron sia la prova che non è solo la letteratura cosiddetta “commerciale” a vendere?
Io credo che un libro forte e appassionato trova sempre il suo pubblico, non importa quale sia il genere.

Sebbene ci siano molte allusioni culturali in Oneiron e un gioco con i vari generi, il mio intento era di rendere il testo il più organico possibile.

Una lettrice o lettore non ha bisogno di cogliere ogni elemento intertestuale che vi ho inserito.

Mi auguro che sia la storia ad avere la meglio.

In questo senso il ruolo del narratore in Oneiron è di importanza vitale.

Il narratore è una sorta di coscienza fluttuante, un collante che unisce le diverse trame.

 

Attualmente casi simili in cui fiction e non fiction convivono sono sempre più numerosi in tutto il mondo.

Come se lo spiega?

Forse è proprio il confine tra realtà e fiction a essersi sgretolato?
Non vorrei introdurre di straforo la discussione della politica della post-verità dentro il regno del romanzo.

Il confine tra realtà e finzione è esistito e ha importunato i lettori fin dai tempi del romanzo borghese, sin dalla nascita del romanzo in quanto genere (nel contesto occidentale).

Di tanto in tanto salta di nuovo fuori: pochi anni fa fu il libro di David Shields del 2010 Fame di realtà.

Un manifesto(Reality Hunger: A Manifesto) a innescare il dibattito.

Naturalmente il successo dell’opera La mia lotta del Proust norvegese Karl Ove Knausgård è sintomo dello stesso fenomeno.

 

È possibile che sia cambiato il ruolo della letteratura e che un romanzo possa essere qualcosa ben altro dallo svago, magari un campo dove critica e coscienza si incontrano?
Adoro quest’idea, anche se ci saranno sempre dei romanzi fatti esclusivamente per entertainment.

Oltretutto, non lo ritengo un problema.

Per me, quando scrivo, il romanzo significa un laboratorio di idee.

Esso è quasi alla lettera il luogo del pensiero.

E a tal riguardo scrittura e lettura, come attività, sono abbastanza simili.

Creano entrambe una temporalità specifica, propizia per le domande difficili.

 

La coralità è una delle caratteristiche di Oneiron.

Le sette eroine del romanzo provengono da sette paesi diversi e pertanto il network cross-culturale è ampio.

Come sono nate le sette storie del romanzo?

Come ha lavorato per la tessitura del romanzo?

Ogni storia ne ha generata un’altra oppure ha lavorato a ciascuna singolarmente e poi le ha messe insieme?
Ho scritto i capitoli quasi nello stesso ordine in cui si trovano nel volume pubblicato.

Volevo che le mie donne provenissero da diverse parti del mondo, da diverse aree linguistiche.

Certo, l’Europa e la cultura occidentale in generale sono “sovrarappresentate”, ma il mio intento era mettere in atto una sorta di campionamento statistico.

Volevo semplicemente fare un buon libro che, al suo meglio, offrisse a lettrici e lettori un po’ di conforto dalla paura della morte.

O almeno, questa è stata la ragione principale per cui ho scritto Oneiron: per gestire le mia personale paura di morire.

Le diverse storie si sono certamente influenzate le une con le altre.

Le ho scritte lentamente, prendendo familiarità con i miei personaggi a poco a poco. Durante il processo di scrittura ho pensato prima di tutto a questo: di cos’è che questo aldilà immaginario ha bisogno di essere ricco, elaborato, e come potrei riempire questo spazio non materiale con roba che ha a che fare con i sensi?

Lo spazio bianco vuoto di per sé non offre nulla se non la libertà di immaginare, di visualizzare.

Ecco perché in Oneiron ci sono temi molto fisici (legati al corpo), come la chirurgia dei trapianti di cuore e l’anoressia.

 

L’impianto linguistico di Oneiron è particolare.

Nella nota di traduzione si legge che il presidente della giuria del Finnish Sentence Prize Marko Kulmala ha dichiarato che con Oneiron la struttura della frase finlandese è cambiata, forse inesorabilmente.

Lei si ritrova in simile giudizio?
Beh, credo che spetti agli altri fare questo tipo di valutazione.

Io posso solo scrivere.

Anche la copertina è singolare e ho notato che è la stessa usata per l’edizione originale.

Sarà uguale per tutte le traduzioni?

Com’è nata e perché la scelta di quest’immagine?
Non so se la copertina sarà la stessa in tutti i paesi, ma ho chiesto al mio agente di informare gli editori che avrei apprezzato di mantenere la copertina originale.

Questa è stata fatta da un graphic designer di talento come Jussi Karjalainen.

Lo conosco da quando eravamo adolescenti a Kajaani, una cittadina nella Finlandia orientale da cui entrambi proveniamo.

Quando è arrivato il momento di decidere a chi affidare la realizzazione della copertina ho pensato subito a Jussi.

Dopo che Jussi ha letto il manoscritto ci siamo incontrati, abbiamo parlato e avevamo le stesse idee: in primo luogo, che nella copertina il nome, Oneiron, avrebbe dovuto avere un ruolo di primo piano, e secondo, che l’immagine non dovesse essere troppo realistica. Nella copertina di Oneiron non ci sono immagini preconfezionate, ricavate da gallerie di immagini commerciali.

Tutto è totalmente “artigianale”.

La donna che si vede è una ballerina finlandese, fotografata da Aki-Pekka Sinikoski.

Poi, la foto della donna è stata fotografata attraverso un telo di garza bianca.

La terza fase è stata di creare il look tipografico.

Anch’io credo che questa copertina sia speciale, unica nel suo genere.

E non sono la sola a dirlo.

La copertina di Oneiron è stata scelta come una delle copertine di maggior successo del 2015.

Tornando al testo, ho notato, leggendo delle recensioni straniere, che alcuni critici considerano Oneiron un misto tra narrativa e saggistica, probabilmente in virtù della bibliografia nelle ultime pagine. Lei è d’accordo?
Sì, in Oneiron uso informazioni e materiali scientifici insieme ad altri puramente immaginari.

Nello spazio bianco vuoto, ossia nell’aldilà, Polina tiene con entusiasmo una lezione sulle visioni celesti di Emanuel Swedenborg, uno scienziato e mistico svedese.

Shlomith organizza la sua presentazione pubblica finale, una performance conferenza sulla connessione tra ebraismo e anoressia.

Questa conferenza si trova in Oneiron completa di note, che non sono di fantasia.

E così via.

Per me, il romanzo rappresenta una forma d’arte così flessibile da poter incorporare senza soffrirne materiali, generi, significati e mezzi estremamente diversi.

È per questo che lo amo.

 

Intervista a Laura Lindstedt

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