Per amore e per giustizia

A conclusione del seminario greco di Spetses nel 2003 con la Scuola de Il Ruolo Terapeutico, Ho scritto i seguenti versi:
A Spetses

Non è qui che siamo nati?
Dove la risacca riempie la conchiglia vuota
L’anemone dipinge le rocce fluttuando nel tempo sommerso
Dove il limone evapora i suoi fiori
Eliminando i veleni delle nostre apocalissi?
Dove ondeggiando tra Dio e il faro di Anargirios
Si è illuminato
Il cammino dell’anima?
Dove tra una lacrima e il sospiro degli occhi
Si è aperta fulminea la crepa della verità?
Molto è avvenuto nel grande letto di Anagyri
Dove l’onda feconda e magnetica
Sfiorava tetti di luce e le
Geometrie finali dei gabbiani
Segnavano il confine del tempo.
Aperta nel crinale
La strada cammina da sola
Senza compagnie miserevoli.
Solo il vento si ferma sull’orlo del muro
Gira delicato sul bordo dei ricordi
Creando musiche polifoniche di anime disincantate.
Non c’è spazio per l’attesa.
Tutto il furore ombelicale
Risuona negli incontri e trascina
Corpi deserti di neve nelle calette affollate di pini marittimi.
Altri corpi danzano
Con l’odore del mare
Corpi tinti di corallo nascente
Corpi sognanti il miraggio
Della promessa fatata.
Non è qui che siamo nati?
Tra i poveri giacinti d’acqua e
Pensieri porosi d’amore
Figli mediterranei
Italici canzonieri del desiderio
Tragici poeti dell’etica.
Poveri condottieri dell’esistenza
Miserabili marinai
Di barche disabitate
Canzonieri di tempo e di sangue
Ricchi dell’illusorio futuro.

Giorni di lacrime e risa
Scolpite sul filo della strada
Dove l’ultimo ciuffo di camomilla
Apre il suo aroma all’ape operaia.
Tutti viandanti
Gioiosi di madrigali abbandoni
Scritti sulla roccia delle calette
E nei raggi fulminei delle biciclette.
Solo le notti han lasciato tracce
Di schiuma nei ricordi.
Già l’alba odora di terra
Di miele
Di canti profumati
Il mattino perlaceo
Colora l’occhio di un passato dimenticato.
Nessuno piange il proprio futuro
Tutti presenti e tutti dimenticati
Tutti presenti e tutti identificati
Tutti nominati e tutti ignorati.
Anime sparse nella terra minerale e acqua salmastra
Dove le parole dipinte si colorano di zafferano
E l’alito si catapulta nel faraglione dopo l’ultimo colle.
Forse mi ha salvato il vento
Forse il bracciale di Annina
Forse l’amore di Sergio
Forse mi ha salvato Anna,
Musa personale.
Forse l’altra Anna o Antonella o Giorgia
O forse mi han salvato Roberta o Simona o Silvia o Rita.
Forse mi salvò Monica o Maria Antonietta o Filomena o Elisabetta
Forse Abdehl o Roberto o Domenico o Riccardo o Umberto.
Forse mi han salvato tutti
Mentre il mio uomo emergeva
Nelle spine parallele delle madri di pietra
Ai piedi dell’ultima chiesa di Paraskevi
Dove l’icona ricorda l’importanza di essere interi.
Certo mi hanno salvato le anime sparse
Dei viandanti di Spetses che corrono
Per rimanere poeti del vento.
Non è qui che siamo nati?

Di quei temi (la vita, la morte, il piacere, la gioia, il dolore, la tristezza, il tempo, la libertà, l’amore, l’etica), condensati nel processo del pensiero onirico che mi ha consentito di esporli in quel modo, riprendo in questo scritto un tentativo di ragionamento su alcuni principi dell’etica nel nostro mestiere di terapeuti.
Fatalmente questa riflessione non avrà le caratteristiche evocative che mi ero concesso nella poesia, ma le mie modeste capacità espositive sono facilitate se parto da quei momenti, da quelle giornate e da quei temi che sono rimasti, finora, solo nel cuore e nella mente dei partecipanti di allora.
Quel seminario è stato trasmissibile solo oralmente.
Tutti gli altri sono irreparabilmente destinati ad essere solo poveri lettori di quelle impressioni.
Essendo quest’anno il tema più individuato, è possibile seguire una traccia più delimitata, anche se ritengo utile essere chiaro su alcuni principi che guidano la mia condotta terapeutica.
Espongo il più possibile queste riflessioni per assiomi, per non parlare troppo e per consentire a chi lo vuole di riflettere ed esprimere ciò che pensa con più semplicità.
Dico questo proprio con la consapevolezza che troppe volte noi parliamo tanto, poco attenti ad ascoltare ciò che gli altri ci comunicano.
Il mio è un tentativo di ragionamento nemmeno originale, poiché mi sono imbattuto altre volte in autori che hanno scritto sull’etica, anche se molti di quegli scritti non li ho trovati sempre utili per il nostro mestiere di terapeuti.
Nella nostra rivista de il Ruolo Terapeutico, Sergio Erba ha scritto molte cose, anche sull’etica.
Sicuramente troverete che molte cose che scrivo io lui le ha già dette e scritte, e anche molto meglio di come le scrivo io, ma il mio scopo non è di confermare solo cose dette da lui, e che io evidentemente ho interiorizzato come buone, ma di poter ragionare con voi attorno ad alcuni di questi principi per cui queste cose si possono e si debbono dire.
Anche altri colleghi del Ruolo si sono pronunciati sul tema dell’etica.
Questo può essere un momento di confronto sul tema.
Troverete che alcune affermazioni sono già state fatte anche da altri psicoanalisti di altre scuole.
Può essere, e vale lo stesso ragionamento fatto per Erba.
Sono convinto che le verità elementari siano state dette da molto tempo e da molta gente.
Siccome considero l’etica una verità elementare, mi piace continuare a credere che al Ruolo Terapeutico si continuino a tramandare cose antiche, non travestimenti nuovi di cose semplicemente vecchie e logore.
Nel redigere queste riflessioni ho in mente anche quello che ha sostenuto Gianni Vattimo, ospite del Forum del Ruolo.
Rispetto alle sue posizioni, sono molto diverse le mie valutazioni sull’essere umano.
Non dico che mie sono giuste e quelle di Vattimo sbagliate, ma che sono diverse si, e che di questa diversità iniziale vi sarà traccia in tutto lo scritto.

In ogni caso, scrivo e sono responsabile anch’io di quello che penso e dico.

A pare mio, porsi il problema dell’etica nel nostro mestiere significa voler abbandonare il relativismo ideale e di valori che oggi viene praticato, nei fatti, da parte di molti professionisti nel nostro mondo delle relazioni d’aiuto e dal più vasto mondo sociale in cui operiamo.

Credo che, quasi tutti noi che svolgiamo questo mestiere, veniamo da esperienze affettive infantili in cui la soggettiva sofferenza patita è stata in gran parte determinata da aspettative di ideali e di valori, allora inconsapevoli, che sono stati grandemente maltrattati da parte delle figure di accudimento e di aiuto che noi amavamo.

Quando c’è questo vissuto interno, esso è un grande ostacolo al pieno dispiegamento della ragione.

I conflitti emotivi hanno un’enorme importanza nel ritardare, quando addirittura nell’impedire, lo sviluppo della capacità di usare la totalità fisico-spirituale di cui siamo fatti.

La sofferenza morale è un fatto umano. Soffrire rientra nell’ordine naturale del nostro essere e la qualità morale della nostra reazione alla sofferenza è determinata principalmente dalla capacità di porci in relazione ad essa come esseri totali.

La conoscenza di come siamo fatti, di come funzioniamo, di come sono i conflitti consci e anche inconsci che ci portiamo nelle nostre relazioni non sono sufficienti per farci stare bene, per avere una buona modalità di vita, per assumere un atteggiamento pratico che ponga la nostra totalità di essere come base di partenza di qualsiasi azione.

Il sapere, compreso il sapere psicoanalitico, non ci dice nulla su come dovremmo vivere.
Saper vivere è qualcosa che dobbiamo necessariamente imparare a fare.

La nostra scelta professionale è largamente intrisa di queste necessità riparatrici, di questa esigenza di ripristinare nelle nostre relazioni quegli ideali e quei valori.

Questa scelta di “cura” è una scelta anche etica.
Quante volte siamo consapevoli di questo?
Nella mia esperienza professionale, di questa scelta etica non c’è sempre grande consapevolezza.

E’ vero, peraltro, che molte volte la formazione professionale che si è avuta ha largamente sottovalutato i temi degli ideali e dei valori.

Anche nel campo della psicoanalisi, a cominciare dallo stesso Freud, il relativismo etico è stato causa non secondaria del mancato progresso rispetto alla conoscenza delle condizioni che permettono alla cura psicoanalitica di funzionare ed ottenere buoni risultati.

Mancando l’approccio etico, c’è un fiorire di leggi, prescrizioni e norme deontologiche che accompagnano dall’esterno la nostra vita professionale.

Queste leggi, prescrizioni e norme spesso si contraddicono l’una con l’altra, mettendo il terapeuta nella posizione poco invidiabile di essere sempre in contraddizione con qualche norma esterna, qualsiasi cosa scelga.

Come affrontare, da terapeuti, queste cose?
Quale etica assumere per se stessi?
Un’etica assoluta o un’etica relativa?
Un’etica fondata sull’autoritarismo emotivo esterno a se stessi oppure fondata sulle proprie caratteristiche intrinseche di essere umano?

A queste domande, fondamentalmente, non siamo abituati.
Ma siamo abituati, naturalmente a dare risposte a tutte le situazioni in cui ci troviamo ad interagire. Quante di queste risposte che diamo sono congruenti col nostro essere etici?

Torniamo al nostro mestiere di terapeuti.

La cura, la terapia è fondata essenzialmente sulla nostra capacità di occupare bene, nel funzionamento, il ruolo che abbiamo, capacità che ha al suo centro la qualità vitale dei nostri atti.

Che cosa ci chiede, essenzialmente, il paziente?

Che noi siamo completamente umani con lui, di aiutarlo ad esprimere meglio le proprie qualità specificamente umane (il desiderio, la speranza, la fede, la ragione, l’amore, la felicità).

Sono qualità tipicamente nostre, in cui crediamo (o dovremmo credere) perché sono queste qualità che fanno la differenza tra un’esistenza felice ed una infelice.

Uso la parola credere, aver fede, ma potrei usare, con la stessa caratteristica etimologica, la parola “fermezza”.

Credo molto nelle fermezza dei propri principi, anche se così si è spesso accusati di essere poco duttili.

Non credo nemmeno che questa fede o credere vada intesa in maniera da confonderla con una specifica religione, anche se può comprenderla.

Conosco anche dei convinti atei che sono fermissimi nei propri principi etici.

Una cosa curiosa.
Nell’Antico Testamento la parola “fede” è usata come “emunah”, che vuol dire anche “fermezza”, per denotare una qualità del carattere, piuttosto che il contenuto di credere in qualche cosa.

Esprimo, spero chiaramente, una prima opzione in questo scritto: nel lavoro terapeutico, credo che siano le nostre qualità umane che determinano il successo o l’insuccesso della cura.

Se questo è vero, primo dovere etico di noi terapeuti è di lavorare con noi stessi in modo da poter diventare completamente umani.

Non sto esagerando.
Dovremmo impegnarci per diventare quello che potenzialmente già siamo, affrontando tutti i limiti che finora impediscono il pieno dispiegamento delle nostre qualità.

E questo non è un passaggio però evitabile nel nostro mestiere.

Se ci pensiamo, è lo stesso passaggio che ci aspettiamo che compia il paziente che è in terapia con noi.

Nell’usare la parola “qualità umane”, intendo riferirmi a quelle qualità che ho accennato prima, non al modo in cui queste qualità possono essere espresse, cioè ai nostri temperamenti personali.

Il temperamento di ognuno di noi è una caratteristica del tutto predeterminata, veniamo al mondo in questo modo.

Seguendo la classificazione ippocratica, possiamo essere collerici, oppure sanguigni, malinconici oppure flemmatici.

Se fossimo di formazione junghiana la classificazione sarebbe ridotta all’osso: introversi o estroversi.

Soggettivamente possiamo trovarci meglio nella relazione con una persona che ha un temperamento estroverso, e avere molte difficoltà nella relazione con una persona che è di temperamento introverso.

Oppure viceversa. Siamo nel regno delle preferenze soggettive.
Comunque non possiamo pretendere da nessuno, a cominciare da noi stessi, alcun cambiamento temperamentale, essendo questa una caratteristica, per quello che ne so, non soggetta a variabili affettive ed ambientali più generali.

Noi terapeuti siamo primariamente responsabili del nostro funzionamento come persone.
Ù
Ed è sulla base di questo concetto di responsabilità che poi affermiamo che l’altro da noi, la persona che ci chiede aiuto, il nostro paziente, si deve prendere anche lui la sua parte di responsabilità nel funzionamento che ha con noi.

Mi pare che il concetto del Ruolo Terapeutico che passa col nome di “fifty-fifty”abbia questo senso.

La responsabilità di se stessi, quindi.

Del senso della vita, perché questo senso non è determinato da nessuno, siamo noi che diamo senso e valore alla nostra vita, e questo senso e valore si esprimono attraverso le capacità che mettiamo in atto.

Del proprio funzionamento umano.

Non è una variabile indipendente partire da se stessi.

Io credo che non possa esistere nessun reale progresso umano, né materiale né spirituale, se non si pone in gioco il proprio valore umano.

E’ attraverso questa conquista della possibilità di dispiegarsi nelle proprie potenzialità che si conquista il senso di quello che si è, del proprio posto nel creato, della propria grandezza e dei propri limiti, della propria universalità e dei propri confini, del nostro essere figli di una storia che noi stessi continuiamo a scrivere attraverso i nostri atteggiamenti e comportamenti con noi stessi e nelle relazioni con gli altri.

In questa conquista non ho in mente nessun tipo di sacrificio di se stessi, nessun tipo di dovere da imporsi.

Personalmente non ho ricordi più dolorosi, nel lavoro clinico, di quando le persone si rendono conto di aver rinunciato alla possibilità di esprimere la propria verità.

La storia clinica con Luisa credo possa esemplificare questa riflessione.

Luisa è arrivata in terapia con un bagaglio interiore di vissuti fallimentari nelle vicende della sua vita affettiva e professionale.
Nasce in una famiglia composta da padre, madre e un fratello.
A sei anni perde il padre, suicida.
Viene collocata dalla madre nella casa della nonna materna, e vi trascorre otto anni in balia di zii e zie incestuose.
A sedici anni la madre la riprende con se, rimproverandola peraltro di qualsiasi tentativo di emancipazione.
A vent’anni si sposa per andarsene via da casa, senza che il matrimonio si riveli sentimentalmente soddisfacente.
Anche le scelte professionali, intraprese come antidoto a questo vuoto interiore, cadono una dietro l’altra e arriva in terapia, a trent’anni, come l’ultima possibilità di dare un senso buono alla sua vita.
Di suicidio parla quasi subito come la soluzione più probabile e possibile per risolvere i suoi mali, ne ha già pensati diversi in altri periodi della sua vita.
Gli incontri settimanali sono molto intensi, io sono molto coinvolto con questa donna che s’impegna per riemergere da una condizione esistenziale di totale annichilimento.
Dopo un anno circa di terapia, svolta spesso con lunghissimi intervalli di assenza perché si mette a letto per mesi, incontra un uomo di cui si innamora, senza essere però ricambiata.
Ritornano fuori tutti i fantasmi precedenti di disperazione e di abbandono, di essere ancora una volta rifiutata.
A paura anche di diventare come sua madre, di aver bisogno di un qualsiasi aiuto da lei, che porta dentro come una figura esclusivamente rifiutante.
Tenta il suicidio con dei farmaci, ma sbaglia la dose e si salva.
Prosegue la terapia con me a singhiozzo, salta innumerevoli sedute.
Nell’ultima che abbiamo mi annuncia che ci riproverà e, alla mia amarezza che le dichiaro per questa soluzione estrema, contrappone che non le è più sufficiente la terapia per vivere, non le è sufficiente un’ora la settimana di apertura se poi il resto del tempo è solo disperazione, paura e abbandono.
Non vuole pesare sulla vecchia madre, a sua volta afflitta da molti mali.
I pochi amici si sono defilati dopo il suo divorzio.
La mia speranza che non ci riprovi si rivela sbagliata. Il suicidio le riesce.
Per anni il dolore di non essere stato in grado di aiutarla a non compiere una rinuncia così radicale alla vita mi ha accompagnato nella professione, mi sono arrovellato per trovare cos’altro avrei potuto fare di meglio nello stare con lei.
Sapevo che poteva finire anche così, ma ho scelto sempre di non ricorrere ad interventi esterni a noi.
Forse capivo la sua scelta, era piena di senso, anche se disperato.
Sentivo il suo sviluppo affettivo ed emotivo calpestato e deriso, un mondo attorno a lei vissuto senza amore e senza ideali di vita, un rapporto terapeutico troppo breve e frammentato per creare profondi investimenti affettivi di vita.
Il risultato è stato il viversi impotenti e quindi carichi di rabbia autodistruttiva, il negarsi a se stessi e agli altri.

Oggi credo che è solo attraverso il lento recupero delle capacità di poter esprimere queste verità interiori, nel lavoro clinico, che possa emergere anche la voglia di potersi sperimentare in modo attivo in altri campi della propria vita, a cominciare dagli affetti e dal lavoro.

Questo potersi sperimentare nelle proprie qualità umane ritengo sia anche il vero antidoto a qualsiasi adattamento passivo, rispetto ai condizionamenti inevitabili che avvengono nelle relazioni che quotidianamente viviamo nella società..

Da millenni le religioni conosciute e le varie filosofie morali hanno tradotto in comandamenti e norme di comportamento quelli che sono gli imperativi etici per ogni essere umano.

Volendo ridurre all’osso questi aspetti, potrei affermare che nei principi fondamentali tutte queste norme affermano le medesime cose, ed in particolare che l’uomo deve vivere nella verità.

Poi questa verità può dispiegarsi in modo diverso a seconda della cultura di appartenenza, ma non è questo il dato essenziale.

L’essenziale è quella verità di se stessi, del proprio aver fede o fermezza nei propri ideali, nel precipitare in uno stato di malattia quando vengono violati questi imperativi etici.

Qual’è il fatto più rilevante oggi?

E’ che da alcune centinaia d’anni, le culture (che oggi potremo tranquillamente identificare con tutto il mondo industrializzato) stanno sostituendo questi comandamenti dello spirito con un approccio più scientifico nelle domande elementari della vita.

E questo ha come conseguenza non solo la mancata risposta a questi quesiti, ma soprattutto una serie di domande che eludono questi temi determinanti per la qualità del nostro esistere.

Inoltre non va sottovalutato che le continue conquiste scientifiche e tecnologiche, invece di essere correttamente intese come invenzioni dell’uomo al servizio dell’uomo, hanno spesso assunto l’aurea di una nuova teologia, scardinando norme e valori che hanno guidato gli esseri umani nelle loro condotte etiche.

Gli effetti di questi nuovi modelli sono evidenti: mai come oggi gli esseri umani adulti sono rimasti dipendenti, impauriti, incapaci di autosostenersi, soli.

La consapevolezza dell’importanza di essere protagonisti attivi della propria vita, anche nel dolore e nella sconfitta, mi è nata tanti anni fa, in una fase della mia vita in cui facevo il sindacalista.

Ricordo l’episodio: sono a Palermo, nel quartiere dell’Acquasanta.
E’ una delle tante borgate in cui la speculazione edilizia impera, io rappresento un sindacato che tutela gli inquilini che abitano in quelle case, che devono essere demolite per lasciare il posto ai moderni palazzi della speculazione mafiosa.
Il progetto edilizio prevede, naturalmente, che la gran parte dell’allora popolazione, composta prevalentemente di operai dei cantieri navali e di anziani, venga espulsa dal quartiere e deportata nei quartieri periferici del CEP o di Brancaccio.
E’ un progetto omicida, urbanisticamente e socialmente, soprattutto per quello rivolto alla popolazione anziana, popolazione che vorrebbe continuare a trascorrere gli ultimi anni della propria vita negli ambienti dove sono nati e cresciuti.
Insieme a questa popolazione ci si batte perché venga evitata questa deportazione in questi anonimi (e già semidegradati) palazzi della periferia palermitana.
Cortei per le vie della città, blocchi stradali, solidarietà diffusa anche in altri ambienti sociali di Palermo.
Il sindaco non gradisce, ma non può impedire la protesta.
Mesi di mobilitazione che non producono però nessun ripensamento delle autorità locali.
Da questo punto di vista la battaglia è persa.
Tutti gli anziani dovranno andarsene.
Ed è allora che molti di questi anziani, che hanno fatto le manifestazioni e i presidi, che sono venuti ai cortei dal sindaco, danno una magistrale lezione di cosa ha significato per loro lottare per la propria dignità.
Avendo appreso la forza dell’organizzarsi, coinvolgono parenti lontani, danno fondo a tutti i loro risparmi e si costituiscono in cooperativa per comprarsi pezzi di terreni nel quartiere su cui ricostruire le proprie case.
Ho vivido il ricordo di una vecchietta che mi abbraccia, contenta.
Andato via dalla Sicilia non ho più seguito quella storia, ma è quella storia che mi ha insegnato che l’unico fallimento morale nella vita è rinunciare ad esprimersi, e quella vecchietta che non rinuncia ad esprimere la sua speranza è l’esempio della fede nella verità di se stessi.

Lo stato esistenziale di sottomissione ad autorità anonime e impersonali, come può essere chiamata autorità anonima e impersonale quella che stabilisce che si è esseri umani riconosciuti solo se si ha successo e si ha un lavoro ben remunerato o di prestigio sociale, provoca danni moralmente e culturalmente molto gravi.

Oggi il potere effettivo è esercitato, prevalentemente, da qualcuno su qualcuno o qualcosa.

Senza questo esercizio di potere non c’è riconoscimento sociale.

Le leggi di mercato, anch’esse sempre più impersonali, canalizzano le energie umane per diventare sempre più persone di potere su qualcuno, condizione indispensabile per il riconoscimento sociale.

Esprimo una seconda opzione: nel lavoro terapeutico è necessario rinunciare a qualsiasi potere su qualcuno e attivare la capacità e il potere di essere qualcuno.

E’ questo un altro principio fondamentale nella teorizzazione de Il Ruolo Terapeutico.

Sergio Erba, nel suo libro “Domanda e risposta”, esplicita con molta chiarezza questa posizione etica.

Da parte mia credo che questo potere di essere qualcuno sia la condizione indispensabile per il pieno dispiegamento delle proprie capacità umane.

E’ questo “potere di essere” che funziona nel rapporto terapeutico, che attiva le energie imbrigliate nei conflitti e consente al terapeuta di interrogare la domanda del paziente e consente poi al paziente di scoprirsi per quello che è.

Scoprirsi per quello che si è, niente di più.

Ed è a quel punto che vengono pronte tutte le condizioni ideali per dare sempre più senso alla propria vita, a posizionarsi nel mondo attorno e a fare la propria parte nel creato.

Nulla di più. Ma neanche nulla di meno.

Anche se sono convinto che non ci si riuscirà a realizzare mai completamente, perché non si può vivere fisicamente il tempo necessario per esaudire tutti i desideri, l’impresa merita tutta la consapevole partecipazione.

Sono convinto che siamo nati per diventare pienamente umani, e che è un compito vitale provarci.

Certo, bisogna crederci, aver fede, avere fermezza in se stessi.

Anche perché così provando si esce dall’impotenza.

Uscire da questo male ponendo se stessi al servizio del sentimento di giustizia interno, sentimento che abbiamo già come caratteristica intrinseca della nostra esistenza, ma che le vicissitudini della vita, i nostri limiti cognitivi, affettivi, ambientali ci hanno procurato.

Essere giusti con se stessi, e quindi con l’altro da noi, che è potenzialmente come noi
Non è amore, mi rendo conto, è qualcosa che in qualche modo, nel comprenderlo, lo oltrepassa, perché non esclude nessuno, mentre amare è necessariamente dare qualcosa di se a qualcuno escludendone altri.

C’è una giustizia anche nella sofferenza.

La più grande sofferenza credo che cominci quando percepiamo che l’altro vuole dominarci nel rapporto che ha con noi.

La storia del dominio dell’uomo sull’uomo è alla radice del male contemporaneo.

La terapia servirà per sviluppare la forza interiore che l’essere umano possiede.

La conclusione di questo sforzo può essere mirabilmente riassunta nei versi di Veronica Shoffstall.

“Dopo un po’”

Dopo un po’ impari la sottile differenza
tra tenere una mano e incatenare un’anima.
E impari che l’amore non è appoggiarsi a qualcuno
e la compagnia non è sicurezza.

E inizi a imparare che i baci non sono contratti
e i doni non sono promesse.
E cominci ad accettare le tue sconfitte a testa alta
con gli occhi aperti con la grazia di un adulto,
non con il dolore di un bimbo.

E impari a costruire tutte le tue strade oggi,
perché il terreno di domani è troppo
incerto per fare piani.

Dopo un po’ impari che il sole scotta
se ne prendi troppo.
Perciò pianti il tuo giardino e decori la tua anima,
invece di aspettare che qualcuno ti porti i fiori.

E impari che puoi davvero sopportare,
che sei davvero forte,
e che vali davvero.

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