Lucia

E’ una storia clinica iniziata agli esordi della mia attività professionale e proseguita, con varie evoluzioni e protagonisti, a tutt’oggi. Vengono riportati alcuni accadimenti e scambi significativi avvenuti in questi anni, le evoluzioni e le ripetizioni che le storie ripropongono ciclicamente. nel destino di un terapeuta c’è anche quello di diventare una figura di riferimento stabile nel funzionamento relazionale dei propri pazienti. Questo, almeno, finché il terapeuta riesce a mantenersi nella posizione di attendere sempre la domanda dei pazienti prima di ogni movimento.

Sono le 21.30. Sono da tre ore in questa stanza della scuola dove ricevo studenti e professori che vogliono parlare con me. Una stanza grandissima che non viene più utilizzata per le lezioni da chissà quanti anni. Situata all’ultimo piano, chi arriva qui deve proprio volerci venire. Oggi si è presentata una docente all’inizio del servizio, è stata una mezzora a raccontarmi di come si senta male quando deve entrare in una certa classe. Siccome fa così dall’inizio dell’anno non so più nemmeno cosa dirle, né mi pare che lei ascolti niente delle poche domande che sono riuscito a farle.
Dopo lo sfogo se ne va tranquilla e durante l’intervallo, che trascorro al bar per farmi vedere dagli studenti, mi lancia grandi sorrisi di soddisfazione. Mi pare di non dover fare niente di più.
Penso alla cena che farò una volta arrivato a casa, ho una fame terribile. Vedo già sognante tre uova con la cipolla che friggono quando vengo disturbato da un bussare alla porta e un “Posso?”. Alzo gli occhi e vedo una donna sull’uscio.
“Prego” le dico alzandomi per chiudere la porta una volta che è entrata e si è seduta davanti alla mia scrivania.
Non l’ho mai vista finora e penso che sia la madre di qualche allievo della scuola. Dimostra circa la mia età. La voce è tonante e la corporatura più che robusta.
“Mi sono iscritta alla scuola serale per prendermi un diploma, sono stufa di fare la cuoca. In questi mesi di scuola però mi stanco moltissimo, quasi dormo quando arriva quest’ora, mi viene voglia di abbandonare tutto…”.
La mia impressione iniziale si è già dileguata. Con un cenno del viso le rimando che la capisco.
Si lascia andare sulla sedia e inizia un racconto molto confuso sulla sua vita. Ha un tono concitato, a volte rabbioso. La mia fame se né andata mentre sono proteso a seguire il racconto di Lucia, così mi ha detto di chiamarsi.
Sembra un fiume in piena. Si sente la campana delle 22,30.
“Caspita, è già passata un’ora”, dice.
“Già”, le rimando.
“Ci rivediamo ancora”, mi dice congedandosi.

Nei mesi successivi Lucia si rifà viva almeno una volta al mese. Non prenota mai gli incontri e capita che alcune volte non riesca a incontrarmi perché nell’ora in cui si presenta sono occupato.
In uno degli spazi di orario che lascio per prendere appuntamenti futuri si mostra molto risentita di questo fatto.
“Se Lei non me lo chiede prima come faccio a sapere che vuole vedermi?”, le rimando.
Da quel momento, e per tutto l’anno scolastico, ho l’ultima ora occupata con lei.

Negli incontri che abbiamo nei mesi successivi racconta con più calma le sue difficoltà di vita.
Da una decina di anni si trova a gestire due figli adolescenti senza il marito, da cui si è separata, svolgendo il lavoro di cuoca in un grosso ente pubblico. Per arrotondare lo stipendio il fine settimana fa anche l’imbianchina. La madre vive in un paese sull’adriatico e non le è di nessun aiuto pratico. Qui a Milano ha una sorella più grande che non frequenta e un fratello più piccolo, che abita nell’appartamento sopra il suo, che è spesso all’estero per lavoro. In pratica si sente sola e isolata dalla famiglia di origine.
Non sono granché nemmeno le sue relazioni col resto del mondo, essendo troppo impegnata a mantenere la famiglia. L’unico svago che si concede è la lettura e spera che il possesso di un diploma le consenta di avere più tempo per se.
Arriva ai nostri incontri sempre in ritardo, lamentando continuamente di non riuscire a studiare in queste condizioni di vita.
Io mi trovo con uno stato d’animo sempre partecipe, ma anche con la frustrazione di non avere nessun ascolto sulle poche cose che le chiedo. Col passare del tempo mi rassegno a starmene tranquillo perché mi pare che meno parlo e più lei si apre ai suoi stati d’animo.
Certo che l’orario è micidiale e la mia stanchezza raggiunge culmini inenarrabili. Non sono sicuro di ricordare bene, ma credo anche di essermi addormentato qualche volta.

L’anno scolastico finisce, e così il mio impegna con la scuola.

Lucia è tra le pochissime persone che mi chiedono di potermi incontrare nel mio studio privato. Non senza sorpresa su questa domanda le dico di si. Sono all’inizio del mio lavoro privato e mi va bene tutto quello che mi consente di avere pazienti senza dover chiedere invii ad altri colleghi.
Le mie proposte di un setting stabile vengono brillantemente disattese. Dopo alcuni mesi di regolari incontri settimanali mi chiede di potermi vedere solo se lei ne sente la necessità. Acconsento, anche perché trovo la richiesta di buon senso. Così salta interi mesi senza farsi sentire, e quando richiede un appuntamento è raro che resista in seduta più di un mese di fila.
Accolgo ogni richiesta con mille dubbi sull’utilità di quello che succede. Comunque mi ricontatta e torna ogni tanto. Evidentemente qualcosa di misterioso accade nei nostri incontri.

Improvvisamente scompare per un paio d’anni. Quando si rifà viva accetta di vederci con più regolarità. Ha cambiato lavoro e ha smesso di andare a scuola, impresa che per lei si è rivelata impossibile da onorare. Si sta comprando un chiosco dove si vendono panini e bibite la sera. Questo le consente non solo di guadagnare molto più di prima, ma anche di occuparsi meglio dei figli.
Affettivamente è sempre sola, ogni tanto sogna una storia d’amore, ma è lucidamente consapevole che non è fisicamente una donna alla moda. Pesa 120 Kg, veste in modo trasandato e incute un timore reverenziale con la sua voce tonante.
“Sono proprio felice di vederla”, mi dice con la voce più calma che le viene.
A me pare che tremino persino i muri della stanza.
“Anche’io sono contento di vederla. Come sta?”
“Se sapesse! Adesso ci si è messo anche mio fratello a complicarmi l’esistenza. Si è sposato con una zoccola romena, hanno fatto una bambina che adesso me la devo curare io perché la madre è sempre fuori la sera a ubriacarsi. Dice che sente nostalgia di casa! Intanto non capisco perché non la butta fuori di casa”. Racconta una lunghissima storia attorno alla nipotina da accudire e al fratello che non fa il suo dovere di padre. Dopo un paio di settimane capisco che così ricominciamo l’andazzo degli anni precedenti, cosa che mi voglio evitare il più possibile.
“Cosa ne dice di portare qui suo fratello?”, le propongo al termine di una seduta terribile, in cui praticamente non ho fatto altro che ascoltare i suoi lamenti.
“Ci penso, ma figuriamoci se quel bastardo viene”, mi risponde.
La settimana successiva è seduta davanti a me col fratello Oreste di fianco.

Per lunghi mesi i due si scontrano vivacemente sulla necessità o meno di chiamare i servizi sociali che si occupino della moglie di lui, di farsi affidare in esclusiva la bambina e sulle strategie da adottare per l’occasione. Io me ne sto abbastanza tranquillo al mio posto, dirigo un poco il traffico e intervengo quasi sempre solo per segnalare qualcosa che non si è capito. Pongo soprattutto l’accento sulla necessità che parli uno alla volta.
“ Lucia, se lei continua a saltare addosso a suo fratello in questo modo, come pretende poi che lui rimanga calmo?”, le chiedo con sempre maggiore convinzione.
“Certo”, risponde lei, per ricominciare cinque minuti dopo come prima.
“Lucia!”, le dico in tono più deciso. Allora si placa.

Dopo un paio di mesi in questo modo Oreste mi chiede di potermi incontrare anche da solo. Lo accontento, così come a Lucia, che non vuole perdere le sedute individuali.
Oreste si presenta come un figlio molto deprivato dalla figura paterna, che ha conosciuto per pochi anni. Ha imparato ad arrangiarsi nella vita, è scappato da una madre ossessionata dalla mancanza di denaro, e non sa come gestire questa situazione della moglie, che si è rivelata matta, e di questa figlia, Cristina, che ormai ha due anni.

Il rispetto del setting per Oreste è ancora più difficile che per la sorella. Arriva quasi sempre con mezzora di ritardo.
“Sono stato trattenuto da un impegno di lavoro”, è il suo motto ordinario. Sia pure per un quarto d’ora viene e paga senza storie anche le sedute che salta.
“Devo pagare dazio?” mi chiedeva all’inizio. Io allargavo le mani e con un sorriso tirava fuori il portafoglio.
Con Oreste queste sedute scarne mi lasciavano piuttosto tranquillo. Era un tipo chiusissimo, che raccontava quasi niente dei suoi stati d’animo. Capace di silenzi lunghissimi, raccontava solo dei suoi viaggi di lavoro, almeno lui li chiamava così. Non ho mai capito veramente in che cosa consistessero, visto che passava con noncuranza dal commercio di barche di lusso col Medio Oriente all’importazione di artigianato dall’Europa centrale.

Chiuse i nostri incontri quando si separò dalla moglie e ottenne l’affidamento della figlia, che lasciò in custodia a Lucia per allevarla.

Intanto Lucia continuava le sue sedute individuali. Era diventata più regolare negli orari, si lasciava andare anche a qualche emozione attorno ai suoi sentimenti. Ma ogni mio tentativo di rinviare a noi due quello che provava non trovava nessuna risposta.

“Stamane sono rientrata a casa alle otto dal chiosco. C’era Cristina che dormiva ancora. Mi sono seduta vicino al letto e mi è venuto da piangere. Ho pianto almeno mezzora così, guardandola addormentata. Non è giusto, non è giusto quello che le è accaduto”.
Io la ascoltavo comprensivo di questo stato d’animo. Ma il più delle volte portava la fatica di reggere il carico di lavoro che si era assunto. Il chiosco che aveva veniva frequentato la sera da persone non sempre tranquille. Capitava anche qualche rissa tra ubriachi.
Era anche attenta alle mie reazioni. Una volta mi chiese se ero stanco di ascoltarla.
“Non sono stanco di ascoltarla, mi stufo quando non mi ascolta lei”, le risposi. Mi guardò con sorpresa, alzò le spalle e ricominciò a fare come prima. Lunghi monologhi.

Dopo circa tre anni interrompe gli incontri. Si sente in grado di andare avanti da sola.

Si rifà viva molti anni dopo. Sta vivendo una storia sentimentale con un uomo molto più grande di lei e non è sicura di fare una cosa giusta perché lei ha due figli e il suo spasimante invece è uno scapolo che non vuole sentir parlare di mettere famiglia.
I suoi figli, quando conoscono la storia della madre, non dimostrano nessun entusiasmo per quest’uomo e lei lascia perdere.
Emerge sempre più anche la difficoltà di un buon rapporto coi figli.
“Ormai sono anni che non riesco più a parlare con loro. Io lavoro la sera e la notte e loro escono da casa quando rientro io.”
Propongo l’idea di vederci tutti insieme e lei l’accoglie. Inizia una serie di incontri con la presenza nella stanza, oltre Lucia, anche di Francesca e Roberto.
I due figli manifestano apertamente la soddisfazione di poter parlare alla madre in modo aperto. Particolarmente Roberto è il più deciso a esprimere alla madre la sua necessità di uscire di casa e farsi una vita propria, crearsi un lavoro lontano dalla famiglia di origine. Esprime le sue opinioni in tono sempre calmo e posato, cosa che la madre appezza molto.
Francesca è una ragazza molto insicura. A lei manca molto una guida maschile ed esprime il rammarico di non frequentare il padre, pur riconoscendo che è quest’ultimo a non aver più cercato i figli.
“E’ un fascista, un bastardo”, grida Lucia quando parla dell’ex marito.
Lucia si lancia in lunghe confessioni sulla propria capacità genitoriale, colpevolizzandosi di non aver potuto dar loro un padre presente.
Roberto minimizza l’importanza del problema, negando che la cosa rappresenti per lui un problema
Io ho svolto il mio lavoro con l’orecchio attento alle varie esigenze di esprimere gli stati d’animo. Mi limitavo a interventi tesi a far emergere con più chiarezza le varie questioni che venivano portate. Erano sedute vivaci, Lucia non trascurava gli stati d’animo dei figli, chiedeva continuamente cosa provavano ad ogni loro questione.
Siamo andati avanti così per circa un anno, quando Francesca avanza una richiesta di venire in seduta da sola. Lucia manifesta la sua adesione e si ritira dalle sedute insieme a Roberto, dichiarandosi soddisfatti di quanto è stato fatto finora.
Gli incontri individuali con Francesca si rivelano presto difficili per me. E’ capace di lunghissimi silenzi, mi guarda con occhi pieni alternativamente di rancore e di affetto. Ma non esprime mai verbalmente ciò che prova. Ogni tanto si lascia andare a lunghi pianti strazianti che mi stringono il cuore. Sono sedute faticosissime anche per lei, come mi testimonia nelle sedute successive in cui mi dice, appena entrata, che “l’altra seduta è stata terribile, sono uscita da qui distrutta”. Ogni mio tentativo di capire cosa ho fatto per farla così stancare non pare mi veda protagonista.
“Non è lei che mi fa qualcosa, sono io che non ce la faccio a ricordare certe cose senza soffrire”.
Io le dichiaro tutta la mia comprensione per i suoi stati d’animo, ma sono attento a cogliere attentamente come mi muovo con lei. Ho sempre la sensazione che mi investa di tante aspettative.

Verso la fine del primo anno di terapia riprese a cantare, attività che le piaceva moltissimo e sulla quale aveva investito lunghi anni di preparazione. Non ottenne molta notorietà, tuttavia si conquistò un posto “di nicchia”, così lo definiva, nell’ambiente canoro.
Molto precarie si rivelarono le sue scelte sentimentali, subendo una serie di abbandoni da parte dei suoi fidanzati di turno che la portavano ogni volta in uno stato di profonda frustrazione.
Si arrabbiava moltissimo, a differenza dell’inizio della terapia, e questo le consentiva di riprovarci dopo pochi mesi.

Io ho partecipato molto silenziosamente durante tutto questo periodo. Ritenevo sufficiente la mia presenza partecipe. Ma sono stato spesso assalito dal dubbio se quella sofferenza l’avrei retta.

Dopo un anno e mezzo di terapia anche Francesca interruppe. Erano subentrati altri impegni e sentiva di doversi fermare .

Per circa cinque anni sono spariti tutti i membri della famiglia. Si rifà viva Lucia, in un inverno gelido che ricordo ancora.
“Buongiorno dottore, indovini chi sono”, mi disse. La sua voce era diventata anche rauca, oltre che tonante.
Le risposi allegramente “Buongiorno Lucia, come sta?”
“Caspita che memoria! Pensavo che non mi avrebbe riconosciuta. Quando può fissarmi un appuntamento?”.
Sono così ricominciati gli incontri. Prima solo con lei, poi sono entrati Roberto e Francesca per un sei mesi, ai primi di settembre mi ha portato in seduta anche la vecchia madre di ottant’anni e la giovane nipote di 17 anni. Ha fatto una fugace apparizione anche il fratello Oreste, preoccupato da alcuni comportamenti rischiosi della figlia adolescente.
Attualmente sono rimasti con due sedute individuali Lucia e Francesca.

Che morale trarre da questi diciotto anni di incontri? Mi pare di poterli vedere da molteplici angolazioni.

Innanzitutto la mia parte. Da subito credo di aver fatto bene ad accogliere Lucia con le sue varie richieste di iniziare e di interrompere. Sono stato molto in dubbio se quello che facevo fosse “terapeutico”, nel senso che accogliere queste domande portasse a una maggior consapevolezza Lucia delle sue sofferenze emotive. Mi confortavano i momenti delle sedute e il suo tirare in ballo anche le persone che aveva vicino e che la facevano soffrire.

I pochi scambi in supervisione dove ho portato questa situazione mi hanno aiutato poco, sia per una mia timidezza nel presentare la portata complessiva di quello che facevo, mi sentivo abbastanza eretico ad accogliere così la domanda, sia perché tutta la teoria che doveva sorreggere questo mio fare non deponeva certo a mio favore, anzi.

“Devi interrogare la domanda” era il rimando più generale che mi arrivava anche dai più autorevoli colleghi quando ero ancora un allievo della Scuola. Una mia precisa responsabilità è stata anche l’averne parlato poco in supervisione quando sono entrato a far parte dei terapeuti del Centro Clinico. Temendo il giudizio dei colleghi e di Erba in particolare, che ne era il supervisore, mi sono tenuto dentro tante rogne che avrei più facilmente sbrogliato se mi fossi aperto.

Col tempo mi sono comunque convinto che quella che ho accolto è sempre stata una domanda d’aiuto, sia pure espressa nelle forme particolari legate alla storia di Lucia e dei suoi familiari.
Anzi, la storia con Lucia mi ha consentito di misurarmi in modo più largo col termine “domanda”.
Oggi considero domandante qualsiasi persona che chiede di sedersi di fronte a me e che parla liberamente delle cose che prova. Lucia è certamente ancora lontanissima dal formulare chiaramente una risposta alla domanda classica “Per quale problema chiese l’analisi?”. Lucia non mi ricordo che abbia mai pronunciato la parola analisi, ne io l’ho fatto con lei.

Devo dire che il fatto che non faccia questa domanda mi lascia abbastanza libero di interrogarla su tutto il resto che mi porta. E’ vero che spesso quel poco che dico passa apparentemente sotto silenzio, ma poi il suo venire e portarmi tutti gli affetti che la riguardano vorrà pur dire qualcosa.

Col tempo mi accorgo di accogliere con molta naturalezza ingressi a due, a tre, in coppia, grandi e piccoli con la stessa disponibilità d’animo e di non pormi nessun problema prima che siano loro a tirar fuori quello che li fa soffrire.

Sono diciotto anni con Lucia e la sua famiglia e non so davvero come possa finire. Mi sento “adottato” come terapeuta della famiglia, come ha detto Lucia al fratello Oreste quando l’ha riportato ultimamente in seduta.”Ti ricordi del dott. Serra, il terapeuta di casa nostra?”.

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