La bellezza

 

 

Esiste una relazione fra giustizia e bellezza?

Esiste un legame tra la cura di sé e la custodia della Terra intesa, come nell’Enciclica Laudato si’, quale “cura della casa comune”?

Possiamo davvero guardare al mondo – come ci invita a fare il Premio Nobel Amartya Sen – “con gli occhi del resto del mondo” o siamo oramai rinchiusi in una gabbia di specchi? Abbiamo posto alcune di queste domande a Salvatore Veca, filosofo della politica, studioso di teorie della giustizia.

 Connessione e compassione

Nel mondo c’è la bellezza. E ci sono gli oppressi. “Io vorrei essere fedele a entrambi”, affermava Albert Camus. Che cos’è, per lei, la bellezza?
La bellezza è, per me, la possibilità di pensare filosoficamente un mondo meno indecente. Il tema della bellezza secondo me ha a che fare con l’idea della giustezza.

Attenzione: non della giustizia, ma della giustezza.

Sono convinto che le questioni di giustizia, che possono essere di giustizia distributiva o di giustizia sociale o di giustizia commutativa, sono tutte questioni di giustezza, ossia di congruenza.

La bellezza è una forma alta di congruenza.

Una forma di congruenza in cui – vogliamo usare un leitmotiv della Laudato si’ di Papa Francesco – tu rispondi al fatto che le cose sono tutte connesse.

 

La bellezza è uno dei modi di rispondere nei confronti della connessione delle cose e della congruenza delle cose. Quando questa connessione viene lacerata, depredata, sottoposta a una sistematica “cultura” dello scarto è lì che sentiamo ancor più la sua forza.

La sentiamo perché ci troviamo faccia a faccia col fatto radicale dell’ingiustizia della Terra. Davanti a questo fatto radicale ci confrontiamo con questioni di giustizia e di giustezza.

È perché siamo di fronte alla violenza della connessione tra le cose che ci poniamo la questione della bellezza.

Non tanto dal punto di vista astratto e della teoria, ma dal punto di vista di ciò che uno sente.

È anche un problema di educazione del sentire.

 

Un termine chiave del buddismo è anicca (in sanscrito: anitya).

Indica la transitorietà, l’impermanenza, il mutamento.

Eppure, questa transitorietà apre il velo al “connecting spirit”, lo spirito di connessione.

Da questa connessione spirituale discende la compassione, che è una risonanza tra anime.

Anche qui, questione di “giustezza”, di bellezza e di risonanza…
La compassione è una forma di connessione.

D’altronde, la forma della compassione intesa non certo nel senso del conservatorismo americano – che sostituisce la giustizia con l’eventuale benevolenza caritatevole – ma del cum-patire, del provare assieme e del cucire il nostro star bene o star male con lo star bene o lo star male di altri è connessione.

Bellezza, connessione, compassione sono tutte questioni di giustezza, nel senso di rightness.

Rightness rispetto a justice.

Quando diciamo: “questa è la cosa giusta da fare, lo sento”.

Questa è la nostra giustezza, la rightness.

È il modo in cui rispondiamo agli altri.

Il modo in cui rispondiamo al mondo, rispondiamo a noi stessi.

 

Tra i fatti di elementare evidenza per gli uomini c’è la constatazione che la vita è ingiusta.

Oggi più che mai, rispetto a questo fatto, non possiamo limitarci a teorie consolatorie.

Servono forse altri schemi, per vecchi problemi…
Io sono convinto che le questioni della giustizia, in particolare di giustizia sociale, siano assolutamente rilevanti e cruciali, anche nei tempi difficili che viviamo.

Sono convinto che se adottiamo e guardiamo alla costellazione della vita ingiusta ci rendiamo conto che, una delle chiavi, è l’ingiustizia della Terra.

Eppure, non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto.

Sono capaci di guardare a se stessi con onestà, di far emergere il proprio disgusto e di intraprendere nuove strade verso la vera libertà.

Non esistono sistemi che annullino completamente l’apertura al bene, alla verità e alla bellezza, né la capacità di reagire…

Che cosa intende quando parla di ingiustizia della Terra?
Ingiustizia della Terra nel senso della inequità o iniquità – come direbbe Papa Francesco – che governa e plasma i destini delle persone in giro per il mondo.

Non solo nelle regioni della deprivazione assoluta o della scarsità assoluta o delle aspettative di vita terribilmente e brutalmente brevi, ma anche nelle parti ricche o ex ricche del mondo sembra che stiamo dissipando alcune prospettive e conquiste.

Sembra che uno strano Ancien Régime si aggiri qua e là nel mondo, anche nel nostro angolo di mondo.

In che senso ci ritroviamo nuovamente in un Ancien Régime?
In un senso elementare. Il fatto radicale dell’ingiustizia è il fatto che nessuno di noi sceglie di nascere. Ma se a determinare per sempre il destino di una persona è il solo fatto di nascere in una parte o nell’altra del pianeta o in una famiglia ricca piuttosto che in una favela, questo è né più né meno Ancien régime.

È quella che John Rawls chiamava la lotteria naturale e sociale che, per il solo fatto di essere messi nel mondo, determina il nostro progetto di vita senza responsabilità.

Noi non scegliamo di nascere, ma se il modo in cui veniamo nel mondo, che condividiamo con altri miliardi di esseri umani, modella il nostro destino per il solo fatto di essere nati qua, anziché là è Ancien Régime.

Un regime che erode alla base la possibilità di una giustificazione imparziale ed equa dei modi in cui conviviamo.

Questo significa che l’orizzonte di una prospettiva di giustizia si è dileguato?
No. Questo vuol dire che diventa ancora più importante, perché nasce da un’urgenza radicale.

Abbiamo bisogno, in questa navigazione difficile e incerta, di trovare nuove bussole, partendo dal meglio che siamo riusciti a combinare alla nostre spalle, ma essendo consapevoli che c’è un gran lavoro da fare, ma sapendo che ne vale la pena.

 

Di fronte all’ingiustizia della Terra, uno potrebbe avere l’atteggiamento della rinuncia e dell’impossibilità, un senso di regressione…
Io credo che dobbiamo continuare a esplorare spazi di possibilità politica, religiosa, istituzionale, economica che dilatino nella direzione dell’equità globale gli spazi che il mondo ci concede.

Sono tre i temi con cui dovremo fare i conti:

1) i diritti umani presi sul serio;

2) equità globale;

3) beni comuni.

Dovremo far leva su ciò che ci accomuna, nella casa comune.

La dimensione di una globalità e della possibilità di aprire spazi anche di vero confronto etico sulle sfide tecnologiche e biotecnologiche…
La visione di giustizia è una concezione basata su un grappolo di valori etici e che cerca di orientarci nella valutazione delle istituzioni, delle pratiche sociali, delle politiche, delle scelte collettive a partire da questo nucleo o grappolo di valori base.

Valori base che sono quelli che si radicano nell’idea tante volte umiliata abusata e offesa di una semplice e nuda eguaglianza umana.

Ci sono molti modi di interpretarla, c’è una pluralità di prospettive: c’è un concetto base e poi ci sono varie concezioni e interpretazioni di questo concetto base.

 La Laudato si’, ad esempio, è un contributo di straordinaria forza che chiama in causa la responsabilità nei confronti di un mondo che non è nostro.

Un mondo che, per usare il lessico di Papa Francesco, ci è stato dato in custodia.
Ci è stato dato in custodia e abbiamo il dovere di preservare per le generazioni future. Questa è l’idea di una conversione ecologica dove la questione sociale è la questione ecologica.

Quella di Papa Francesco è una delle voci più autorevoli in questo globo più piccolo, ma solcato da inimicizia e ingiustizia.

Quando accennavo all’idea che vi è un concetto alla base, ma che questo concetto viene declinato e interpretato o sostenuto attraverso una pluralità di concezioni.

Ho in mente le concezioni che ci vengono dalle religioni di salvezza mondiale.

È la prospettiva di una comunità di destino…
Qui il problema è prendere sul serio quello che conta davvero nelle vite umane.

Ciò che conta, ciò che vale nelle vite umane.

Ovviamente prendendo altrettanto sul serio le pluralità delle credenze in ciò che dà significato alle nostre vite.

Se pensiamo al ruolo che la compassione ha nella prospettiva buddhista, i sentieri della riduzione della sofferenza, piuttosto che il tema della misericordia in una prospettiva diversa, come quella di una religione di salvezza, o ancora se pensiamo alle forme del pathos induista nei confronti della relazione e di ciò che lei ha giustamente chiamato una comunità di destino, ossia l’idea dell’appartenenza a un tutto che in qualche modo anima ciascuno di noi, credo che queste diverse voci dovrebbero far parte di questa sorta di dialogo globale che dovrebbe occupare lo spazio globale.

Uno spazio pubblico globale. 

La vera grandezza non è nell’aspettare grandi cause per muoversi, ma nel trovare degno motivo di contesa in un fuscello quand’è in gioco l’onore

(William Shakespeare, Amleto, atto IV, Scena Terza)

 

Le differenze devono però entrare in un dialogo attivo.

Altrimenti c’è solo una sterile spettacolarizzazione del diverso…
Il dialogo è con e fra chiunque sia convinto che vi è una radicale ingiustizia della Terra e ha insieme rispetto per le vite di persone e empatia per le vite di persone.

Il problema non è più la società giusta, su cui per anni e anni abbiamo lavorato.

Il problema è il mondo ingiusto.

Se non riflettiamo adeguatamente sui confini, l’unica risposta saranno i muri, non crede?
Proprio per questo dobbiamo pensare ai ponti. Dobbiamo pensare alla porosità dei confini, pensare e ripensare transiti opachi.

Sufficiente opachi, tra le costellazioni delle sovranità nazionali e le costellazioni post nazionali.

Il punto di vista del buddhismo, piuttosto che del cattolicesimo, delle chiese riformate, di quelle ortodosse o dell’induismo ci offrono grandi vocabolari di saggezza umana che sono tutti chiamati in causa.

 

Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità

Robert Musil, L’uomo senza qualità

Io che ho sempre difeso la laicità, sono convinto che nello spazio pubblico sia doveroso e legittimo che tutte le voci, soprattutto nella loro differenza, debbano avere accesso nella loro differenza.

Si tratta di allargare lo sguardo…
Un maestro e amico come Amartya Sen insegna che “dovremmo guardare al mondo con gli occhi del resto dell’umanità”.

Una vecchia espressione di Adam Smith parlava di uno spettatore simpatetico e imparziale.

Non dico che questo renda le cose facili, ci dà però il senso della direzione in cui fondare e verso cui andare.

(intervista con Salvatore Veca)

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