Intervista a Claudio Risè a cura di Federico Ferraù
Cosa c’entra la manovra del governo Monti con l’irresponsabilità diffusa dei «bambinoni» che escono dalle nostre scuole? Per Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, un legame c’è, e affonda le sue radici nelle travagliate vicissitudini dell’Autorità. «Se non c’è più un maestro inteso come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si sviluppa». E finisce per essere solamente un servitore fedele dell’Apparato. Risé interviene nel dibattito sull’autorità aperto da Ilsussidiario.net.
Lei ha scritto che il tema della crisi dell’autorità è divenuto un slogan. Perché?
Autorità è un termine molto ampio e credo che valga la pena di distinguere almeno tra due aspetti diversi. Il primo è il bisogno del soggetto umano che chiede un’autorità come fonte di sapere, di accoglimento, di identità, in ultima analisi di crescita della propria personalità, del proprio sé. Come ricorda Luigi Giussani, autorità viene da augeo ovvero «aumento, faccio crescere, alimento». Il valore di questa autorità è comunemente negato dalla società attuale, questo è vero. Ma al tempo stesso, e molto insidiosamente, assistiamo ad una ipertrofia della seconda valenza dell’autorità, intesa come fatto di potere burocratico-organizzativo.
Un esempio?
Nelle società occidentali contemporanee, soprattutto in quelle europee, vengono create ogni giorno decine di nuove norme giuridiche che orientano in modo dettagliato la nostra condotta. Questo è un fenomeno di evidente e crescente autoritarismo. Non ne è immune, per restare a noi, nemmeno la manovra economica varata da questo governo. Vi sono contenuti degli aspetti «autoritari», dal controllo del denaro ai profili economici delle persone, certamente fuori del comune. Si «liberalizzano» imprese economiche modeste, come i tassisti o gli autotrasportatori, ma non si tocca un monopolio pressoché onnipotente nei trasporti come le Ferrovie Italiane…
Ma esiste un nesso tra l’overdose di norme e l’irrilevanza della funzione autorevole in un rapporto educativo?
Sì. Se il soggetto non viene più educato – e perché questo avvenga ci vuole quell’autorità formatrice di cui parlavo prima –, viene consegnato alla polizia, alla norma autoritaria, che si riproduce all’infinito come metastasi. L’intera esperienza del Novecento, da questo punto di vista, chiarisce questa trasformazione: alla crisi degli imperi centrali che ponevano Dio come riferimento ultimo dell’ordine politico e dell’Autorità, succedono le rivoluzioni fasciste in Italia e in Germania, e l’avvento dei totalitarismi nazista e comunista. La secolarizzazione avviata dalle rivoluzioni del Settecento si compie attraverso l’intensificazione dei controlli burocratici e polizieschi. All’autorità su di sé, costruita nel rapporto educativo con l’altro, succede la diseducazione dell’individuo, che diventa quindi schiavo del funzionario.
Ma la crisi dell’autorità è l’esito di una formale, esplicita diseducazione ad essa?
No, si tratta di una crisi culturale collettiva che si ripercuote all’interno della persona annichilendo la sua soggettività e distruggendo la sua libertà. Se l’uomo non può più riconoscersi come soggetto – e quindi, innanzitutto, anche come soggetto di autorità su di sé, appresa nel rapporto educativo – diviene schiavo.
Non è questo un esito tragico dell’individualismo?
A mio avviso va messo piuttosto in relazione con la demolizione dell’autorità paterna. Precisando che questa autorità paterna non è tanto il padre biologico o spirituale, ma Dio stesso, il Padre. In tal senso, la crisi di cui parliamo è l’esito ultimo della secolarizzazione. Mi limito a notare che le società anglosassoni, che per altri versi sono fortemente individualiste, non hanno vissuto la stessa deriva continentale europea.
Perché sottolinea questa differenza?
La società americana è una società molto più religiosa e meno secolarizzata della nostra: il riferimento a Dio è costante, anche nella vita politica e nel dibattito pubblico. La società inglese è forse meno religiosa, ma è sicuramente liberale e in essa il senso della libertà individuale è fortissimo. L’autorità – anche da parte del cittadino su se stesso e dunque come autolimitazione – è costantemente rivendicata e protetta dalle norme; e la stesa attività legislativa è molto più contenuta che nel resto d’Europa. I totalitarismi moderni sono un’invenzione (e forse ancora oggi una tentazione) del continente europeo.
Che differenza c’è tra un maestro e un semplice docente?
Il maestro è una figura dell’anima, è qualcuno cui tu, allievo, riconosci la capacità di insegnarti qualcosa che hai bisogno di apprendere per vivere come soggetto, e non come schiavo. Il docente invece è una figura burocratica, una qualifica. Non è detto che un docente sia anche maestro, come non è detto che un maestro sia iscritto in qualche registro di docenti.
Si può dire che la figura del maestro più che essere legata all’esercizio di un’autorità, è invece legata all’autorevolezza?
Questa distinzione mi lascia diffidente. Facendola nostra, seguiremmo un percorso proprio della cultura contemporanea secolarizzata, per la quale l’autorità è qualcosa di cattivo in sé: i suoi aspetti buoni sono l’autorevolezza, mentre i suoi aspetti cattivi convergono sul polo dell’autorità. Io credo che il maestro, il padre, per certi versi anche il capo in quanto persona riconosciuta come dotata di capacità formative ed educative, siano delle figure d’autorità nel senso positivo del termine, in quanto indispensabili a rafforzare l’autorità del soggetto su se stesso, dunque la sua libertà. È la proliferazione delle norme la spia del fenomeno autoritario nella sua accezione negativa moderna: il modello funzionariale. In base al quale non ha valore chi tu sia, ma come «funzioni». Quella burocratizzazione del mondo che Max Weber, già nei primi anni del secolo scorso, aveva indicato come il grande pericolo del Novecento e che continua, rafforzato, anche oggi.
Quali sono gli effetti palpabili, nei giovani, di quella crisi dell’autorità che lei riconduce all’allontanamento da Dio?
Il più evidente è l’indebolimento del soggetto (tendente al suo annichilimento). Se non c’è più un maestro inteso come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si sviluppa. Da cui questa scuola più o meno «pediatrica», che sforna persone per nulla adulte, pronte ad essere diligenti osservatori delle norme che il potere continua a somministrare; oppure, in modo speculare, trasgressori folli di queste stesse norme. Vengono meno soggetti liberi capaci di sviluppo, amore, devozione per la vita.
Che cosa deve fare chi ambisce ad essere educatore?
Cercare di essere maestro: riconoscere nell’allievo le sue potenzialità ed impegnarsi ad alimentarle alla luce di una personale visione dell’uomo e della vita, di cui il maestro deve assumersi la responsabilità. In secondo luogo, un maestro deve poter essere libero di creare scuole. In fondo, la scuola di Stato è un’invenzione anch’essa molto europea, imposta ovunque – e non è un caso – dopo la rivoluzione francese. Spero che si vada presto verso l’estinzione di ogni forma di autoritarismo statale, anche educativo, a vantaggio di scuole nate dalla passione di chi si sente portatore di potenzialità formatrici, sul cui valore verrà vagliato dalle persone, e non dai burocrati di Stato.
È difficile oggi essere maestri?
Molto. Non solo per viltà e per pigrizia, ma perché essere maestri vuol dire umiliare continuamente se stessi, riconoscersi mendicanti di sapere, cercare, imparare a ri/conoscere; mettersi in ascolto del magister interiore. Il Padre, che ci cerca, e senza stancarsi parla dentro di noi.
Da Il Sussidiario.net