Sulla formazione a Scuola

18 maggio 2016

E’ tempo di riprendere, si spera in numerosa compagnia, il dibattito epistemolare sulla formazione alla Scuola di Formazione al Ruolo Terapeutico.

D’altra parte questo diventa ancora più importante dopo la scomparsa di Sergio Erba, che tanto a dato a tutti noi docenti della Scuola nel delineare un metodo formativo coerente, pur in presenza di tanti approcci teorici che spesso dicono cose diverse tra di noi, pur accumunandoci in un metodo sostanzialmente simile nelle finalità di fondo.

Il recente contributo di Domenico Marcolini mi offre lo spunto per inserirmi in questo dibattito.

Non sono per niente sicuro di aver compreso tutte le argomentazioni che Domenico porta nel suo scritto. Alcune pagine mi suonano chiare e condivisibili (i tre livelli di responsabilità nel fare il conduttore di un gruppo di formazione, al esempio) mentre altri temo di averci capito poco, o forse li ho addirittura fraintesi (la frase di Jean Luc Godard, che non farei mai mia!)- il “ conosciuto non pensato” di Bollas, che sento più attinente ad un rapporto terapeutico con pazienti di difficili capacità relazionali, cosa che non dovrebbero essere allievi).

In generale l’articolo passa spesso dal lavoro di formazione con gli allievi, che è un incontro tra terapeuti in formazione e un conduttore, il quale ha il compito precipuo di introdurre nel materiale che emerge quelli che sono gli aspetti strutturali del mestiere, al lavoro clinico con i pazienti, che è un incontro tra un terapeuta e un paziente in cerca di salute.

Io credo che siano posti differenti, dove avvengono cose differenti e con risultati che non possono che essere differenti.

Termini come supervisore, insegnante, controtranfert, diagnosi da un pò di tempo li avverto distanti dal mio modo di concettualizzare il mestiere di Docente.

E’ una lontananza emotiva, in particolare.

In una seduta di formazione, dal mio ruolo di conduttore pongo in evidenza qualche cosa che il presentatore del caso fa fatica a far emergere. La scelta che compio è sicuramente arbitraria, io stesso in altro momento potrei porre un altro tema che sento rilevante in quell’altro momento, e un altro collega metterebbe in evidenza un altro tema ancora che ritiene funzionale al suo ruolo di conduttore. Chi può dare patenti di verità? Probabilmente sono vere tutte le posizioni, purché si rispetti il principio del metodo rispetto alla finalità, che è sempre quello di consentire ai giovani colleghi di comprendere meglio le loro difficoltà di fronte al un paziente..

Il contributo di Domenico ha una chiara e coerente impostazione gruppo- analitica. Cosa che va benissimo, purché venga esplicitata con coerenza, cosa che dal resto lui cerca di fare nel suo scritto.

Per conto mio, rivendico un’altra impostazione. Quest’altra impostazione è già stata scritta e concettualizzata nel libro “Psicoterapia: un pensiero, un metodo, una pratica”, libro scritto dal sottoscritto con Sergio Erba, Elena Semola e Carmelo di Prima.

A pagina 51 di quel libro noi abbiamo scritto:

“ I gruppi di discussione dei casi clinici della Scuola sono terapeutici o formativi? Sono, ovviamente, sia terapeutici che formativi, nel senso che la natura del processo personale è la stessa. Potremmo dire, per rispetto della forma, che la formazione è la terapia dei terapeuti, e che la terapia è la terapia dei pazienti. Un altro dilemma, all’interno di questo tormentone: fermarsi o no, quando in un gruppo di formazione il presentatore del caso apre a problematiche personali?

Una scuola di pensiero dice che le difficoltà personali del terapeuta andrebbero affrontate all’interno di una terapia personale. Un’altra sostiene il contrario. La nostra esperienza ci dice, ne abbiamo già accennato, che grazie alla “potenza” della situazione gruppale accade a molti di venire in contatto con parti di sè ferite e dolenti rimaste del tutto silenti in anni e anni di analisi individuali. E poi, è il singolo allievo, in libertà e responsabilità a determinare il grado della sua “apertura”. Quando queste aperture si presentano, il conduttore si accerta preliminarmente della disponibilità dell’allievo a soffermarsi su questi aspetti personali. Nella maggioranza dei casi la disponibilità è confermata. Il fatto che talvolta essa sia rifiutata ci sembra una conferma della bontà del metodo. C’è poi da considerare che anche i conduttori, secondo la loro filosofia e la loro indole, hanno la loro parte nel favorire o scoraggiare queste aperture.

 Auto o etero centrati? Sono inevitabilmente entrambe le cose: sono etero centrati, perché il lavoro in gruppo inizia con la presentazione di un caso clinico, che rappresenta appunto un oggetto che entra “da fuori”. Sono autocentrati, perché il prosieguo del lavoro verte prevalentemente sulle caratteristiche relazionali del terapeuta, tutti aspetti che si manifestano “dentro” l’immediatezza e l’attualità della situazione gruppale.

In gruppo o di gruppo? Alcuni docenti della Scuola seguono la teoria gruppo-analitica, secondo la quale all’interno dei singoli soggetti “agirebbero” i vari personaggi della loro storia familiare. Tali personaggi prenderebbero corpo e voce nei vari componenti del gruppo. Il gruppo verrebbe così a configurarsi come un’entità individuale sovra personale, una cassa di risonanza che raccoglie e amplifica, sulla scena gruppale, i vari personaggi del mondo interno dei singoli.

Altri, noi tra questi, preferiscono la locuzione “in gruppo”, visto come il contesto dove i processi terapeutici personali delle singole persone sono stimolati e facilitati dalla fitta trama di relazionalità che si sviluppa tra tutti i componenti (conduttore compreso).

 Un’esemplificazione di quello che faccio lo traggo da questa situazione formativa. Una collega presenta una situazione clinica con una sua paziente con la quale ha una certa difficoltà ad applicare un setting sicuro e stabile per lavorare senza ambasce. Propone una cosa, poi la paziente aggira l’accordo, la collega fa finta di niente, e così via. Avevamo, sempre in gruppo, trattato in un precedente incontro il problema, ed allora la collega aveva colta l’importanza di stabilire un setting di lavoro sicuro per tutti e due, paziente e analista, e lavorare eventualmente sugli scarti che si fossero verificati rispetto al setting stesso concordato.

Dopo l’esposizione del caso, chiedo alla collega cosa le rende difficile lavorare con la paziente sul mancato rispetto del setting concordato. La collega abbozza delle risposte tutte centrate su quello che fa la sua paziente. Altri membri del gruppo saltano su quel carro e si avvia un movimento tutto rivolto a quello che fa la paziente, perché lo fa, presumibilmente, ecc.

Nessuno vuole affrontare la domanda che ho posto.

A quel punto decido che posso far vedere alla mia collega, presentatrice del caso, cosa farei io se fossi alle prese con una paziente così come l’ha presentata. Ho ribadito che aspettavo una risposta alla domanda che avevo posto, e senza una sua risposta a quello che avevo chiesto non aveva senso avventurarsi in altri argomenti, magari importanti, ma che esulavano la mia domanda: “Cosa ci stà chiedendo?”

Tutto l’incontro è andato avanti così, con il resto del gruppo che ha accolto, sia pure con difficoltà in qualcuno, ad aspettare una qualche apertura della collega che presentava il caso. La seduta è finita così, con una specie di sospensione e un sospiro di sollievo della collega.

Giorni dopo, incontrandoci casualmente, la collega che aveva portato il caso mi ha detto che era stata malissimo, ma mi ha anche ringraziato perché aveva capito, finalmente, qualche motivo delle sue resistenze a mettere in atto quello che pure riteneva giusto.

Ho fatto un buon lavoro? Spero di sì, però in un altro momento avrei potuto cogliere un altro aspetto dei tanti che la collega aveva portato e il lavoro in gruppo sarebbe stato diverso.

E’ un esempio, e come me altri ne avrebbero tanti altri.

Quello che mi pare importante è continuare a scambiare le esperienze e le riflessioni. Non avendo più la figura del “padre” Erba che ci sollecitava a una discussione che partisse dalle nostre esperienze, tocca a noi oltrepassare l’adolescenza e imparare ad essere grandi.

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