Il terapeuta è la medicina

 

  

1%. Sì, proprio così.

Ai fini del successo della psicoterapia il tipo di terapia (se sia cioè cognitivo-comportamentale, analitica, sistemica, etc) conta l’1% (al massimo il 2%), dicono recenti studi sul tema che confermano peraltro ricerche più datate che giungevano a risultati analoghi.

Più o meno il valore del due di spade quando briscola è coppe.

In realtà sappiamo ancora molto poco del come la psicoterapia faccia bene e soprattutto di quali elementi della psicoterapia facciano bene.

E non riusciamo ancora a capire perché una percentuale molto alta di pazienti, che va, secondo altri studi, dal 30% fino addirittura al 50%, non presenti segni di miglioramento durante la psicoterapia  – cosa che sarebbe tra l’altro opportuno sempre tener presente quando ci lamentiamo dei pur limitati e controversi effetti degli psicofarmaci.

Nonostante infatti i sempre nuovi procedimenti psicoterapeutici introdotti, la percentuale di pazienti che non migliora o addirittura presenta un peggioramento durante la psicoterapia è rimasta negli ultimi anni costante.

Alcune cose di fondo però sulla psicoterapia e sui fattori che fanno la differenza sul suo andamento le conosciamo.

Le elenca molto bene un sobrio e efficace articolo della rivista “Psicoterapeuta” (Psychotherapeut) pubblicato (in tedesco, english abstract) online il 23 febbraio scorso.

Sappiamo ad esempio da nuove meta-analisi che il paziente e gli aspetti extra-terapeutici costituiscono i fattori più importanti ai fini dei risultati del trattamento, contando per l’80-87% nella variabilità degli stessi risultati.

Gli effetti diretti del trattamento invece spiegherebbero solo il 13-20% della variabilità del successo.

All’interno di questo 13-20% il fattore più importante è rappresentato dall’alleanza terapeutica, il grado di intesa cioè tra paziente e terapeuta, che varrebbe dal 5 all’8 %.

E questo si sapeva da tempo.

Dal 4 al 9% conterebbe la persona del terapeuta e solo l’1% appunto il tipo di tecnica psicoterapeutica impiegata.

Alla luce di questi dati mi risulta (ancora più) difficile capire la foga delle polemiche tra alcuni psicoterapeuti ad indirizzo analitico e altri ad indirizzo cognitivo-comportamentale, riattizzate – dopo una fase di apparente pacificazione o almeno di indifferenza reciproca – da studi  che relativizzerebbero i successi della terapia cognitivo-comportamentale.

Certo la dialettica è necessaria alla scienza, la polemica sembra intrinseca al DNA italiano, spesso pure gustosa, ma di fronte a certe rancorose, reciproche accuse di anti-scientificità come pretendere poi credibilità scientifica dai pazienti (e dai colleghi)? per non parlare poi di collegialità e interdisciplinarità, che sembrano solo parole di circostanza ai congressi, sentite quanto lo sono le condoglianze ai funerali di estranei.

In epoca di convergente science non sarebbe forse più utile – e divertente – riflettere su quello che i diversi tipi di psicoterapia hanno in comune?

Ma intanto quali sono i fattori  di successo della psicoterapia?

Tra gli aspetti non specifici risultano importanti – e anche questa non è proprio una novità – “il fatto che il terapeuta susciti nei pazienti aspettative positive di successo terapeutico, trasmetta fiducia, ottimismo e speranza e ancora che riesca a presentare il proprio indirizzo terapeutico, qualsiasi esso sia, in modo convincente”.

Potrà non piacere, sembrare generico, ma i dati son questi e fanno anche capire quanto aspettative (proprie e indotte) e fiducia contino nella terapia come in ogni altro progetto a due.
E il terapeuta?

Per quanto possa apparire paradossale la persona dello psicoterapeuta è quella su cui, in relazione successo della psicoterapia, si sa meno.

Bisogna pensare che questo sia il risultato di una sorta di tacito tabù vigente in tutti gli indirizzi psicoterapeutici.

Nello sforzo di accreditare scientificamente ciascuno il proprio metodo terapeutico, distaccandolo il più possibile dalla persona di chi lo conduce e lo rappresenta, si è sospinta nell’ombra l’individualità del terapeuta, almeno a livello teorico.

Perché in pratica sappiamo tutti che proprio i risvolti umani di quell’unicità contano eccome.

Mi ricordo ancora oggi le parole di un biglietto che il mio analista, venendo calorosamente meno alla sua astinenza, mi scrisse quando mio padre si trovava in punto di morte perché non mi preoccupassi delle sedute e mi prendessi tutto il tempo che mi serviva.

L’avrei comunque fatto ma sentirmelo dire con quell’umanità è stato per me molto più importante di tanti aspetti tecnici dell’analisi.

Che pure sono importanti, perché l’eccezione prende senso dalle regole.

Sappiamo poi tutti che, come in tutti i lavori, ci sono terapeuti bravi e altri meno.

E la differenza è così grande che i terapeuti più efficaci possono vantare una quota di successi del 50% maggiore e di interruzioni del 50% inferiore ai terapeuti meno efficaci.

Altro che i farmaci!
A far la differenza, in senso negativo, sarebbero soprattutto la dominanza del terapeuta e l’effetto di suoi sentimenti negativi verso il paziente all’inizio della terapia.

Un terapeuta che imponga il proprio punto di vista o il sistema teorico in cui è cresciuto – senza maturarvi peraltro la propria identità – può essere inizialmente confortante nel disorientamento del paziente ma difficilmente lascia a quest’ultimo lo spazio necessario per (ri)trovare il proprio orientamento.

Ma la terapia viene anche negativamente influenzata da messaggi sottilmente ostili inconsapevolmente lanciati dal terapeuta al paziente o anche da sentimenti di ostilità che il terapeuta, più o meno inconsapevolmente, nutre verso sé stesso.

Cose che spesso vanno di pari passo e che non sono sempre facili da riconoscere.

Per questo c’è, oltre alla formazione teorica e all’analisi personale, la supervisione, che non è cosa solo per neofiti, né un lusso, ma una costante necessità.

Uno stile relazionale insicuro del terapeuta può infine avere effetti negativi, soprattutto nei confronti di pazienti gravemente disturbati che necessitano invece di chiarezza e sicurezza.
Ci sarebbe ancora molto da dire sulla relazione terapeutica ma conviene forse rinviarlo a un’altra volta prima che la lunghezza di queste considerazioni divenga involontaria ostilità.

Intanto appare, una volta di più, confermata la geniale intuizione di Balint ” il medico – e, possiamo oggi dire, in senso lato il terapeuta – è la medicina“.

Proprio per questo è così importante che lui per primo conosca i propri effetti, desiderati ed indesiderati.

di Giuliano Castigliego

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