Seminario con gli allievi della Scuola del Ruolo Terapeutico di venerdì 19 maggio 2009

S: Spero che sia arrivato a tutti lo scritto per questa sera, che poi non è altro che la relazione che è toccata a me quest’anno in Grecia (vedi La responsabilità del terapeuta<), quindi, per alcuni di voi è una ripetizione, la conosce già perché l’ha già sentita, ma per la stragrande maggioranza di voi è sicuramente un lavoro fino adesso ignoto. Allora mi aspetto domande, osservazioni, contestazioni, tutto quello che volete. Cerchiamo di mantenerci vivi e vegeti per un’ora e mezza ancora. Un minimo di premessa che voglio fare è questa: quest’anno in Grecia si discuteva sulla teoria clinica del Ruolo, questo era il titolo, e all’interno di questo titolo il capitolo principale “Libertà e responsabilità del terapeuta” erano le premesse, si può dire, e l’importante lavoro era su quelle due premesse in particolare, anche se quelle due premesse non contenevano, almeno nei casi clinici di cui ho scritto, tutte le altre questioni che girano attorno alla teoria clinica del Ruolo. A (1): Questo suo lavoro molto ricco e infatti l’abbiamo letto, trattato e discusso anche in Grecia sicuramente non quanto, in ogni caso, merita in diversi punti. Io sono ancora un po’ ferma al lavoro precedente col dott. Bassi, in cui ha analizzato il caso dell’ uomo dei lupi di Freud e abbiamo concluso l’incontro senza poterci scambiare, praticamente, delle opinioni. Quello che è emerso era lo studio da parte di Freud, in quella che è la sua teoria clinica, quella che viene proposta, però forse anche con un, seppur parziale, distacco dei pazienti, in quanto per quello che ci ha sottolineato Bassi c’era in Freud soprattutto l’intento di vedere come le situazioni cliniche dei pazienti, potessero confermare la sua teoria. Lui non si curava, quindi, della salute dei suoi pazienti. Lei, invece, nell’ultima pagina del suo lavoro scrive: “Come persone che hanno fatto la scelta di prendersi cura di altre persone noi siamo primariamente responsabili del nostro funzionamento con noi stessi e con gli altri”. Ecco, mi viene da chiederle, però forse vado un po’ troppo sul piano del personale, come può essere in quello che lei ha vissuto personalmente o in generale, quali connotazioni le sembra possa avere la scelta di prendersi cura di altre persone. Per la vita, poi, di chi si prende cura, cioè cosa significa fare questo mestiere. E’ un mestiere diverso dagli altri, gli altri sono diversi da questo… S: E’ una domanda che, per me almeno, ha due risposte. Abbia pazienza, quindi, perché dovrò articolarla in questo modo. Non so cosa abbia detto Fabiano Bassi, ma posso immaginarlo conoscendo lui. L’uomo dei lupi, l’uomo dei topi, sono casi talmente noti, talmente discussi, riproposti nella letteratura psicoanalitica da cent’anni a questa parte, che a me personalmente non dicono più niente di nuovo, ma non perché non siano stati casi importanti ma perché per l’ennesima volta sembra che noi, per parlare di clinica, abbiamo bisogno di rifarci ancora a Freud. Questo per me è molto pericoloso, perché se per parlare di clinica dobbiamo risalire agli albori del nostro mestiere su cui è stata costruita la metapsicologia psicoanalitica, forse noi nel corso di questi decenni non abbiamo studiato a sufficienza quello che facciamo. Freud ha fondato queste cose cercando di costruire una diversa psicologia. Lui, delle persone in quanto tali, come hanno dimostrato successivi ricercatori, non era granché interessato, non gli importava molto del loro benessere. A lui interessava come funzionavano, quindi, ha fondato tutta questa cosa partendo dalla clinica che faceva ma senza che ci fossero aspetti trasformativi delle persone. E’ una scelta. Ancora oggi non credo che sia la stessa cosa fare il ricercatore piuttosto che fare il clinico, fare ipotesi teoriche  piuttosto che mettersi sul campo con un paziente sono metodologie diverse, avranno sicuramente risultati diversi. Non dico che una sia giusta e l’altra sbagliata, sono semplicemente diverse. Noi abbiamo scelto la clinica. Presumo, per esempio, che chi sceglie di fare una Scuola di Psicoterapia lo faccia perché vuole fare il clinico, non il ricercatore. Se vuole fare il ricercatore va a farlo in una maniera diversa, in un altro posto, con strumenti diversi da quelli che può trovare in una Scuola di Psicoterapia. Il clinico è  (o dovrebbe essere) primariamente interessato a un benessere, chiamiamolo benessere relazionale. L’evidenza clinica ci ha insegnato che questo benessere relazionale nasce con noi stessi, perché i primi depositari di un malessere relazionale, bisogna ribadirlo, siamo noi, non sono gli altri. Quelli che, in qualche misura, hanno difficoltà a stare bene nella propria esistenza siamo noi, e siccome ci tocca fare i conti con questo nostro malessere relazionale che qualche volta, addirittura, sconfina anche in altri campi, perché non è detto che sia solo relazionale, per qualcuno diventa anche esistenziale quel tipo di malessere. Ma rimaniamo in quello relazionale che ci è più vicino, dobbiamo occuparci delle nostre modalità relazionali, sapendo che se funziona, e funziona se ce ne occupiamo, seppure con tempi medio lunghi, poi questa capacità noi riusciamo ad estenderla a tutte le nostre relazioni, comprese quelle con chi si rivolge a noi. Perché noi se trasmettiamo qualche cosa, ecco quella che secondo me è l’originalità del nostro mestiere, almeno per come lo vedo io e come cerco anche di descrivere in queste situazioni cliniche, è che noi, a differenza di qualsiasi altro mestiere, che dà abilità, competenze, in qualche caso addirittura prodotti esterni a se stessi, ma comunque se si riamane all’interno del dare qualcosa di se stessi, normalmente non c’è un mestiere dove non si mettono a disposizione dell’altro delle abilità, non diamo nient’altro che noi stessi, secondo me. Alla lunga quello che passa nel rapporto terapeutico è la nostra persona, non sono le nostre presunte abilità, sempre che ci siano. Alla lunga ci possono essere delle abilità specifiche nel fare lo psicoterapeuta, ma dentro quelle abilità specifiche, nel mettersi su quella sedia, c’è la nostra persona e il paziente cattura tutta la nostra persona E’ questa la specificità che ci contraddistingue e che in una qualche misura ci obbliga anche ad essere capaci di stare in quella relazione che qualche volta può essere molto difficile, difficilissima, qualche volta addirittura ci costringe a sederci lì e a piantarci per non essere scaraventati in terra ad ogni urto che i pazienti ci danno, ci costringe ad essere piuttosto bravi a fare questa cosa qua, e lo dobbiamo fare con la nostra intera persona, non lo possiamo fare fingendo abilità imparate così. Perché, seppure le acquisiamo, qualche volta sarebbe bello riuscire a impadronirsi subito di alcune cose che ci aiutano, che noi un po’ facendo i gradassi, “prendi un paletto e rimani lì attaccato”, lo diciamo con la presunzione dell’esperienza che dice che se io riesco a fare una cosa che è difficile per me capire perché è così, ma riesco a farla perché comunque mi aiuta a non essere travolto dalle ondate emotive che mi venivano nel mio lavoro, in qualche misura mi rafforzo anche nella capacità mia di persona di attingere bene ai ferri del mestiere, chiamiamoli così. Quindi, qualche volta è importante anche assumere qualcosa che in quel momento non si capisce con la mente, ma questo può valere per mille cose nostre, dal tempo della seduta, piuttosto che dal pagamento delle sedute, che sono sempre dei grandissimi mal di testa quando si inizia a fare un mestiere come questo. Ci si sente in difficoltà persino a fare le cose più normali, e qualche volta riuscire a prendere delle cose dall’esterno di se stessi, dire: “ Ah, si dovrebbe fare così? Va bene faccio così, poi vediamo se funziona”; perché se si aspetta sempre di avere la sicurezza interna di quello che si fa, noi potremmo aspettare anche una vita prima di iniziare a farlo questo mestiere. Comunque, alla lunga, quello che passa sicuramente in questo mestiere siamo noi. Ecco perché è necessario prenderci cura di noi, come premessa nella cura con l’altro. Non so se sono riuscito a rispondere alla sua domanda. A: Si, si. (vari minuti di silenzio) S: Mi aiutate a capire dov’è la difficoltà di intervenire? A (2): La difficoltà è che è così tutto chiaro. Anche in Grecia è successa più o meno la stessa cosa. Quando dopo la sua lettura c’è stato un periodo di silenzio, relativamente lungo. Personalmente, perché è una lettura che, condividendo davvero pienamente, mi trovo dentro davvero pochi spazi per poter fare domande provocatorie, o di altro condimento o quant’altro, mi viene più che altro da fare delle riflessioni più che delle domande vere e proprie ed una di queste è che insieme col concetto di responsabilità c’è anche quello di persona. Responsabilità per il terapeuta, che a questo punto, è una responsabilità verso se stessi, quindi, la responsabilità di tenere ben funzionante, ben oliato uno strumento di lavoro che è il terapeuta stesso, quindi, attraverso quelli che sono i nostri strumenti e la formazione continua, metterci costantemente in discussione e in costante verifica della nostra posizione. Mi viene da pensare questo sul ruolo di responsabilità del terapeuta. L’altra parte è la persona. Vedere, quindi, nell’altro non un uomo-macchina, non un qualcosa da aggiustare o un qualcuno che viene a presentarci una parte malata per cui noi dobbiamo aggiustarla Questo è un mio problema soprattutto degli inizi provenendo da una formazione medica. Mi sembrava di non fare nulla se stavo lì a sentire sulla sedia quello che mi raccontava. Allora tutto il mio attivarmi a fare: “Come quello sta male e io non posso fare niente”. Però, e qui il Ruolo per me è stato fondamentale nel passaggio trasformativo che c’è stato in me, il riconoscere l’altro come persona e come persona responsabile di sé tanto quanto io lo sono di me, è stato davvero per me un momento molto importante nella mia crescita, nella mia posizione. Tanto per girare il coltello nella piaga, poi mi fermo con delle riflessioni; perché il coltello nella piaga? Perché con il paziente che ci è di fronte, che non deve essere considerato un uomo-macchina, c’è il rischio dell’oscuramento (? che si pone nella diagnosi, e quindi se per persona, dove sta la diagnosi, cosa c’è nella diagnosi, allora la riflessione è su me con lui, su cosa sto facendo io con lui in quel momento, e in questo gioco che diventa un po’ come quando si lancia un sasso nello stagno tutti gli anelli concentrici, si parte da una posizione che è lo star male della persona che ci pone la domanda di aiuto e poi alla fine, in questo gioco tra responsabilità e persona nella reciprocità pur nell’asimmetria del ruolo, si presenta la partita. Insomma, a me verrebbe da commentare così. (qualche minuto di silenzio) S: Vi confesso che mi aspettavo, anche in Grecia, ma soprattutto da parte vostra, più domande sui casi clinici. Perché ne ho fatte eh di robe lì. Non è mica facile, come sono scritte qui. Adesso qui sembrano facili ma quando Luisa ha incominciato così è stata dura per me. E invece si vede che…che cos’è? E’ perché è l’ultima giornata dell’anno e volete festeggiare i vostri colleghi del quarto anno che, forse, se la fileranno? Tutta questa timidezza da dove viene fuori? Ho visto dei sorrisini, che sorrisino era? A (3): In effetti, a me stanno venendo delle domande. Ma, a parte che mi ha colpito per la modalità... ma mi sono chiesta, in realtà mi è venuta un’altra domanda, mi sono chiesta come potersi sentire libero lei e a suo agio con Salvo che le chiede di venire quando a lui nasce il bisogno, una volta ogni tanto. S: Vuole anche la risposta adesso? A (3): Si. S: E infatti fa parte di quelle cose tutte da discutere, è molto opinabile quello che ho fatto. Un altro avrebbe potuto fare esattamente il contrario. A (3): Secondo me non è opinabile, mi chiedo come ci è stato lei. S: Ah, io ci sono stato benissimo. Se rispetto il principio qualsiasi cosa faccio va bene, nel senso che ci credo. A me basta rispettare il principio. In questo caso il principio è l’inizio: che cos’è? Lui vuol fare una certa cosa, a me va bene se lui la vuol fare così? Toglie qualcosa al mio ruolo e alla mia libertà di lavorare? No, anzi. Io lavoro tanto, ma non sono uno stacanovista. Voglio dire se uno mi dice che posso lavorare qualche ora in meno, gli dico grazie, va bene insomma. Non è che mi ammazzo. Al paziente andava bene così, a me pure, il principio della responsabilità condivisa c’era, non toglie nulla a me, anzi fa guadagnare un’ora e poi fa fare un’altra cosa, rispetto i suoi tempi. Non ho nessuna difficoltà. Sarebbe stato diverso se, ma anche lì fino ad un certo punto, se tutto questo fosse avvenuto nel corso del lavoro. Iniziamo in un modo e poi c’è una richiesta di passaggio in un’altra maniera. Beh allora non è che la prendo in automatico, anche se, tendenzialmente, non sono così contrario a valutare anche altre possibilità. E questo vale per me ma anche per il paziente. Insomma, la cosa importante è che io, nel setting di lavoro che metto in piedi, ci stia al meglio, io ci devo stare comodo con gli orari, coi tempi, con le mie possibilità. E’ inutile che decida di fare terapia la domenica, perché la domenica io non ho tempo di fare terapie. Però quando ho iniziato ho fatto terapia anche la domenica. Oggi mi chiedo: “Ma ho fatto bene?” Mah, forse ho fatto una stronzata, insomma, non era il caso. E anche lì, si impara strada facendo. Ho un setting di lavoro aperto, sono molto aperto a qualsiasi tipo di domanda, anche ad una domanda mensile. Se uno mi dice: “Posso venire una volta al mese?” Io dico: “Va bene”, purché non mi chieda di fissargli prima il giorno e l’ora, perché non occupo un giorno o un’ora specifici per vederlo una volta al mese. Gli darò una opportunità in uno spazio che mi si è liberato o, comunque, che mi viene libero quella settimana. Ma a me che cosa cambia vedere un paziente una volta al mese? Se lui ha bisogno di venire una volta al mese, io farò il mio lavoro una volta al mese. A (4): E se fosse una volta al mese incostante? S: Non ho nessun problema. A (4): Quindi poi lo metterebbe in agenda? S: Assolutamente no, aspetti. Metto in agenda il fatto che lo vedrò quel mese, il giorno e l’ora non li occupo stabilmente. Perché la mia agenda, in questo momento, ha sicuramente dei riferimenti fissi per i pazienti settimanali e gli altri ruotano attorno a quelle mancanze che ci saranno, inevitabili nella nostra professione, o per problemi di salute, di lavoro. C’è sempre qualche paziente che disdice o che non può. E in quegli interstizi ci infilo le situazioni casuali. Spesso, lo stesso paziente non è in grado di dirti vengo sempre il martedì della… o il 30 dell’ultimo giorno. Neanche io sono in grado di organizzare l’agenda così. Non sta neanche in piedi. Se un incontro è episodico è episodico, lo prendiamo così. Dobbiamo stare bene tutti e due. Non posso impegnare un giorno fisso della mia mensilità per vederlo un’ora. A (3): E con la domanda di aiuto di Luisa, come se l’è cavata? S: Luisa, all’inizio, mi ha fatto vedere i sorci verdi. Con la modalità che ha avuto mi ha costretto a misurarmi fino in fondo su cosa vuol dire stare fermi. Ma fino in fondo, perché è stata una provocazione grande, insomma. Però, credo che, una delle cose che dobbiamo imparare nel fare questo mestiere, è accogliere tutto. Anche le provocazioni più feroci, perché il paziente ci misura anche per questa nostra capacità di accogliere tutto. Se non siamo capaci di accogliere tutta la loro sofferenza, insomma, in qualche misura ne soffre il processo terapeutico. Questo non significa che quell’accoglienza debba essere introiettata e poi: “Chi se ne frega, va beh me l’ha detto, pazienza…” Questo è il punto di quello che è avvenuto. Poi, nei mesi successivi questa sua modalità di scaricare in questa maniera e di provocare, insomma, è venuta fuori, è venuta fuori anche con me, soprattutto con me. Però, la nostra capacità di accogliere tutto, credo che lì, mi è costata parecchio, parecchio. Perché non sono proprio un temperamento così tranquillo, insomma, di accogliere senza fare nulla, però sentivo che era decisivo riuscire a farle capire che non era lei a condurre il gioco, lei era solo una co-protagonista di questo gioco, non decideva lei, neanche con le sue provocazioni. In questo caso ha funzionato, magari in altri no, ma in questo caso si. E, comunque, il paziente ha bisogno di sentirci piuttosto saldi nel ruolo che occupiamo. Questo è un principio. Non è importante riuscire a dire parole particolarmente roboanti o fini, o cose del genere. E’ importante riuscire a rimandare che noi, anche se è così, ci stiamo, va bene, vediamo un po’ cosa vuol dire nell’essere così. So che non è stato facile. Diciamo che mi è andata bene. A (5): Sempre nel caso di Luisa, immagino che fosse presente in terapia anche un po’ il fantasma di questo ex fidanzato. Normalmente in questi casi una buona soluzione è quella della porta aperta. E in questo caso come ha gestito la situazione, visto che l’ex fidanzato era stato un suo paziente, quindi, era un po’ più complessa? S: Mah, in questo caso la porta aperta non l’ho ritenuta di nessuna utilità, perché lui era già stato un mio paziente ed aveva smesso, quindi, con lui, diciamo, i conti in sospeso, e lui stesso nei confronti di questa, chiamiamola, ex, li aveva regolati. Ritirare in ballo lui mi sembrava una vera forzatura, sia perché sapevo il percorso che lui aveva fatto sia perché anche l’esigenza di Luisa non era quella di tirare in ballo lui. Tutto chiede Luisa, tranne che di tirare in ballo lui. Lei chiede che io l’aiuti a diventare capace di riconquistare quest’uomo, ma non lo vuole lì, anche perché ne ha di cotte e di crude da dire, non ce la fa neanche ad averlo lì. L’illusione di Luisa, in quel momento, è che io sia capace di dotarla di strumenti di adescamento, di conquista, di chi sa che cosa, che riportino a lei quest’uomo che di lei non ne voleva più sapere nulla. Sostanzialmente era questo il punto. Il corso della terapia a cosa l’ha portata, sostanzialmente? A rendersi conto che questo suo sogno non c’entrava niente, poi, con la sua vita vera, perché non era questo, alla fine, quello che desiderava. Quest’uomo era diventato semplicemente un grimaldello per avere un’ identità. Quando questa identità se l’è conquistata in un’altra maniera, quest’uomo, giustamente, è stato lasciato in pace. La porta aperta, in questo caso, non l’ho ritenuta di nessun tipo di utilità per riuscire a stare con Luisa. Sicuramente ha contato molto il pregresso mio nei confronti del ragazzo. A (5): Appunto la domanda era più su come lei è riuscito, poi, a gestire la relazione con Luisa, con tutto quel pregresso che aveva dentro con questo ex fidanzato. S: Questo perché sono un po’ un disgraziato, che si dimentica subito dopo della seduta di che cosa è avvenuto cinque minuti prima nel precedente incontro. Non ci crederà, ma guardi che spesso è così, ho una capacità, di resettare le sedute pazzesca. Non perché mi dimentichi la storia, perché, poi, d’altra parte vede, qua non registravo ancora, andavo ancora a penna, quindi, se una storia mi interessava, poi, la trascrivevo anche nei suoi passaggi. Ma perché, ecco, questa è un’altra abitudine che poi si acquista, credo, abbastanza fatalmente nel lavoro, col tempo, con l’esperienza; a vivere intensamente la realtà di quella seduta e, subito dopo che è finita accantonarla. Accantonarla non è dimenticarla, vuol dire tenerla lì e passare ad un’altra storia. Poi, magari, se invece ne accumuliamo dieci o dodici al giorno si è anche un po’ gravati. Ma credo che sia una capacità che si acquista pian piano. Dove ognuna ha la sua importanza, ma nessuna interferisce con l’altra. A meno che nel vivere quelle storie, quel paziente non impatta con cose nostre; allora se impatta con cose nostre, lì ci fanno fuori comunque, potrebbe essere la seconda seduta piuttosto che la decima. Il punto è che riuscire a tenerle ognuna per conto suo ha a che fare con la massima capacità nostra di non essere feriti da quello che avviene. Poi diventiamo pian piano capaci di dare a ognuno il suo spazio. Un po’ perché sono vecchio, un po’ perché rincitrullisco, ma ci sono delle cose che vanno in automatico. Per esempio, i nomi. Sarà per questa mia necessità di passare immediatamente da una storia all’altra, ma ho proprio la tendenza a dimenticarmi assolutamente i nomi. Se mi dice: “Chi ha visto oggi?”, devo aprire l’agenda. Nomi, le storie, le cose che dicono, come le vivono, ma in quel momento la necessità di fare spazio cancella, per esempio, nella mia testa il nome, non cancella il resto, di quello ho bisogno di riappropriarmene in un’altra maniera. Voi mi direte: “Va beh, ma lei sta rincoglionendo, non controlla quello che avviene!”. Credo che sia semplicemente una modalità di funzionare senza controllare niente. A (1): Sempre nel caso di Luisa, c’è un passaggio, quando Luisa esce di casa e dice che si sente sola. E Lei chiede: “Com’è adesso?” e Luisa risponde: “Non sto parlando di adesso, non riporti come al solito a quello che avviene qui, mica la vita finisce in questo studio”. Ecco, mi ha fatto venire in mente una situazione di un paziente, che è un ventiduenne, che viene da me da circa un anno e che mi ha riportato, proprio recentemente, una frase detta dai suoi genitori di fronte a lui e alla sua ragazza e se i genitori della ragazza concordavano su questa cosa, e hanno detto: “Quando vai dalla terapeuta, tu fai due o tre giorni che sei un agnellino: ti comporti benissimo, fai tutto benissimo, ecc. E poi, invece, la musica cambia, quindi dovresti andarci tutti i giorni”. E lui mi ha riportato questa cosa, quindi, ne abbiamo parlato, evidentemente, su quello che lui aveva vissuto come: da una parte un dire, un mettersi in gioco, “Forse ne ho bisogno”, non lo so, come Salvo che comunque viene al bisogno e riconosce che se non si sente vivo, purtroppo è tutto perduto, come finisce il caso di Salvo. Però dall’altra parte c’è anche questo discorso del: “Mica la vita finisce in questo studio”. Cioè questa frase mi ha coinvolta moltissimo. S: Eh, ma mica non aveva torto! Anzi, aveva pienamente ragione. L’ho riportata per intero perché è già capace, in questa fase del lavoro, di testimoniare una visione di sé molto più ampia. Prima di riuscire a cogliere quante cose, quante sue difficoltà proiettasse nella nostra relazione, sono passati anni, perché è durata sei anni questa terapia, non è durata un giorno. Alla fine era capace di discriminare bene le cose che erano importanti lì in seduta e altre parti della sua vita che non necessariamente conduceva come conseguenza del nostro lavoro. Se ci pensiamo fino in fondo, il nostro è solo un lavoro clinico, non è che facciamo chi sa che cosa, anzi, i pazienti continuano ad avere la loro vita di relazioni, di lavoro, di impegni, di interessi, di studio, dove non necessariamente la nostra figura è portatrice di chi sa che cosa. Quindi, se è importante che noi riusciamo a prendere tutto quello che il paziente ci porta in seduta, perché ha tutto un senso che lo porti a noi, perché tutto quello che ci porta è materia di lavoro, di comprensione, non di interpretazione, almeno dal mio punto di vista, ma di comprensione si, qualsiasi cosa avvenga lì va capito, perché me ne parla, almeno, perché ha bisogno di condividerlo; deve avere un senso anche questa cosa qua. Non c’è niente di male se ha bisogno di condividerlo, ma bisogna capire perché. Ed è vero che la vita non finisce nel nostro studio, anzi, la vita è altrove, non è dentro il nostro studio, perché altrimenti rischiamo di vederci coinvolti nel decidere la vita e la morte dei nostri pazienti. Allora, nel nostro studio le cose acquistano un senso che prima non avevano, ma la vita non si svolge nel nostro studio, e quindi, dobbiamo riuscire a ridare al paziente, man mano, questa capacità, e Luisa se l’è presa tutta, ha detto: “Non è possibile che ogni cosa che porto qui adesso debba essere riportata a noi”: questo è molto sano, perché con me, al quel punto, aveva un rapporto in cui non necessariamente tutto quello che avveniva fra noi doveva essere oggetto di indagine. A (1): E infatti l’ha detto chiaramente. S: La sua posizione in quel momento è molto più matura. I pazienti ci arrivano pian piano. A (6): Io, quando ho finito di leggere l’articolo, ho pensato: “Beh, sarà roba facile”, nel senso che ho iniziato a pensare anche a ciò che diceva lei  prima, ovvero, riguardo al pezzo in cui il paziente viene, viene una volta ogni tanto, dico che si c’è stata tanta libertà, tanta energia nel dire si accetto questa cosa da parte del paziente; però, poi, penso ai terapeuti che iniziano a fare questo lavoro e anche ai bisogni, anche di natura economica, che ci sono nell’occupare un posto. E, quindi, dico: “Cavoli, però, non è facile arrivare a darsi questa libertà” e ho pensato che qualsiasi tipo di libertà ha un costo, ha un grosso costo che è quello anche di lasciare da parte alcuni dei nostri bisogni. Ad esempio, il bisogno economico, perché dico: “ E’ facile per Serra, perché magari ha una serie di pazienti e quindi su un versante di tipo economico è più sicuro”. Mentre penso a me e dico: “Insomma”. E poi mi sono venute in mente altre cose, ovvero, di quanto, in realtà, libertà e responsabilità sono due concetti che si possono tenere insieme, e che uno prevede in qualche modo anche l’altro, nel senso che per essere liberi bisogna sempre essere responsabili della libertà che prendiamo e, quindi, ho pensato che non era, poi, tutto scontato così come mi sembrava alla fine della lettura. E, quindi, alla fine ho detto: “Cavoli, è più difficile di quello che pensavo”. S: Vedete noi parliamo di libertà, per esempio, dando per assodato che sia una cosa naturale, una condizione naturale degli esseri umani. Questa è una balla, non è per niente una condizione naturale. E’ una condizione che è costata in molte trincee millenni di fatiche, di morti, una continua difesa di quella libertà. Non è per niente automatica. Noi oggi siamo qui a parlarci in questa maniera, lo facciamo con spirito libero, ma io non so se fra vent’anni, o magari meno, ci sarà qualcuno che dirà: “Voi non potete fare queste cose o parlarvi in questo modo”. La libertà è qualcosa che dobbiamo difendere e rinnovare ogni volta che ce l’abbiamo. Non è calato una volta per tutte e non ci sarà data una volta per tutte e, quindi, bisognerebbe assumerla con la responsabilità di noi che siamo qui. Per esempio, questa parola, che sembra andare giustamente in automatico con la libertà, non è per niente sponsorizzata nei fatti. Viene spesso detto: “Sii responsabile”, “Si, ma di cosa?”, “Comportati come piace a me”, “Fa quello che a me piacerebbe che tu facessi”, “Sii quello che sei destinato ad essere, perché noi abbiamo deciso così”. Che responsabilità c’è nell’essere come vogliono gli altri? Però oggi funziona così. Per esempio, tutto il sistema formativo mica è fondato sull’acquisizione di una competenza di se stessi, tale che poi uno responsabilmente la mette a disposizione dell’altro nella società in cui è. Niente di ciò. Vengono insegnate e fatte passare abilità che sono al servizio, sicuramente, degli altri, ma che non necessariamente hanno a che fare con la nostra responsabilità; anzi, se fosse così, che bisogno avremmo di norme, codici, e così via; basterebbe il rispetto di se stessi, ma così non è, e siccome così non è, i codici e le norme nascono, proliferano e crescono anche nella nostra categoria professionale. Una delle cose che ci viene insegnato prima di tutto sono le norme deontologiche, che significa, semplicemente, che non ci sappiamo comportare eticamente nella vita professionale. Non abbiamo chiaro come dovremmo comportarci nella vita, da psicologi, e se non lo sanno gli psicologi, come comportarsi nella vita, come si fa? Quindi, quella cosa lì non è automatica, è qualcosa che dobbiamo costantemente rivedere in noi stessi e difenderla. Difenderla con noi stessi, quella libertà e quella responsabilità, prima ancora di difenderla da chiunque sia. Perché se non facciamo questo, non so che cosa potremmo passare agli altri. Per quanto riguarda il primo pezzo della sua domanda, io direi: “E l’alternativa?”. Prendiamo un giovane. Io prima ho detto che lavoravo anche la domenica quando ho iniziato, probabilmente oggi non lo farei più, ma non perché era sbagliato, perché, forse, si potrebbero trovare altre modalità per accogliere i pazienti, che non sia impegnare le poche ore di riposo, dagli altri lavori, che si hanno a disposizione. Prendiamo un paziente come Salvo: se vuoi lavorare con Salvo devi accettare e vederlo così, se non lo vuoi vedere una volta al mese, lo perdi. Cosa è meglio scegliere? Anche per la propria professione? Io adesso non ho una ricetta. E’ meglio vederlo una volta al mese, o non vederlo per niente? O incitarlo a venire tutte le settimane? Certo, mi rendo conto, che per chi fonda il suo mestiere anche guadagnandoci, vedere un paziente una volta al mese è sicuramente diverso dal vederlo tutte le settimane. Però io conto molto sull’evoluzione del nostro lavoro, ho molte storie dove si è cominciato con uno e nella stessa terapia ne sono arrivati sei, o pazienti che hanno cominciato così e poi sono venuti regolarmente tutte le settimane, o addirittura due volte alla settimana, in qualche caso, o facendo addirittura sia sedute individuali e poi anche di gruppo. Voglio dire che l’inizio, di per sé, non è decisivo perché il paziente stia con noi. Decisivo è l’accoglienza di quel paziente, il rispetto delle sue esigenze e riuscire a cogliere se quelle sue esigenze non contrastano con le nostre. A noi cosa conviene? Certo, dovremmo lavorare per avere un altro paziente nelle altre tre settimane in cui non lo vediamo. Ma sapendo che tutte queste situazioni cliniche sono destinate ad evolvere, cioè, un paziente che man mano sta meglio non vuole andarsene, vuole stare sempre meglio e se viene una volta al mese, e questa cosa….almeno, nella mia esperienza clinica è così. Non saprei fare una teorizzazione astratta di questa cosa. Dico solo che, nella mia esperienza clinica, man mano che i pazienti, venendo da noi, si accorgono di star meglio vogliono continuare a venire.. Bisogna lasciare alle persone il tempo che ognuno ha. Magari ci metterà una vita, ma è la sua vita che ci mette, perché dovrebbe essere violentata e forzata? Anche perché mi è capitato di vedere persone a tre sedute la settimana, quando pensavo di imitare i grandi psicoanalisti, ma sono tutte delle bufale. Se uno non vuol cambiare non cambia niente, neanche se lo vedi tutti i giorni. Non è l’intensità delle sedute che è decisivo, per esempio. Oggi questo mi sentirei di dirlo con molta più chiarezza. Non è per niente l’intensità delle sedute. E’ la regolarità che è decisiva. Un paziente che sa che ci vede il martedì alle diciotto, per lui quel martedì alle diciotto è decisivo, piuttosto che vederci il martedì alle diciotto, il giovedì alle diciannove e il venerdì alle tredici. Sapere di avere un suo spazio, dove può vivere tutto se stesso; è quello che è decisivo. Quella regolarità, quel tempo. Se ci pensiamo, anche per noi stessi è così. Provate a leggere un libro tutto d’un fiato. Ah, beh, siete stati intensissimi, l’avete letto tutto, poi avete capito qualcosa di più che leggerne un pezzo alla volta con i vostri ritmi? Non solo la nostra mente è finita,  ma ci stanno le cose pian piano, a seconda di come siamo fatti. Più di un certo tot in quel tempo non viene giocato, anche perché tutto quello che viene giocato da noi sono le parti affettive, quindi, figuriamoci se quelle hanno un tempo predefinito. Potremmo darne dieci volte tanto e non poter vedere neanche un millimetro di cambiamento. E’ quella regolarità che è decisiva, proprio perché sono progressi affettivi. Non saprei dirglielo meglio in questo momento. Però la mia esperienza è questa. A (7): Forse la risposta è già in quello che ha detto, però sul passo di Luisa dice che, dopo quando ne riparla: “La reazione che ho avuto la considero un riuscito tentativo di farle capire subito che il setting di lavoro lo ponevo io. A lei toccava solo dire sì o no, non poteva metterlo in discussione”. Ora mi chiedevo questo pezzo come lo mette insieme con il pezzo che di là è il paziente che le dice: “Io non vengo più di una volta al mese”. Però all’inizio in cui le dice: “No, ma rimango due ore, faccio anche quella dopo”, insomma, anche lei all’inizio giocava molto sul: “Faccio quello che voglio io”. S: Mentre non ho nessuna difficoltà a dire: “Va bene se vuoi venire una volta al mese, va benissimo ci vediamo una volta al mese”, se un paziente, ancora oggi, mi dice: “Voglio fare una seduta doppia”, io gli dico di no. Non ci sta nel mio setting di lavoro fare una seduta doppia. La considero inutile, per me oltremodo faticosa, e sicuramente do un messaggio confondente. E siccome per me è troppo faticosa, dico no, doppia no. E siccome ci devo star bene io, ti dico subito no. E non ha importanza se l’altra ora ce l’ho libera, non lo faccio perché l’altra è occupata solo da me, per cui non la posso dare. Non la do comunque una seduta doppia. Perché trasmetto un messaggio del nostro mestiere un po’ così, casuale. Invece, secondo me, la seduta di quarantacinque minuti ha un senso, quel tempo è un senso e non può essere dilatato all’infinito, e siccome questo è compito mio farlo rispettare, lo dico subito. Il setting lo pongo io, nel senso che io lavoro così, poi il paziente può anche non starci, può anche dire: “Non mi va bene”. Non è che il mio modo di lavorare significa che l’altro aderisce. Può anche dire no. A (7): Ma magari nel setting c’è anche il lavoro di una volta alla settimana o di due volte a settimana e poi ognuno si sceglie il suo. Però, in questo caso sembra essere variabile. Lei, magari, di solito lavora una volta a settimana e con quel paziente lì ha sentito, magari anche a ragione, perché poi è evoluta la situazione, che poteva lavorare una volta al mese. Però una persona all’inizio può far fatica a sentire con chiarezza che quel sentire è un buon sentire e non un sentire inquinato da boh, dal dire: “Me lo tengo anche così” oppure “No, così non riesco a lavorare”. Qual è il paletto, in questo caso? Dentro il setting, oltre al ruolo che è una cosa più faticosa da acquistare, come l’evento del tempo, non è la prima, è una di quelle maniglie a cui è più difficile attaccarsi all’inizio, è più facile con le cose materiali che vanno fatte nel setting. Quindi, mi viene da dire, è come se, quando entro con un paziente in terapia, gli dico: “Io lavoro a settimana, lavoro cinquanta minuti”, anziché quarantacinque, quelli che siano, “lavoro con questo”, quando il paziente arriva e mi dice: “Però, io più di una volta al mese non vengo, vengo a chiamata”. Comunque entra in collisione con il mio star bene in un setting. S: Bene, allora non lo faccia. Capisce? Non lo faccia, se per lei lavorare una volta al mese le procura fastidio.. A (7): A me non è mai capitato, però uno all’inizio non lo sa. S: Io credo che dobbiamo fare, qualsiasi setting adottiamo, qualcosa in cui noi ci stiamo bene, prima di tutto. Oggi, se mi si presenta un paziente che non mi conosce e mi chiede:"Come lavora lei?". Dico tranquillamente: Io lavoro facendo una seduta a settimana, forse una seconda se mi viene richiesta per emergenza, così preciso subito che non sono per niente disponibile a fare due sedute stabili alla settimana. Si può partire in un certo modo ma nel corso del lavoro possono sussistere esigenze per cui da una si passa a due o anche a tre, ma questo si valuterà strada facendo. Si può lavorare individualmente ma anche in gruppo, anzi, in qualche caso lo suggerisco prima. Adesso non lo suggerisco più perché ho il gruppo pieno e non ci sta più nessuno, e quindi non lo posso neanche fare. Mi piacerebbe poterlo sponsorizzare per poter ricreare un altro gruppo ma adesso il tempo per fare un altro gruppo non ce l’ho. Se no do anche questo messaggio: lascio un po’ aperta la possibilità di più esperienze, comprese le necessità nuove, eventualmente, che ha il paziente. A me non cambia niente nella mia agenda di avere anche un paziente occasionale, tanto è già piena e strapiena così. Conta, comunque, il fatto di avere più pazienti o meno, sicuramente. Però è anche qui il concedersi di dirsi: “Va beh, ma a me cambia qualcosa?”. Guardate che è una grande libertà prendersi un’ora di riposo, non siamo mica delle bestie da soma, abbiamo bisogno anche noi di avere un po’ di riposo. Se riusciamo anche a liberare un’ora concediamocelo, tanto sappiamo che lavorare con quel ritmo poi la terapia funziona. L’ho detto prima, un paziente che incomincia con una volta al mese, qualche volta è veramente legato a delle reali necessità, per esempio non si possono fare raffronti coi freudiani. Oggi molta gente, spesso, è a Milano ma lavora a Berlino Io ho due pazienti che sono costantemente in viaggio in giro per il mondo. Disgraziati che riescono a fare nemmeno un incontro al mese, e io nelle loro condizioni di vita non so se sarei capace di farlo. Sono sempre in giro. Parti da un aeroporto ad un altro aeroporto. Oggi le condizioni di vita vera delle persone, spesso, sono molto diverse da un tempo, quindi, avere questi setting così stretti e ferrati mi sembra un insulto alla vita. Dobbiamo essere capaci di guardare le condizioni delle persone, e quindi, anche accogliere domande d’aiuto, che non necessariamente corrispondono a quei tempi là e a quelle impostazioni là, che rispondevano ad altri tipi di esigenze e bisogni. Secondo me è così. A (2): E infatti stavo pensando proprio a questo. E’ possibile anche che sia una modalità di chiedere aiuto: “Più di una volta al mese non ce la faccio, al momento”. Può anche darsi che poi in terapia possa rassicurarmi, possa stare meglio e possa ricevere una seduta alla settimana. Penso che pure da parte nostra, ferma restando la libertà e la possibilità di starci bene dentro… cioè io ho un paziente che viene ogni quindici giorni. Me l’ha posta proprio come condizione: “Se no io non vengo”. Boh, la possibilità, allora, è dire: “Siccome io lavoro una volta alla settimana, ti attacchi”, ma se quella è la sua modalità di porre la sua domanda malata, io gli dico: “Va beh, venga due volte al mese e poi vediamo”. Siccome noi tutti i giorni le accogliamo le domande malate, le domande sono per definizione malate, altrimenti no… S: Per necessità didattiche ho scritto quei casi. Ad esempio, Salvo, in realtà, non è un paziente uomo ma una donna. E’ solo per esigenze di camuffamento che è diventato un uomo, ma è una donna, ma se ci pensate anche questa donna fa il passaggio. Dopo un po’ di anni, da quella seduta mensile, si trasforma tutto il nostro lavoro. Fa un sacco di esperienze, fa anche l’esperienza del gruppo. Non è ancora pronta ma è l’esperienza che le dice che non è ancora pronta, però non abbandona del tutto, torna a fare le sedute individuali. Voglio dire, le esperienze possibili, nel corso di una terapia, possono essere molte. Si tratta di consentire che questo processo possa avvenire con tutti i gradi che il paziente si sente, in quel momento, capace di affrontare. Nel caso di Salvo, non c’è nessuna capacità relazionale, tant’è che non appena si ritrova con gli altri, non ce la fa. Semplicemente non ce la fa a stare insieme agli altri. Ha ancora bisogno di una lunga fase di un rapporto uno a uno per riuscire pian piano ad aprire questa possibilità, chiamiamola, gruppale. Fino a quel momento non ce l’ha fatta. Io non dubito che ce la farà, io sono abbastanza sicuro che ce la farà, è solo questione di consolidare tante cose prima. Le forzature più di tanto non servono. Noi possiamo offrire opportunità, ma non è detto che poi quelle opportunità si rivelino effettivamente efficaci. Magari con qualcuno sì, ma con altri per niente, anzi, questo è stato uno dei pochissimi esempi in cui il lavoro di gruppo non ha funzionato. L’ho testimoniato apposta, pur credendoci molto in un lavoro di gruppo, però ci sono delle situazioni dove può essere prematuro un lavoro del genere. A (8): Volevo solo dire una cosa un po’ mia… che le esigenze dell’inizio no, ci sono tante cose con cui fare i conti, avere delle regole a cui aggrapparsi, almeno per me, che non si muovono, credo che mettano nelle condizioni perlomeno di buttarsi, di iniziare. Questo, almeno, è stato il mio caso. Quando ho iniziato, anch’io ho deciso il mio setting, però proprio all’inizio ho visto un ragazzo, al centro di salute mentale dove ho fatto il tirocinio di specialità, che appunto mi ha proposto di passare ai quindici giorni. Io ho accettato. Per me era molto faticoso stare con lui, ma veramente tanto, sentivo che era un togliergli le parole dalla bocca. Era veramente molto, molto faticoso. E da quando siamo passati ai quindici giorni, io finalmente sento che quando lui viene porta se stesso, mentre prima mi portava da altre parti. Ci sono voluti quattro anni per dirmelo, perché io ogni tanto gli faccio la domanda: “Perché vieni da me”, io non mi stanco mai di chiederlo, e lui mi ha dato tutte le sue belle motivazioni e mi ha detto: “Per me è un processo molto lento, io sento di aver bisogno di molto tempo”. E, quindi, paradossalmente sono stata molto meglio e credo sia stato meglio anche lui in quei quindici giorni che adesso abbiamo, mentre prima abbiamo fatto una fatica pazzesca tutti e due, perché io mi sono aggrappata a quella roba lì che, forse, tra di noi non aveva molto senso. Ognuno può dire la sua, perchè io credo che poi ogni caso e ogni relazione è diversa, e quindi, anche la frequenza delle sedute deve acquisire un significato all’interno di quella relazione terapeutica. S: Certo. Io, per esempio, l’ho detto prima in un certo modo, ma lo dico veramente, se il paziente vuole la seconda, neanche in ginocchio gliela concedo probabilmente, ma lo dico apposta. Perché mi sembra di forzare qualcosa se sono io a doverlo scegliere. Poi, capisco che ci possano essere delle esigenze, dei passaggi particolarmente cruenti, perché ci sono nella terapia, dove può esserci l’esigenza di venirci per un tot di tempo anche molto più intensamente, ma non confondo una processualità con un dato strutturale, perché io, personalmente, preferisco lavorare una volta alla settimana. Casomai lo vedo in gruppo, che è un’altra maniera di funzionare, ma l’idea di averlo lì aggrappato alla mia gola, il paziente, anche se così magari risolveremmo i problemi di budget, non mi va molto. In qualche misura sento una diminuzione della mia libertà. Questa possibilità sono disposto ad accoglierla nei momenti di rottura, di crisi, di sconforto. D’altronde, questi, fanno parte di un processo. Ma darlo per dato strutturale, che io devo vedere due volte alla settimana il paziente, mah forse sono più anarchico di quello che penso io stesso. A (9): Io volevo chiederle una cosa. Qui lei dice: “Normalmente accolgo richieste d’incontro anche temporanee. In questo caso, vista la conoscenza pregressa con Salvo avvenuta in quel modo, non me la sono sentita di chiedere il pagamento di quelle episodiche sedute”. Più avanti dice: “All’inizio del terzo anno mi chiede di poter intensificare gli incontri, vorrei venire tutte le settimane, però vorrei pagare le sedute, almeno una parte, non ho i soldi per tutta la tua tariffa” e lei risponde: “D’accordo al vederci regolarmente. Sulle tariffe non faccio però differenze tra i pazienti, ma se vuole possiamo concordare che adesso me ne da una parte e mi salda il residuo man mano che migliorano le sue finanze”. Volevo chiederle come mai prima sono gratuite e poi, invece, succede quest’altra cosa. S: All’inizio la sua domanda di aiuto non l’ho sentita una richiesta di terapia, l’ho sentita una richiesta di aiuto rivolta a quello che io rappresentavo all’esterno, mi aveva conosciuto in quel modo, era un contesto amicale. Se non è una domanda di terapia, ancora oggi, se uno mi chiede: “Possiamo vederci?”, io dico: “Vediamoci” A (7, 9): E ma lei lo vedeva quarantacinque minuti per 3 anni. S: Ma con lui non c’era nessuna regolarità nel vederci. Passavano mesi, mesi, mesi senza che si facesse sentire. Era una richiesta molto episodica dove io non ho mai sentito all’inizio emergere una domanda di terapia, poi, magari, io mi atteggio a terapeuta sempre, lo faccio sempre in maniera terapeutica, ma non ho mai sentito all’inizio una domanda di terapia. Evidentemente, invece, il mio muovermi sempre in maniera terapeutica, può, penso, cioè, quello che poi è emerso è stato soprattutto questo, continuare a vedermi sempre in un certo modo, a fargli sempre un po’ rilevare le cose che mi diceva, chissà che significato aveva il fatto che me le dicesse così. Il mio atteggiamento, spesso è da terapeuta, anche se non mi viene richiesto di essere terapeuta in quel momento. Probabilmente è quella la motivazione che gli ha fatto fare quel salto di chiedermi di poter veramente venire a fare un lavoro. A quel punto, il problema dei soldi, che per me non esisteva neanche prima, era la nipote di un amico e niente di più, è diventato per me diverso. Se a quel punto mi chiedi di fare un lavoro terapeutico, beh, allora cambia. Cambia anche il discorso dei soldi; allora adottavo quella formula, adesso sono ancora più elastico, sono elasticissimo. A (7): Ma se lei tornasse indietro lo rifarebbe così? Non so quant’è recente… S: Non lo so, se mi chiede adesso di riflettere: “Lo farei così?”. Non lo so, penso che accoglierei alla stessa maniera una qualsiasi richiesta di volermi incontrare, questo si, perché se una persona mi vuole parlare, vuole parlare con me, semplicemente. Anche lei era psicologa, in qualche misura era come se un’altra collega mi volesse parlare, ma non c’era nell’aria una richiesta del tipo: “Sto male, ho bisogno di te”, non era così, o perlomeno era: “Sto male, ma non ho bisogno di te”, e fino a quando io non mi sento investito di una richiesta non faccio finta che quello sia un lavoro strettamente terapeutico, non mi voglio impegnare in una cosa del genere. Faccio il terapeuta, nel senso che ti incontro e ti tratto come se tu fossi una persona che mi sta chiedendo qualcosa di misterioso ma non ti pongo lì come paziente. Ci sono voluti anni in quel caso, perché decidesse di assumere la sua sofferenza come qualcosa che andava preso in mano. Sono serviti sicuramente anche quegli incontri che abbiamo avuto in quegli anni, in quella maniera molto disordinata, anche una volta ogni sei mesi, non c’era nessuna regolarità. “Lo rifarei?” Boh, penso di sì, non sono in grado di dire cosa cambierei. Per esempio, su questa questione dei soldi, io penso che i pazienti vadano responsabilizzati in quello che fanno, sicuramente. La vita non offre pasti gratis, a nessuno, neanche ai pazienti. Ma credo che il problema dei soldi sia anche molto una scusa, sia nel darli che nel riceverli. In una struttura pubblica dove non ci sono soldi, allora, cosa vuole dire? Che non passano delle vere terapie? Io non credo che sia così. Io credo che ci siano delle verissime terapie anche nei posti dove i pazienti non pagano. Il problema del pagamento noi ce lo dovremmo porre, secondo me, come in una misura che ci da la possibilità di vivere decorosamente bene del nostro mestiere. Noi di quanto abbiamo bisogno per vivere? Mille euro, duemila, tremila? Non so, ognuno avrà le sue misure, io vivrei anche senza niente, non ho granché esigenze, forse non ho tante esigenze, magari uno che ne ha tante potrebbe avere bisogno di tanti soldi. Però credo che i soldi debbano rispondere a una nostra serenità nel nostro mestiere. Nel lavoro che facciamo, ci dobbiamo poter mangiare, non abbiamo il tempo per andarci a procurare da mangiare in un’altra maniera. Quindi, se noi lavoriamo tutto un giorno facendo i terapeuti, da quel “tutto il giorno facendo i terapeuti” ci dobbiamo ricavare il nostro mangiare. Non dovremmo avere grandi paure a chiedere di poter mangiare. E poi, non sono quei soldi che pagano il nostro lavoro, è una palla, perché il nostro lavoro non verrà pagato neanche dal triplo di quei soldi. Il nostro donarci come persone non ha nessun prezzo, non ha i sessanta euro del Ruolo Terapeutico o le tariffe individuali degli ottanta, dei cento, ma neanche dei trecento. Quanto vale il mio donarmi? Ma chi l’ha detto che ha un prezzo? Il prezzo che dovremmo chiedere ha a che fare con il nostro vivere bene di quello che facciamo. Non so, però, quale sia la misura giusta, perché credo veramente che incontriamo la soggettività. Io so di avere le mie esigenze ma non so quelle degli altri, non mi pronuncio, non sono proprio in grado di dirlo. Però direi tranquillamente: “Procuratevi attraverso il vostro lavoro, senza che questo lo dobbiate mettere come un compito in discussione, quello che vi necessita per vivere, perché non avrete la possibilità di andare a fare un altro lavoro per mangiare”. Quindi, chiedere i cinquanta euro o i cento euro ai pazienti non è sbagliato, non è volerli spogliare di qualcosa, è consentirci di fare quel mestiere. Qualcuno, giustamente, diceva: “Invece di fare solo questo mestiere sarebbe bello poterne fare un altro”. Si, ma siccome non è molto semplice questa opportunità, facciamo questo mestiere, se lo facciamo per vivere ci vuole la necessaria fonte di reddito. Bene, mancano tre minuti, quindi, il tempo è finito. Poi, domani parleremo, nel pomeriggio, dei normali problemi che possono nascere in un anno accademico, e quindi ci parlerete di eventuali osservazioni e quant’altro. Ma datemi un input su come è andata. Chi ha già un’idea? A.vi: Bene, bene tutto. S: Basta domande? Allora ci salutiamo. A domani.

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